E’ pittore, grafico, scenografo, scultore e, come tale, non poteva non essere affascinato dalla straordinaria imponente struttura in pietra della Sacra
Walter Morando, artista di livello internazionale, considerato da importanti critici il maggior esponente italiano vivente che tratta la tematica del mare e dei porti, è attratto da tutto quanto è memoria storica, artistica, ambientale, antropologica che egli trasfigura in iconografie simboliche
attraverso la scultura in ceramica e in gres.
Rinnovando il processo alchemico dell’unione di acqua, terra, fuoco egli si ispira ad ogni reperto portuale corroso dal tempo: ganci, catene, bitte, corde, che, grazie al talento, riscattano il semplice ruolo funzionale per assumere dignità estetica e rappresentare il racconto della storia dell’umanità non come pura mimesi della realtà ma in modo sottointeso e allusivo. Morando è pittore, grafico, scenografo, scultore e, come tale, non poteva non essere affascinato dalla straordinaria imponente struttura in pietra della Sacra di San Michele, in cima al monte Pirchiriano a vertiginoso strapiombo sulla valle di Susa, che pare naturale prolungamento della roccia ascendendo al cielo.
Sedotto dal capolavoro
medievale, opera corale di artisti, di maestranze, di anonimi scalpellini e tagliapietre che, con spirito unitario della fede, hanno dato prova di ingegno miracoloso, Morando ha voluto darne una propria interpretazione. Il suo immaginario poetico ha sentito la malia del richiamo dei grandi personaggi che qui sono vissuti e vi hanno lavorato: Guglielmo da Volpiano, il grande Nicholaus formatosi nella bottega di Wiligelmo, di cui rimane la firma sul Portale dello Zodiaco, Rodolfo il glabro cronista e leggendario affabulatore. Ne è nata una bella opera figurativa in cui la Sacra viene ancorata al mare da una simbolica catena che rappresenta una costante dell’arte di Walter e che, in questo caso, allude, dopo millenni, agli antichissimi legami del Piemonte con la distesa delle acque marine.
Giuliana Romano Bussola



Neanche il lockdown ha fermato il desiderio dei torinesi di sostenere e riscoprire il grande patrimonio culturale che ha fatto la storia della nostra città. Un segnale di ottimismo che arriva dalla collaborazione tra i Musei Reali e dieci giovani partecipanti del corso di alta formazione Talenti per il Fundraising 2020 di Fondazione CRT, che hanno avviato, con il sostegno del Rotary Club Torino Palazzo Reale, una campagna di donazioni a supporto del complesso museale. In occasione della restituzione alla cittadinanza del Giardino Ducale avvenuta lo scorso 28 giugno, era stata ideata una giornata di festa per trasformare il primo evento di raccolta fondi in un momento di incontro e di promozione delle iniziative di fundraising e dei Giardini Reali. Con la chiusura dei musei l’azione dei giovani si è trasferita in rete.
Dalle chiese torinesi alle abbazie scozzesi, dai castelli normanni alle cattedrali spagnole, dalle fortezze sveve in Puglia alle terre mediorientali, lo cercano ovunque ancora oggi.
Non solo, ma i Templari sarebbero stati anche i custodi della Sindone, il sudario che secondo la tradizione cristiana, avrebbe avvolto il corpo di Gesù dopo la deposizione dalla Croce, attualmente conservato nel Duomo di Torino. Il cavaliere medioevale Wolfram von Eschenbach, uno dei maggiori poeti tedeschi del Duecento, attribuì ai Templari la custodia del Graal nella sua versione del poema cavalleresco Parzival. Barbara Frale, esperta del fenomeno templare e autrice di libri sul tema, ha indagato a fondo i documenti del processo al Tempio scovati nell’Archivio Segreto del Vaticano: “sicuramente le nuove piste di ricerca, afferma la studiosa, confermano che tale convinzione può nascondere un fondo di verità. Tuttavia il cammino della conoscenza in questo senso è ancora lungo e potrà raggiungere risultati importanti solo se si manterrà ben distinto da tutta la letteratura di fantasia che ha dato all’Ordine del Tempio un volto esoterico troppo artefatto”.
portato dai Templari negli anni della soppressione dell’Ordine (1307-1312). Una delle colonne della splendida e misteriosa Cappella scozzese conterrebbe infatti uno scrigno di piombo con la Coppa nascosta al suo interno. Ipotesi quest’ultima ripresa dallo scrittore Dan Brown nel suo romanzo “Il Codice da Vinci”. I Templari erano anche in buoni rapporti con la “Setta degli Assassini” un’organizzazione esoterica sciita radicale che adorava “Bafometto”, una misteriosa divinità che per alcuni non era altro che il Graal. Prima di essere definitivamente sbaragliati gli Assassini affidarono il Graal ai Templari che lo nascosero insieme al resto del Tesoro nei sotterranei del castello templare di Gisors in Normandia. Da Torino a Castel del Monte e al duomo di Genova, anche in Italia viene segnalata la presenza del Graal portato forse dai pellegrini in giro per il continente o dai Savoia insieme alla Sindone. Nel Tempio della Gran Madre di Dio una delle sue statue ai lati del sagrato rappresenta una donna, forse la Madonna, che con la mano sinistra leva in alto un calice per indicare la presenza del prezioso Graal in chiesa.
troverebbe nel misterioso palazzo a forma di coppa ottagonale. O ancora il Graal sarebbe il calice di Antiochia o il Sacro Catino di vetro verde brillante, di manifattura islamica, conservato nel Duomo di San Lorenzo a Genova, qui portato dopo la prima Crociata. C’è chi sostiene invece che il Santo Graal sia sepolto a Glastonbury nell’Inghilterra del sud o a Notre-Dame de Lille presso Lione, insomma, come si vede, i luoghi sono innumerevoli e l’indagine continua. “Ci sono tanti giovani ricercatori al lavoro, veri professionisti, osserva Barbara Frale, che indagano con pazienza e competenza i molti punti ancora ignoti della breve ma intensa storia dell’Ordine del Tempio”. Forse la ricerca del Santo Graal è la ricerca perenne di Dio, dei suoi segreti, misteriosi e impenetrabili ed è sicuro che anche nei prossimi anni e nei prossimi decenni i Cavalieri del Tempio continueranno a spingere folle di appassionati, di studiosi e di ricercatori a cavalcare per l’Europa in lungo e in largo, dall’Italia alla Scozia, dal sud al nord del vecchio continente. Anche perchè la leggenda narra che chi tra i mortali riuscirà a trovare il famoso Calice conquisterà la felicità in terra e in cielo…
Istituzioni del territorio, quest’ultime, che hanno saputo intelligentemente fare rete per dar vita all’iniziativa “Autunno della fotografia. Torino 2020”, un calendario di dirette Facebook per approfondire, appunto, i temi affrontati nelle mostre di ciascun museo. Una cinquina da incorniciare: CAMERA, Fondazione Torino Musei, Musei Reali, MEF-Museo Ettore Fico e La Venaria Reale. Ad incontrare virtualmente fotografi e curatori delle rassegne sono Walter Guadagnini, direttore di CAMERA-Centro Italiano per la Fototografia di via delle Rosine, e gli altri responsabili del progetto: Giangavino Pazzola e Monica Poggi. Dopo il primo incontro, tenutosi martedì 10 novembre fra il MAO-Museo d’Arte Orientale e Palazzo Madama e che ha visto protagonisti il fotografo milanese Samuele Pellecchia (fondatore dell’Agenzia “Prospekt”) e il torinese Fabio Bucciarelli, il secondo appuntamento, in programma per martedì 24 novembre (alle ore 18) coinvolgerà la GAM di via Magenta e il Museo Ettore Fico di via Cigna.
Di lui disse il mitico Lou Reed, immortalato da Harari, con l’altrettanto mitica consorte Laurie Anderson in scatti di struggente e poetica emozionalità: “Sono sempre felice di farmi fotografare da Guido. So che le sue saranno immagini musicali, piene di poesia e di sentimento. Le cose che Guido cattura nei suoi ritratti vengono generalmente ignorate dagli altri fotografi. Considero Guido un amico, non un semplice fotografo”. Da ricordare acora che Harari è anche curatore della mostra “Photo Action per Torino” alla GAM, che unisce ed espone 105 lavori di celebri fotografi italiani e internazionali, per contribuire al “Fondo Straordinario Covid – 19” di U.G.I. Onlus: uno scopo benefico, cui si aggiunge la possibilità di indagare la società contemporanea attraverso sguardi e percorsi differenti. L’evento sarà trasmesso in diretta sulla pagina Facebook di Palazzo Madama, del MAO-Museo d’Arte Orientale e della GAM.
Per la prima volta nel concorso viene infatti riservato uno spazio equo alle produzioni realizzate da registi donne e a quelle realizzate da registi uomini”. Ovvero un’operazione fatta con il bilancino. Attuali obbligatorietà che lasciano sempre perplessi, conditio sine qua non che inevitabilmente può stridere con le personali libere scelte e che, a tratti, suscita il dubbio dell’imposizione. Restando saldamente fissi nell’idea da sempre coltivata che l’altra metà del cielo abbia coltivato e stia coltivando esempi eccellenti e per molti versi difficili da raggiungere, continua a lasciarmi a dir poco stupito questo patto ormai di ferro (mi viene in mente che l’Academy e il Festival di Berlino sono andati ben oltre e per certi versi ben peggio!) che pretende ad ogni occasione di delimitare con matematica esattezza la metà del campo.
Pur nella sua semplice linearità, nelle sue continue divisioni di mondi e di persone, di personaggi sciupati nel loro insignificante evolversi e di frasi che spingono al sorriso piuttosto che alla riflessione (ma qui forse la colpa è nostra, lontani da letterature e filosofie), di qualche gradino più su è Mickey on the road della regista Lu Mian Mian. La storia di Mickey e Gin Gin, due giovani amiche diverse tra loro, nel fisico e nella mentalità. Tanto la prima mette in evidenza i propri tratti androgeni, si muove e si comporta senza eccessiva femminilità, insegue nella frequentazione del tempio quelle danze tradizionali che apparterrebbero soltanto ai maschi, quanto l’altra è una ballerina eccentrica e svampita nei locali notturni, tutta vuota leggerezza, legata al suo cellulare e ai peluche colorati che si porta appresso come dolcissimi trofei. Mickey vive con la madre, in preda all’alcol e alla depressione, abbandonata anni prima dal suo uomo, Gin Gin sogna di riabbracciare il bel giovanotto da cui aspetta un bambino e che sembra sparito nel nulla. Da Taiwan raggiungeranno insieme Canton, alla ricerca delle due figure maschili di riferimento: immergendosi in tristezze e delusioni, con un padre che s’è rifatto nel lusso una vita e una famiglia, con il ragazzo che spinge Gin Gin verso l’eccitazione senza freni di un amico e non ha nessuna intenzione di promettere niente. Gustose e indovinate le annotazioni che la regista coglie durante il soggiorno delle ragazze, dal furto dei bagagli all’aiuto di nuovi amici, dall’apprendere che Facebook e Google map sono censurati e dal sentire attraverso gli altoparlanti sugli autobus che la Cina di Xi Jin Ping sia impegnata “nella promozione dei valori della democrazia e dei diritti umani”. Forse il simbolismo di quel lungo ponte nelle scene finali sta proprio lì a riaffermare quell’impegno, immagine quanto personale non saprei.
oggi che ancora si volta al suo passato, a quel lungo periodo del secolo scorso che vide opposte lotte, che fu attraversato da attentati, tradimenti, uccisioni. Tra queste distese di verde, si ricompone il legame che lega due sorelle, l’una, Kelly, scomparsa da casa per molto tempo, abbandonata e sola, vittima di insicurezza e fragilità, l’altra, Lauren, sposata con Sean, rimasta a tirare avanti, tra casa e lavoro, che tenta di dare di sé l’immagine di donna forte e mentalmente stabile. Entrambe nel ricordo della morte della madre (un ricordo che si lega a quello di un’intera epoca e lo richiama in vita, accomunando pubblico e privato), nebuloso, impreciso, sempre ricostruito secondo la necessità del momento, del loro umore e delle loro reciproche passioni, una realtà deformata e legata all’instabilità mentale di Kelly (l’ostinazione a voler indossare il cappotto rosso della madre, le nuotate e l’impatto con l’acqua, il rapporto con il proprio corpo) che a tratti finisce per travolgere anche la sorella. Con una scrittura attenta ai particolari, alle ribellioni e ai rapporti con gli altri (il marito e cognato, le ipocrite colleghe di Lauren), forte nelle sottolineature, mai banale nei momenti che più s’immergono nel dramma e soprattutto, al limite del piccolo quanto ricercato capolavoro, efficacissima nell’afferrare e nell’addentrarsi in due psicologie, con ogni loro turbamento, e nel farle ruotare senza posa attraverso i tanti movimenti alti e bassi che le colpiscono, Wildfire è un’opera da tener presente in sede di premiazione. Un’opera finalmente completa che deve dire grazie alla grinta delle due interpreti, a Nora-Jane Noone che è Lauren e soprattutto a Nika McGuigan che è Kelly, scomparsa per cancro non appena terminate le riprese del film. Che a lei è stato dedicato.
L’architetto artista Gerry Bianco, ci parla del suo progetto che ha coinvolto 50 artisti. L’opera/collage e’ stata donata a Bergamo per esprimere la solidarietà’ della Sicilia, durante il periodo di covid, con questa città. Gerry Bianco vive a Mazara del Vallo e lavora alla sopraintendenza dei beni culturali di Trapani
Quanto è importante per lei il mezzo pittorico? Nel 2020 ha ancora “senso” dipingere?
Potrebbe scrivere i loro nomi?