Come ultimo spettacolo della stagione dello Stabile torinese, Antonio Latella recupera dal proprio bagaglio del tempo che fu L’isola dei pappagalli con Bonaventura prigioniero degli antropofagi, un testo che Sergio Tofano portò sulle scene, con le musiche di un Nino Rota appena diciannovenne, nel 1936. Recupera perché quel testo – rimesso in scena per il cinquantenario, ancora per lo Stabile, da Franco Passatore, scomparso poco più di un mese fa – lo vedeva muovere i primi passi come attore, con due ruoli piccolissimi (era “il cliente che ha sonno” e “l’aiutante de re negro”); e reinventa, a suon di tradimenti, coadiuvato in questo dal pirotecnico adattamento di Linda Dalisi.Perché, innanzitutto, il suo (o il loro) Bonaventura non è qui quel buffo, allampanato ed elegante personaggio, presenza domenicale immancabile (e sempre attesa da chi viveva la propria infanzia nella metà degli anni Cinquanta) del “Corriere dei piccoli”, che al termine di ogni avventura stringeva felice tra le mani il suo bel milione: adesso è un signore non più certo di primo pelo, che viaggia in sedia a rotelle, affaticato, che accusa malanni e confida in quel Bassotto che lo segue ovunque, che preferisce ricordare, non essendo più in grado le avventure di viverle sul campo e in prima persona. Ecco che allora, con la sua bella bombetta rossa in testa, ciarliero, grande affabulatore, un po’ pedante come ogni vecchio, sull’onda dei ricordi (e senza che qualcuno si prenda il mal di pancia di sforbiciare qua e là), il Nostro si dilunga per circa una mezz’ora iniziale a dipanare fatti e rime baciate in un resoconto che non sempre è di facile comprensione giù in platea. Mentre il Bassotto si produce in ogni sorta di diversivo comico e fisico, finalmente Latella s’affida al movimento e ai colori e all’intreccio: e allora lo spettacolo sul palcoscenico del Carignano assume sapore, prende quota, diverte, s’affida senza se e senza ma ad una compagnia a tratti geniale, in autentico stato di grazia, multiforme, eccentrica, indiavolata. Attori che non “sono” lo spettacolo, ma certamente sì la spina dorsale, quello spettacolo lo vivono e lo fanno vivere e lo scaraventano felicemente tra gli spettatori come raramente si vede fare sui nostri palcoscenici. C’è una alta parete grigia nella scena firmata da Giuseppe Stellato, con un oblò da cui entrano ed escono i vari personaggi, ci sono quattro musicisti ai lati del palcoscenico (Federica Furlani, Andrea Gianessi, Alessandro Levrero e Giuseppe Rizzo), davvero bravi a far da commento ad ogni azione, c’è un tesoro ed un pappagallo rosso, c’è una spiaggia persino inquietante con quei suoi fitti manichini grigi pronti ad essere smantellati a vista, c’è l’apporto e la volontà di Latella e Dalisi a contaminare modernamente il testo, facendo spazio a canzoni sanremesi o delle estati di decenni fa (si va dalla Cinquetti di Non ho l’età al Vianello dei Watussi) per spingersi anche su un terreno più colto e abbordare Money Money del Joel Grey di Cabaret. È una comicità fuori delle regole, sconosciuta all’autore, di cui tuttavia conserva il fascino surreale e vitale allo stesso tempo, il linguaggio poetico, la banalità intelligente che già un tempo non voleva abbracciare soltanto il pubblico giovanile ma aspirava tra mille scommesse a qualcosa di più. C’è intatto lo spirito di Sto. C’è la negazione del milione, forse ad indicare la fine di un’epoca o il suo completo ripensamento, c’è Bonaventura che è pronto a lasciare la sedia a rotelle (un ritorno al personaggio di sempre?), a mettersi a lato della scena a far da spettatore e a prodursi poi in un tango con il fido Bassotto che nemmeno i maestri di Ballando saprebbero far meglio.
Uno spettacolo che è scrittura e autobiografia, costruzione e ripensamento, divertimento e pensieri in libertà. Dicevamo degli attori/cantanti, tutti da citare. Francesco Manetti che è Bonaventura, Alessio Maria Romano spericolato Bassotto, Michele Andrei e Caterina Carpio, i falsetti di Leonardo Lidi dal quale tutto ti aspetti meno che vedertelo nei pani del bel Cecè, il Capitano dell’aitante Isacco Venturini, Barbara Mattavelli che è Giuiuk dalla risata facile. Lascio per ultima Marta Pizzigallo, che mi è parsa la più brava del gruppo: abbandonata la tuta rossofuoco del primo tempo, s’è sprigionata in occhioni tondi tondi, in parole e frasi sbocconcellate, in ralenti e in sospiri divertentissimi che mi pareva la diretta erede del metodo Marchesini, pronta a dar vita corposamente ad ogni attimo del proprio lavoro. Da vedere, repliche sino al 16 giugno.
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Elio Rabbione
Le foto dello spettacolo sono di Brunella Giolivo