Le iniziative per un carnevale in perfetto stile sabaudo. Da sabato 22 a martedì 25 febbraio
In piazzetta Reale, a Torino, il Carnevale 2020 si festeggerà in piena e libera allegria con un occhio attento a rivivere la grande storia del passato.
Le iniziative proposte dal Polo dei Musei Reali saranno rivolte in particolare, e com’è giusto, ai bambini. Ma non solo. Festa per tutti. Mascherati o non. Si inizia sabato 22, con “Un pomeriggio da romano”, per chiudere i giochi nella giornata di martedì 25 febbraio con “Guerrieri in maschera”. Due gli appuntamenti di domenica 23 e martedì 25 febbraio. Ma ecco, nello specifico, il programma.

Sabato 22 febbraio, Museo di Antichità, ore 17: “Un pomeriggio da romano”, visita per i bambini a partire dai cinque anni
Tra le statue del Museo di Antichità c’è aria di festa: a Carnevale, rivive il clamore dei Saturnali, i giorni dedicati al dio Saturno. Questo è il momento migliore per trasformarsi in antichi romani e immergersi nella vita quotidiana di 2000 anni fa! I bambini potranno vestirsi a casa o farsi aiutare dall’archeologo in museo, portando con sé lenzuoli, tessuti colorati, nastro e spille. Prenotazione obbligatoria al numero 011/19560449; costo Euro 5 a bambino, ingresso gratuito per un accompagnatore.
Domenica 23 febbraio, Palazzo Reale e Armeria, ore 16: “Semel in anno…carnevale a corte”, visita tematica per tutti.
Percorrendo le sale auliche di Palazzo Reale e dell’Armeria, si scoprirà come Casa Savoia festeggiava il periodo più anticonvenzionale dell’anno, quello del Carnevale. Tra balli di corte, mascherate, spettacoli teatrali e tornei cavallereschi, sarà un’occasione di conoscenza del divertimento a Corte. Prenotazione consigliata al numero 011/19560449; costo Euro 5 a persona più biglietto d’ingresso.
Domenica 23 e martedì 25 febbraio, Sala Chiablese, ore 15,30: “Colori! Colori! Colori!”, visita laboratorio per bambini dai 6 ai 10 anni alla Mostra di Konrad Mägi “La luce del Nord”.
Il carnevale è una delle feste più colorate dell’anno. Quale occasione migliore per provare ad osservare e conoscere meglio i colori? Partendo dalle opere del pittore Konrad Mägi si proverà a capire insieme quali sono i colori primari e secondari, cosa succede mescolandoli insieme o avvicinandoli l’uno all’altro, quali colori sono amici tra di loro e come usarli per creare effetti brillanti o al contrario più tenui, proprio come veri artisti. Una volta svelati tutti i segreti del colore i bambini potranno utilizzare quanto imparato per realizzare insieme una allegra maschera di carnevale artistica. Prenotazione consigliata allo 011/19560449; costo Euro 5 a bambino, ingresso gratuito per un accompagnatore.
Martedì 25 febbraio, Armeria Reale, ore 17: “Guerrieri in maschera”, visita laboratorio per bambini a partire dai 5 anni.
Che ci fanno sugli elmi e le armature degli antichi cavalieri tutti quei volti grotteschi, musi feroci, sguardi truci e becchi di rapaci? Un tempo spaventavano i nemici, oggi stupiscono e divertono. I piccoli visitatori li scopriranno nell’Armeria Reale e poi, imitando gli armaioli del passato, potranno scatenare la fantasia per creare una maschera da battaglia. Prenotazione obbligatoria allo 011/19560449; costo Euro 5 a bambino, ingresso gratuito per un accompagnatore.
g. m.
Nelle foto
Sicuramente non era intenzione di Curto scalpellare via il nome dei Savoia da una storia che appartiene al Piemonte e che nessuno può disconoscere. Curto è infatti uno studioso che perpetua la tradizione di suo padre, nobilmente espressa al Museo Egizio, anch’esso voluto dai Savoia, e come tale si è comportato anche questa volta.
“Dipingere l’Asia dal vero”. Fino al 14 giugno in mostra al MAO /
dall’intensa attrazione per i romanzi di Jules Verne. Ancora giovanissimo – per bagaglio, scrisse lui stesso, solo pennelli, colori, taccuini vari e una pistola – gira il mondo in lungo e in largo, visitando prima alcuni paesi dell’Africa settentrionale e dell’America, per poi muoversi verso l’Asia: Cina, Giappone (nell’isola di Hokkaido, fu il primo occidentale ad entrare in contatto con il popolo allora del tutto sconosciuto degli Ainu), Corea, Tibet e Nepal. Ovunque dipinge. Annota. Documenta. Con uno sguardo da eccentrico “colonialista” come lo definisce il curatore della mostra. In quei luoghi misteriosi e, ai più, privi di connotazioni geografiche e culturali, dipinge con buona tecnica centinaia di opere “dal vero” in uno stile rapido, immediato e piacevolmente materico d’impronta decisamente impressionistico-macchiaiola. Le sue avventure, non poche e non da poco (in Tibet fu catturato e torturato a lungo, in Brasile si trovò faccia a faccia con un boa constrictor e sopravvisse a
16 giorni di assoluto digiuno) gli fornirono anche materiale di prima mano per i suoi 11 libri, tutti di gran successo e illustrati con le riproduzioni dei quadri dipinti in viaggio o con le fotografie da lui stesso scattate. L’esposizione al MAO (che segue quella realizzata sei anni fa alla Galleria d’Arte Moderna di Firenze) raduna il corpus più consistente e a noi noto della sua produzione artistica: circa 130 dipinti ad olio, 10 acquerelli e 5 disegni. Il tutto proveniente da più collezioni private e capace di rendere la meritata gloria a un pittore ancora tutto da rivalutare dopo decenni d’immeritato oblio, a un artista decisamente “moderno” con i suoi soggetti “en plein air”, ben lontani “dallo stile minuziosamente classico della pittura di genere orientalista allora in voga”. Dalla realistica “Ragazza Ainu con bambino sulle spalle” alle poetiche “Figure sotto i ciliegi in fiore” fino alla coreografica “Danza delle donne Ainu”, ma anche nei soggetti paesistici come lo “Scorcio con il portale principale del Palazzo Reale a Seoul”, appare del tutto evidente la singolarità documentaristica di una pittura capace di “fotografare” con immediatezza “luoghi e persone che di lì a qualche decennio sarebbero completamente cambiati per effetto dell’incipiente globalizzazione”. Oltre ai dipinti realizzati in Asia, in mostra sono presenti anche alcune opere eseguite da Savage Landor durante l’adolescenza a Firenze, nel corso dei suoi viaggi in Europa e nella sua prima esperienza oltre confine, in Egitto, oltreché tutti i volumi da lui stesso pubblicati. Per l’occasione è stato anche realizzato un catalogo bilingue italiano/inglese, edito da SAGEP, con saggi di Francesco Morena e Silvestra Bietoletti.
“Dipingere l’Asia dal vero”
L’intervento del gruppo Palazzetti. Nel Salone delle Guardie Svizzere a Palazzo Reale
attraverso le sale del palazzo. Una dignità che, finalmente, torna a parlarci del nostro territorio e della sua ricchezza, rimettendo a vista, dopo un restauro durato tre mesi e per cui sono occorse 774 ore di lavoro, la bellezza dei marmi usati (di “musicalità di colori” parla ancora Pagella), taluni oggi scomparsi. Dieci persone all’opera, sotto la guida di Annarosa Nicola, le radici ad Aramengo, la competenza e la passione riunite in una sola famiglia ed in un gruppo vincente, un accanito lavoro di pulizia, una webcam a riprendere giorno dopo giorno le tante tappe dei risultati raggiunti, la salvaguardia di questo piccolo gioiello ma imponente e prezioso, l’alternarsi di marmi policromi e di pietre dure, una struttura nobilitata da colonne binate, dai putti di Quadri (forse un riciclo di epoca più antica) e dai busti antichi di imperatori romani (Giulio Cesare al centro, di sapore ellenistico quello a destra di chi guarda), in marmo bianco di Carrara, l’eleganza e il gusto modernamente legati alla corte da Carlo Emanuele II, sovrano mecenate pronto a riunire a Torino quelle opere antiche che andava acquistando durante i suoi viaggi a Roma.
Il 14 e 15 febbraio scorsi Verbania ha ospitato “Il Silenzio dei Corti”, iniziativa ispirata alla memoria di Nino Chiovini promossa dalla municipalità verbanese e dal Parco Nazionale Val Grande con Casa della Resistenza, Anpi e Tararà Edizioni
Riportiamo qui una sintesi dell’intervento di Marco Travaglini, collaboratore della nostra testata
Nelle sue opere Nino rende giustizia agli abitanti del territorio, al lavoro duro, alla fatica che schianta, al rispetto del tempo, del ritmo delle stagioni e della terra, all’impegno spesso obbligato che genera sudore mischiato a un grumo di rabbie e speranze, di tradizioni e fame, di poche gioie e tanti, troppi dolori. Mi è venuta in mente un’intervista a Francesco Guccini dove, ricordando quel prozio emigrato oltreoceano al quale dedicò la canzone “Amerigo”, raccontava come – ritornato in Appennino – al saluto della gente rispondeva con un “Buongiorno e vita lesta, mangiar poco e lavorar da bestia”.Quello indagato e descritto da Chiovini è un mondo che ci insegna ad essere umili, a riconoscere che una parte importante della cultura accumulata da generazioni di montanari risiede in quei luoghi aspri, spesso percorsi su sentieri ripidi sotto il peso di una gerla. Posti dove le frontiere dei crinali sono stati più un punto d’incontro che una linea di demarcazione e separazione. Se c’è una eredità che Nino Chiovini ci ha lasciato credo si possa individuare nell’assillo di una riorganizzazione della cultura in grado di aiutare una sintesi su storia, radici, saperi. Si riconosce lì il messaggio di chi, pur tra speranze e illusioni, ha sempre pensato ad una società nuova e più giusta. Un messaggio che sottende la volontà di ricerca, di un approfondimento più che mai necessari per salvare noi e il paese in questo tempo segnato da superficialità, dalla riduzione e impoverimento del linguaggio. E’ la rivalutazione di quella parte del paese che non sta sotto i riflettori e che rappresenta buona parte della montagna più povera, dell’area prealpina, dell’entroterra appenninico e pedemontano, dei piccoli borghi abbandonati,ai margini del commercio, dell’industria, della cultura. Negli incontri con Nino Chiovini e nella lettura dei suoi libri avvertivo l’urgenza, il bisogno di testimoniare e in qualche modo risarcire la memoria degli ultimi, narrando la civiltà contadina, le radici e le origini. Un pensiero antico e al tempo stesso moderno che, in parallelo, ricordava le ricerche di Nuto Revelli o – più tardi – quelle di Marco Aime sui pendii ruvidi della Val Grana o tra i pastori transumanti di Roaschia, in Valle Gesso. La difesa e il riscatto quantomeno culturale del “mondo dei vinti” fa emergere un’attenzione, una forza nella denuncia dell’abbandono della montagna, dei coltivi, degli alpeggi, delle borgate che ha portato ad un depauperamento dell’ambiente, alla perdita di capacità, conoscenze, competenze. Quando l’antico edificio agromontano si sgretolò, iniziò l’abbandono della montagna. Raccontando il disboscamento della Val Grande con l’Ibai, la cura del bestiame, i lavori precari nel fondovalle nello “spartano” secondo dopoguerra, Chiovini raccolse ,tra confessioni e reticenze, la testimonianza del collorese Settimio Pella sul tema delle “disobbedienze” – il bracconaggio, la pesca di frodo, il contrabbando con le bricolle –chiedendosi quale processo si dovesse fare a questi uomini che, al netto di queste “disobbedienze”, furono “corretti servitori di uno stato diretto da un ceto dirigente che tanto non meritava”. Siamo nel 1983 e così scrive Chiovini: “Gente che non evade il fisco, che non spreca, che non inquina, che produce fino alla fine dei suoi giorni, che non intrallazza con il potere, che non impoverisce l’azienda Italia; gente che, chiamata alle armi, mandata su ogni fronte, pagò i prezzi che conosciamo; gente che quando fu il momento ospitò i partigiani e fu dalla loro parte più che in altri luoghi, mentre anche i suoi giovani si facevano combattenti per la libertà; in cambio, dal nemico, ebbe devastazioni, spoliazioni, morte; dallo Stato nato dopo la Resistenza, che ancora oggi pretende e in parte ottiene il loro consenso politico, quasi nulla”. E si domandava ( e chiedeva) quale processo potesse essere fatto a queste persone e se non fosse il caso di conceder loro un’amnistia precisando però che non si trattava di “quella che periodicamente premia evasori, speculatori, trafugatori di pubblico denaro e via sottraendo… Un’amnistia culturale, di costume: quella che passando attraverso il territorio, possa giungere ai suoi antichi utenti”.
Aggiungeva: “Forse il Settimio e la sua gente comprenderebbe il valore e il senso di quell’amnistia, di quel messaggio: giungerebbero, forse, alla conclusione che il rapporto stabilito da sempre con l’ambiente, non tollera più antiche devianze, remote e recenti contraddizioni. Quell’amnistia, poetico e politico ripianamento di colpe nei riguardi dell’ambiente, se sorretta dall’assenso delle giovani generazioni, dei ragazzi che oggi frequentano le sopravvissute scuole di quei villaggi – che dovrebbero fungere anche da sedi di rifondazione della cultura montana e da fonte della sua memoria – potrebbe diventare più efficace dei guardacaccia e dei finanzieri. Forse, un esperimento da ripetere in settori molto più importanti e decisivi del pianeta”. Una grande lezione morale. La stessa lezione che si trova nella conclusione di “A piedi nudi” quando scrive : “ Quello scomparso era un mondo imperfetto e crudele in cui tuttavia erano ravvisabili e riconosciuti vivi gli obiettivi, il senso della vita, il suo fine:l’obiettivo della sopravvivenza e quello della continuità della stirpe; il senso della vita sorretto dalla memoria della specie; il fine del bene operare che faceva perno sulla speranza. Quel mondo scomparso rappresentava la riconosciuta e accettata civiltà della fatica quotidiana, del lavoro realizzato da mani con le palme di cuoio; la civiltà dei sentieri e delle mulattiere selciate e lastricate, dei geometrici terrazzamenti e, in fondo, dell’ottimismo collettivo, simboleggiato dal rituale saluto di congedo – alégher, allegri – che si scambiavano i suoi abitanti”. Qui si coglie, nel saluto, l’importanza della lingua e del linguaggio. Un caro amico mi ha fatto rilevare come la lingua si fondi sul significante, sull’immagine acustica della parola che la distingue dal significato. La nostra cultura ha dato la preminenza assoluta al significato mentre nel dialetto è il significante che pesa e conta. Alégher non è traducibile con un “ciao”. Il significato è più o meno lo stesso ma il saluto è più denso e più ricco, parla e suona diversamente perché è la lingua il significante. La parola risuona diversamente e ha effetti differenti su di noi e questa è l’identità della lingua. Tutto ciò racchiude quell’insieme che è la storia delle ceneri della fatica, di quella civiltà alpina sulla quale calò, come scrisse, “ un sipario di fogliame”.
“The ballad of forgotten places”
sorta di dagherrotipo dall’azione del tempo”. Al centro dello spazio, sopra un basamento, si vede un libro d’artista di trecento pagine che raccoglie una serie di fotografie scattate dalla coppia in vent’anni di lavoro e modificate pittoricamente con la stessa tecnica delle immagini a parete, che testimoniano luoghi scomparsi, alterati e dimenticati.


