CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 564

Lo sterminio dimenticato

Alle 11.00 di domenica 28 gennaio la Fondazione Merz  ( via Limone 24 a Torino ) ospiterà il concerto ”Lo sterminio dimenticato – Matinée Musicale”. L’evento è a cura del Coordinamento Torino Pride GLBT in collaborazione con il Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio Regionale del Piemonte e la Fondazione Merz. Verrà proposta l’esecuzione integrale del “Quatuor pour la fin du temps” di Olivier Messiaen”, la struggente composizione concepita dal musicista francese durante la permanenza nel campo di concentramento Stalag VIII-A di Görlitz, al confine Sud-Ovest della Polonia. La matinée musicale presso la Fondazione Merz, sarà un momento di grande emozione, considerato che Il Quatuor pour la fin du Temps (o, in italiano, Quartetto per la fine del Tempo) è considerato uno dei più alti esempi di musica cameristica del ventesimo secolo, eseguita per la prima volta in prigionia nel campo di concentramento di Görlitz e, quindi, fortemente simbolica.

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Ingresso libero con prenotazione gradita

info: segreteria@torinopride.it

Va in scena il Multispettacolo


Venerdì 19 gennaio 2018 alle ore 21 Hub multiculturale Cecchi Point, via Cecchi 17, Torino
Ingresso gratuito, offerta libera

 

“Immergersi in Multispettacolo è come andare a fondo in un oceano di cui non conosciamo la profondità.  Ma almeno questo ve lo possiamo assicurare: è un’esperienza terribilmente divertente”.


Multispettacolo è la prima performance teatrale interamente pensata e creata dai ragazzi e dalle ragazze della Compagnia di Palazzo, un gruppo di attori e attrici amatoriali nato all’interno del progetto YEPP Porta Palazzo della Compagnia di San Paolo. I giovani vanno dai 22 ai 26 anni e da ormai 3 anni lavorano sul territorio di Porta Palazzo, anche se alcuni di loro sono compagni e compagne di viaggio e di teatro dai tempi del liceo. Grazie al progetto YEPP Porta Palazzo, la Compagnia di Palazzo ha avuto la possibilità di mettere in scena uno spettacolo pensato dal gruppo in ogni dettaglio, dalla scelta del testo alla regia, dalla scansione delle prove ai costumi, intraprendendo così un percorso di crescita sia attoriale che personale.

LOCANDINA DELLO SPETTACOLO
Salone delle Arti, Hub multiculturale Cecchi Point – via Antonio Cecchi 17, Torino
Venerdì 19 gennaio 2018, ore 21 – Durata 1h
Multispettacolo
Regia e adattamento del testo a cura di Niccolò Cappello
Con: Matteo Allasia, Irene Caroppo, Claudio Errico, Serena Miceli, Alberto Vendittelli
COMPAGNIA PALAZZO

La rabbia di una madre e il ritratto aspro della provincia americana

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Può essere una piccola città insignificante, ordinata e tranquilla all’apparenza, Ebbing nel Missouri. In quell’angolo di provincia americana esplode tuttavia la rabbia di Mildred Hayes, coriacea e solitaria, nel ricordo di una figlia stuprata e uccisa sette mesi prima, un assassinio di cui la polizia locale non ha ancora rintracciato il responsabile. Non si sono trovati indizi, il corpo bruciato non ne ha lasciato traccia, chi ha ucciso, locale o venuto da fuori, è scomparso per sempre, non ci sono stati dei fermi, le indagini sono state condotte con negligenza, il tempo è passato e le vite dello sceriffo Willoughby (un Woody Harrelson crepuscolare, che non ti aspetteresti) e del suo vice Dixon non hanno avuto sussulti. La donna prende allora in affitto tre grandi spazi pubblicitari, inutilizzati da tempo, sulla strada fuori del paese e di là manda ai due chiari messaggi di incompetenza e di memento per quanto è successo a sua figlia.

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Ma lungo quelle strade, tra quelle case, nel bar sovraffollato dove serpeggiano quietamente tracce di razzismo, di sfacciata imposizione della legge, a tratti di fragorosa violenza, certo non tutti appoggiano i mezzi anche sbrigativi di Mildred. Tre cartelloni a Ebbing, Missouri, scritto e diretto da Martin McDonagh (è il suo terzo film, in precedenza all’attivo l’applauditissimo In Bruges e 7 psicopatici), un successo nato all’ultima mostra di Venezia, proseguito con quattro vittorie ai recenti Golden Globe e crediamo ben incamminato nella corsa verso gli Oscar, non è soltanto il ritratto di una donna con il cuore carico di ferite e della sua ricerca personale e senza quel politically correct sbandierato che la conduce ad affrontare tutti quanti a muso duro, a dire pane al pane durante certe riprese televisive o a tener testa a possibili intrusi o a decidere di arrivare a incendiare la stazione di polizia: è pure la fotografia essenziale di esistenze e di una cultura con tutte le sue contraddizioni, dei toni forti del profondo sud, delle tinte scure e di quelle chiare che avranno tempo ad addolcirsi e a confondersi.

McDonagh rivela appieno le proprie radici teatrali (nel corso della sua carriera teatrale s’è guadagnato tre Laurence Olivier Award ed è stato candidato per ben quattro volte al Tony Award), mostra il piacere e la forza della sua scrittura, negli sviluppi improvvisi e mai vuoti della sceneggiatura come nel più piccolo personaggio o particolare, intervallando la storia con eccellenti colpi di scena, dando spazio alle zone comiche, quasi surreali e impensate (è un piccolo capolavoro di sfaccettature il personaggio del vice disegnato da Sam Rockwell, insicuro e immaturo, con la sua anima di violento e di bambinone ancora attaccato alle volontà della madre: a lui spetta nel finale la completezza o meno della vendetta) come al dramma, con eguale convincimento, incastra con esemplare semplicità i cambiamenti di registro, si sposta dal sorriso al dolore con la perfezione del grande scrittore.

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Ogni tassello si distende piacevolmente e non prevarica nella frettolosità il successivo, il mutamento di Dixon avviene per il divertimento dello spettatore attento. Dandoci alla fine quello che in questa prima parte di una stagione disattenta e povera ci pare il film più significativo, concreto nell’entrarti nell’anima e nella pancia e sinceramente consigliabile: esempio ancora una volta di una cinematografia d’oltreoceano che guarda a quanto c’è di discutibile e di chiaroscuro nell’intimo del proprio interno (tra qualche giorno arriverà anche Spielberg con i suoi Pentagon Papers, i mea culpa del Vietnam), che non ha paura di confrontarsi, di guardare il presente come di girarsi colpevolmente indietro, che maneggia la propria Storia con una asprezza di risultati che pochi altri oggi possono vantare. Qui taciamo di noi, e non per la semplicistica erba del vicino sempre più verde, che tutt’al più camuffiamo i problemi di casa nostra dietro la risata, grassa e a tratti sconcertante, priva ormai in modo definitivo di quella critica corrosiva che in altro tempo ci aveva posto su ben più alti livelli.

Gatto Panceri, “assaggio radiofonico”

Il brano in programmazione spontanea nelle radio da Venerdì 19 Gennaio 

Gatto Panceri è vivo”, come egli stesso ama dire, “sono un vulcano di energia più in forma che mai”.

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Il noto cantautore lombardo è tra i massimi hitmakers della musica italiana: con la sola ‘Vivo per lei’ portata al successo dal binomio Andrea Bocelli-Giorgia ha venduto oltre 43 milioni di copie nel mondo ed è autore anche di successi per Mina, Mietta, Gianni Morandi, Fausto Leali, Massimo Ranieri, Riccardo Fogli e molti altri. Dopo aver fatto parlare ultimamente di sé anche per via di un drastico e convincente total look (completamente rasato, stile inglese, pare persino ringiovanito di 10 anni) torna ora a bussare, a partire da venerdì 19 Gennaio alla scena radiofonica con il rifacimento di uno dei suoi brani del passato più di successo Un qualunque posto fuori o dentro di te proposta in una versione targata 2018. Il brano in oggetto è un gustoso apripista del nuovo album ‘Pelle d’oca e lividi’, il cui primo singolo inedito è previsto in radio entro la metà del prossimo aprile in contemporanea all’uscita dell’intero cd (l’11° in carriera, come cantautore).

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Considero ‘Un qualunque posto fuori o dentro di te’ un cadeau per la gente che mi segue dagli esordi e anche per le radio amiche. Nel 1992, dopo il mio debutto ufficiale a Sanremo con ‘L’amore va oltre’, questa canzone incontrò il favore spontaneo delle emittenti che iniziarono, di sorpresa, a programmarlo volentieri nelle proprie play-list, nonostante i miei discografici avessero proposto alle radio come secondo singolo un altro brano”, ricorda Gatto Panceri. A quel tempo, gli speakers, amavano ascoltare interamente gli album: e potevano altresì permettersi di scegliere, a proprio gusto, le canzoni da programmare, come in questo caso, decretandone il successo”. Dal sound intenso e avvolgente di questo primo assaggio si intuiscono i nuovi mondi musicali di cui sono pregne anche le altre 18 canzoni inedite che compongono il prossimo album. Musicalmente, come al solito, il nuovo lavoro è di pregiata fattura, con testi sempre di spessore e una vocalità addirittura migliorata col passare degli anni. Pelle d’oca e lividi’ è un racconto intenso di ben 19 tracce, numeri da cd doppio che sarà però venduto al prezzo di uno.

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“Ho consegnato a chi lavora nelle radio questa felice anticipazione: lasciando così di fatto, oggi proprio come allora, a loro ogni completa e assoluta libertà di suonarlo, se vogliono”, dichiara sereno il cantautore. Per la prima volta in un mio brano ho suonato – tutti, ma proprio tutti – gli strumenti che compongono l’arrangiamento. Anche degli altri pezzi del nuovo cd sono autore, compositore, arrangiatore, produttore artistico, produttore esecutivo e anche Editore: infatti da poco ho aperto anche la mia edizione musicale, che si chiama ‘Vivo per Lei’. Per i mixaggi ringrazio di cuore il prezioso Roberto Guarino, e i consigli di Patrick Dijvas, il bassista della PFM che nel ‘92, di ‘Un qualunque posto fuori e dentro di te’, produsse e arrangiò la versione originale“. Conclude così Gatto Panceri: “Le emozioni che restano, quelle che scaldano il cuore, non hanno prezzo. Questa volta più che mai non ho badato a spese fisiche e economiche per fermare al meglio il tutto nel mio nuovo cd. Le canzoni che valgono richiedono tempo e dedizione, specialmente se ambiscono a essere eterne. Per questo ho lavorato quattro anni per realizzare, proprio come lo sognavo, il mio undicesimo album. Un grazie sincero in anticipo a tutti coloro che vorranno darmi una mano preziosa a divulgare le mie nuove proposte musicali, a partire da questo assaggio che vi ho spedito in anteprima“. ‘Pelle d’oca e lividi’: il viaggio parte da qui.

 

La torpediniera che affondò nella tempesta sul lago Maggiore

“Pattuglia senza ritorno” è un racconto storico di Elio Motella che si legge tutto d’un fiato, proponendo  – nel quadro di una ben congegnata storia d’amore tra la maestra elementare Assunta Pedroli e il fuochista di Marina Matteo Ferrari – uno dei misteri ancora insoluti del lago Maggiore: quello del naufragio della “Locusta. La narrazione è costruita attorno a questo tragico evento realmente accaduto nella parte alta del lago Maggiore, quasi al confine tra le acque italiane e quelle svizzere, in una gelida notte d’inverno di fine ‘800.  Mescolando realtà e finzione, l’autore tratteggia la vita sulla sponda occidentale del Verbano tra il 1893 al 1896, dove i protagonisti sono i marinai e i militari della Guardia di Finanza del locale distaccamento, addetti al controllo lacuale con le torpediniere, gli “sfrusitt” ( i contrabbandieri) che sfidavano leggi e autorità dedicandosi – tra fatiche e mille peripezie – al contrabbando, considerato a quel tempo una delle poche risorse per la sopravvivenza degli abitanti del lago, la gente e i luoghi della sponda piemontese tra Cannobio e Pallanza. Le rare foto d’epoca, a corredo degli avvenimenti, rendono bene l’atmosfera dell’epoca in quella terra di frontiera. Ma veniamo alla storia della “Locusta”, la torpediniera della “Regia Finanza” che affondò la notte tra l’8 ed il 9 gennaio 1896 dopo esser salpata dalla base di Cannobio per un normale servizio di pattugliamento sul Lago Maggiore. L’ unità, classificata come “torpediniera costiera di quarta classe” (lunga 19,20 metri, capace di una velocità di 17 nodi e dotata di un cannone a ripetizione “Nordenfeldt” )  figurava tra quelle acquistate dalla Regia Marina nei cantieri Thornycroft di Londra nel 1883, per essere imbarcata su navi da battaglia. All’atto pratico si dimostrò inadatta  all’impiego bellico e quindi  fu dislocata sul lago Maggiore, affidata alla “finanza” per essere adibita alla vigilanza doganale sul confine con la Svizzera. Cosa accadde quella notte, è rimasto un mistero, come se la torpediniera fosse sparita in una sorta di “buco nero”. Dalle cronache dell’epoca si evince che era salpata da Cannobio in direzione di Maccagno, sulla sponda lombarda, e il tempo risultava buono: “cielo sereno e lago calmo, con una fredda brezza spirante da nord dalla vicina Svizzera”. L’equipaggio era al completo. Erano in dodici, a bordo: otto marinai della Regia Marina e quattro guardie di finanza. Stando sempre alla cronaca, alla partenza, si trovavano a bordo anche il tenente dei “canarini”, comandante del reparto di confine, e un elettricista, che però sbarcarono poco dopo sulla linea confinaria , al valico di Piaggio Valmara, per effettuare una ispezione a terra. Durante la navigazione notturna sul lago, all’improvviso, il tempo volse al brutto: si alzò un vento impetuoso con raffiche di tramontana e, subito dopo la mezzanotte,si scatenò una furiosa tempesta. Le acque si agitarono, le correnti diventarono impetuose, i lampi squarciarono il cielo gonfio di nubi nere. La “Locusta”, sorpresa dall’improvvisa burrasca, dovette mutar rotta ,dirigendosi verso la vicina Punta Cavalla sulla riva lombarda del lago, per cercare riparo alla violenza della tramontana. Il riflettore della torpediniera venne avvistato da Cannobio per l’ultima volta poco dopo la mezzanotte del 9 gennaio 1896. Poi il buio e più nulla.Non ricevendo risposta ai ripetuti segnali di richiamo lanciati da terra, venne subito fatta uscire la torpediniera-gemella – la “21T Zanzara”- per le ricerche immediate e il soccorso ai naufraghi, ma nonostante la lunga e minuziosa perlustrazione su tutto lo specchio d’acqua tra Cannobio e Cannero ( sulla sponda piemontese), Maccagno e Pino ( su quella lombarda), non venne rinvenuta traccia alcuna di superstiti o di relitti. Il lago si era letteralmente“inghiottito” l’unità navale con tutto l’equipaggio di bordo. I dodici militari risultarono così“dispersi in servizio, nell’adempimento del dovere”. Cosa accadde alla “Locusta”, quella notte, fu oggetto di molte ipotesiForse il natante venne “rovesciato da una raffica impetuosa” e le acque si rinchiusero sull’equipaggio “rifugiatosi sotto coperta per ripararsi dalla burrasca, tranne il capo-timoniere comandante, bloccato anch’esso, ma nella cabina di governo”. Non si poteva neppure escludere che “in quel momento fatale, furono i portelli aperti dell’osteriggio di macchina, a determinare l’allagamento dei locali di bordo”. E come non prendere in considerazione l’eventualità di “ una esplosione delle caldaie esterne, dovuta a un’onda improvvisa”. Supposizioni a parte, resta il fatto che tutte le ricerche e anche l’inchiesta che venne aperta non diedero alcun risultatoAnche i vari tentativi intrapresi nel tempo, basati sulla ricostruzione della rotta e delle posizioni indicate dalle cronache dell’epoca, si sono conclusi senza fortuna e nessun successo. Qausi un secolo dopo, negli anni ’80,  il relitto era stato oggetto di due ricerche: dapprima con il batiscafo dell’esploratore e ingegnere svizzero Jacques Piccard, poi con l’intervento di un’unità della marina militare italiana, guidata da un ammiraglio, con l’intento di recuperare  almeno il natante per esporlo al museo nazionale di Ostia, in quanto unico esemplare rimasto della serie di torpediniere costruite all’epoca. Ma, come già detto, ambedue le immersioni diedero esito negativo poiché il fondale del lago è coperto da grandi depositi di terra e di melma. E anche gli ultimi tentativi non hanno sortito alcunché.  A memoria dei dodici dell’equipaggio della “Locusta” resta il monumento ( un timone sorretto da putrelle di ferro sopra un blocco di pietra con i nomi delle vittime), realizzato  sul Poggio delle Regie Torpediniere, nei pressi del porto militare della Guardia di Finanza a Cannobio. Elio Motella, docente di matematica in pensione, con il suo “Pattuglia senza ritorno”, ha avuto il merito di riportare all’attenzione del pubblico questa vicenda. E di farlo con un libro davvero ben costruito e ancor meglio scritto.

Marco Travaglini

 

Un’altra armonia. Maestri del Rinascimento in Piemonte

Che dire? E’ proprio tutta “un’altra armonia”, per restare al titolo del progetto. Dal 16 dicembre scorso i più grandi nomi del Rinascimento piemontese hanno infatti trovato, al piano terra della Galleria Sabauda di piazzetta Reale a Torino, un nuovo, meno dispersivo e dunque meglio fruibile allestimento permanente: uno spazio di 380 metri quadri loro dedicato e destinato ad ospitare circa cinquanta opere, fra dipinti polittici sculture libri miniati e pale d’altare, che raccontano un momento fondamentale e di grande apertura alle novità più “esterne” – dalle influenze pittoriche dell’Italia centrale fino a quelle d’oltralpe o di matrice fiamminga- della storia dell’arte in Piemonte dalla metà del ‘300 fino all’avvento del Manierismo. Si tratta di una svolta importante per il complesso museale torinese, in un momento particolarmente florido che nel corso del 2017 ha registrato il 20,5% in più di visitatori (pari a circa un + 50mila) rispetto all’anno precedente. “Adesso i Musei Reali di Torino – sottolinea la direttrice Enrica Pagellahanno superato la prima fase. Sono state riaperte porte, riallacciati rapporti, è stato dato un nuovo nome e una identità visiva unica. C’è ancora molto da fare, ma stiamo lavorando per rendere i nostri Musei più accessibili, innovativi e inclusivi, perché credo che possiamo giocare alla pari con le grandi istituzioni museali internazionali”. Sono nove le sezioni in cui si articola il nuovo percorso espositivo, la maggior parte completata da una parte multimediale e interattiva, di cui quattro quelle monografiche, dedicate a singoli Maestri del tempo. A partire da Giovanni Martino Spanzotti (Casale Monferrato, circa 1455 – Chivasso, ante 1598) cui dobbiamo la monumentale parete affrescata con i cicli della “Vita di Cristo” nella Chiesa di San Bernardino ad Ivrea, per passare al suo allievo e collaboratore (certa la collaborazione dei due nella realizzazione, fra il 1502 e il 1510, del “Polittico della Compagnia dei Calzolai” e del “Battesimo di Gesù” conservati nel Duomo di Torino) Defendente Ferrari (Chivasso, 1480/1485 – dopo il 12 novembre 1540) nelle cui opere appare ancor più marcato il gusto al preziosismo decorativo e l’indubbia attrazione verso quella pittura fiamminga che tanto aveva affascinato il suo maestro nei periodi del soggiorno milanese accompagnata alla preziosa lezione architettonica del Bramante e del Bramantino, non meno che a quella di Vincenzo Foppa e del borgognone, attivo anch’egli e parecchio in Piemonte, Antoine de Lonhy. Le altre due sezioni rendono invece omaggio a Gaudenzio Ferrari (Valduggia, circa 1475 – Milano, 1546), pittore scultore e musicista, certamente il più colto e noto artista rinascimentale piemontese, considerato il Raffaello del Nord, e a Macrino d’Alba, pseudonimo di Gian Giacomo de Alladio (Alba, 1460/1465 – circa 1520), studioso a Roma della pittura toscana e umbra (Luca Signoretti e il Perugino) e forse allievo del Pinturicchio per certe affinità stilistiche legate al gusto del colore acceso così come alla forte attrazione per le ardite architetture rinascimentali nonché per i paesaggi ricchi di ruderi e antiche rovine romane. Le rimanenti cinque sezioni tematiche documentano invece, in un più vasto insieme, alcuni tratti pittorico-stilistici accomunabili in specifiche esperienze operative nonché esempi di vita e di costume artistico propri del periodo. Ecco allora l’obiettivo puntato sull’“Eleganza gotica” fatta di ridondanti cromie e abbondante uso dell’oro, cui guardano i vari Francesco Filiberti (con la sua “Madonna in trono con Bambino”, terracotta con tracce policrome), così come Barnaba da Modena o Giacomo Pitterio con le loro raffinate tempere e oro su tavola; a seguire l’attenzione si concentra sugli “Altari del Piemonte” ( con i “Polittici” a più scomparti, molto comuni nelle chiese piemontesi fino a tutto il ‘500) per poi passare agli “Eccentrici”, di cui il belga (ma attivo a Casale dal 1521) Pietro Grammorseo è uno dei principali esponenti, con le sue opere dalla “creatività mutevole e inquieta” in cui esperienze fiamminghe mirabilmente si fondono con motivi propri del figurativismo piemontese e con suggestivi influssi leonardeschi. All’“Organizzazione della bottega” e al “Manierismo” guardano infine le ultime due sezioni. Fiorente bottega in Vercelli fu, nella prima metà del ‘500, quella di Gerolamo Giovenone; in essa lavorò anche il genero (nativo di Mortara, ma diventato il principale artista sulla scena vercellese) Bernardino Lanino. Con quest’ultimo, soprattutto, si chiude in Piemonte il capitolo dell’alto Rinascimento, fondendosi con le peculiarità del nascente Barocco in un processo di decorativismo manieristico, per il quale i modelli di Raffaello e Leonardo diventano sempre più un riferimento imprescindibile.

 

Gianni Milani

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“Un’altra armonia. Maestri del Rinascimento in Piemonte”

Galleria Sabauda, piazzetta Reale 1, Torino; tel. 011/5211106 – www.museireali.beniculturali.it

Orari: dal mart. alla dom. 8,30-19,30

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– Defendente Ferrari: “Polittico con Madonna che allatta il Bambino”, tempera e oro su tavola, circa 1520

– Gaudenzio Ferrari: “Compianto sul Cristo morto”, olio su tavola, 1535-1540
– Macrino d’Alba: “Madonna con il Bambino in gloria”, tempera su tavola, 1498
– Enrica Pagella, direttrice Musei Reali di Torino
– Un particolare del nuovo allestimento
Crediti fotografici: Daniele Bottallo

La meglio gioventù di Voltolini

STORIE DI CITTA’  di Patrizio Tosetto
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Una  fredda serata, vai in una libreria per la presentazione del libro scritto da Dario Voltolini e ti trovi 45 anni di ricordi che partono dal liceo. E come tutte le strade fatte di ricordi nulla é lineare, fanno mille curve con gli inevitabili sali e scendi . Pacific Palidases . Si leggono coralmente pagine ed inevitabilmente si ricorda cosa eravamo e cosa siamo diventati. Dario mi devi un intervista!
“Assolutamente, dove ci vediamo? Io sono ritornato a vivere in barriera”.  Allora ci si vede in barriera. Facciamo martedì mattina, ore 10 in Largo Brescia….
Aggiudicato. Puntuali come due soldatini. 
Dario, ne è  passato del tempo…
Sì, anche se l’altra sera con le tue battute sembrava che non ne fosse passato cosi tanto.
Dai, bando ai convenevoli, Dario. Che hai fatto dopo la laurea?
Fino al ’94 ho lavorato per Olivetti in équipe di ricerca, scritto qualche libro. Poi la crisi Olivetti mi ha indotto a scrivere ed insegnare.
Dove?
Scuola Holden, nel 2007 sono stato anche direttore didattico. Ogni giorno ne inventavamo una e i ragazzi partecipavano a questa dimensione creativa. Poi ho collaborato con Beatrice Merz, la sua casa editrice e la Fondazione Mario Merz
Il rapporto con la critica?
Ottimo. Annovero pochissime stroncature. Forti quando ci sono ma non fanno male perché rare.
Rapporto con il pubblico.
Questo, diciamolo, è un po’ più complicato. La mia è una scrittura di nicchia. Non scrivo romanzi “con l’assassino”. Scrivo ciò che mi sento.
Hai qualche tecnica particolare?
No, ci penso molto. Questo si, e generalmente incontro il ricordo personale”.
Onirico?
Questo non so….ma ti ripeto, il ricordo é per me molto importante. 
Ritorniamo al rapporto con il pubblico. L’altra sera hai raccontato del Premio Ischia…
Già,  carino. Eravamo all’inizio degli anni ’90 ed un mio libro era finalista al premio Ischia.  Raccontavo della Torino post industriale e del mio ricordo dei colori della nebbia come delle mura di cinta delle fabbriche…Mi piaceva riviverle e ricordarle. La giuria era composta anche da una scolaresca. Una ragazza commentando mi disse: ma allora a lei la nostra isola non piace …non le piace venire qui. Ho sorriso…mi sono schermito ed ho precisato: la vostra isola mi piace tantissimo ed io arrivo semplicemente da Torino.
Posso definire il tuo metodo di scrittura naif?
Assolutamente, ma per scrivere bisogna anche essere capaci di leggere. O perlomeno io ho seguito questo metodo. Un’estate mi sono imposto, riuscendoci, di leggere tutto Alla ricerca del tempo perduto di Proust. 
Tutto? 
Si, tutto, perché  me lo chiedi?
Sei tra i pochi, Dario. E poi mi racconta di altri scrittori contemporanei. Dimostra di non essere invidioso, di saper ascoltare e leggere per sapere scrivere. Tanti piccoli e grandi episodi. Alla fine gli chiedo:  
al liceo eri iscritto a qualche gruppo politico?
Come si diceva allora “cane sciolto” dentro il mare magmatico del movimento.
Stavolta sorrido io:
come in questi ultimi 30 anni?
Forse. Ma la mia libertà è stare dentro un “movimento” conoscendo e cercando di capire.
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Dario fa proprio parte della “meglio gioventù.
Patrizio Tosetto

Corpo e anima. Dall’ombra alla luce

Esce in questi giorni nei cinema italiani “Corpo e anima” di Ildikò Enyedi, sorprendente vincitore dell’ultimo Orso d’Oro del Festival di Berlino, protagonisti Morcsányi Géza e Alexandra Borbély

Endre è il direttore finanziario di un mattatoio bovino non lontano da Budapest. Trascina lungo il fianco sinistro il peso di un braccio paralizzato, impedimento perenne ai normali movimenti quotidiani. Dalla prospettiva angolare di una finestra, il suo sguardo chiaro e buono rivela una pacata ed intima rassegnazione alla solitudine nella quale si è volontariamente rinchiuso. Mária è stata appena assunta come responsabile qualità e si fa immediatamente notare per la scontrosità e il rispetto ferreo delle normative vigenti. Detesta sentire pronunciare il proprio nome, cammina e si veste in maniera goffa, mette in atto rituali compulsivi. Il suo viso pallido, che sembra intagliato nel sapone, ha un’espressione che dichiara resa incondizionata al mondo che la circonda e che pretende da lei una “normalità”. Gli sguardi solitari di Endre e Mária si incrociano sfuggenti allo stesso tavolo della mensa, dove scambiano appena qualche parola, un abbozzo di conversazione che si interrompe dopo poche battute. Nella quiete serale della propria abitazione la ragazza ricostruisce le relazioni che è riuscita a stabilire durante il giorno, avvalendosi di pupazzetti e mettendo in scena il proprio vissuto, mescolandolo alle proprie fantasie.

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Nel corso di un colloquio che si svolge a seguito di un furto avvenuto nel laboratorio aziendale, una psicologa scopre che Mária ed Endre condividono lo stesso sogno. Sono due cervi, maschio e femmina, immersi in un paesaggio invernale silenzioso e confortevole: si aggirano liberi nel bosco, si osservano da lontano, separati da un piccolo lago. L’unico contatto tra i due è rappresentato da un lieve sfregamento dei nasi. La psicologa, una giovane donna impaziente e superficiale, pensa a uno scherzo e archivia rapidamente la questione. Endre e Mária, invece, vincono il pudore e appurano l’effettiva autenticità di questa particolare condivisione. Freud sosteneva che i sogni possono rivelare istinti, bisogni, desideri profondi. Per quanto siano dunque entrambi perplessi, titubanti, anche spaventati, la bellezza e la pace evocati dalla dimensione onirica del loro incontro esortano l’uomo e la donna a un avvicinamento reale, tanto irresistibile quanto problematico. Appaiono, infatti, rigidi, bloccati, nel corpo come nell’anima. Lui è prigioniero di un fisico menomato che non l’asseconda, anzi lo limita nei movimenti rendendoli goffi, inadeguati, e ciò si riflette nell’architettura della sua psiche; lei è ferma a una fase infantile dello sviluppo psichico (frequenta uno psicologo infantile), ha rimosso dall’anima emozioni e sentimenti, rendendosi quasi del tutto inabile alle relazioni umane. Nel sogno che continuano sorprendentemente a condividere, Endre e Mária ritrovano la propria integrità fisica e psicologica, quella completezza che manca loro durante il giorno. L’incanto intangibile che pervade le immagini oniriche fa da contrasto alle procedure ripugnanti di macellazione e di lavorazione industriale dei bovini.

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Occorre necessariamente rimettere insieme tutti questi frammenti dispersi di corpo e di anima, recuperare la percezione delle emozioni, attribuendo loro un significato da connettere al senso della propria esistenza. Solo in questo modo si può cercare di (ri)costruire, faticosamente, l’unità funzionale di soma e psiche. La riconquista della corporeità personale rappresenta la premessa al progressivo cedimento delle barriere che si interponevano tra loro, il preludio di un graduale avvicinamento fisico e psicoaffettivo. Il processo non può essere lineare, le difficoltà che, inevitabilmente, si frappongono lo rallentano, lo ostacolano, rischiano di spezzarlo. Endre e Mária hanno, però, riallineato i rispettivi piani inclinati su cui avanzavano e teso le mani alla ricerca di un possibile legame. L’ultima inquadratura è dedicata al paesaggio invernale del sogno, ora disabitato, che svanisce in una lenta dissolvenza in bianco. Dall’ombra alla luce. Il sogno ha esaurito la funzione descritta da Freud, quella di appagare un desiderio rimosso. Si tratta ora di spostare quel desiderio, divenuto consapevole, sul piano della realtà. Si tratta ora di vivere. Almeno di provarci.

Paolo Maria Iraldi

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Corpo e Anima (A teströl és a lélekröl), di Ildikò Enyedi, con Alexandra Borbély, Géza Morcsányi (Ungheria, 2017, 116’). In programmazione al Cinema Classico di Torino.

Il visitatore di Agatha Christie arriva nella casa alla ricerca dell’assassino

Grande ricamatrice di plot e di intrighi, di dialoghi sottili e di psicologie dentro cui scavare con il bisturi più affilato, Agatha Christie scrisse L’ospite inatteso nel 1958, non traendolo come in tante occasioni da uno dei suoi racconti ma confezionandolo direttamente per il palcoscenico. Un eccellente thriller, con un eccellente inizio. In una di quelle nere notti come solo la campagna inglese può partorire con il buio e i suoi silenzi attraversati soltanto da qualche latrato, un uomo entra all’improvviso in una casa, in cerca di aiuto, a seguito di un incidente che gli ha fatto abbandonare l’auto in un fosso. Entra e alla poca luce di una pila scorge un uomo che immediatamente si rivela vittima di un omicidio, un colpo sparato alla nuca, e accanto a lui la moglie, con una pistola in mano. Pronta ad accusarsi della morte del marito. Come in certi film hitchcockiani, tutto è – o parrebbe – sin troppo chiaro fin dall’inizio. Tutto già definitivo. Sta all’autore rimescolare le carte, dare nulla per scontato, confondere con successo ed emozioni la mente dello spettatore, creare sospetti robusti per abbandonarli o rinfocolarli lungo gli sviluppi del dramma, accentuarli o abbozzarli in un crescendo di situazioni e di dialoghi eccezionalmente efficaci. E costruire soprattutto un alternarsi di fattori che lascino intravedere quante ombre presenti l’innocente e quanti spiragli possano aprirsi dietro il comportamento di un presunto colpevole. E sappiamo in questo quanto fosse brava la nostra giallista. La vittima aveva conti aperti con parecchia gente, si divertiva a sparare ai gatti la notte, era un buon bevitore e per quell’incidente che lo aveva messo su di una carrozzina e aveva procurato la morte di un bambino, non sentiva alcun rimorso.

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Anche lo sconosciuto visitatore vuole inspiegabilmente tirare fuori dai guai la giovane donna, forse perché una bellezza simile non può ritrovarsi sotto processo e finire certamente condannata, l’importante per ora è costruire indizi che possano sviare le indagini. Non nascondendo che la donna, in apparenza legata al marito, coltiva una relazione con un amico di lui e per tacere della vecchia madre che tutto sembra dirigere, del fratellastro con un cervello che fa un po’ acqua, dell’infermiere che al momento buono è pronto al ricatto per quel che ha visto quella notte, della governante che sfugge ad ogni certezza. Andrea Borini, mettendo in scena il testo all’Astra, nuova produzione della Fondazione Teatro Piemonte Europa per la traduzione di Edoardo Erba, svolge con credibilità il proprio compito di srotolare sospetti, insinuazioni, sconcerti, e di comporre un valido discorso teatrale. Quel che personalmente sconcerta è quella strada verso il (preteso) versante comico, superfluo, purtroppo irresponsabile, quel vizio di sgonfiare certi personaggi per renderli delle macchiette, quel dar spazio a balletti tragicomici, quasi a voler alleggerire (ma perché?) una tensione che dovrebbe conservare al contrario il suo effettivo peso. Oppure a peccare di esplicazioni visive fuori luogo, quando si sente in dovere di illustrarci la dinamica dell’incidente attraverso certe ombre cinesi che passano su di una tenda inverosimilmente tirata lì su due piedi. Ne risentono anche certe interpretazioni, quelle più mollicce (gli investigatori con gesti e battute e strani movimenti) che vogliono proprio strappare la risata, o quelle risultate meno a fuoco (la Laura di Daria Pascal Attolini – caricata anche di uno squinternato costume – o il maggiore Farrar di Alessandro Meringolo o la governante sbiaditamente sulle spalle di Silvia Iannazzo). Di un gradino più sopra dei compagni, Giuseppe Nitti è lo schizzato fratellastro amante di ogni arma da fuoco, Gisella Bein una granitica madre, Andrea Romero un subdolo ricattatore e Stefano Moretti gioca con puntualità il suo ruolo di visitatore che regge tra le mani i fili di ogni altro personaggio.

 

Elio Rabbione

Tropea presenta “Uomini e ombre”

Venerdì  19 gennaio dalle ore 18:00 alle ore 19:30 si terrà., a cura del Circolo dei Riformisti, la  presentazione del libro di Salvatore Tropea: ‘Uomini e ombre’#primacheiltempocancellitutto edito da Nerosubianco Edizioni nel 2017. Al Polo del ‘900 (Sala Conferenze, corso Valdocco 4a) venerdì 19 gennaio alle ore 18 – Ingresso gratuito. Assieme all’Autore intervengono Sergio Soave, Presidente del Polo del ‘900, Marco Brunazzi, Istituto Salvemini, Giusi La Ganga, Presidente Circolo dei Riformisti. Conduce Salvatore Vullo

Il libro
Dalla introduzione dell’autore: “ I ricordi non hanno ordine: vengono e vanno. Col tempo tendono a diventare più numerosi quelli che scompaiono, poi arriva un momento in cui ci si sorprende a scoprire che i più lontani si ripresentano con una nitidezza che manca ai più vicini. Si avverte, allora, come un bisogno di fare qualcosa perché non si perdano irrimediabilmente, quasi un tentativo di sottrarli a questo destino, nella consapevolezza che è comunque una questione personale ma che, forse, può stimolare la curiosità degli altri. Nessun’altra ragione sta al fondo di questo mio viaggio, lungo all’incirca mezzo secolo, tra gli appunti di incontri per lo più professionali con personalità che, facendo un mestiere diverso da quello del giornalista, non avrei potuto conoscere, tanto o poco. Sono stato giornalista quando i giornalisti non erano ancora finiti “nel labirinto di una tecnologia scagliata senza controllo verso il futuro”, per dirla con García Márquez. Ma sto sperimentando anche il dopo, tuttora in corso con le sue molteplici incognite…” 

Vi aspettiamo.