CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 566

Oggi al cinema

LE TRAME DEI FILM NELLE SALE DI TORINO

A cura di Elio Rabbione

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Assassinio sull’Oriente Express – Giallo. Regia di Kenneth Branagh, con Judi Dench, Michelle Pfeiffer, Johnny Depp, Penelope Cruz e Branagh nelle vesti di Hercule Poirot. Altra rivisitazione cinematografica del romanzo della Christie dopo l’edizione firmata da Sidney Lumet nel ’74, un grande Albert Finney come investigatore dalle fiammeggiati cellule grigie. Un titolo troppo grande per non conoscerlo: ma – crediamo, non foss’altro per il nuovo elenco di all star – resta intatto il piacere di rivederlo. Per districarci ancora una volta tra gli ospiti dell’elegante treno, tutti possibili assassini, una partenza da Istanbul, una vittima straodiata, una grande nevicata che obbliga ad una fermata fuori programma e Poirot a ragionare e a dedurre, sino a raggiungere un amaro finale, quello in cui la giustizia per una volta non vorrà seguire il proprio corso. Durata 114 minuti. (Nazionale sala 2)

 

Benedetta follia – Commedia. Regia di Carlo Verdone, con Carlo Verdone, Ilenia Pastorelli, Lucrezia Lante della Rovere e Paola Minaccioni. Guglielmo, in depressione stabile, è il proprietario di un negozio di arredi sacri e abbigliamento d’eccellenza, per il piacere e l’eleganza della moltitudine di porporati romani. Depresso anche per il fatto che la moglie lo ha appena abbandonato perché innamorata proprio della commessa del suo negozio: quando come un ciclone entra nella sua vita una ragazza di borgata. Opera con un buon inizio se poi non prendesse la strada delle vogliose signore che in un modo o nell’altro vogliono accaparrarsi il misero quanto problematico single. Con una comicità che fa acqua da ogni parte (in sala piena ho contato un paio di risate davvero convinte), non priva di momenti quantomai imbarazzanti (oltrepassando di gran lunga, all’italiana, lo spudorato ma tranquillo divertimento della scena clou di “Harry, ti presento Sally”, la signora che nasconde il cellulare “nel posto più bello del mondo” finisce per ritrovarsi in una storiellina soltanto fuori dei limiti; l’attore/regista che si mette a fare il cicerone all’interno di palazzo Altemps a Roma denuncia tutta la sua odierna mancanza d’idee, lontanissimo dalle cose migliori; e poi le pasticche, i balletti, le cianfrusaglie tra colori e suoni…). La gieffina Pastorelli rimane se stessa in ogni occasione, immutabile se non fosse per i cambi d’abito (sempre più ristretto), alla ricerca dei begli effetti che una Ramazzotti ci ha dato in altre occasioni. Godetevi la manciata di minuti della Minaccioni. Un toccasana. Durata 109 minuti. (Massaua, Due Giardini sala Nirvana, Ideal, Lux sala 1, Reposi, The Space, Uci)

 

Coco – Animazione. Regia di Lee Unkrich e Adrian Molina. Fa parte di una famiglia che certo non stravede per la musica il piccolo Miguel e lui non ha altro sogno che diventare chitarrista. Questo il preambolo; e a dire quanto la Pixar guardi allo stesso tempo ad un pubblico di bambini (ma, per carità, senza nessun incubo) e di adulti, ecco che Miguel si ritrova catapultato nel Regno dei Morti a rendere omaggio ai tanti parenti che non sono più attorno a lui. Durata 125 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

Come un gatto in tangenziale – Commedia. Regia di Riccardo Milani, con Paola Cortellesi, Antonio Albanese, Claudio Amendola e Sonia Bergamasco. Quando gli opposti si attraggono. Ovvero l’incontro tra Giovanni, intellettuale di sinistra, abitazione nel centro di Roma, tutto quadri e libri, in riunione a Bruxelles a parlare di periferie e di quanto sia opportuna la contaminazione tra l’alto e il basso, e Monica, borgatara di una periferia stracolma di extracomunitari, piena di tatuaggi, dal più che dubbio gusto nel vestire, consorte in perenne debito con la giustizia: incontro che nasce quando i due ragazzini dell’una e dell’altra parte iniziano un filarino che punta deciso al futuro. E se l’incontro portasse l’intellettuale e la borgatara a rivedere le loro antiche posizioni? Durata 98 minuti. (Massaua, Greenwich sala 1, Reposi, The Space, Uci)

 

Corpo e anima – Drammatico. Regia di Ildiko Enyedi, con Alexandra Borbély e Géza Morcsànyi. Un film dove si mescolano realtà e sogno, immerso nella cruda realtà quotidiana (pur con qualche momento d’ironia) ancora più acida se si pensa all’ambientazione in un mattatoio. Una coppia “lontana”, lui direttore di quel luogo, lei addetta al controllo qualità, introversi entrambi, chiusa nelle proprie solitudini, scoprono di condividere ogni notte lo stesso sogno, essere una coppia di cervi in un bosco invernale. Orso d’oro all’ultima Berlinale, “Corpo e anima” è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani: “Un film capace di tracciare il racconto della storia d’amore che unisce due solitudini, sospendendolo con lucidità visiva tra la materialità della vita reale e l’impalpabile spiritualità del sentimento”. Durata 116 minuti. (Classico)

 

Ella & John – The Leisure Seeker – Drammatico. Regia di Paolo Virzì, con Donald Sutherland e Helen Mirren. Tratto dal romanzo americano di Michael Zadoorian, con alcune varianti apportate dalla sceneggiatura scritta dallo stesso regista in compagnia di Francesco Piccolo, Francesca Archibugi e Stephen Amidon (a lui già Virzì si rivolse per “Il capitale umano”), è la storia della coppia del titolo, svanito e smemorato ma forte John, fragile ma lucidissima Ella, è il racconto del loro viaggio, dai grattacieli di Boston ai climi di Key West, lungo la Old Route 1, anche per rivisitare con la (poca e povera) memoria il vecchio Hemingway – John è stato un professore di letteratura di successo che ha coltivato con passione lo scrittore del “Vecchio e il mare” -, un viaggio che ha la forma di una conclusiva ribellione ad una famiglia e soprattutto a un destino che ha riservato per lei il cancro all’ultimo stadio e a lui l’abisso dell’Alzheimer. Momenti di felicità e anche di paura in un’America che sembrano non riconoscere più, una storia attuale e un tuffo nella nostalgia (quella che guarda agli anni Settanta), a bordo del loro vecchio camper, mentre corpo e mente se ne vanno. Un’occasione, per ripercorrere una storia d’amore coniugale nutrita da passione e devozione ma anche da ossessioni segrete che riemergono brutalmente, regalando rivelazioni fino all’ultimo istante. Durata 112 minuti. (Ambrosio sala 2, Eliseo Blu, F.lli Marx sala Groucho, Romano sala 2, The Space, Uci)

 

Ferdinand – Animazione. Regia di Carlos Saldahna. Non ha mai avuto vita facile il libro dell’americano Munro Leaf da cui oggi nasce questo cartoon di Saldahna (già premiato autore di “Rio” e dell’”Era glaciale”), libro del ’36 su cui franchisti prima e nazisti poi non poco s’accanirono (era, inevitabilmente, nell’animo di Gandhi). La vicenda del toro decisamente pacifista diverte oggi bambini e anche adulti dal cuore pronto a rilassarsi, pronti a simpatizzare con un animale che è destinato a combattere nell’arena ma che al contrario preferisce circondarsi di fiori, fugge da chi gli impone quelle regole, stringe amicizia con una piccola animalista. Lieto fine che s’impone, al fianco del “pericolosissimo” toro altri simpatici personaggi, tra cui da non lasciarsi sfuggire la capra Lupe. Durata106 minuti. (Massaua, Uci)

 

Insidious – L’ultima chiave – Horror. Regia di Adam Robitel, con Kirk Acevedo e Lin Shaye. Il regista continua il proprio viaggio nella paura, con porte cigolanti o che sbattono all’improvviso, occhi sgranati e biancastri, abiti che ballano, vocine tremolanti e piene di terrore, demoni terribili, legami indissolubili tra qui e l’Altrove. Elisa ha il potere di richiamare i morti, per questo viene convocata nel New Mexico da una famiglia che abita la casa che l’ha vista bambina. Reincontrerà tutti i fantasmi del suo passato e proverà a sconfiggerli. Durata 103 minuti. (Massaua, Ideal, The Space, Uci)

 

L’insulto – Drammatico. Regia di Ziad Doueiri, con Adel Karam e Kamel El Basha (Coppa Volpi a Venezia). A Beirut, un incidente tra due uomini, un operaio palestinese che è caposquadra di un cantiere con l’incarico di una ristrutturazione e un meccanico di religione cristiana. Quando costui, Toni, rifiuta di riparare una vecchia grondaia che ha bagnato la testa di Yasser, questi lo insulta, e gli insulti si accompagnano alle percosse, per cui l’incidente finirà in tribunale: situazione aggravata dal fatto che la moglie di Toni ha per lo spavento dato alla luce prematuramente una bambina che lotta tra la vita e la morte. Un caso particolare che adombra un conflitto molto più allargato e mai cessato: come ancora dimostra il processo, dove un padre e una figlia, difensori dell’una e dell’altra parte, esprimono due diverse generazioni e un giudizio diametralmente opposto. Durata 110 minuti. (Nazionale sala 1)

 

Jumanji – Benvenuti nella giungla – Avventura. Regia di Jake Kasdan, con Dwayne Johnson, Karen Gillan e Jack Black. Un fenomeno che ha più di vent’anni (eravamo nel 1996) e che ricordiamo ancora oggi per il personaggio, Alan Parrish, interpretato dal compianto Robin Williams, attore al culmine del successo dopo la prova in “Mrs. Doubtfire”. Hollywood non dimentica e rispolvera un passato di ottimi botteghini. Messi in punizione nella scuola che frequentano, quattro ragazzi scoprono un vecchio videogame. Una volta dato il via al gioco, essi vengono catapultati all’interno del sorprendente meccanismo, ognuno con il proprio avatar. Assumeranno altre sembianze, entreranno nell’età adulta: ma che succederebbe se la loro missione fallisse e la vita di ognuno finisse intrappolata nel videogame? Durata 119 minuti. (Massaua, Ideal, The Space, Uci)

 

Leo da Vinci – Missione Monna Lisa – Animazione. Regia di Sergio Manfio. La giovinezza di un futuro genio, che inizia a sperimentare le sue prime invenzioni, come lo scafandro, con cui raggiungere un tesoro sul fondo del mare di Montecristo e scongiurare il matrimonio dell’innamorata Lisa con il solito pretendente di ricca casata. Ma qualcuno gli darà parecchio filo da torcere, come quei pirati che giocheranno ogni carta pur d’impadronirsi del famoso tesoro. Ma Leonardo è pur sempre Leonardo. Durata 85 minuti. (Massaua, Uci)

 

Morto Stalin se ne fa un altro – Commedia. Regia di Armando Iannucci, con Steve Buscemi, Micael Palin, Olga Kurylenko, Simon Russel Beale. Scozzese di nascita ma napoletanissimo per origini paterne, Iannucci ci ha dato una delle opere più godibili degli ultimi anni, ricca di effetti sulfurei, di una sceneggiatura che supera con facilità la risata fine a se stessa per immergersi nella satira più corrosiva, per graffiare e far sanguinare un mondo ben sistemato sugli altari. Il vecchio castiga ridendo mores, in folclore politico. Ovvero la morte del baffuto Stalin, che ha appena impartito l’ordine che gli sia recapitata la registrazione di un concerto che però registrato non lo è stato. Orchestra, pubblico e pianista dissidente, tutti di nuovo al loro posto. Ma le preoccupazioni sono e saranno ben altre: quella sera stessa, era il 28 febbraio 1953, il dittatore è colpito da un ictus e le varie epurazioni delle vette sanitarie in odore di tradimento fanno sì che le cure non possano arrivare che in ritardo e infruttuose. Cinque giorni dopo, passato lui a miglior vita, può così cominciare l’arrembaggio alla poltrona tanto ambita da quanti tra i collaboratori l’hanno vistosamente sostenuto o tacitamente avversato, a cominciare da un atterrito Malenkov chiamato da un ridicolo Consiglio a reggere le sorti dei popoli. Senza dimenticare, tra il tragico e il ridicolo, le mosse dei tanti Mikoyan, Zukov, Bulganin, Molotov e Berija in atteggiamenti da vero macellaio sino a Nikita Kruscev (un impareggiabile Steve Buscemi, ma ogni personaggio si ritaglia un momento di gloria), astutissimo nel saper raccogliere le tante intenzioni, lotte, sospetti, accuse, sparizioni dei propri colleghi, e capace di afferrare il primo posto. Tutto questo sullo schermo, applaudito al recente TFF, risate e sberleffi come non mai: apprezzato, ma allo stesso temo ti chiedi quanto sia stato giusto cancellare la vena tragica di quelle giornate. E del poi. Durata 106 minuti. (Centrale, anche in V.O.)

 

Napoli velata – Drammatico. Regia di Ferzan Ozpetek, con Giovanna Mezzogiorno, Alessandro Borghi, Beppe Barra, Luisa Ranieri, Anna Bonaiuto. In una Napoli piena di ambiguità e di misteri, in bilico tra magia e superstizione, tra follia e razionalità, Adriana, ogni giorno a contatto con il mondo dei non-vivi per la sua professione di anatomopatologa, conosce un uomo, Andrea, con cui trascorre una notte di profonda passione. Si sente finalmente viva ed è felice nel pensare ad un prossimo appuntamento. A cui tuttavia Andrea non verrà: è l’inizio di un’indagine poliziesca ed esistenziale che condurrà Adriana nel ventre della città e di un passato, dove cova un rimosso luttuoso. Durata 110 minuti. (Eliseo Rosso, Massimo sala 2, Reposi, Romano sala 1)

 

L’ora più buia – Drammatico. Regia di Joe Wright, con Gary Oldman, Kristin Scott Thomas, Lily James e Ben Mendelsohn. L’acclamato autore di “Espiazione “ e “Anna Karenina” guarda adesso al secondo conflitto mondiale, all’ora decisiva del primo anno di guerra, alla figura del primo ministro inglese Winston Churchill. Nel maggio del ’40, dimessosi Chamberlain e da poco eletto lui alla carica, inviso al partito opposto e neppure in grado di poter contare sui suoi colleghi di partito, mentre le truppe tedesche hanno iniziato a invadere i territori europei, Churchill combatte in una difficile quanto decisiva scelta, se concludere un armistizio con la Germania dopo la repentina caduta della Francia oppure avventurarsi nell’intervento di un conflitto armato. Mentre si prepara l’invasione della Gran Bretagna, si deve pensare alla salvezza del paese, grazie ad una pace anche temporanea, o l’affermazione con una strenua lotta degli ideali di libertà: una delle prime mosse fu il recupero dei soldati intrappolati sulle spiagge di Dunkerque (come già ad inizio stagione ci ha insegnato lo stupendo film di Christopher Nolan). Oldman s’è già visto per il ruolo assegnare un Globe, sta sopravanzando sugli altri papabili per quanto riguarda gli Oscar. Durata 125 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse, F.lli Marx sala Chico anche V.O., Lux sala 2, Massimo sala 1, Reposi, The Space, Uci anche V.O.)

 

Poesia senza fine – Biografico. Regia di Alejandro Jodorowsky. A Santiago del Cile, all’inizio degli anni Cinquanta, l’autore della “Montagna incantata”, ventenne, coltiva il desiderio di diventare poeta in opposizione al padre che per lui sogna un futuro di medico. Fermo sulle proprie decisioni, abbandona la famiglia, si rifugia in una comune di improbabili artisti e inizia il viaggio della sua vita. Durata 100 minuti. (Centrale, F.lli Marx sala Harpo)

 

Il ragazzo invisibile – Seconda generazione – Fantasy. Regia di Gabriele Salvatores, con Ludovico Girardello, Valeria Golino, Galatea Bellugi e Xsenia Rappoport. Perseverando all’interno di un filone che pare non appartenere al cinema di casa nostra, l’autore premio Oscar di “Mediterraneo” offre a distanza di tre anni, con la crescita del protagonista, il secondo capitolo di Michele, ancora tra le strade e i cieli di Trieste, ancora nella tristezza per la perdita della madre adottiva e ancora alla ricerca di un qualcosa che gli permetta di conoscere appieno i suoi superpoteri. Entrano in gioco, incontro alla necessità, la conosciuta sorella gemella e la madre naturale, entrambe decise a rapire un cattivassimo magnate russo e costringerlo a liberare altre persone pure esse dotate di quegli stessi poteri, tra le quali lo stesso padre dei ragazzi. Già non eravamo stati del tutto soddisfatti della fase iniziale: e il seguito è messo lì per dirci che dovremmo aspettarci una terza puntata? Durata 96 minuti. (Uci)

 

La ruota delle meraviglie – Drammatico. Regia di Woody Allen, con Kate Winslet, Justin Timberlake, James Belushi e Juno Temple. Inizio anni ’50, pieni di colore nella fotografia di Vittorio Storaro o rivisti in quelli ramati di un tramonto, un affollato parco dei divertimenti a Coney Island, quattro destini che s’incrociano tra grandi sogni, molta noia, paure e piccole speranze senza sbocco. Ginny è una ex attrice che oggi serve ai tavoli, emotivamente instabile, madre di un ragazzino malato di piromania, frequentatore di assurde psicologhe; Humpty è il rozzo marito, giostraio e pescatore con un gruppo di amici, che ha bevuto e che ancora beve troppo, Carolina è la figlia di lui, rampolla di prime nozze, un rapporto interrotto da cinque anni, dopo la fuga di lei con un piccolo ma quantomai sbrigativo gangster che adesso ha mandato due scagnozzi a cercarla per farla stare zitta, ogni mezzo è buono. Rapporto interrotto ma la casa di papà è sempre quella più sicura. E poi c’è il giovane sognatore, Mickey, che arrotonda facendo il bagnino e segue un corso di drammaturgia, mentre stravede per O’Neill e Tennessee Williams, artefice di ogni situazione, pronto a distribuire le carte, facendo innamorare l’ultima Bovary di provincia e poi posando gli occhi sulla ragazza. Forse Allen costruisce ancora una volta e aggroviglia a piacere una storia che è il riverbero di ogni mélo degli autori anche a lui cari, impone una recitazione tutta sopra le righe, enfatizza e finge, pecca come troppe volte nel suo mestiere di regista, non incanta lo spettatore. La (sua) vittima maggiore, che più risente del debole successo è la Winslet di “Titanic”, che pur nella sua nevrotica bravura non riesce (o non può, obbediente alla strada tracciata dall’autore) a calarsi appieno nel personaggio, come in anni recenti aveva fatto la Blanchett in “Blue Jasmine”. Durata 101 minuti. (Ambrosio sala 3)

 

Star Wars: Gli ultimi Jedi – Fantascienza. Regia di Rian Johnson, con Mark Hamill, Daisy Ridley, Carrie Fisher, Laura Dern, Benicio del Toro e Adam Driver. Luke Skywalker si è ritirato in un esilio volontario, in un nascondiglio segreto ai limiti del pianeta sperduto. La giovane Rey ha bisogno del suo aiuto, nell’incontrarlo gli donerà la vecchia spada laser appartenuta alla sua famiglia. Vecchi e nuovi personaggi, ultima apparizione della Fisher, indimenticabile principessa Leia, ad un anno esatto dalla scomparsa. Immancabile per il pubblico che da sempre segue la saga. Durata 152 minuti. (Ideal, Uci)

 

The midnight man – Horror. Regia di Travis Zariwny, con Robert Englund, Summer Howell, Emily Haine e Michael Sirow. In una vecchia casa, la giovane Alexandra cura la nonna malata ed è presa dalla curiosità quando scopre nella soffitta un gioco racchiuso in una scatola, un foglio ne spiega le regole: se i giocatori (la ragazza non è sola) le seguiranno, apparirà “l’uomo di mezzanotte” capace di trasformare in realtà gli incubi più spaventosi. Se vorranno salvarsi, dovranno sfuggirgli – a lui, in grado di trasformarsi in nube nera come in qualsiasi altra sembianza – tra lo scoccare della mezzanotte e le 3 e 33 minuti. Durata 95 minuti. (The Space, Uci)

 

Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Drammatico. Regia di Martin McDonagh, con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Abbie Cornish e Lucas Hedges. Da sette mesi le ricerche e le indagini sulla morte della giovane Angela, violentata e ammazzata, non hanno dato sviluppi né certezze ed ecco che allora la madre Mildred compie una mossa coraggiosa, affitta sulla strada che porta a Ebbing, tre cartelloni pubblicitari con altrettanti messaggi di domanda accusatoria e di “incitamento” diretti a William Willoughby, il venerato capo della polizia, onesto e vulnerabile, malato di cancro. Coinvolgendo in seguito nella sua lotta anche il vicesceriffo Dixon, uomo immaturo dal comportamento violento e aggressivo, la donna finisce con l’essere un pericolo per l’intera comunità, mal sopportata, quella che da vittima si trasforma velocemente in minaccia: ogni cosa essendo immersa nella descrizione di una provincia americana che coltiva il razzismo, grumi di violenza e corruzione. Da parte di molti “Tre manifesti” è già stato giudicato come il miglior film dell’anno, i quattro recenti Golden Globe spianano la strada verso gli Oscar. Durata 132 minuti. (Ambrosio sala 1, Eliseo Grande, Greenwich sala 2, Uci)

 

Tutti i soldi del mondo – Drammatico. Regia di Ridley Scott, con Mark Wahlberg, Michelle Williams, Charles Plummer e Chistopher Plummer. Il film già celebre ancora prima di uscire sugli schermi: per la velocità con cui il regista ha ricompattato set e troupe per tirare ex novo le scene in cui compare il vecchio e arcigno Paul Getty che ha lasciato i tratti di Kevin Spacey straccusato di molestie sessuali da mezza Hollywood di stampo maschile per acquistare quello altrettanto marmorei e forse più puliti di Plummer, che in quattro e quattr’otto s’è candidato ai Globe. Cambio di casacca per narrare del rapimento del rampollo Getty (per cui il nonno, l’uomo più ricco del mondo, non avrebbe messo a disposizione un solo penny, la prima richiesta fu di 17 milioni di dollari, avendone altri 14 di nipoti chissà come sarebbe stato per lui il futuro!) nel luglio del 1973 – era il tempo dei figli dei fiori, dell’amore libero e della droga a gogò – ad opera dell’ndrangheta. La parte dell’eroe positivo va alla madre del ragazzo che lotta con ogni mezzo per la sua libertà mentre il negoziatore con i delinquenti è il paratone Wahlberg. Durata 132 minuti. (Romano sala 3, Uci)

 

Un sacchetto di biglie – Drammatico. Regia di Christian Duguay, con Dorian Le Clech, Batyste Fleurial e Christian Clavier. Joseph e Maurice hanno rispettivamente dieci e dodici anni, la loro famiglia è ebrea, abitano a Parigi. Quando la pressione delle persecuzioni diventa insostenibile, i genitori decidono di mandarli al sud, nella Francia libera, perché raggiungano i fratelli. Non è soltanto un viaggio attraverso il paese occupato, è anche un percorso per una crescita interiore. Incontri, difficoltà di ogni genere, sorprese inaspettate, il quotidiano aiuto reciproco per sfuggire alle truppe di occupazione, l’ingegno e il coraggio per sfuggire al nemico e ricongiungersi con la famiglia. Durata 110 minuti. (Eliseo Rosso, Greenwich sala 3, The Space, Uci)

 

Il vegetale – Commedia. Regia di Gennaro Nunziante, con Fabio Rovazzi, Luca Zingaretti e Ninni

Bruschetta. Fabio è laureato in scienze della comunicazione e all’improvviso si ritrova a gestire la società paterna, cresciuta a suon di malaffare. Lui è forte della propria onestà, lascia Milano e se ne va al sud, in cerca d’aria nuova: finirà a raccogliere frutta agli ordini di un caporale di colore, unico bianco in mezzo a cento immigrati. Dovrà tenere a bada una sorellina pestifera che per lui non ha nessuna considerazione, ma in compenso troverà anche una maestrina dal cuore tenero. Durata 90 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 3, Reposi, The Space, Uci)

 

Wonder – Drammatico. Regia di Stephen Chbosky, con Julia Roberts, Owen Wilson e Jacob Tremblay. Auggie è un bambino di dieci anni, una malformazione cranio facciale ha fatto sì che non abbia mai frequentato la scuola. Quando i genitori prendono la decisione che è venuta davvero l’ora di affrontare il mondo degli altri, per il ragazzino non sarà facile. Al tavolo di Auggie, in refettorio, nessuno prende posto, un gruppetto di compagni continua a divertirsi a prendere in giro il suo aspetto. Poi qualcuno comunicherà ad apprezzarlo e ad avvicinarsi a lui. Durata 113 minuti. (Massaua, F.lli Marx sala Harpo, Reposi, The Space, Uci)

 

Lo sterminio dimenticato

Alle 11.00 di domenica 28 gennaio la Fondazione Merz  ( via Limone 24 a Torino ) ospiterà il concerto ”Lo sterminio dimenticato – Matinée Musicale”. L’evento è a cura del Coordinamento Torino Pride GLBT in collaborazione con il Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio Regionale del Piemonte e la Fondazione Merz. Verrà proposta l’esecuzione integrale del “Quatuor pour la fin du temps” di Olivier Messiaen”, la struggente composizione concepita dal musicista francese durante la permanenza nel campo di concentramento Stalag VIII-A di Görlitz, al confine Sud-Ovest della Polonia. La matinée musicale presso la Fondazione Merz, sarà un momento di grande emozione, considerato che Il Quatuor pour la fin du Temps (o, in italiano, Quartetto per la fine del Tempo) è considerato uno dei più alti esempi di musica cameristica del ventesimo secolo, eseguita per la prima volta in prigionia nel campo di concentramento di Görlitz e, quindi, fortemente simbolica.

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Ingresso libero con prenotazione gradita

info: segreteria@torinopride.it

Va in scena il Multispettacolo


Venerdì 19 gennaio 2018 alle ore 21 Hub multiculturale Cecchi Point, via Cecchi 17, Torino
Ingresso gratuito, offerta libera

 

“Immergersi in Multispettacolo è come andare a fondo in un oceano di cui non conosciamo la profondità.  Ma almeno questo ve lo possiamo assicurare: è un’esperienza terribilmente divertente”.


Multispettacolo è la prima performance teatrale interamente pensata e creata dai ragazzi e dalle ragazze della Compagnia di Palazzo, un gruppo di attori e attrici amatoriali nato all’interno del progetto YEPP Porta Palazzo della Compagnia di San Paolo. I giovani vanno dai 22 ai 26 anni e da ormai 3 anni lavorano sul territorio di Porta Palazzo, anche se alcuni di loro sono compagni e compagne di viaggio e di teatro dai tempi del liceo. Grazie al progetto YEPP Porta Palazzo, la Compagnia di Palazzo ha avuto la possibilità di mettere in scena uno spettacolo pensato dal gruppo in ogni dettaglio, dalla scelta del testo alla regia, dalla scansione delle prove ai costumi, intraprendendo così un percorso di crescita sia attoriale che personale.

LOCANDINA DELLO SPETTACOLO
Salone delle Arti, Hub multiculturale Cecchi Point – via Antonio Cecchi 17, Torino
Venerdì 19 gennaio 2018, ore 21 – Durata 1h
Multispettacolo
Regia e adattamento del testo a cura di Niccolò Cappello
Con: Matteo Allasia, Irene Caroppo, Claudio Errico, Serena Miceli, Alberto Vendittelli
COMPAGNIA PALAZZO

La rabbia di una madre e il ritratto aspro della provincia americana

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Può essere una piccola città insignificante, ordinata e tranquilla all’apparenza, Ebbing nel Missouri. In quell’angolo di provincia americana esplode tuttavia la rabbia di Mildred Hayes, coriacea e solitaria, nel ricordo di una figlia stuprata e uccisa sette mesi prima, un assassinio di cui la polizia locale non ha ancora rintracciato il responsabile. Non si sono trovati indizi, il corpo bruciato non ne ha lasciato traccia, chi ha ucciso, locale o venuto da fuori, è scomparso per sempre, non ci sono stati dei fermi, le indagini sono state condotte con negligenza, il tempo è passato e le vite dello sceriffo Willoughby (un Woody Harrelson crepuscolare, che non ti aspetteresti) e del suo vice Dixon non hanno avuto sussulti. La donna prende allora in affitto tre grandi spazi pubblicitari, inutilizzati da tempo, sulla strada fuori del paese e di là manda ai due chiari messaggi di incompetenza e di memento per quanto è successo a sua figlia.

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Ma lungo quelle strade, tra quelle case, nel bar sovraffollato dove serpeggiano quietamente tracce di razzismo, di sfacciata imposizione della legge, a tratti di fragorosa violenza, certo non tutti appoggiano i mezzi anche sbrigativi di Mildred. Tre cartelloni a Ebbing, Missouri, scritto e diretto da Martin McDonagh (è il suo terzo film, in precedenza all’attivo l’applauditissimo In Bruges e 7 psicopatici), un successo nato all’ultima mostra di Venezia, proseguito con quattro vittorie ai recenti Golden Globe e crediamo ben incamminato nella corsa verso gli Oscar, non è soltanto il ritratto di una donna con il cuore carico di ferite e della sua ricerca personale e senza quel politically correct sbandierato che la conduce ad affrontare tutti quanti a muso duro, a dire pane al pane durante certe riprese televisive o a tener testa a possibili intrusi o a decidere di arrivare a incendiare la stazione di polizia: è pure la fotografia essenziale di esistenze e di una cultura con tutte le sue contraddizioni, dei toni forti del profondo sud, delle tinte scure e di quelle chiare che avranno tempo ad addolcirsi e a confondersi.

McDonagh rivela appieno le proprie radici teatrali (nel corso della sua carriera teatrale s’è guadagnato tre Laurence Olivier Award ed è stato candidato per ben quattro volte al Tony Award), mostra il piacere e la forza della sua scrittura, negli sviluppi improvvisi e mai vuoti della sceneggiatura come nel più piccolo personaggio o particolare, intervallando la storia con eccellenti colpi di scena, dando spazio alle zone comiche, quasi surreali e impensate (è un piccolo capolavoro di sfaccettature il personaggio del vice disegnato da Sam Rockwell, insicuro e immaturo, con la sua anima di violento e di bambinone ancora attaccato alle volontà della madre: a lui spetta nel finale la completezza o meno della vendetta) come al dramma, con eguale convincimento, incastra con esemplare semplicità i cambiamenti di registro, si sposta dal sorriso al dolore con la perfezione del grande scrittore.

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Ogni tassello si distende piacevolmente e non prevarica nella frettolosità il successivo, il mutamento di Dixon avviene per il divertimento dello spettatore attento. Dandoci alla fine quello che in questa prima parte di una stagione disattenta e povera ci pare il film più significativo, concreto nell’entrarti nell’anima e nella pancia e sinceramente consigliabile: esempio ancora una volta di una cinematografia d’oltreoceano che guarda a quanto c’è di discutibile e di chiaroscuro nell’intimo del proprio interno (tra qualche giorno arriverà anche Spielberg con i suoi Pentagon Papers, i mea culpa del Vietnam), che non ha paura di confrontarsi, di guardare il presente come di girarsi colpevolmente indietro, che maneggia la propria Storia con una asprezza di risultati che pochi altri oggi possono vantare. Qui taciamo di noi, e non per la semplicistica erba del vicino sempre più verde, che tutt’al più camuffiamo i problemi di casa nostra dietro la risata, grassa e a tratti sconcertante, priva ormai in modo definitivo di quella critica corrosiva che in altro tempo ci aveva posto su ben più alti livelli.

Gatto Panceri, “assaggio radiofonico”

Il brano in programmazione spontanea nelle radio da Venerdì 19 Gennaio 

Gatto Panceri è vivo”, come egli stesso ama dire, “sono un vulcano di energia più in forma che mai”.

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Il noto cantautore lombardo è tra i massimi hitmakers della musica italiana: con la sola ‘Vivo per lei’ portata al successo dal binomio Andrea Bocelli-Giorgia ha venduto oltre 43 milioni di copie nel mondo ed è autore anche di successi per Mina, Mietta, Gianni Morandi, Fausto Leali, Massimo Ranieri, Riccardo Fogli e molti altri. Dopo aver fatto parlare ultimamente di sé anche per via di un drastico e convincente total look (completamente rasato, stile inglese, pare persino ringiovanito di 10 anni) torna ora a bussare, a partire da venerdì 19 Gennaio alla scena radiofonica con il rifacimento di uno dei suoi brani del passato più di successo Un qualunque posto fuori o dentro di te proposta in una versione targata 2018. Il brano in oggetto è un gustoso apripista del nuovo album ‘Pelle d’oca e lividi’, il cui primo singolo inedito è previsto in radio entro la metà del prossimo aprile in contemporanea all’uscita dell’intero cd (l’11° in carriera, come cantautore).

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Considero ‘Un qualunque posto fuori o dentro di te’ un cadeau per la gente che mi segue dagli esordi e anche per le radio amiche. Nel 1992, dopo il mio debutto ufficiale a Sanremo con ‘L’amore va oltre’, questa canzone incontrò il favore spontaneo delle emittenti che iniziarono, di sorpresa, a programmarlo volentieri nelle proprie play-list, nonostante i miei discografici avessero proposto alle radio come secondo singolo un altro brano”, ricorda Gatto Panceri. A quel tempo, gli speakers, amavano ascoltare interamente gli album: e potevano altresì permettersi di scegliere, a proprio gusto, le canzoni da programmare, come in questo caso, decretandone il successo”. Dal sound intenso e avvolgente di questo primo assaggio si intuiscono i nuovi mondi musicali di cui sono pregne anche le altre 18 canzoni inedite che compongono il prossimo album. Musicalmente, come al solito, il nuovo lavoro è di pregiata fattura, con testi sempre di spessore e una vocalità addirittura migliorata col passare degli anni. Pelle d’oca e lividi’ è un racconto intenso di ben 19 tracce, numeri da cd doppio che sarà però venduto al prezzo di uno.

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“Ho consegnato a chi lavora nelle radio questa felice anticipazione: lasciando così di fatto, oggi proprio come allora, a loro ogni completa e assoluta libertà di suonarlo, se vogliono”, dichiara sereno il cantautore. Per la prima volta in un mio brano ho suonato – tutti, ma proprio tutti – gli strumenti che compongono l’arrangiamento. Anche degli altri pezzi del nuovo cd sono autore, compositore, arrangiatore, produttore artistico, produttore esecutivo e anche Editore: infatti da poco ho aperto anche la mia edizione musicale, che si chiama ‘Vivo per Lei’. Per i mixaggi ringrazio di cuore il prezioso Roberto Guarino, e i consigli di Patrick Dijvas, il bassista della PFM che nel ‘92, di ‘Un qualunque posto fuori e dentro di te’, produsse e arrangiò la versione originale“. Conclude così Gatto Panceri: “Le emozioni che restano, quelle che scaldano il cuore, non hanno prezzo. Questa volta più che mai non ho badato a spese fisiche e economiche per fermare al meglio il tutto nel mio nuovo cd. Le canzoni che valgono richiedono tempo e dedizione, specialmente se ambiscono a essere eterne. Per questo ho lavorato quattro anni per realizzare, proprio come lo sognavo, il mio undicesimo album. Un grazie sincero in anticipo a tutti coloro che vorranno darmi una mano preziosa a divulgare le mie nuove proposte musicali, a partire da questo assaggio che vi ho spedito in anteprima“. ‘Pelle d’oca e lividi’: il viaggio parte da qui.

 

La torpediniera che affondò nella tempesta sul lago Maggiore

“Pattuglia senza ritorno” è un racconto storico di Elio Motella che si legge tutto d’un fiato, proponendo  – nel quadro di una ben congegnata storia d’amore tra la maestra elementare Assunta Pedroli e il fuochista di Marina Matteo Ferrari – uno dei misteri ancora insoluti del lago Maggiore: quello del naufragio della “Locusta. La narrazione è costruita attorno a questo tragico evento realmente accaduto nella parte alta del lago Maggiore, quasi al confine tra le acque italiane e quelle svizzere, in una gelida notte d’inverno di fine ‘800.  Mescolando realtà e finzione, l’autore tratteggia la vita sulla sponda occidentale del Verbano tra il 1893 al 1896, dove i protagonisti sono i marinai e i militari della Guardia di Finanza del locale distaccamento, addetti al controllo lacuale con le torpediniere, gli “sfrusitt” ( i contrabbandieri) che sfidavano leggi e autorità dedicandosi – tra fatiche e mille peripezie – al contrabbando, considerato a quel tempo una delle poche risorse per la sopravvivenza degli abitanti del lago, la gente e i luoghi della sponda piemontese tra Cannobio e Pallanza. Le rare foto d’epoca, a corredo degli avvenimenti, rendono bene l’atmosfera dell’epoca in quella terra di frontiera. Ma veniamo alla storia della “Locusta”, la torpediniera della “Regia Finanza” che affondò la notte tra l’8 ed il 9 gennaio 1896 dopo esser salpata dalla base di Cannobio per un normale servizio di pattugliamento sul Lago Maggiore. L’ unità, classificata come “torpediniera costiera di quarta classe” (lunga 19,20 metri, capace di una velocità di 17 nodi e dotata di un cannone a ripetizione “Nordenfeldt” )  figurava tra quelle acquistate dalla Regia Marina nei cantieri Thornycroft di Londra nel 1883, per essere imbarcata su navi da battaglia. All’atto pratico si dimostrò inadatta  all’impiego bellico e quindi  fu dislocata sul lago Maggiore, affidata alla “finanza” per essere adibita alla vigilanza doganale sul confine con la Svizzera. Cosa accadde quella notte, è rimasto un mistero, come se la torpediniera fosse sparita in una sorta di “buco nero”. Dalle cronache dell’epoca si evince che era salpata da Cannobio in direzione di Maccagno, sulla sponda lombarda, e il tempo risultava buono: “cielo sereno e lago calmo, con una fredda brezza spirante da nord dalla vicina Svizzera”. L’equipaggio era al completo. Erano in dodici, a bordo: otto marinai della Regia Marina e quattro guardie di finanza. Stando sempre alla cronaca, alla partenza, si trovavano a bordo anche il tenente dei “canarini”, comandante del reparto di confine, e un elettricista, che però sbarcarono poco dopo sulla linea confinaria , al valico di Piaggio Valmara, per effettuare una ispezione a terra. Durante la navigazione notturna sul lago, all’improvviso, il tempo volse al brutto: si alzò un vento impetuoso con raffiche di tramontana e, subito dopo la mezzanotte,si scatenò una furiosa tempesta. Le acque si agitarono, le correnti diventarono impetuose, i lampi squarciarono il cielo gonfio di nubi nere. La “Locusta”, sorpresa dall’improvvisa burrasca, dovette mutar rotta ,dirigendosi verso la vicina Punta Cavalla sulla riva lombarda del lago, per cercare riparo alla violenza della tramontana. Il riflettore della torpediniera venne avvistato da Cannobio per l’ultima volta poco dopo la mezzanotte del 9 gennaio 1896. Poi il buio e più nulla.Non ricevendo risposta ai ripetuti segnali di richiamo lanciati da terra, venne subito fatta uscire la torpediniera-gemella – la “21T Zanzara”- per le ricerche immediate e il soccorso ai naufraghi, ma nonostante la lunga e minuziosa perlustrazione su tutto lo specchio d’acqua tra Cannobio e Cannero ( sulla sponda piemontese), Maccagno e Pino ( su quella lombarda), non venne rinvenuta traccia alcuna di superstiti o di relitti. Il lago si era letteralmente“inghiottito” l’unità navale con tutto l’equipaggio di bordo. I dodici militari risultarono così“dispersi in servizio, nell’adempimento del dovere”. Cosa accadde alla “Locusta”, quella notte, fu oggetto di molte ipotesiForse il natante venne “rovesciato da una raffica impetuosa” e le acque si rinchiusero sull’equipaggio “rifugiatosi sotto coperta per ripararsi dalla burrasca, tranne il capo-timoniere comandante, bloccato anch’esso, ma nella cabina di governo”. Non si poteva neppure escludere che “in quel momento fatale, furono i portelli aperti dell’osteriggio di macchina, a determinare l’allagamento dei locali di bordo”. E come non prendere in considerazione l’eventualità di “ una esplosione delle caldaie esterne, dovuta a un’onda improvvisa”. Supposizioni a parte, resta il fatto che tutte le ricerche e anche l’inchiesta che venne aperta non diedero alcun risultatoAnche i vari tentativi intrapresi nel tempo, basati sulla ricostruzione della rotta e delle posizioni indicate dalle cronache dell’epoca, si sono conclusi senza fortuna e nessun successo. Qausi un secolo dopo, negli anni ’80,  il relitto era stato oggetto di due ricerche: dapprima con il batiscafo dell’esploratore e ingegnere svizzero Jacques Piccard, poi con l’intervento di un’unità della marina militare italiana, guidata da un ammiraglio, con l’intento di recuperare  almeno il natante per esporlo al museo nazionale di Ostia, in quanto unico esemplare rimasto della serie di torpediniere costruite all’epoca. Ma, come già detto, ambedue le immersioni diedero esito negativo poiché il fondale del lago è coperto da grandi depositi di terra e di melma. E anche gli ultimi tentativi non hanno sortito alcunché.  A memoria dei dodici dell’equipaggio della “Locusta” resta il monumento ( un timone sorretto da putrelle di ferro sopra un blocco di pietra con i nomi delle vittime), realizzato  sul Poggio delle Regie Torpediniere, nei pressi del porto militare della Guardia di Finanza a Cannobio. Elio Motella, docente di matematica in pensione, con il suo “Pattuglia senza ritorno”, ha avuto il merito di riportare all’attenzione del pubblico questa vicenda. E di farlo con un libro davvero ben costruito e ancor meglio scritto.

Marco Travaglini

 

Un’altra armonia. Maestri del Rinascimento in Piemonte

Che dire? E’ proprio tutta “un’altra armonia”, per restare al titolo del progetto. Dal 16 dicembre scorso i più grandi nomi del Rinascimento piemontese hanno infatti trovato, al piano terra della Galleria Sabauda di piazzetta Reale a Torino, un nuovo, meno dispersivo e dunque meglio fruibile allestimento permanente: uno spazio di 380 metri quadri loro dedicato e destinato ad ospitare circa cinquanta opere, fra dipinti polittici sculture libri miniati e pale d’altare, che raccontano un momento fondamentale e di grande apertura alle novità più “esterne” – dalle influenze pittoriche dell’Italia centrale fino a quelle d’oltralpe o di matrice fiamminga- della storia dell’arte in Piemonte dalla metà del ‘300 fino all’avvento del Manierismo. Si tratta di una svolta importante per il complesso museale torinese, in un momento particolarmente florido che nel corso del 2017 ha registrato il 20,5% in più di visitatori (pari a circa un + 50mila) rispetto all’anno precedente. “Adesso i Musei Reali di Torino – sottolinea la direttrice Enrica Pagellahanno superato la prima fase. Sono state riaperte porte, riallacciati rapporti, è stato dato un nuovo nome e una identità visiva unica. C’è ancora molto da fare, ma stiamo lavorando per rendere i nostri Musei più accessibili, innovativi e inclusivi, perché credo che possiamo giocare alla pari con le grandi istituzioni museali internazionali”. Sono nove le sezioni in cui si articola il nuovo percorso espositivo, la maggior parte completata da una parte multimediale e interattiva, di cui quattro quelle monografiche, dedicate a singoli Maestri del tempo. A partire da Giovanni Martino Spanzotti (Casale Monferrato, circa 1455 – Chivasso, ante 1598) cui dobbiamo la monumentale parete affrescata con i cicli della “Vita di Cristo” nella Chiesa di San Bernardino ad Ivrea, per passare al suo allievo e collaboratore (certa la collaborazione dei due nella realizzazione, fra il 1502 e il 1510, del “Polittico della Compagnia dei Calzolai” e del “Battesimo di Gesù” conservati nel Duomo di Torino) Defendente Ferrari (Chivasso, 1480/1485 – dopo il 12 novembre 1540) nelle cui opere appare ancor più marcato il gusto al preziosismo decorativo e l’indubbia attrazione verso quella pittura fiamminga che tanto aveva affascinato il suo maestro nei periodi del soggiorno milanese accompagnata alla preziosa lezione architettonica del Bramante e del Bramantino, non meno che a quella di Vincenzo Foppa e del borgognone, attivo anch’egli e parecchio in Piemonte, Antoine de Lonhy. Le altre due sezioni rendono invece omaggio a Gaudenzio Ferrari (Valduggia, circa 1475 – Milano, 1546), pittore scultore e musicista, certamente il più colto e noto artista rinascimentale piemontese, considerato il Raffaello del Nord, e a Macrino d’Alba, pseudonimo di Gian Giacomo de Alladio (Alba, 1460/1465 – circa 1520), studioso a Roma della pittura toscana e umbra (Luca Signoretti e il Perugino) e forse allievo del Pinturicchio per certe affinità stilistiche legate al gusto del colore acceso così come alla forte attrazione per le ardite architetture rinascimentali nonché per i paesaggi ricchi di ruderi e antiche rovine romane. Le rimanenti cinque sezioni tematiche documentano invece, in un più vasto insieme, alcuni tratti pittorico-stilistici accomunabili in specifiche esperienze operative nonché esempi di vita e di costume artistico propri del periodo. Ecco allora l’obiettivo puntato sull’“Eleganza gotica” fatta di ridondanti cromie e abbondante uso dell’oro, cui guardano i vari Francesco Filiberti (con la sua “Madonna in trono con Bambino”, terracotta con tracce policrome), così come Barnaba da Modena o Giacomo Pitterio con le loro raffinate tempere e oro su tavola; a seguire l’attenzione si concentra sugli “Altari del Piemonte” ( con i “Polittici” a più scomparti, molto comuni nelle chiese piemontesi fino a tutto il ‘500) per poi passare agli “Eccentrici”, di cui il belga (ma attivo a Casale dal 1521) Pietro Grammorseo è uno dei principali esponenti, con le sue opere dalla “creatività mutevole e inquieta” in cui esperienze fiamminghe mirabilmente si fondono con motivi propri del figurativismo piemontese e con suggestivi influssi leonardeschi. All’“Organizzazione della bottega” e al “Manierismo” guardano infine le ultime due sezioni. Fiorente bottega in Vercelli fu, nella prima metà del ‘500, quella di Gerolamo Giovenone; in essa lavorò anche il genero (nativo di Mortara, ma diventato il principale artista sulla scena vercellese) Bernardino Lanino. Con quest’ultimo, soprattutto, si chiude in Piemonte il capitolo dell’alto Rinascimento, fondendosi con le peculiarità del nascente Barocco in un processo di decorativismo manieristico, per il quale i modelli di Raffaello e Leonardo diventano sempre più un riferimento imprescindibile.

 

Gianni Milani

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“Un’altra armonia. Maestri del Rinascimento in Piemonte”

Galleria Sabauda, piazzetta Reale 1, Torino; tel. 011/5211106 – www.museireali.beniculturali.it

Orari: dal mart. alla dom. 8,30-19,30

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– Defendente Ferrari: “Polittico con Madonna che allatta il Bambino”, tempera e oro su tavola, circa 1520

– Gaudenzio Ferrari: “Compianto sul Cristo morto”, olio su tavola, 1535-1540
– Macrino d’Alba: “Madonna con il Bambino in gloria”, tempera su tavola, 1498
– Enrica Pagella, direttrice Musei Reali di Torino
– Un particolare del nuovo allestimento
Crediti fotografici: Daniele Bottallo

La meglio gioventù di Voltolini

STORIE DI CITTA’  di Patrizio Tosetto
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Una  fredda serata, vai in una libreria per la presentazione del libro scritto da Dario Voltolini e ti trovi 45 anni di ricordi che partono dal liceo. E come tutte le strade fatte di ricordi nulla é lineare, fanno mille curve con gli inevitabili sali e scendi . Pacific Palidases . Si leggono coralmente pagine ed inevitabilmente si ricorda cosa eravamo e cosa siamo diventati. Dario mi devi un intervista!
“Assolutamente, dove ci vediamo? Io sono ritornato a vivere in barriera”.  Allora ci si vede in barriera. Facciamo martedì mattina, ore 10 in Largo Brescia….
Aggiudicato. Puntuali come due soldatini. 
Dario, ne è  passato del tempo…
Sì, anche se l’altra sera con le tue battute sembrava che non ne fosse passato cosi tanto.
Dai, bando ai convenevoli, Dario. Che hai fatto dopo la laurea?
Fino al ’94 ho lavorato per Olivetti in équipe di ricerca, scritto qualche libro. Poi la crisi Olivetti mi ha indotto a scrivere ed insegnare.
Dove?
Scuola Holden, nel 2007 sono stato anche direttore didattico. Ogni giorno ne inventavamo una e i ragazzi partecipavano a questa dimensione creativa. Poi ho collaborato con Beatrice Merz, la sua casa editrice e la Fondazione Mario Merz
Il rapporto con la critica?
Ottimo. Annovero pochissime stroncature. Forti quando ci sono ma non fanno male perché rare.
Rapporto con il pubblico.
Questo, diciamolo, è un po’ più complicato. La mia è una scrittura di nicchia. Non scrivo romanzi “con l’assassino”. Scrivo ciò che mi sento.
Hai qualche tecnica particolare?
No, ci penso molto. Questo si, e generalmente incontro il ricordo personale”.
Onirico?
Questo non so….ma ti ripeto, il ricordo é per me molto importante. 
Ritorniamo al rapporto con il pubblico. L’altra sera hai raccontato del Premio Ischia…
Già,  carino. Eravamo all’inizio degli anni ’90 ed un mio libro era finalista al premio Ischia.  Raccontavo della Torino post industriale e del mio ricordo dei colori della nebbia come delle mura di cinta delle fabbriche…Mi piaceva riviverle e ricordarle. La giuria era composta anche da una scolaresca. Una ragazza commentando mi disse: ma allora a lei la nostra isola non piace …non le piace venire qui. Ho sorriso…mi sono schermito ed ho precisato: la vostra isola mi piace tantissimo ed io arrivo semplicemente da Torino.
Posso definire il tuo metodo di scrittura naif?
Assolutamente, ma per scrivere bisogna anche essere capaci di leggere. O perlomeno io ho seguito questo metodo. Un’estate mi sono imposto, riuscendoci, di leggere tutto Alla ricerca del tempo perduto di Proust. 
Tutto? 
Si, tutto, perché  me lo chiedi?
Sei tra i pochi, Dario. E poi mi racconta di altri scrittori contemporanei. Dimostra di non essere invidioso, di saper ascoltare e leggere per sapere scrivere. Tanti piccoli e grandi episodi. Alla fine gli chiedo:  
al liceo eri iscritto a qualche gruppo politico?
Come si diceva allora “cane sciolto” dentro il mare magmatico del movimento.
Stavolta sorrido io:
come in questi ultimi 30 anni?
Forse. Ma la mia libertà è stare dentro un “movimento” conoscendo e cercando di capire.
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Dario fa proprio parte della “meglio gioventù.
Patrizio Tosetto

Corpo e anima. Dall’ombra alla luce

Esce in questi giorni nei cinema italiani “Corpo e anima” di Ildikò Enyedi, sorprendente vincitore dell’ultimo Orso d’Oro del Festival di Berlino, protagonisti Morcsányi Géza e Alexandra Borbély

Endre è il direttore finanziario di un mattatoio bovino non lontano da Budapest. Trascina lungo il fianco sinistro il peso di un braccio paralizzato, impedimento perenne ai normali movimenti quotidiani. Dalla prospettiva angolare di una finestra, il suo sguardo chiaro e buono rivela una pacata ed intima rassegnazione alla solitudine nella quale si è volontariamente rinchiuso. Mária è stata appena assunta come responsabile qualità e si fa immediatamente notare per la scontrosità e il rispetto ferreo delle normative vigenti. Detesta sentire pronunciare il proprio nome, cammina e si veste in maniera goffa, mette in atto rituali compulsivi. Il suo viso pallido, che sembra intagliato nel sapone, ha un’espressione che dichiara resa incondizionata al mondo che la circonda e che pretende da lei una “normalità”. Gli sguardi solitari di Endre e Mária si incrociano sfuggenti allo stesso tavolo della mensa, dove scambiano appena qualche parola, un abbozzo di conversazione che si interrompe dopo poche battute. Nella quiete serale della propria abitazione la ragazza ricostruisce le relazioni che è riuscita a stabilire durante il giorno, avvalendosi di pupazzetti e mettendo in scena il proprio vissuto, mescolandolo alle proprie fantasie.

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Nel corso di un colloquio che si svolge a seguito di un furto avvenuto nel laboratorio aziendale, una psicologa scopre che Mária ed Endre condividono lo stesso sogno. Sono due cervi, maschio e femmina, immersi in un paesaggio invernale silenzioso e confortevole: si aggirano liberi nel bosco, si osservano da lontano, separati da un piccolo lago. L’unico contatto tra i due è rappresentato da un lieve sfregamento dei nasi. La psicologa, una giovane donna impaziente e superficiale, pensa a uno scherzo e archivia rapidamente la questione. Endre e Mária, invece, vincono il pudore e appurano l’effettiva autenticità di questa particolare condivisione. Freud sosteneva che i sogni possono rivelare istinti, bisogni, desideri profondi. Per quanto siano dunque entrambi perplessi, titubanti, anche spaventati, la bellezza e la pace evocati dalla dimensione onirica del loro incontro esortano l’uomo e la donna a un avvicinamento reale, tanto irresistibile quanto problematico. Appaiono, infatti, rigidi, bloccati, nel corpo come nell’anima. Lui è prigioniero di un fisico menomato che non l’asseconda, anzi lo limita nei movimenti rendendoli goffi, inadeguati, e ciò si riflette nell’architettura della sua psiche; lei è ferma a una fase infantile dello sviluppo psichico (frequenta uno psicologo infantile), ha rimosso dall’anima emozioni e sentimenti, rendendosi quasi del tutto inabile alle relazioni umane. Nel sogno che continuano sorprendentemente a condividere, Endre e Mária ritrovano la propria integrità fisica e psicologica, quella completezza che manca loro durante il giorno. L’incanto intangibile che pervade le immagini oniriche fa da contrasto alle procedure ripugnanti di macellazione e di lavorazione industriale dei bovini.

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Occorre necessariamente rimettere insieme tutti questi frammenti dispersi di corpo e di anima, recuperare la percezione delle emozioni, attribuendo loro un significato da connettere al senso della propria esistenza. Solo in questo modo si può cercare di (ri)costruire, faticosamente, l’unità funzionale di soma e psiche. La riconquista della corporeità personale rappresenta la premessa al progressivo cedimento delle barriere che si interponevano tra loro, il preludio di un graduale avvicinamento fisico e psicoaffettivo. Il processo non può essere lineare, le difficoltà che, inevitabilmente, si frappongono lo rallentano, lo ostacolano, rischiano di spezzarlo. Endre e Mária hanno, però, riallineato i rispettivi piani inclinati su cui avanzavano e teso le mani alla ricerca di un possibile legame. L’ultima inquadratura è dedicata al paesaggio invernale del sogno, ora disabitato, che svanisce in una lenta dissolvenza in bianco. Dall’ombra alla luce. Il sogno ha esaurito la funzione descritta da Freud, quella di appagare un desiderio rimosso. Si tratta ora di spostare quel desiderio, divenuto consapevole, sul piano della realtà. Si tratta ora di vivere. Almeno di provarci.

Paolo Maria Iraldi

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Corpo e Anima (A teströl és a lélekröl), di Ildikò Enyedi, con Alexandra Borbély, Géza Morcsányi (Ungheria, 2017, 116’). In programmazione al Cinema Classico di Torino.

Il visitatore di Agatha Christie arriva nella casa alla ricerca dell’assassino

Grande ricamatrice di plot e di intrighi, di dialoghi sottili e di psicologie dentro cui scavare con il bisturi più affilato, Agatha Christie scrisse L’ospite inatteso nel 1958, non traendolo come in tante occasioni da uno dei suoi racconti ma confezionandolo direttamente per il palcoscenico. Un eccellente thriller, con un eccellente inizio. In una di quelle nere notti come solo la campagna inglese può partorire con il buio e i suoi silenzi attraversati soltanto da qualche latrato, un uomo entra all’improvviso in una casa, in cerca di aiuto, a seguito di un incidente che gli ha fatto abbandonare l’auto in un fosso. Entra e alla poca luce di una pila scorge un uomo che immediatamente si rivela vittima di un omicidio, un colpo sparato alla nuca, e accanto a lui la moglie, con una pistola in mano. Pronta ad accusarsi della morte del marito. Come in certi film hitchcockiani, tutto è – o parrebbe – sin troppo chiaro fin dall’inizio. Tutto già definitivo. Sta all’autore rimescolare le carte, dare nulla per scontato, confondere con successo ed emozioni la mente dello spettatore, creare sospetti robusti per abbandonarli o rinfocolarli lungo gli sviluppi del dramma, accentuarli o abbozzarli in un crescendo di situazioni e di dialoghi eccezionalmente efficaci. E costruire soprattutto un alternarsi di fattori che lascino intravedere quante ombre presenti l’innocente e quanti spiragli possano aprirsi dietro il comportamento di un presunto colpevole. E sappiamo in questo quanto fosse brava la nostra giallista. La vittima aveva conti aperti con parecchia gente, si divertiva a sparare ai gatti la notte, era un buon bevitore e per quell’incidente che lo aveva messo su di una carrozzina e aveva procurato la morte di un bambino, non sentiva alcun rimorso.

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Anche lo sconosciuto visitatore vuole inspiegabilmente tirare fuori dai guai la giovane donna, forse perché una bellezza simile non può ritrovarsi sotto processo e finire certamente condannata, l’importante per ora è costruire indizi che possano sviare le indagini. Non nascondendo che la donna, in apparenza legata al marito, coltiva una relazione con un amico di lui e per tacere della vecchia madre che tutto sembra dirigere, del fratellastro con un cervello che fa un po’ acqua, dell’infermiere che al momento buono è pronto al ricatto per quel che ha visto quella notte, della governante che sfugge ad ogni certezza. Andrea Borini, mettendo in scena il testo all’Astra, nuova produzione della Fondazione Teatro Piemonte Europa per la traduzione di Edoardo Erba, svolge con credibilità il proprio compito di srotolare sospetti, insinuazioni, sconcerti, e di comporre un valido discorso teatrale. Quel che personalmente sconcerta è quella strada verso il (preteso) versante comico, superfluo, purtroppo irresponsabile, quel vizio di sgonfiare certi personaggi per renderli delle macchiette, quel dar spazio a balletti tragicomici, quasi a voler alleggerire (ma perché?) una tensione che dovrebbe conservare al contrario il suo effettivo peso. Oppure a peccare di esplicazioni visive fuori luogo, quando si sente in dovere di illustrarci la dinamica dell’incidente attraverso certe ombre cinesi che passano su di una tenda inverosimilmente tirata lì su due piedi. Ne risentono anche certe interpretazioni, quelle più mollicce (gli investigatori con gesti e battute e strani movimenti) che vogliono proprio strappare la risata, o quelle risultate meno a fuoco (la Laura di Daria Pascal Attolini – caricata anche di uno squinternato costume – o il maggiore Farrar di Alessandro Meringolo o la governante sbiaditamente sulle spalle di Silvia Iannazzo). Di un gradino più sopra dei compagni, Giuseppe Nitti è lo schizzato fratellastro amante di ogni arma da fuoco, Gisella Bein una granitica madre, Andrea Romero un subdolo ricattatore e Stefano Moretti gioca con puntualità il suo ruolo di visitatore che regge tra le mani i fili di ogni altro personaggio.

 

Elio Rabbione