Rubriche

Torino e i suoi teatri. Dal Rinascimento ai giorni nostri

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Torino e i suoi teatri

1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.

Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri

Cari lettori, eccoci arrivati alla conclusione di questa brevissima storia del teatro. Quello che tenterò di fare, con la medesima disposizione d’animo che ho mantenuto fino ad ora, è di raccontare nel pezzo di oggi ciò che avviene dall’epoca rinascimentale al Novecento; nello scritto che – spero -vi apprestate a leggere sfiorerò il teatro erudito, accennerò al teatro elisabettiano, poi al melodramma, fino ad arrivare a D’Annunzio per poi concludere con autori decisamente recenti come Ronconi. Mi auguro di guidarvi il più chiaramente possibile in questo dedalo di informazioni, nomi, titolazioni ed avvenimenti, affinché sia possibile arrivare con una certa prontezza alle prossime letture, specifiche della storia dei teatri torinesi.

Ora, come si suol dire, “bando alle ciance!”, il discorso è lungo e complesso, sarà meglio iniziare. L’età d’oro per il teatro moderno è senza dubbio il Rinascimento, termine con cui si intende un “rinascere” dell’uomo, del suo impegno sociale e culturale, nozione riferibile a tutta la civiltà italiana dei secoli XV e XVI. Nel più generale contesto della “rinascita del mondo antico”, il teatro viene riscoperto nella sua globalità, e ne vengono presi in considerazione l’aspetto letterario, architettonico, scenografico e scenico.
Per quel che riguarda l’ambito letterario, i dotti si interessano alla riscoperta, alla pubblicazione e all’imitazione delle opere degli antichi: a tal proposito ricordiamo gli studi di Lovato Lovati (1241-1309) e Nicolò di Trevert ( 1259-1329) su Seneca tragico e l’impegno di Nicolò da Cusa che nel 1425 porta alla luce nove commedie di Plauto (il grande autore latino del II secolo a.C., di cui ci sono giunte ventuno commedie). Analogamente si assiste alla ricostruzione dell’antico edificio teatrale, sulla base dell’esame archeologico dei resti monumentali. In questo contesto è doveroso ricordare Leon Battista Alberti, impegnato non solo nell’empirica ricerca archeologica, ma anche nell’analisi serrata del trattato latino “De architectura”, scritto nel 15 a.C. da Marco Vitruvio Pollione, il cui quarto libro è quasi interamente dedicato all’edificazione dei teatri. Alberti propone uno schema teatrale assai preciso nel suo “De re aedificatoria”, (“Sull’edilizia”), ove sostiene che la struttura teatrale necessita di una gradinata (cavea), conclusa da una loggia aperta interiormente e chiusa dietro, di un palcoscenico e di un’area mediana (orchestra), attorno alla quale si organizzano gli altri elementi. Nel XVI secolo si va delineando una trattatistica dedicata all’analisi degli scritti di Aristotele, in particolar modo della “Poetica”, testo in cui viene esaminata la struttura della tragedia. Proprio grazie a questi studi viene normata, in Italia e in Francia, una produzione drammaturgica basata sull’uso delle tre unità aristoteliche di tempo, luogo, azione. I personaggi sono tutti coinvolti in un unico problema e agiscono all’interno di un solo ambiente per un periodo di tempo fittizio che non supera le ventiquattro ore. In seguito, però, la struttura e i personaggi mutano, come accade ne “La mandragola” di Niccolò Machiavelli, considerata il capolavoro del Cinquecento. Siamo ormai di fronte alla “commedia erudita” o “regolare”, come per esempio “La Cassaria”, scritta nel 1508 da Ludovico Ariosto. Proprio in coincidenza della rappresentazione di tale commedia si hanno le prime notizie dell’innovativa forma di allestimento tipica del Rinascimento, ossia la scenografia prospettica.

Il Seicento è invece il secolo del melodramma, forma scenica particolarmente apprezzata negli ambienti aristocratici e di corte, che dall’Italia si diffonde in tutt’Europa. In questo periodo attori, cantanti, scenografi e autori sono la componente fondamentale delle feste, soprattutto in Austria e in Germania. Da elemento complementare e secondario, gli intermezzi diventano il vero momento centrale dello spettacolo, l’azione scenica non è più subordinata alle parole, al contrario tutto è giocato sulla visione di un movimento sempre più grandioso e complesso. Il melodramma moderno nasce dalla volontà di un gruppo di dotti fiorentini raccolti nella Camera dei Bardi, desiderosi di recuperare nella loro integrità le forme della tragedia greca, il cui testo si riteneva venisse interamente cantato. Tipici elementi del melodramma cortigiano sono il frequente cambio di scena, che può addirittura diventare frenetico sul finale della rappresentazione, e l’impiego di meccanismi con lo scopo di suscitare meraviglia e ammirazione nel pubblico, per i trucchi che vengono eseguiti sul palco. Sarà tuttavia nel secolo seguente che la scenografia a tema architettonico toccherà il suo culmine, in particolare grazie all’opera della famiglia Galli Bibiena. Rimaniamo ancora al Seicento, di cui tipiche sono le “masques”, spettacoli diffusi principalmente in Inghilterra, incentrati sul personaggio del monarca che trionfa, si tratta di allegorie in cui il Bene, il Bello ed il Buono, sconfiggono il Male. Dato l’ambito anglofono, menzioniamo l’insuperabile Shakespeare (1564-1616), uno degli autori più noti a livello mondiale e principale esponente del teatro elisabettiano; la sua opera poetica e drammaturgica costituisce una parte fondamentale della letteratura occidentale ed è oggi ancora studiata e rappresentata come insuperabile punto di riferimento. Con l’espressione “teatro elisabettiano” si indica in realtà un periodo storico, che va dal 1558 al 1625, e segna la fase di massimo splendore del teatro britannico. Alcuni studiosi tendono a distinguere la produzione postuma al 1603, parlando di teatro dell’età giacobina, che in effetti presenta caratteristiche differenti. È opportuno ricordare e sottolineare che sotto la regina Elisabetta I esistevano anche spettacoli economici, il dramma era considerato un’espressione unitaria rivolto a tutte le classi sociali, di conseguenza la corte assisteva – in luoghi e in tempi diversi – alle medesime rappresentazioni a cui il popolo presenziava nei teatri pubblici. Dopo la morte della sovrana illuminata i teatri privati tornano ad avere il monopolio della cultura e le rappresentazioni si orientano verso i gusti di un pubblico di ceto alto.


Certamente Shakespeare sovrasta per fama e bravura praticamente tutti gli altri nomi che fanno parte della storia del teatro, ma trovo ingiusto non rammentarne almeno altri due: Christopher Marlowe (1564-1593) e Thomas Kyd (1558-1594). In Francia i massimi esponenti sono Molière (1622-1673) per la commedia e Jean Racine (1639-1699) per la tragedia.
Molière (pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin) è un acuto osservatore dei meccanismi sociali e psicologici che definiscono la società; il suo spirito critico e anticonformista, influenzato da Rabelais e Michel de Montaigne ma anche dal pensiero libertino, lo porta a realizzare opere uniche, brillanti e pungenti. Per Molière, artista di franca e serena risata, il compito della commedia è quello “di correggere gli uomini divertendoli, presentando i vizi e i difetti in modo anche esagerato”. Anche Racine porta avanti una fredda critica al mondo e alle condizioni dell’uomo, la sua visione si concretizza in personaggi che sono antieroi a tutti gli effetti: governati da passioni primitive, incapaci di volontà e travolti dai propri dissidi interiori. Racine si è formato nell’ambito giansenistico dominato dalla drammatica e severa coscienza della finitezza e inadeguatezza dell’uomo, della sua impossibilità di realizzarsi moralmente senza l’intervento imperscrutabile della grazia divina. In Spagna troviamo invece Pedro Calderón de la Barca (1600-1681) con le sue vette poetiche immerse nella realtà, nel sogno e nella finzione.
Non si può né concludere il paragrafo sul Seicento, né proporre una seppur breve storia del teatro, senza soffermarsi almeno per un poco sulla commedia dell’arte. I fenomeni che vanno sotto tale dicitura nascono nella seconda metà del Cinquecento, in piena epoca rinascimentale. Base essenziale della commedia dell’arte è l’abilità tecnica, la capacità di movimento degli attori, l’uso di un ricco e costante repertorio di situazioni comiche; lo schematismo delle figure e dei tipi viene portato all’estremo, si creano personaggi fissi, e tale fissità è resa più colorita dalla trasformazione di queste figure in vere e proprie “maschere”. La commedia dell’arte è quella commedia affidata ad attori professionisti che offrono i loro spettacoli a un pubblico vario, vivendo del proprio mestiere; la prima compagnia di comici di mestiere si forma a Padova nel 1545, e ad essa ne seguono moltissime. In questi spettacoli gli attori non imparano a memoria la loro parte ma la improvvisavano. Si tratta comunque di una tecnica recitativa, “l’improvvisazione non si improvvisa”, al contrario prevede che il teatrante si prepari non “la” parte ma “per” la parte.
Prima di essere definita tale, le rappresentazioni della commedia dell’arte venivano indicate come “Commedia degli Zanni” o “Commedia all’Italiana”. Il termine “Zanni” deriva dal nome di figure di servi nelle prime commedie cinquecentesche, “Zan”, forma veneta per “Giovanni”, da cui “Zanni”. Le caratteristiche di questa tipologia di teatro sono due: l’improvvisazione e l’utilizzo di maschere.

Tali maschere finiscono poi per identificarsi con dei personaggi specifici, veri e propri “tipi fissi”, figure comiche che si ritrovano sempre uguali da una commedia all’altra, con lo stesso formulario di gesti e di linguaggio. I personaggi che si vengono via via creando sono assai numerosi, ma vanno tuttavia inscritti in strutture drammaturgiche rigide e che rispondono a canoni ben definiti, succede dunque che esse vengano raggruppate in poche categorie funzionali: due vecchi e due servi, poi confluiti rispettivamente nelle figure di Pantalone, del Dottore bolognese, Arlecchino e Brighella. Questi ultimi derivano in realtà da un unico personaggio, Zanni, il facchino bergamasco che compare fin dalle prime commedie.
Per circa due secoli tale tipologia di spettacolo rappresenta il Teatro “tout court” in tutta Europa, la sua influenza è chiara, soprattutto se si hanno presenti alcuni personaggi non italiani, come ad esempio Punch, versione inglese di Pulcinella, o Pierrot, Pedrolino o Petruška, tutti derivanti da Arlecchino. Nel Settecento si assiste ad alcuni importanti cambiamenti: lo sviluppo teorico della recitazione e della funzione dell’arte teatrale per la società. Il maggiore studioso dell’epoca è Diderot, filosofo illuminista autore di testi teatrali che si inseriscono nel nuovo filone del dramma borghese; egli pone i fondamenti dottrinali della “tragédie domestique” anche detta “genre serieux”. In Francia si sviluppa infatti una nuova tipologia di opera, definita “dramma”. Il “dramma” tuttavia trova la sua massima definizione sul piano teorico in Germania, grazie all’opera di Gotthold Ephraim Lessing (1728-1781). Sempre in Germania nasce in questo periodo l’innovativa figura del “Dramaturg”, ossia una persona che svolge l’importante ruolo di proporre il repertorio, di allestire i testi per la scena, di rielaborarli o di produrli egli stesso.
In Italia i grandi nomi sono Pietro Metastasio (1698-1782) per il melodramma, per la commedia Carlo Goldoni (1707-1793). Metastasio esalta l’importanza del libretto, a discapito della musica e del canto, semplifica il linguaggio poetico e migliora la caratterizzazione dei personaggi. Da grande uomo di teatro, Metastasio affida al proprio testo poetico una fortissima carica scenico-musicale, senza preoccuparsi dell’organicità di tutti gli aspetti dello spettacolo. Goldoni è uno dei drammaturghi più prolifici, la sua intera opera offre una più che diversificata serie di situazioni che si svolgono attraverso un “quotidiano parlare” e si basano su un’attenta rappresentazione del reale. Goldoni critica gli schemi della commedia dell’arte, la banalità delle sue convenzioni, la comicità volgare e plebea. La “riforma” del teatro goldoniano afferma la preminenza del testo scritto sulla caoticità dell’improvvisazione; il suo elemento determinante è il richiamo alla “natura”, che impone un continuo confronto con la realtà quotidiana. I libri su cui l’artista si è formato sono il “mondo” e il “teatro”, il primo di questi gli ha mostrato i “caratteri naturali” degli uomini, il secondo gli ha insegnato la tecnica della scena e del comico, e i modi per tradurla in comunicazione pubblica.
Dopo Goldoni e il suo “teatro” che attinge dal “mondo”, dopo il fascino e la ricchezza dell’opera del più grande commediografo del nostro Settecento illuminista, eccoci arrivati all’Ottocento.
Discorrendo per sommi capi, possiamo dividere il secolo a metà: nella prima metà si diffonde il dramma romantico, collegato agli ideali dello “Sturm und Drang”, tipicamente esaltati in Germania, da autori come Johann Wolfgang von Goethe e Friedrich Schiller; nella seconda metà invece predomina il dramma borghese, vicino agli ideali veristi e del naturalismo, che trovano in Verga e in Hugo i massimi esponenti.
Agli ideali romantici si rifanno anche autori come Manzoni, con l’ “Adelchi” e Silvio Pellico con la sua “Francesca di Rimini”.
L’Ottocento è però anche il secolo degli artisti anticonformisti, ben esemplificati dalla figura di Oscar Wilde, che nel suo “society drama” porta in scena i sentimenti di chi non vuole sentirsi parte della società.

In linea di massima, durante il XIX secolo, tutto è incentrato sul nuovo gusto di rappresentare Shakespeare, dilatando tutte quelle parti che si prestano ad azioni di massa.
In Inghilterra il teatro ottocentesco è caratterizzato da un’estrema povertà di testi drammatici, le opere di questo periodo sono in realtà semplici occasioni per fare spettacolo, si tratta di testi classificati in base al genere d’appartenenza, non importano più gli autori o il contenuto. Così accanto al “gotich drama”, incentrato su storie di fantasmi, troviamo addirittura il “dog drama” dove i protagonisti altri non sono che cani ammaestrati. Lo spettacolo non è più il momento comunicativo del testo, ma il testo diventa mera funzione dello spettacolo, fino ad arrivare allo “spoken dramas”, una sceneggiatura in pura e semplice prosa. È opportuno ricordare che una comune serata teatrale inglese durava in realtà circa cinque ore; tuttavia, dopo la prima parte della recita, il costo dell’ingresso veniva dimezzato e ciò comportava che lo spettacolo stesso si modificasse per trasformarsi in una serie di pantomime, balletti o altre tipologie di intrattenimento.
Diversa è la situazione a Parigi, dove nei primi anni dell’Ottocento si assiste ad un enorme sviluppo dell’apparato spettacolare dei melodrammi, soprattutto da un punto di vista specialistico. Molti tecnici infatti criticano l’impianto scenografico all’italiana e propongono una struttura scenica più complessa, con elementi tridimensionali praticabili e l’apertura di spazi utili alla sperimentazione scenografica e illuminotecnica. Importantissime in tal senso sono le innovazioni di Louis Jacques Daguerre, il quale, attraverso il sapiente uso di macchinari specifici, propone stupefacenti scene paesistiche in movimento, con fenomeni naturali, o scenari cittadini in cui è esaltato il fervore della vita animata. Daguerre chiama questa tipologia di spettacolarizzazione “diorama”, studi che saranno alla base delle ormai prossime scoperte fotografiche. A partire dalla metà del secolo i gusti cambiano e iniziano a diffondersi spettacoli le cui tematiche spesso rappresentano inquietanti realtà, vicende opprimenti, ambientate in una Parigi tenebrosa e formicolante di quella stessa umanità di cui il pubblico è parte integrante.
Il Realismo si impone sul Romanticismo, sul palco le scene ricalcano ambientazioni quotidiane, ma filtrate attraverso una lente che ne accentua le tinte, rendendole lontane e quasi surreali. Il nuovo repertorio si basa sulla rivisitazione del dramma borghese, che assume come luogo privilegiato il salotto, dove si svolge la vita sociale.
La contro-risposta al teatro verista di fine Ottocento è data dalle forme spettacolari che si diffondono a partire dagli inizi del Novecento, fenomeni che possono rientrare nella denominazione “teatro contemporaneo”. Con tale definizione si intendono le rappresentazioni teatrali che si sviluppano nel corso del XX secolo, segnate da una comune ricerca di superamento della semplice figurazione della realtà; in seguito, con l’avvento del cinema e della televisione, si giunge a un’ulteriore linea di demarcazione tra il quotidiano e la verità teatrale, resa possibile dagli strumenti propri del teatro, quali la suggestione, l’affabulazione e il gioco immaginifico che si instaura tra attore e pubblico. Si parla anche di “teatro di narrazione”, quando gli spettacoli si fanno particolarmente vicini agli antichi modelli dei cantastorie e nel contempo prendono notevolmente le distanze dal teatro verista ottocentesco.

La più grande rivoluzione del Novecento – dal punto di vista della storia del teatro – è la centralità dell’interprete. Da teatro della parola si passa al teatro dell’azione, del gesto, della “performance” interpretativa dell’attore, come sostiene il celebre teorico Konstantin Sergeevič Stanislavskij. Tale approccio metodologico porta, nel 1931, alla nascita del Group Theatre, che rimarrà attivo per circa una decina d’anni; il gruppo fondatore finisce per sciogliersi, ma la ricerca prosegue e personalità come Stella Adler, Lee Strasberg e Sanford Meisner continuano a portare avanti gli ideali dei primordi. Strasberg dirigerà poi dagli anni Cinquanta agli Ottanta l’ Actor’s Studio, forse la migliore fra le scuole di recitazione di tutti i tempi, in cui si sono formati anche Marlon Brando, Al Pacino, Robert De Niro. L’affermarsi delle avanguardie storiche apre la via alla sperimentazione di nuove forme di teatro, come il “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud, la drammaturgia “epica” di Bertolt Brecht, e, successivamente, il teatro dell’assurdo di Samuel Beckett e Eugène Ionesco.
Da non dimenticare anche il dramma psicologico di Pirandello, che domina le scene del teatro italiano e non solo. I caratteri dei suoi personaggi si scompongono in uno scontro tra le forme paradossali e distorte che ciascuno di essi è costretto ad assumere: la rappresentazione teatrale rivela come ogni essere umano sia insidiato dalla duplicità, dalle maschere, da ciò che lo sguardo degli altri proietta su di lui. I personaggi scavano nelle pieghe dei loro rapporti con un cerebralismo incontenibile.
Altro nome da annoverare è Gabriele D’Annunzio, uno dei massimi esponenti del Decadentismo, il quale utilizza nelle sue tragedie, dal mondano gusto liberty, un linguaggio aulico e forbito, invaso dall’onda della parola preziosissima. Una importante considerazione va rivolta ad Achille Camapanile, geniale anticipatore del teatro dell’assurdo.
In Germania spiccano nomi come Vladimir Majakovskij e Erwin Piscator direttore del Teatro Proletario di Berlino e Ernst Toller il principale esponente teatrale dell’espressionismo tedesco.
Due parole sono dovute al rapporto tra il regime dittatoriale e il teatro. Gli studiosi concordano nel ritenere che non esista un “teatro fascista”, ma di fatto il fascismo “intuì subito l’importanza (o la pericolosità) del palcoscenico” (Biondi), soprattutto per ottenere il consenso dell’opinione pubblica borghese, quello stesso ceto medio a cui piaceva assistere alla commedia di costume, chiamata poi “delle rose scarlatte”. Altra tipologia di spettacolo che in quel periodo riscuote notevole successo è quello di Aldo De Benedetti, detto teatro “dei telefoni bianchi”, poiché in scena vi era sempre un telefono bianco, simbolo di adesione alla modernità; si tratta di rappresentazioni stereotipate, dalle trame abbastanza banali, tutte giocate sul classico triangolo amoroso, il cui fine è solamente quello di intrattenere e far divertire – “panem et circenses” direbbe qualcuno.

Quello che non è riuscito ad ottenere il fascismo, ossia un teatro di massa, riesce a raggiungerlo il teatro di varietà che, con le scene pompose, le musiche irruenti, le ballerine ammiccanti e le irriverenti battute dei comici, ottiene la partecipazione del grande pubblico. Caratteristica del varietà è la sua nota estemporanea, il copione si adatta all’attualità e agli avvenimenti politici, rendendo impossibile un controllo censorio sull’agire degli attori; non solo, il varietà comporta il trionfo dell’uso del dialetto, come ben esemplificano le farse di De Filippo.
Nel secondo dopoguerra arrivano nuovi stimoli a pungolare l’evoluzione del teatro. Gli anni Sessanta e Settanta sono le decadi della filosofia hippie, dell’avvicinamento a certe discipline del mondo orientale per far riemerge la natura istintiva dell’uomo, intrappolata e resa dormiente dalla moltitudine di regole che disciplinano la vita in società. Il nuovo sentire si riflette nel teatro, l’esibizione davanti al pubblico non è più solo un semplice spettacolo teatrale ma un’occasione di crescita personale. Il nuovo approccio si fa evidente in diverse realtà, basti pensare all’Odin Teatret di Eugenio Barba, al teatro povero di Jerzy Grotowski, al teatro fisico del Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina. Le avanguardie italiane non sono altro che una sfilza di grandi nomi, ciascuno meritevole di un inchino nel mentre che li si legge: Eduardo De Filippo e Dario Fo, Carmelo Bene (uno dei principali esponenti del teatro sperimentale), Leo De Berardinis, o ancora Luchino Visconti, (più noto forse in ambito prettamente cinematografico). Ovviamente anche il resto del mondo ha i suoi nomi da giocare, in Germania troviamo ad esempio Rainer Werner Fassbinder, in Francia Jean Genet e in Svizzera Friedrich Dürrenmatt (1921-1990). Degno di nota è ancora il polacco Tadeusz Kantor (1915-1990) pittore, scenografo e regista teatrale tra i maggiori teorici del teatro del Novecento. Il suo spettacolo “La classe morta” (1977) è tra le opere fondamentali della storia del teatro.
Molte altre figure meriterebbero di essere annoverate, così come numerosissime altre correnti, avanguardie e sperimentazioni, ma dato che sto scrivendo un articolo e non un saggio, mi trovo costretta, seppur con cuore pesante, a fare una selezione. Eccoci dunque arrivati al termine della nostra riassuntiva storia del teatro e con l’usuale speranza di avervi allietato e incuriosito mi accingo a salutarvi. Prima però mi tolgo un piccolo sfizio personale, perché desidero ricordare due personaggi tra i miei preferiti del Novecento in ambito teatrale. Il primo è Luca Ronconi, un grande innovatore, il suo modo di fare teatro e regia non ha termini di paragone. È un attore che è anche regista e ciò comporta un’attenzione tutta nuova sulla messa in scena. Per Ronconi il teatro implica la definizione di spazio, ma uno spazio completamente nuovo, che assume le forme degli stati d’animo dei personaggi delle storie rappresentate. Molto spesso si tratta di spazi tormentati, pregni di elementi simbolici che gli spettatori colti dovrebbero intendere – soprattutto dopo aver letto un esaustivo commento dal carattere didascalico di quello che si è andati a vedere – Altra peculiarità del teatro ronconiano è il tempo: ciò che avviene sul palcoscenico non ha ordine cronologico, le azioni si sovrappongono e si succedono come in una straniante dimensione onirica in cui lo spazio-tempo non esiste. Il regista pare lanciare un’ancora di salvezza agli spettatori utilizzando molto spesso delle didascalie, ma noi -pubblico attento – sappiamo che non ci si deve mai fidare troppo degli artisti contemporanei. Tali didascalie, infatti, altro non sono che parole chiave per aiutarci a capire la messa in scena, ma, diciamo la verità, per comprendere appieno uno spettacolo di Ronconi serve qualcosa di più che qualche termine sparso qua e là.

Il secondo personaggio che vorrei indicarvi è il visionario regista lituano Eimuntas Nekrošius, i cui spettacoli sono tanto affascinanti quanto intellettualmente complessi. Spiegare la poetica di Nekrošius è davvero complicato, la difficoltà è la medesima di cui parla Kafka ne “Un digiunatore”: “Si provi a spiegare a qualcuno l’arte del digiuno! Chi non la conosce, non può neanche averne l’idea”. Il regista lituano dimostra come sia possibile attingere dalla tradizione e al contempo rileggerla alla luce di nuove prospettive critiche ed estetiche. La messinscena è un organismo vivente che racconta storie, muove i personaggi come fossero burattini e determina l’avvio di meccanismi passionali che sfuggono al naturalismo psicologico e non è mai intaccato “dal morbo dell’autoriflessività che si è impadronito totalmente del teatro occidentale” (Valentini). Le opere di Nekrošius sono un’estrema sintesi di opposti, astratto e concreto, tragico e comico, descrizione e narrazione, uniti dalla fusione dialettica dei contrari in una caratterizzazione dinamica che richiama alla memoria l’idea del “montaggio delle attrazioni” teorizzata da Ejzenštein.
Se non avete mai visto uno spettacolo di Nekrošius, probabilmente non avrete capito granché di ciò che ho appena detto, ma l’ho fatto apposta, per invitarvi ad andare su youtube, digitare il suo nome e lasciarvi perdere nel suo mondo onirico e allucinato, così tanto lontano dalla nostra visione spocchiosamente eurocentrica. Un ultimo consiglio, se non sapete da dove iniziare cercate una registrazione del suo “Makbetas”, che marcia inesorabile verso la morte mentre il mantello gli diviene pesante, e nel contempo basculano sul palco delle enormi travi di legno, simbologie di metronomi che scandiscono l’azione che precipita e il destino che si compie. Con quest’ultimo consiglio enigmatico vi saluto davvero, cari lettori, e vi invito a trascorrere un po’ del vostro tempo libero in compagnia di personaggi bislacchi, al limite dell’umana comprensione, che, come i matti, sproloquiano la verità, mentre il resto del mondo finge di non udirli.

Alessia Cagnotto

Polpette al pomodoro con farina di ceci, che bontà!

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Rubrica a cura de La Cuoca Insolita 

Per fare queste polpette al pomodoro con farina di ceci non avete bisogno di preparare molti ingredienti: probabilmente aprendo il frigo li trovate già lì, pronti! Il bello delle polpette è che ci potete mettere dentro quello che volete. Qualcuno potrebbe non fidarsi a ordinarle al ristorante, temendo che siano fatte con gli avanzi, di quelli che o li metti nelle polpette o li butti via. Io trovo che sprecare il cibo il meno possibile sia un traguardo importante. E ora, aprite il frigo e guardate se anche voi avete qualche ingrediente che potrebbe andare bene per questo. Non importa se non è esattamente quello che c’è in questa ricetta. Basta rispettare le proporzioni. Non devono però mancare la farina di ceci e il sugo di pomodoro. Leggete e capirete perché…

Perché vi consiglio questa ricetta?

  • Valori nutrizionali: Rispetto alle polpette al sugo tradizionali preparate con carne di vitello e maiale, uova, latte e formaggio grattugiato, qui abbiamo -30% di calorie e -65% di grassi. Un piatto che sazia senza appesantirci e senza farci ingrassare!
  • Polpette al pomodoro con farina di ceci, buone come quelle della nonna! E in più le carote e i finocchi sono ricchi di fibre, ma nell’impasto di queste polpette non si distinguono. Bene, quindi, anche per i bambini che non amano la verdura.
  • Al posto dell’uovo usiamo la farina di ceci. Nessun problema quindi per chi ha problemi con le uova.

Una dieta a base di legumi e cereali (soprattutto quelli integrali) permette di fornire al nostro organismo gli stessi elementi che si trovano nella carne (gli aminoacidi essenziali).

Tempi: Preparazione (20 min); Cottura (15 min);

Attrezzatura necessaria: robot tritatutto, 2 bicchierini da caffè, padella antiaderente diam. 32, tagliere e coltello a lama liscia, paletta da cucina, 2 cucchiaini, 1 cucchiaio, 1 paletta di legno, vassoio, 1 ciotola di medie dimensioni, carta da forno.

fase preparazione polpetteIngredienti (per 4 persone – circa 500 g di polpette):

Per l’impasto delle polpette:

  • Verdure in padella (carote e finocchi) – 150 g
  • Riso basmati integrale cotto – 150 g
  • Pangrattato (integrale) per impasto – 50 g
  • Farina di ceci – 1 cucchiaio pieno
  • Acqua per farina ceci – 2 cucchiai
  • Salsa di soia – 1 cucchiaio
  • Sale fino – ½ cucchiaino
  • Olio evo – 2 cucchiaini
  • Semi di girasole – 1 cucchiaio
  • Pangrattato per impanare polpette – 50 g

Per il sugo di pomodoro:

  • Passata di pomodoro o sugo pronto – 300 g
  • Olio di oliva – 2 cucchiai
  • Aglio – 1 spicchio

Ciuffi di carota – ½ bicchiere

Approfondimenti e i consigli per l’acquisto degli “ingredienti insoliti” a questo link: https://www.lacuocainsolita.it/ingredienti/).

In caso di allergie…

Allergeni presenti: Cereali contenenti glutine, soia

Preparazione delle polpette

FASE 1: LE VERDURE E I CEREALI DEL FRIGO

Potete scegliere delle verdure in padella a vostro piacere e in base a quello che trovate in frigorifero. In questa ricetta io ho fatto rosolare uno spicchio di aglio in olio evo, buttato dentro le carote a rondelle e fatto cuocere per 10 minuti. Poi ho buttato in padella anche i finocchi e fatto cuocere tutto insieme per altri 10 minuti. Infine, ho aggiunto il sale.

Io ho sempre in frigorifero un cereale pronto. Questa volta usiamo il riso basmati integrale. Se non vi ricordate come è meglio cuocere i cereali in chicco, andate su https://www.lacuocainsolita.it/miglio-stufato/

FASE 2: IL PANGRATTATO

Meglio se integrale, perché è più ricco di fibre. Io lo ottengo spesso da una forma di pane secco. Basta mettere le fette secche nel mixer e tritare a massima velocità, fino a quando il tutto sarà polverizzato.

FASE 3: LA PREPARAZIONE DELLE POLPETTE

Il gioco è facile: nel bicchierino da caffè bagnate la farina di ceci con l’acqua e mescolate. Intanto mettete nel contenitore del robot tritatutto le verdure, il riso basmati, la salsa tamari, il sale e l’olio e frullate a massima velocità. Aggiungete quindi la farina di ceci idratata e il pangrattato. Dovrete ottenere un impasto abbastanza compatto.

Unite ora i semi di girasole e mescolate delicatamente (devono restare interi). Trasferite in un contenitore e ricavate con le mani delle polpette, che poi impanerete con del pangrattato integrale.

FASE 4: LA COTTURA

Mettete olio di oliva in padella, fatelo rosolare e buttate dentro l’aglio e i ciuffi verdi delle carote sminuzzati come fareste con del prezzemolo. Mettete a cuocere le polpette impanate, a fuoco medio-alto e fate rosolare per circa 5 minuti, poi girate con l’aiuto di due posate e fate altrettanto dall’altro lato. Trascorsi 10 minuti, mettete da parte un po’ di ciuffi verdi di carota soffritti e versate il sugo già pronto nella padella e fate scaldare tutto per altri 5 minuti.

Servite le polpette calde, con una forchetta e un cucchiaio per raccogliere bene anche il sugo al pomodoro.

CONSERVAZIONE

In frigorifero: 3-4 giorni

Le polpette crude: possono essere preparate anche il giorno prima e tenute in frigorifero fino alla cottura. Possono essere messe nel congelatore (su dei vassoi, separate tra loro) e conservate anche per 2-3 mesi. Una volta indurite, potete trasferirle nei sacchetti gelo.

Gino, sei proprio un gatto!

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D’inverno non è raro che le stelle, in fretta e furia, facciano posto a nuvole gonfie di tormenta. Anche la notte dell’Epifania di quell’anno aveva portato con se la neve. Soffice come l’ovatta, leggera come piume d’oca, era planata lentamente a terra, imbiancando tutto

Non che ne fosse venuta tanta, però. Era, come dire, una specie di patina spessa più o meno cinque centimetri.  Non mi aveva preso alla sprovvista. Rincasando, verso le 23, s’intravedevano già dei piccoli fiocchi volteggiare nell’aria. Erano “palischitt“, pagliuzze gelate. Ma promettevano “d’attaccare giù“. L’aria fredda che s’incanalava per le valli del Mottarone fino ad accarezzare le onde del lago, era un “preavviso” della nevicata. Così decisi di usare le pagine di un vecchio giornale per coprire i vetri della mia piccola Fiat amaranto, posteggiata davanti all’osteria del “Gatto e la Volpe”. Così, al mattino, se non ne veniva giù un sacco, sarebbe bastato rimuovere i giornali per avere i vetri puliti ed asciutti,  evitando – ed era la cosa più importante – che gelassero. Quante volte mi era capitato di vedere i vicini di casa, dopo una notte di brina gelata o di tormenta, armeggiare sui vetri merlettati dal gelo con raspe e fiotti d’acqua calda. Quanti vetri rigati o crepati, per la gioia dei carrozzieri che dovevano quanto prima sostituirli. Era più saggio seguire la buona regola del “meglio prevenire che curare”. Così, dopo una notte di sonno profondo, propiziata da quel silenzio ovattato che si crea quando nevica, mi sono alzato alle sei e mezza, anticipando la sveglia. Mi capita così da una vita. Alla sera carico la sveglia, la punto sulle sette meno venti e regolarmente l’anticipo  di una decina di minuti. Così la mia sveglia non suona mai. Se ne sta lì, vigile, scattante, pronta a squillare ma io, per il suo disappunto, ne rendo superfluo il servizio. Che devo fare? Mi viene così, non lo faccio apposta. E sono convinto che, la volta che mi capitasse di scordarmi di puntarla, resterei “impagliato” a letto. Comunque, una volta alzato e vestitomi di tutto punto, uscii. Non nevicava più e l’aria era fina, pulita. Mi avvicinai all’auto e, voilà: in un attimo sfilai via i giornali. Solo in quel momento mi accorsi che Giovanni Melampo mi sta guardando. Non avevo notato che, con il badile in mano, stava liberando l’entrata laterale dell’osteria del “Gatto e la Volpe”, quella che dava direttamente sulla cucina. Mi guardava interessato e, ad un certo punto, esclamò: “Gino, posso dirti una cosa?”. Non feci in tempo a rispondere che il fabbro aggiunse “ Ecco, volevo dirti che sei furbo come una volpe. Ma come ti è venuta in mente l’idea dei fogli di giornale, eh? A tì sé propri un gatt. Sei proprio un gatto. Dai, vieni qui, fammi compagnia. Andiamo a bere un bicchiere dal Mario. Offri tu,ovviamente, per “bagnare” l’invenzione”. Pur di scroccare un bianchino era capace di qualsiasi stratagemma. E quella mattina era toccato a me. Ne scolò tre, uno in fila all’altro. “Ma non ti faranno male?”, gli dissi. “ Io, appena sveglio, bevo due bicchieri d’acqua del rubinetto che al mattino fa solo bene”. Lui, di rimando, mi rispose che “ l’acqua la fa mal, la bev dumà la gent de l’uspedal”. Lui, ovviamente, non aveva niente a che spartire con la “gente dell’ospedale”, precisando che stava benone e il vino non solo poteva berlo ma era una sorta di medicina.Bevendo, Melampo, si lasciò andare ai suoi racconti. Iniziò a parlare delle disavventure del povero Ottorino Gambina, l’operaio del comune che faceva un po’ di tutto, dal cantoniere allo stradino. Ottorino, detto “robinia” per il carattere pungente che ricordava  le spine scure che ornavano i giovani rami delle robinie, era – come s’usava dire dalle nostre parti – un “nervusatt”.

Bastava un nonnulla e s’incavolava di brutto. Soprattutto quando lo prendevano in giro per le sue gambe. Sì, perché – per sua sfortuna – aveva le gambe storte, ad archetto. Sembrava un fantino ( la statura, più o meno, era quella.. ) al quale avevano sfilato il cavallo da sotto, condannandolo a rimanere così, con gli arti inferiori piegati in forma. Aveva ereditato il lavoro dal suo predecessore, noto a tutti come “Mario pulito” che, mantenendo fede al suo soprannome, aveva sempre e tenacemente operato per ottenere, con il minimo sforzo, la massima resa dalla sua attività. A differenza di sua moglie Maria che si  faceva in quattro nel lavorare, Mario era diventato famoso per la proverbiale abilità a sdraiarsi ai bordi della strada, dove, steso su un vecchio plaid, allungava le mani nelle cunette per estirpare le erbacce, con movimenti tanto lenti quanto studiati. Ben attento, sempre, a non faticare troppo e a non sporcarsi gli abiti. Se ne accorse anche il vecchio Hoffman, ben presto pentendosi di avergli offerto il lavoro di giardiniere nel parco della sua villa a Oltrefiume. Mario si sdraiava sotto gli alberi, a fine estate, nell’attesa che le foglie cadessero e solo quando gli alberi erano spogli e il fogliame a terra – con una gran flemma – iniziava a raccoglierle, una a una. “Robinia” , però, era di tutt’altra pasta. Al lavoro sembrava un trattore: a testa bassa, con la scopa in mano, spazzava con diligenza i marciapiedi e il sedime stradale. Finché, non gli capitò “l’incidente”, come lo definì Melampo.  A lè finì cunt el cü per tèra. Sì, perché è bastato il colpo della strega per metterlo fuori uso. E tutto, pensa un po’, per una cartina del cioccolato che stava lì, in mezzo al sagrato della chiesa. Aveva appena scopato per bene e qualche ragazzaccio passando, mentre era voltato di spalle, gliela aveva buttata lì. Nell’atto di chinarsi ha sentito un “crack” alla schiena ed hanno dovuto portarlo a casa così, piegato in due, fino a che il dottore non gli ha fatto un’iniezione. Sembrava che dovesse finir tutto lì, e invece…”. Era sconsolato, il fabbro. “ Tiricordi com’era? Bianco e rosso, sempre pronto a mangiare e bere. Ed ora? E’ magro che  sembra ‘n gatt che l’ha mangià i lüsert. Un gatto che mangia solo lucertole.. La schiena non gli tiene più, è sempre in mutua e si è messo a bere ancor più di quanto non facesse già. Ha proprio una brutta cera”.In effetti, era così. Non sembrava nemmeno più lui anche nel carattere. Era, come dire?, spento, apatico,rassegnato. Se si cercava di tirarlo su, dicendogli che bisognava aver fiducia, che si sarebbe messo a posto, rispondeva – scuotendo la testa – : “Se l’è minga supà, l’è pan bagna”( se non è zuppa è pan bagnato).Era rassegnato a rimanere così, con la schiena scassata e le gambette sempre più divaricate. Melampo, nel raccontare le sue disavventure, si era immalinconito. Ma reagì subito, proponendomi un altro “giro” di calici.“ Dai, Gino,beviamoci su. Anzi, ci bevo su io anche per te, così buttiamo alle ortiche la malinconia. Mi spieghi ancora una volta la pensata del foglio di giornale, eh?”.

 Marco Travaglini

L’isola del libro

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RUBRICA SETTIMANALE A CURA DI LAURA GORIA

 

 

Elizabeth Strout “Lucy davanti al mare” -Einaudi- euro 19,00

 

L’esile scrittrice 68enne Elizabeth Strout, che vive tra New York e il Maine, è una delle autrici contemporanee più amate. Vincitrice del Premio Pulitzer nel 2009 con “Olive Kitteridge”, ha l’immensa capacità di raccontare la vita attraverso toni, pensieri e descrizioni appena sussurrati, che rendono il quotidiano teatro di un quadro molto più ampio. Tante pennellate lievi, ma potentissime.

Questo è il suo quarto romanzo dedicato a Lucy Barton, personaggio immaginario e suo alter ego. Scrittrice di successo, grande cuore materno nei confronti delle due figlie ormai adulte, due matrimoni alle spalle e la tendenza a qualche attacco di panico.

Dopo aver sposato e messo su famiglia con William, ha dovuto affrontare il divorzio. Poi la vita le ha messo sul cammino un secondo amore, l’amabile musicista David che però il destino le ha strappato troppo presto. Ora è una vedova pressoché inconsolabile.

A scompigliare ulteriormente le carte si mette il Covid. Siamo all’inizio della pandemia e William, che è uno scienziato (e reduce da un altro divorzio), capisce subito la portata drammatica del virus. Riesce a convincere Lucy a chiudersi insieme a lui in una casa nel Maine affacciata sull’Oceano. Nell’immaginaria Crosby in cui aveva ambientato “Olive Kitteridge” (che tra l’altro viene citata in più parti dell’ultimo romanzo).

Il romanzo è un po’ la cronistoria dello spaesamento dell’abitudinaria Lucy in una casa che non sente sua, alle prese con stati d’animo alterni, senza mai dimenticare da dove viene e la povertà traumatica della sua infanzia. Il suo tempo è scandito da rituali minimi: passeggiate, il progressivo riavvicinarsi a William, le notizie di cronaca. Ma anche i dispiaceri che stanno affrontando le figlie, inquiete e sfuggenti.

William fin dalle prime avvisaglie della pandemia ha spinto le figlie Chrissy e Becha, con i loro mariti, ad allontanarsi dai centri urbani per mettersi in salvo. Poi, una abortisce per la terza volta, si dispera, diventa scheletrica ed ha un amante. L’altra invece viene lasciata dal marito, pseudo poeta mediocre e geloso del successo letterario della suocera.

Teatro di tutto il romanzo è una tavolozza di colori della natura, tra mare in burrasca o calmo, cieli azzurri che virano in tempesta. Ma anche notizie di morte e pazienti intubati in lotta per sopravvivere.

 

 

Gaëlle Nohant “L’archivio dei destini” -Neri Pozza- euro 20,00

 

Dietro le pagine di questo libro ci sono oltre tre anni di lavoro in cui l’autrice ha svolto un’enorme indagine documentaristica, incontrato testimoni non solo in Polonia e Germania.

Fulcro delle sue ricerche sono gli Archivi Arolsen, noti anche come International Tracing Service, il più grande centro di documentazione e ricerca sulle persecuzioni naziste. E’ stato creato dagli Alleati alla fine della Seconda guerra mondiale, ed ha sguinzagliato dei detective col compito di indagare sui destini delle vittime del nazismo, su richiesta dei loro parenti. Tracce ovviamente difficili da seguire quando le camere a gas, i forni crematori e le fosse comuni hanno inghiottito famiglie intere.

 

I personaggi del libro sono quasi tutti di fantasia, ma le loro esperienze sono quelle vissute davvero da chi è stato travolto dal furore nazista. Tutto quanto viene narrato è basato sulla realtà storica. Tanto più che la Nohant si è avvalsa della collaborazione e dell’amicizia di persone come Nathalie Letierce-Liebig, che da 40 anni lavora alla Missione di Ricerca e Chiarimento dei Destini e si occupa della Missione Memoria Rubata.

 

A questa incredibile donna è ispirata la figura della protagonista del libro, Irene, per la quale il lavoro di ricerca svolto è una vocazione ed un impegno che pervade tutta l’esistenza. Il suo compito è restituire le migliaia di oggetti raccolti nel centro dopo la liberazione dei campi di sterminio. Cose materiali, per lo più di uso comune strappate alle vittime: fedi nuziali, foto, portafogli, orologi,…..

Tutti reperti di immenso valore simbolico, testimonianze silenziose, ma urlanti orrore e testamenti di vite falciate. Grazie a loro i defunti riacquistano il loro posto nel cuore delle famiglie.

Irene cerca in tutti i modi di rimettere insieme legami familiari interrotti dalla guerra, recupera poco a poco, con fatica, sensibilità e grande emozione, alcuni frammenti della quotidianità di chi è scomparso. Così facendo, le loro esistenze non restano limitate solo al tragico destino; ogni vita per breve e tremenda che sia è unica e preziosa.

Un libro magnifico e struggente che riunisce e riconcilia membri di famiglie attraverso generazioni. Mette anche il dito in piaghe dolorosissime come quelle dei bimbi ebrei strappati alle madri per essere dati in adozione a famiglie ariane. Molti di loro neanche ricorderanno più la lingua di origine, mentre i loro discendenti rintracciati da Irene saranno letteralmente scioccati di fronte ai segreti che la storia ha infilato nelle loro famiglie,

 

 

Serena Dandini “La vendetta delle muse” -HarperCollins- euro 18,00

 

Le muse raccontate da Serena Dandini sono state creature dotate di grande ingegno e talento, ma la storia ha steso un velo di indifferenza su di loro; ed ecco che l’autrice ha deciso di scrivere per rivendicarne la grandezza e un po’ anche per vendicarle.

La selezione è avvenuta in base alle preferenze dell’autrice che ha ricostruito un pantheon di figure femminili a lei particolarmente care, che i libri di storia non citano spesso. Grandi donne rimaste per lo più invisibili.

Alcune, come Colette, si sono vendicate da sole; mentre altre sono state considerate delle rovina famiglie, ragazze cattive. Tra queste ci sono Alma Mahler e la Gala di Dalì; ambiziose che hanno coltivato questa loro caratteristica contravvenendo alla regola secondo la quale le donne dovrebbero fare passi indietro per lasciare ampio spazio agli uomini.

Sono state capaci di trasformare in forza le loro debolezze, coraggiose nell’infrangere parecchi tabù, incluso quello di stare con uomini molto più giovani.

A determinare i loro percorsi è stata soprattutto l’ostinazione nell’inseguire i loro sogni. Una su tutte, la splendida Hedy Lamarr, prima donna a comparire nuda sugli schermi nel film “Estasi” nel 1933. Poi diventata l’attrice e la donna più bella del mondo; ma dalla sua aveva anche un quoziente intellettivo fuori dal comune.

Studiò un sistema radiocomandato a distanza che nel 1940 ancora non esisteva; meccanismo ultrasofisticato che consentiva alle frequenze radio di cambiare in continuazione ed ostacolare le intercettazioni del nemico. Un’arma che avrebbe potuto contrastare le aggressioni di Hitler e che è alla base di tutta la tecnologia odierna. Insieme al musicista George Antheil mise a punto un “Sistema di comunicazione segreto per missili radio controllati” che però restò inutilizzato fino al 1958.

 

Le radiofrequenze studiate da Hedy Lamarr troveranno poi applicazione nelle nuove tecnologie militari, mediche, ma anche nel Wi-Fi e nella telefonia mobile e in tanti altri dispositivi che usiamo oggi. Giusto per dire la grandezza di una donna.

 

 

Patricia Cornwell “Cause innaturali” -Mondadori- euro 22,50

Tutto inizia con il macabro ritrovamento dei resti orribilmente mutilati di due campeggiatori ritrovati in una zona selvaggia della Virginia settentrionale. Le vittime sono Huck e Brittany, che erano ricercati dai federali per il riciclaggio di denaro e terrorismo, dal momento che fiancheggiavano il gruppo filorusso “The Replubic.

Quello che gli investigatori trovano nell’accampamento semi segreto delle vittima fa pensare ad un violentissimo attacco a sorpresa computo da più assassini particolarmente spietati e sadici. A far luce sull’accaduto troviamo Kay Scarpetta e la nipote Lucy.

Le ciliegie “salate”

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Stavamo bevendo un bicchiere in compagnia quando Giorgio mi rivolse – all’improvviso – una domanda: “Ti ricordi quando andavamo per ciliegie?”.  Ci misi un attimo, giusto il tempo di mettere le mani nel cassetto dei ricordi e – trovato il filo giusto – mi vennero in mente, nitidamente, quei tempi

A Giorgio erano state le amarene rosso scuro che la Maria aveva sistemato nel cestino della frutta ad accendere la “lampadina“. In quell’istante, la nipotina della Maria, ne prese due coppie, tenute insieme dai gambi, e se le appese come fossero orecchini. Ridemmo, entrambi, di quel gesto che, tanti anni fa, avevamo fatto anche noi, scherzando tra ragazzini. All’epoca si andava in “banda” per i poderi a far razzia. Tra la fine di giugno ed i primi di luglio, nei tardi pomeriggi di quelle calde giornate d’estate, si cercavano gli alberi più carichi di ciliegie. Era una “caccia” troppo invitante. Le ciliegie sono frutti allegri, dissetanti. Ci sono quelle dolci, zuccherose, a polpa tenera ( le tenerine) e a polpa più carnosa (i duroni). E poi, le amarene e le marasche. Con gli anni ho imparato altre cose: oltre ad essere buone fanno pure bene. Sono indicate  nella cura di artriti, arteriosclerosi, disturbi renali. Contengono  buone quantità di fibre, potassio, calcio, fosforo e vitamine. Ci si possono produrre sciroppi, marmellate e liquori come maraschino, cherry e ratafià. Insomma, c’è tutto un elenco di cose positive che fanno rima con ciliegia. Ma noi, all’epoca in cui eravamo ragazzi, piacevano soprattutto perché erano il frutto di un piccolo furto e questo fatto, accompagnato dall’avventura, dai rischi e dalla voglia di trasgredire, rendeva le ciliegie il “frutto proibito” per eccellenza. Mario era arrivato al punto di sostenere una tesi tutta sua: Adamo ed Eva erano stati cacciati dal Paradiso non per colpa di una mela colta senza permesso ma di un cestino di ciliegie rosse e carnose. Il rischio più grande era quello di trovarle “salate“.

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Infatti, capitava che i contadini di un tempo, poco inclini a tollerare le nostre scorribande, ci accoglievano con una doppietta caricata a sale grosso, determinati a scoraggiarci con la minaccia di  piantarci due schioppettate nel sedere. All’arrivo dell’estate, immancabilmente, sembravamo due eserciti in assetto di guerra. “Noi“, a gruppi di 4 o 5, lesti a salire sull’albero, cogliere le ciliegie al volo, riempire il sacco di tela o il cestino, cercando di fare il più in fretta possibile. “Loro“, i proprietari dei ciliegi dove cresceva quel ben di Dio, confezionavano cartucce di diverso calibro con sale grosso, in sostituzione dei pallini di piombo. Rinforzavano anche le linee difensive lungo i confini dei frutteti: reti metalliche orlate di filo spinato, staccionate, siepi irte di spine. Era la “guerra delle ciliegie” che, in altre località, si trasformava in una vera e propria “guerra della frutta”. Se i contadini erano i difensori del loro diritto alla proprietà privata noi, gli incursori che negavano questo diritto, sostenendo che la natura non aveva padroni, colpivamo senza pietà, svanendo subito dopo nei boschi e nella campagna circostante, a volte trascinandoci appresso i compagni feriti. “Lo si faceva per fame e per gioco. Per molti di noi era l’unico modo per mettere sotto i denti quella frutta che non potevamo comprare. Ed era una cuccagna perché a casa il cibo era scarso“, rammentava Giorgio. E, come un rosario, sgranavamo i  nomi dei nostri compagni di quella guerriglia senz’armi: io e Giorgio, Mario, Luigino “Trota” – abilissimo nel pescare nei ruscelli e nel fiume -, Remo, Marco ed anche Marina. Era, quest’ultima, una ragazzina sveglia che dava dei punti a tutti noi. Ed era golosissima di ciliegie. Il campo di battaglia più duro era il frutteto del vecchio Roger Zuffoli, detto “il marsigliese“. Aveva un paio d’ettari piantati a frutta dove si trovava di tutto: susine, albicocche, pesche, mele, pere ed ovviamente ciliegie ed amarene. Verso il limite del bosco aveva anche noci e nocciole. Roger, piccolo e secco, vestiva i pantaloni alla zuava e camicie a quadrettoni mentre in testa teneva sempre il suo basco calato sulle “ventitré“. All’epoca poteva avere si e no una settantina d’anni, gran parte dei quali passati a scaricare merci nei porti di Marsiglia e di Tolone. Era tornato a Baveno già anziano perché, diceva, ” dopo tanta acqua salata ho sentito la nostalgia dell’acqua dolce del Maggiore“. In ricordo di quegli anni, al circolo comandava sempre un bicchiere di  “pastis“,  liquore profumato all’anice, tipicamente francese, che allungava con l’acqua di una caraffa dove galleggiavano dei grossi pezzi di ghiaccio. Attaccare le sue piante era molto ma molto rischioso. Raramente riuscimmo a farla franca ed una volta, quasi, ci lasciammo le penne. Quell’episodio, ancor meglio di me se lo ricorda Mario. Stranamente silenzioso, il frutteto pareva incustodito quella sera. Saranno state le diciannove o poco meno. Roger mangiava presto e quindi pensavamo fosse quello il momento giusto per compiere l’incursione. Invece il perfido vecchietto, mangiata la foglia, si era appostato dietro al piccolo fienile con la doppietta in mano.

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Non facemmo in tempo a renderci conto di quanto stava accadendo che l’eco dello sparo risuonò secco, costringendoci a tappare le orecchie. Colpito al sedere dalla fucilata di sale grosso, Mario cadde dal ramo. Dolorante si rialzò e tutti insieme corremmo a più non posso verso il bosco per far perdere le tracce. Mentre fuggiva a gambe levate, Mario sentiva il dolore delle ferite, poi il bruciore dei grani di sale che si scioglievano nella carne viva. Appena avvistò il ruscello, vinto dal bruciore, si gettò nell’acqua per calmare il fuoco che gli stava divorando il fondoschiena. Ma il rimedio si rivelò peggiore del male: l’acqua , accelerando lo scioglimento del sale, rese insopportabile il bruciore. Remo, appassionato collezionista di francobolli, portava sempre con se una pinzetta e con quella, tra le grida ed i lamenti di Mario, estraemmo i grani di sale, pulendo alla meglio le ferite. Per un po’, da quella sera, gli assalti vennero sospesi per poi, calmate le acque, proseguire per la disperazione dei contadini della zona, compreso Roger. Quella volta però, la “missione” si era conclusa senza il “bottino“. Mario , d’allora, non volle più prendere parte alle nostre imprese. L’invitavamo, lo pregavamo ma lui diceva sempre di no,  opponendo resistenza. Diceva che lui, ormai, non aveva più “il sedere di una volta“. In cuor nostro non ce la sentivamo di dargli torto.

Marco Travaglini

Yoga per la primavera – 3 pose per fare spazio nel corpo

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YOGA SENZA BARRIERE 

 

La primavera è un tempo di rinnovamento per la natura e può esserlo anche per noi. Tramite lo yoga, possiamo liberare il corpo, rinfrescare la mente e rivitalizzare lo spirito. Ecco tre pose yoga che aiutano a preparare il corpo alla rinascita primaverile

 

Tadasana (Posizione della Montagna)

Questa posa è fondamentale per la corretta postura, stabilizza e dà energia preparando il corpo ad asana più complessi.

Per eseguirla bisogna stare eretti con i piedi uniti, distribuire il peso equamente tra entrambi i piedi. Sollevare le braccia sopra la testa, respirare profondamente.

Virabhadrasana 1 (Posizione del Guerriero 1)

Il guerriero 1 rinforza gambe e caviglie, migliora equilibrio e concentrazione, e apre il torace e i fianchi.

Esegui questa posa partendo da Tadasana, fai un grande passo indietro con il piede destro, piega il ginocchio sinistro e alza le braccia, mantenendo la schiena dritta.

Virabhadrasana 2 (Posizione del Guerriero 2)

Il guerriero 2 migliora la stabilità, aumenta la resistenza fisica e mentale.

Simile a Virabhadrasana 1, ma con le braccia estese perpendicolari al corpo e lo sguardo oltre le dita della mano anteriore.

Queste tre pose aprono e rafforzano il corpo, preparandolo per accogliere con entusiasmo la stagione della rinascita. Pratica con consapevolezza per un risveglio completo di corpo e spirito.

Serena Fornero

La Gilera di Brunello… pardon, del Partito

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La Gilera 300 Bicilindrica del 1958, tenuta come un gioiello, era di proprietà del Partito. Brunello l’aveva in uso per svolgere la sua attività d’ispettore de L’Unità nelle varie edicole del Piemonte nord orientale, della Valle d’Aosta e della Lomellina pavese.  Una “bestia” rossonera da un quintale e mezzo a serbatoio asciutto, capace di fare trenta chilometri con un litro e di schiaffargli in faccia il vento marciando a centoventi all’ora. Brunello ne era l’orgoglioso affidatario e l’accudiva prestandole tutte le attenzioni. Il suo era un lavoro duro, sfiancante. In sella alla Gilera, macinando chilometri su strade polverose e sconnesse, costeggiando campi e risaie, attraversando borgate contadine e paesini minuscoli e sperduti, abbarbicati sui monti. Quando pioveva, e accadeva spesso, la moto e il suo autista si trasformavano in statue di fango ma niente, in nessuna stagione e con qualsiasi tempo, poteva interrompere la “missione” per conto del Partito e del giornale “fondato da Antonio Gramsci”. Brunello, in missione , si agghindava con la sua “tenuta da viaggio”.

La più “completa” era quella invernale: doppia maglia di lana, copia di giornale (ovviamente, l’Unità) per riparare il petto dall’aria, maglione pesante, giaccone di cuoio, doppio paio di pantaloni, ginocchiere da portiere e, a riparare la testa, casco e occhialoni. Con la bella stagione, l’armamentario restava più o meno lo stesso, calando però in stratificazione. In uno scenario politico dominato dai governi di centrosinistra e segnato dal “miracolo economico”, nel marzo del 1962, L’Unità aveva unificato le direzioni di Roma e Milano, affidando ad un unico direttore, Mario Alicata, la conduzione del giornale. Al suo fianco, come condirettori, lavoravano  Aldo Tortorella per l’edizione settentrionale e Luigi Pintor per quella del Centro-Sud.Il giornale era migliorato anche in qualità, apparendo più vivace e scorrevole, con articoli meno lunghi e un linguaggio meno complicato, con foto più grandi e numerose. Insomma, piaceva e si vendeva bene. Dopotutto era l’unica vera voce dell’opposizione in un paese impegnato a vivere la fase più intensa  di trasformazione economica, sociale e culturale della sua storia. Il lavoro dell’ispettore era molto importante. Al pari di chi “confezionava” il quotidiano, dai giornalisti e stenografi ai linotipisti e tipografi,l’ispettore aveva il compito delicatissimo di vigilare sull’andamento delle vendite, controllando i resi e l’organizzazione delle diffusioni straordinarie. Era lui che doveva adottare tutti gli accorgimenti necessari a promuovere L’Unità e consolidarne il ruolo di giornale popolare. Il rapporto con gli edicolanti diventava strategico e Brunello, nella categoria ,aveva molti amici. Durante la Resistenza non furono pochi i giornalai che svolsero attività antifascista, soprattutto nelle grandi città, diffondendo la stampa clandestina delle organizzazioni democratiche, pur essendo sottoposti a fortissime pressioni poliziesche. E negli anni del dopoguerra, quei legami erano rimasti improntati ad una forte umanità. Quando arrivava, oltre alla cordialità dei rapporti e un bicchiere di vino in compagnia, non mancava mai di portare con se qualche regalino per i figli più piccoli dei giornalai.Un modellino d’aereo di cartone, un libro di storie, qualche numero speciale de “ Il Pioniere dell’Unità”, supplemento del quuotidiano che usciva al giovedì. Le storie a fumetti del giornale curato da Marcello Argilli, soprattutto quelle di Atomino e Chiodino, suscitavano un grande interesse. Così come le filastrocche raccolte sotto la sigla “Il juke box di Gianni Rodari”.L’arrivo di Brunello, come si può facilmente immaginare, era un evento. E per  L’Unità, anche da parte di coloro che la pensavano diversamente, c’era – il più delle volte – un occhio d’attenzione, un certo riguardo. Così, tra un giro e l’altro, si consolidavano amicizie e si allargava l’influenza del quotidiano del più grande partito comunista dell’Occidente. Quando transitava nel vercellese, poi, era festa grande. Soprattutto all’inizio dell’estate, nel tempo della monda del riso. Ogni anno, per la campagna risicola, migliaia di donne si riversavano nella bassa vercellese  così come nel novarese e in Lomellina dove la mano d’opera locale non era sufficiente. Le mondine arrivavano dall’Emilia, dal mantovano, dal Veneto. Accanto a loro si recavano alla monda anche le donne delle baragge e delle zone collinari che raggiungevano le cascine della bassa viaggiando sui carri o a piedi.Era un lavoro durissimo, sfibrante e malpagato ma l’alternativa era una gran miseria e quel lavoro stagionale, con i piedi a bagno nell’acqua di risaia e la schiena curva per ore e ore sotto il sole,  rappresentava l’unica possibilità di portare a casa qualche soldo per la pagnotta o la polenta.Brunello, originario di quelle parti, prima di diventare funzionario del Partito e Ispettore de L’Unità, appena finita la guerra e la lotta partigiana, aveva svolto per alcuni anni l’incarico di sindacalista della Federbraccianti. Tra le mondariso era conosciuto e apprezzato per l’impegno a tutela dei loro diritti.Quando passava su quelle strade, con la sua rombante Gilera, sentiva la nostalgia per quel mondo che pare uno specchio capovolto, dove l’ azzurro del cielo si riflette nelle acque delle risaie. Avvertiva anche l’affetto di chi non l’aveva dimenticato e , scorgendolo sulla strada, non mancava d’indirizzargli un saluto.Ma in quel fine inverno del 1963, sui campi vuoti e gelati, c’erano solo solitudine impastata con una nebbia tanto fitta che si poteva tagliare con il coltello. L’aria era ghiacciata e viaggiare in moto non era uno scherzo. Nemmeno per i comunisti di provata fede.Fu all’entrata di Arborio, provenendo dal lungo rettilineo di Ghislarengo che la ruota anteriore della moto scivolò su una  lastra di ghiaccio, perdendo aderenza. Brunello venne disarcionato ma non mollò il manubrio della Gilera e , tra gli sguardi attoniti dei pochi passanti e di qualche avventore dell’osteria dei “Mulini”, percorse tutto il centro del paese strisciando attaccato alla moto impazzita. Nessuno osò fiatare davanti a quello spettacolo di scintille, stridore e smadonnamenti da venerdì sera in osteria. Al termine della lunga “scivolata”, Brunello s’alzò, controllò la moto rimettendola in piedi e raddrizzando alla belle e meglio il manubrio. La “tenuta” invernale aveva limitato i danni fisici e anche la Gilera non subì troppe ingiurie dalla caduta. Ben peggio sarebbe stato se Brunello avesse deciso di scindere il suo destino da quello della rombante motocicletta che, con ogni probabilità, si sarebbe sfracellata contro qualche muro. I primi soccorritori, preso atto che di danni gravi non ve ne fossero,chiesero a Brunello la ragione della scelta di non mollare la presa della moto. Lui, dolorante ma composto, rispose che delle proprie cose si poteva decidere cosa farne ma con i beni  di tutti, come nel caso della moto del Partito, non si scherzava. “Vanno tutelati, cribbio. Sempre e comunque”, bofonchiò a denti stretti l’ispettore de L’Unità, riprendendo la strada con un l’intento di portare a termine la sua missione.

Marco Travaglini