CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 568

Galasso, un napoletano che guardava al Risorgimento e all’Europa

di Pier Franco Quaglieni

Con la morte di Giuseppe Galasso si è chiusa l’età dei grandi storici italiani. Era uno studioso di livello europeo, profondamente radicato nella sua Napoli ed impegnato sul terreno di un meridionalismo alto che riprendeva gli ideali di Guido Dorso rivivendolo in una temperie politico – culturale totalmente cambiata .Era stato partecipe dell’avventura di “Nord e Sud” di Francesco Compagna e Vittorio De Caprariis. Fu nella redazione di quella nobile rivista che lo conobbi negli Anni Settanta del Novecento sull’onda del ricordo di Mario Pannunzio, che per Galasso rappresentava una delle lezioni morali e politiche più importanti . L’ultimo articolo che ha pubblicato pochi giorni prima della morte fu quello dedicato a Pannunzio a 50 anni dalla sua morte. Gli telefonai per complimentarmi con lui che era riuscito a storicizzare la figura di Pannunzio, andando oltre le celebrazioni acritiche e le polemiche contingenti in cui si è impelagato Eugenio Scalfari. Fu generoso con me e mi disse che aveva letto e apprezzato il mio articolo su Pannunzio per il suo “taglio innovativo”. Mi disse che , pur essendomi occupato per quasi 50 anni dell’argomento, avevo saputo dare un taglio distaccato. Concordò con me sul fatto che Pannunzio non aveva avuto un biografo adeguato. Una telefonata di pochi minuti, l’ultima tra tante. Ma soprattutto la nostra frequentazione era avvenuta a Palazzo Filomarino, dove abitava Alda Croce e dove ha sede l’istituto italiano di studi storici in cui Galasso si era formato alla scuola di Federico Chabod, come accadde a Rosario Romeo e Renzo De Felice. Una volta gli proposi di succedere ad Alda Croce alla presidenza del Centro “Pannunzio”,lui ringraziò ma mi disse che spostarsi a Torino di frequente era per lui troppo disagevole. Nel suo ricordo di Alda Croce nel 2009 al momento della sua morte omise di ricordare che era stata Presidente del Centro “Pannunzio”,ma quando lo chiamai per farglielo notare, mi chiede scusa e mi disse che aveva dovuto scrivere il pezzo in pochissimo tempo. Un tratto essenziale, fondamentale di Galasso è che fu anche attivo politicamente: fu deputato repubblicano per tre legislature e sottosegretario di Stato ai beni culturali.

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Fu l’artefice dei primi provvedimenti seri a tutela del paessaggio con la legge che porta il suo nome e che va oltre la legge Bottai del 1939. Giovanni Spadolini ,dal momento in cui si dedicò alla politica, pose definitivamente fine alla sua ricerca storica .Galasso invece seppe coniugare politica e attività scientifica, senza mai lasciarsi condizionare dal suo agire politico. Non si sentì mai un intellettuale “prestato” alla politica perché si dedicò ad essa in modo appassionato,specie dopo la morte di Francesco Compagna da cui ereditò il seggio parlamentare a Napoli. Ma non si lasciò mai travolgere dalla politica mantenendo la sua fisionomia di studioso. La Legge Galasso ne è testimonianza e la sua presidenza della Biennale di Venezia dal 1978 al 1983 ( anni molto difficili per il clima politico del nostro Paese) e’ la dimostrazione di questa straordinaria capacità di vivere l’endiadi cultura e politica senza mai far prevalere l’una sull’ altra. Aveva una concezione profondamente laica, ma rispettosa delle fedi religiose. Era molto diverso dal laicismo molto radicato di Gennaro Sasso ,studioso come lui dell’opera di Benedetto Croce a cui si sentì molto legato. Aveva iniziato come storico ad occuparsi dell’età moderna per poi rivolgersi alla storia medievale e al Risorgimento. Su quest’ultimo tema aveva difeso, lui napoletano, come Croce, Omodeo, De Felice le ragioni dell’unificazione italiana contro le demonizzazioni marxiste ,le nostalgie neo borboniche e le volgarità leghiste. Quando seppe che un comico prestato alla politica voleva istituire un’ ennesima giornata della memoria in ricordo delle vittime del Risorgimento in occasione dell’ anniversario della presa di Gaeta, ebbe un sussulto. Gli lessi un articolo scritto a quattro mani con Dino Cofrancesco contro l’ assurda proposta, che venne presa in considerazione solo dal Consiglio regionale pugliese e mi confidò che Narciso Nada ,storico torinese del Risorgimento con cui avevo studiato all’Università, si sarebbe sentito orgoglioso di me. Anche questa volta rimasi colpito dalla sua generosità .Lui repubblicano seppe valutare positivamente il ruolo della Monarchia nel Risorgimento e considerare l’attaccamento sincero della gente del Sud alla dinastia sabauda dimostrata nel secondo dopoguerra. Era molto rammaricato dal fatto che le cattedre di Storia del Risorgimento venissero sostituite da quelle di Storia risorgimentale ed era amareggiato per la fine non bella degli Istituti per la Storia del Risorgimento, << ormai in stato comatoso e finiti in mano a persone inadeguate>>.

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Nel 2011 andammo insieme a Roma al Museo centrale del Risorgimento del Vittoriano e constatammo insieme la sua inadeguatezza. Aveva invece molto apprezzato quello nazionale di Torino così come lo aveva concepito Umberto Levra che <<aveva avuto il coraggio di eliminare la sala delle bandiere del movimento operaio e sindacale inaugurata da Pertini e che non c’entrava nulla con il Risorgimento>> Negli anni Settanta venne nell’Aula Magna dell’Università di Torino a presentare un suo libro sul Mezzogiorno. Era un’iniziativa del Centro “Pannunzio” .L’Aula era ormai quasi piena ed era già arrivato il sociologo Filippo Barbano che era, insieme a Giorgio La Malfa, il presentatore del libro. Un “proconsole” torinese di La Malfa arrivò trafelato annunciando che il deputato non sarebbe venuto e che chiedeva a Galasso di rinviare ad altra data la presentazione .Fu una grave umiliazione e un atto di suprema arroganza. L’autore non proferì parola e dovette subire. Erano episodi che rivelarono fin dall’inizio la decadenza del partito repubblicano torinese. Anni dopo gli ricordai a Napoli quel lontano episodio e mi rispose con eleganza superiore che non valeva la pena di ricordarlo. Ricordare la sua vastissima opera storica diventa impossibile nei limiti che ci siamo posti. Un capolavoro appare la sua “storia di Napoli” ,come già era accaduto per Croce. Galasso si era anche occupato di storiografia e di metodo storico, come aveva fatto Chabod. Mise in evidenza i limiti di una storiografia basata sull’ideologia e anche quelli dei celebrati “Annales” francesi, evidenziando come ingiustamente gli storici italiani siano stati poco considerati a livello internazionale, sia a causa del fascismo sia a causa della prevalenza della lingua inglese. La grande storiografia italiana invece andava valutata in tutta la sua importanza, da Gioacchino Volpe ( del quale evidenziava la grandezza per troppo tempo messa in discussione per ragioni politiche ) ad Omodeo, da Chabod a Giorgio Falco, da Arnaldo Momigliano a Delio Cantimori, seguiti da Walter Maturi,Franco Venturi, Rosario Romeo e Renzo De Felice. In questa galleria di grandi storici la cui ricerca era finalizzata all’unico scopo di indagare la verità storica, l’ultimo in ordine di tempo non certo di importanza, che trova posto è proprio Giuseppe Galasso, la figura più autorevole della cultura napoletana che seppe essere cosmopolita, europeo e nazionale. In Galasso vibrava la tradizione in lui sempre viva di Francesco De Sanctis.

 

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“DESAPARECIDOS#43″ con gli Instabili Vaganti

Lo spettacolo ricorda la drammatica vicenda dei 43 studenti di Ayotzinapa scomparsi a Iguala, in Messico nel 2014

Sabato 24 e domenica 25 febbraio, al POLO DEL ‘900 in via del Carmine 14 a Torino, la compagnia teatrale “Instabili Vaganti” presenterà “DESAPARECIDOS#43 | Acción Global por Ayotzinapa”. L’appuntamento, per entrambe le serate, è alle 21.oo. In scena Anna Dora Dorno, Nicola Pianzola, Armida Pieretti. La regia è a cura di Anna Dora Dorno e le musiche originali sono di Alberto Novello JesterN, Eyky RAP, Yeudiel Infante. La drammaturgia originale è firmata da Nicola Pianzola e Anna Dora Dorno. Oggetti di scena e cura dello spazio scenico Luana Filippi con i contenuti fotografici video di Giuia Iacolutti. Lo spettacolo è patrocinato da Amnesty International – Italia ed è candidato alla 16° edizione del Premio Museo Cervi – Teatro per la memoria. Con “DESAPARECIDOS#43” la compagnia Instabili Vaganti intende dar voce alla drammatica vicenda dei 43 studenti di Ayotzinapa scomparsi a Iguala, in Messico, il 26 settembre del 2014. Lo fa partendo dalla propria ricerca ed esperienza di lavoro in Messico, Uruguay e Argentina e dalle testimonianze e dai racconti degli studenti e artisti coinvolti nella fase messicana del progetto internazionale “Megalopolis”,  ideato e diretto dalla compagnia. Una drammaturgia originale, bilingue, fatta non solo di parole ma anche di azioni fisiche, suoni, canti, immagini che mettono insieme più voci, quelle stesse voci che ancora oggi si uniscono al grido “Todos somos Ayotzinapa!”. Un grido di rabbia e di richiesta di giustizia  che continua ad animare le piazze delle città messicane e di tutto il mondo, che rimarrà nei graffiti metropolitani e che si è diffuso attraverso la rete. Instabili Vaganti propongono una performance forte, un atto di protesta che si unisce alle azioni dal basso, che sono diventate globali attraverso i social networks, oltrepassando censure e barriere. “DESAPARECIDOS#43” è anche un inno alla speranza che fa nascere da mucchi di vestiti insanguinati delicati fiori rossi: “Volevano seppellirci ma non sapevano che eravamo semi”. Uno spettacolo di teatro d’impegno civile “emozionale” che riprende la stessa innovativa metodologia di lavoro usata per “MADE IN ILVA”, opera cult della compagnia, pluripremiata a livello internazionale, trasformando interviste, dati e informazioni di denuncia in azioni fisiche, immagini ed emozioni capaci di suscitare una reazione immediata in chi guarda. Fondata nel 2004 dalla regista e attrice Anna Dora Dorno e dall’attore Nicola Pianzola, “Instabili Vaganti” si caratterizza per il suo lavoro di ricerca e sperimentazione nel teatro fisico e contemporaneo e per l’internazionalità dei suoi progetti. Instabili Vaganti opera nella creazione e produzione di spettacoli e performance, nella direzione di progetti, workshop e percorsi di alta formazione nelle arti performative a livello internazionale, svolgendo un continuo lavoro di ricerca sull’arte dell’attore.

M.Tr.

Da Piffetti a Ladatte

Dieci anni di acquisizioni alla Fondazione

 

La Fondazione Accorsi-Ometto, dopo una serie di esposizioni dedicate alla pittura italiana, torna a proporre una mostra sulle arti decorative, questa volta incentrata sulle acquisizioni fatte per incrementare le collezioni permanenti del museo. L’esposizione, curata da Giulio Ometto, Presidente della Fondazione e da Luca Mana, conservatore del Museo, consente, quindi, di ammirare un centinaio di pezzi, tra gli oltre duecentocinquanta acquistati negli ultimi dieci anni. Tra questi, è stato possibile il recupero di capolavori senza tempo, finiti all’estero e riportati a Torino, come il cofano-forte di Pietro Piffetti e le tre sculture in terracotta di Francesco Ladatte, raffiguranti le Allegorie dell’Autunno e dell’Inverno e Il Trionfo della Virtù. Ogni singolo pezzo è stato selezionato, perseguendo una personalissima passione per il bello e per gli oggetti preziosi. Ne sono un esempio: gli incantevoli mobili intarsiati in avorio di Pietro Piffetti; la scrivania “mazzarina” dell’inizio del XVIII secolo, con il monogramma “VA”; la Venditrice di Amorini in biscuit di Meissen; le miniature francesi che ritraggono eleganti gentiluomini e nobildonne del XIX secolo;  i ritratti dei Savoia realizzati da Giovanni Panealbo e da Louis Michel Van Loo o ancora i raffinati oggetti montati su bronzo dorato con porcellane della manifattura Vincennes e della dinastia Qing. I mobili, i dipinti, gli argenti e tutte le opere esposte in mostra rappresentano, pertanto, un omaggio incondizionato alle arti decorative e rendono il museo un’istituzione in continuo divenire.

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Museo Accorsi-Ometto 16 febbraio – 3 giugno 2018

Al Superga arriva “Cats”

 

Al Teatro Superga torna a grande richiesta il musical con un titolo leggendario: “Cats” dal 16 al 18 febbraio per tre repliche della versione italiana con atmosfere e costumi steampunk, accettata e apprezzata dal suo creatore, A.L. Webber.

Trenta giovani performers, cantanti e ballerini, un’orchestra di ventuno musicisti e un folto gruppo organizzativo di più di venti persone sono i componenti della compagnia Operà Populaire in questa originale e affidabile versione di “Cats”, uno dei capolavori nella storia del musical. Il Direttore artistico della compagnia, Stefano Mapelli, dopo uno studio approfondito dell’opera, ha proposto alla “The Really Useful Group Ltd”, editore di “Cats”, una diversa ambientazione, accolta con entusiasmo nel 2016 dalla casa di produzione di A.L.Webber. Questa nuova rilettura steampunk ambienta la celebrazione della notte dei Gatti Jellicle nell’età vittoriana di fine ‘800, sul tetto di una vecchia stazione ferroviaria abbandonata, rispetto alla versione classica in stile punk glamour ambientata in una discarica. “Cats”, composto nel 1981 dal talento di Webber, è una vera e propria leggenda del musical, sia per numero di spettatori, che per longevità; secondo Operà Populaire la rilettura steampunk era insita nella storia raccontata, secondo le tendenze di costume odierne nel mondo teatrale, filmografico e fumettistico. Lo steampunk è un filone della narrativa fantastica-fantascientifica che descrive un mondo anacronistico, in cui la forza motrice del vapore (steam in inglese) aziona le macchine e le strumentazioni, permeando ogni aspetto della vita, l’estetica, le abitudini e i modi di fare. L’energia elettrica torna a essere, come nella fantascienza ottocentesca, un elemento narrativo capace di ogni progresso e meraviglia. Dunque i “Gatti” di Operà Populaire vestiranno questi panni, immersi nella magica atmosfera steampunk in una grande storia di emarginazione che si trasformerà in integrazione.

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Teatro Superga

 

CATS

Musica Andrew Lloyd Webber
Tratto dal libro “Old Possum’s Book of Practical Cats” di T.S. Eliot
Traduzione italiana di Michele Renzullo, Saverio Marconi, Franco Travaglio
Coreografie Valentina Sala
Coordinamento orchestrale Sergio Sala
Costume designer Stefania Pisano
Make-up designer Giulia Giorgi
Materiale Aggiunto “Prologue – Jellicle Songs for Jellicle Cats”
Scritto da Trevor Nunn e Richard Stilgo e “Memory” scritto da Trevo Nunn
Regia e direzione musicale Stefano Mapelli
Produzione Operà Populaire

cantato in italiano con orchestra

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Biglietti: platea 33 € – platea ridotto 31 € | galleria 27 € – galleria ridotto 24,5 € | riduzioni per under12 e over65

Informazioni e prevendite biglietti: Teatro Superga, Via Superga 44 – Nichelino (To)
Biglietteria: dal lunedì al venerdì dalle ore 15 alle ore 19, sabato 17/2 dalle ore 18 e domenica 18/2 dalle ore 15 Prenotazioni: biglietteria@teatrosuperga.it | 011.6279789

Acquisto online su www.teatrosuperga.it e prevendite abituali del Circuito Ticketone

 

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PRIMO ATTO

Mezzanotte. Un’esplosione di musica e luci illumina il tetto di una vecchia stazione abbandonata di epoca vittoriana sullo sfondo di una Londra notturna. Questa è la notte speciale in cui, ogni anno, la tribù dei gatti Jellicle si riunisce per celebrare la propria identità. Sono gatti fieri e orgogliosi e si presentano al pubblico raccontando delle loro incredibili doti. I gatti sanno cantare, ballare, fare acrobazie… Si svela il segreto dei tre nomi dei gatti: il primo è il nome comune, il secondo è speciale, può appartenere solo ad un gatto alla volta. Il terzo nome è quello che solo il gatto stesso sa e nessun uomo potrà mai indovinare. I gatti aspettano il loro Leader, il saggio Old Deuteronomy, che sceglierà chi tra loro ascenderà al Dolce Aldilà, il mondo spirituale in cui i gatti possono reincarnarsi in una nuova vita Jellicle. Jennyanydots è la prima gatta a presentarsi, una gatta tranquilla e pacifica durante il giorno, ma estremamente attiva la notte, quando insegna musica e uncinetto ai topolini e trasforma gli scarafaggi in validi boy-scout. Rum Tum Tugger è un gatto viziato e dispettoso che riscuote uno straordinario successo tra le gatte della tribù e adora essere al centro dell’attenzione. Grizabella è una gatta con un passato glorioso. Un tempo star idolatrata tanto da rinnegare la sua tribù di gatti Jellicle ritorna e, pentita, chiede di essere riaccolta nella diffidenza generale di tutti gli altri gatti. Demetra e Bombalurina la derideranno invitando tutta la tribù a fare lo stesso. Bustopher Jones è il gatto dell’alta società, un gatto ghiottone dalla stazza imponente che conosce tutti i luoghi più raffinati dove consumare un ottimo pasto. All’improvviso un tuono: Macavity è nei paraggi! I gatti abbandonano in fretta la discarica, lasciando il palcoscenico completamente vuoto. Mungojerrie e Rumpelteazer sono una coppia di gatti ladri e buontemponi che adora fare scherzi e finisce sempre nei guai. La tribù rientra in scena per accogliere il saggio e benevolo capo Old Deuteronomy, amato e rispettato da tutti. È giunto il momento del grande Ballo Jellicle, la grande danza annuale alla quale partecipano tutti i gatti. Torna Grizabella, desiderosa di ricongiungersi alla sua famiglia e partecipare ai festeggiamenti; cerca un contatto ma viene ripudiata da tutti. Ricorda con goffi movimenti i suoi momenti da grande star e la sua situazione odierna.

 

SECONDO ATTO

Dopo il Ballo Jellicle, i gatti si riposano e Old Deuteronomy li intrattiene con riflessioni profonde e toccanti sulla felicità. Jemima, malinconica e ispirata, richiama l’aria cantata da Grizabella e il valore del ricordo, avvicinandosi così per la prima volta musicalmente alla vecchia gatta. Gus è il Gatto del Teatro. Un anziano attore che ha lavorato con i più grandi attori dei suoi tempi; ricorda i suoi maggiori successi, bramando di poter recitare ancora. Gus rivive una delle sue memorabili interpretazioni: il malvagio Pirata Growltiger, catturato e condannato a morte da una banda di Siamesi mentre era in compagnia della sua amata Griddelbone. Skimbleshanks, il Gatto Ferroviere, si presenta al pubblico. Si occupa personalmente dei treni su cui viaggia, assicurandosi che ogni dettaglio sia perfetto. Un fragoroso temporale interrompe i festeggiamenti, inquietanti rumori spaventano la tribù: è arrivato Macavity, il gatto malvagio: lui e i suoi tirapiedi rapiscono Old Deuteronomy. Demetra e Bombalurina cantano ciò che sanno del gatto malvagio; le sue cattive azioni gli sono valse il soprannome di “Napoleone del crimine”. Macavity rientra poi in scena coperto per non farsi riconoscere ma viene smascherato e combatte contro Admetus e gli altri maschi. Sfinito e ormai sconfitto, provoca magicamente una violenta scarica di fulmini dal cielo lasciando il tetto illuminato solo dal grande orologio. Old Deuteronomy non si trova più. Rum Tum Tugger si rivolge a Mr Mistoffelees e gli chiede di utilizzare i suoi poteri magici per ritrovare il buon Old Deuteronomy. Mistoffelees riesce a riportare luce e a far riapparire Old Deuteronomy. È arrivato il momento di nominare il prescelto tra i Jellicle, il gatto che rinascerà in una nuova vita. Ed ecco che Grizabella cerca di spiegare alla tribù tutto il suo dolore. Commossa e riaccolta nel gruppo, viene scelta: sarà proprio lei a ricevere la possibilità di ascendere al Dolce Aldilà. Nel finale Old Deuteronomy ricorda agli spettatori umani come sia opportuno trattare i gatti: con grande rispetto. Prima che un gatto ti conceda la sua fiducia ricorda, dovrai meritartela…

Applausi al Teatro di Caselette per Recital

Uno strepitoso Leonardo Manera si è alternato, sul palcoscenico del Salone Polivalente Cav.Magnetto di Caselette, ad una brillante Claudia Penoni, venerdì 9 febbraio, durante l’attesissimo “Recital”. Lo spettacolo, che ha aperto il ciclo di cinque appuntamenti di “RassegnaT – il teatro è a Caselette”, si è aperto con un momento di improvvisazione che, grazie alla simpatia di Leonardo Manera, ha rotto il ghiaccio, coinvolgendo un incredulo e divertitissimo pubblico. A fine spettacolo, dopo l’attesissimo duo del Cinema Polacco, grazie al quale i due attori sono diventati famosi come coppia a Zelig, il pubblico ha avuto la possibilità di porre domande agli artisti che hanno

risposto con simpatia ed informalità. “Abbiamo venduto l’ultimo biglietto circa una settimana prima dello spettacolo” Afferma con orgoglio Andrea Capogreco, Presidente dell’Associazione Messinscena, che ha organizzato, col patrocinio del Comune di Caselette, “RassegnaT” e prosegue: “Siamo molto contenti che il pubblico, di Caselette, ma anche dei paesi limitrofi, abbia risposto con tanto interesse a questa iniziativa”. Soddisfatto anche il Sindaco di Caselette, Pacifico Banchieri, che ha affermato: “Insieme all’Associazione Messinscena, abbiamo fatto una scommessa molto ambiziosa con questa rassegna e, a quanto pare, l’abbiamo stravinta!”. RassegnaT prosegue con altri quattro spettacoli, alcuni dei quali, vedranno protagoniste grandi personalità del teatro. Il prossimo appuntamento è fissato per il 24 febbraio, con “Due di Cuori”, con Esther Ruggero, Oscar Ferrari e Federica Tripodi. I biglietti saranno in vendita, a partire da mercoledì 15 febbraio, presso il Bar Caffetteria Kiosko, sito in Piazza Cays, a Caselette.

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Per maggiori informazioni www.teatrocaselette.it o visitare la pagina Facebook di Associazione Messinscena.

Un capolavoro ritrovato

IN ESPOSIZIONE ALLA PINACOTECA ALBERTINA DI TORINO, RACCONTA UNO SPACCATO ESEMPLARE DEL GRANDE RINASCIMENTO PIEMONTESE. FINO AL 25 FEBBRAIO

Un dipinto   avvolto nell’oblio per oltre 450 anni, passato misteriosamente di mano in mano in labirintici ghirigori legati al mondo delle committenze e del collezionismo privato e che oggi, finalmente, ritrova – grazie a un mecenatismo virtuoso – una sua dignitosa destinazione e collocazione pubblica. Frutto di un recente ritrovamento e acquisita da Banca Patrimoni Sella & C., che ne ha finanziato anche l’accurato restauro presso il Laboratorio “Radelet” di Torino, “L’Adorazione del Bambino con i Santi Francesco d’Assisi e Antonio da Padova” resterà esposta fino domenica 25 febbraio (l’inaugurazione si è tenuta lo scorso mercoledì 7 febbraio) nella sala dei cartoni gaudenziani della Pinacoteca Albertina, permettendo così ai torinesi di poter ammirare un altro grande capolavoro di quel Rinascimento che rappresentò un momento fondamentale per la storia dell’arte in Piemonte. Dalla metà del Trecento fino all’avvento del Manierismo. La tavola, databile verso la fine degli anni Trenta del Cinquecento, è un’opera matura di Gerolamo Giovenone, nato nel contado di Novara prima del 1490 e morto a Vercelli nel 1555. Artista poco conosciuto dal grande pubblico ma sicuramente fra i protagonisti della pittura piemontese del primo Cinquecento accanto ai vari Giovanni Martino Spanzotti, Defendente e Gaudenzio   Ferrari e al genero Bernardino Lanino (che ne sposò la figlia Dorotea), il Giovenone lavorò prevalentemente in Piemonte ma anche nel milanese, riuscendo ad esprimere, in maniera orgogliosamente personale le cifre stilistiche e i dettami narrativi (la costante del paesaggio sullo sfondo del quadro, ad esempio) del grande Rinascimento italiano.

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Alla Pinacoteca Albertina la sua “Adorazione del Bambino” si confronterà con altre opere della Collezione Albertina normalmente non visibili, accanto ai disegni della bottega dello stesso Giovenone, di Lanino e Gaudenzio Ferrari e ad un’altra bellissima “Madonna con Bambino” realizzata sempre da Giovenone su modello di Raffaello e arrivata in prestito da Palazzo Madama. “Il percorso espositivo alla Pinacoteca Albertina – sottolinea Daniela Magnetti, curatrice dell’evento e direttrice artistica della Banca Patrimoni Sella – è stato concepito come un progressivo avvicinamento all’opera protagonista…In mostra anche i materiali raccolti durante l’indagine diagnostica e il restauro della pala, che rappresentano un apporto prezioso alla comprensione storico-artistica del maestro e della sua bottega”. L’esposizione, inoltre, vuole offrire al pubblico l’occasione di comprendere meglio la funzione e il significato dei “cartoni” cinquecenteschi, parte della ricca collezione donata da re Carlo Alberto alla torinese Accademia di Belle Arti. Dopo Torino, il “capolavoro ritrovato” tornerà a Vercelli, dove dal prossimo 10 marzo guadagnerà la sua definitiva collocazione al Museo Borgogna, la prestigiosa sede che beneficerà del deposito permanente voluto da Banca Patrimoni Sella & C.

Gianni Milani

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“Gerolamo Giovenone. Un capolavoro ritrovato”

Pinacoteca Albertina, via Accademia Albertina 8, Torino, tel. 011/0897370; www.pinacotecalbertina.it

Fino al 25 febbraio

Orari: tutti i giorni 10 – 18; chiuso mercoledì 14 e 21 febbraio

 

Arca Azzurra Teatro, ancora un successo con il testo di Molière

Quanta strada per l’Arca Azzurra. Sono sui palcoscenici dall’inizio degli anni Ottanta, credo una famiglia, dove i padri fondatori non hanno mai avuto il desiderio di scappare e di rifarsi una vita, un nume tutelare e un poeta che ha l’intelligenza di Ugo Chiti, autore e regista – parecchie incursioni nel cinema con premi, a dar man forte all’amico Alessandro benvenuti, a Giovanni Veronesi, a Francesco Nuti, a Matteo Garrone -, la voglia di recitare insieme. Certi titoli, da quegli anni, uno non se li scorda, La provincia di Jimmy e Allegretto… perbene ma non troppo soprattutto, per arrivare a certe riproposte del Decamerone o della Clizia o della Mandragola di Machiavelli, a Benvenuti in casa Gori a 4 bombe in tasca, per non tacere del fatto che anche il grande Shakespeare è stato rivisitato. Certi spettacoli dei piccoli capolavori, i testi presi dalla cronaca come dalla letteratura, l’amalgama perfetto che si era creato, i personaggi inventati, la glorificazione della terra toscana e ben oltre. Fino a domenica sono all’Erba e questa compagnia, se ancora non la conosceste, dovreste davvero andare ad applaudirla. Propongono L’avaro di Molière ed è un piacere riascoltarli. Chiti, da buon deus ex machina si accaparra adattamento, regia, l’intero spazio scenico (un interno grigio pronto a farsi piccolo giardino con le sue belle piante ornamentali, certe porte sghembe che non sarebbero spiaciute ai futuristi) e pure i costumi, questi ultimi in combutta con la veterana Giuliana Colzi, pronta pure a vestire gli abiti e i mantelli della mezzana Frosina: ed è un pezzo da antologia il suo dialogo di donna abituata a maneggiare matrimoni e con la pretesa di ricavarci qualcosa con il protagonista Arpagone. Quanto lo conosce Molière il buon Chiti! Lo conosce così tanto che non gli pesa affatto rigirarselo tra le mani, attualizzarne la lingua e gli ammiccamenti al pubblico, usare la parola con ogni freschezza possibile, vivacizzare oltremodo gli amori contrastati tra le due giovani coppie in scena, i figli vittime di un padre per cui ogni più piccola spesa viene intesa come un capestro e ogni dote da accompagnare al matrimonio un supplizio che lo porta alla tomba, un’agnizione finale che è trattata come un frettoloso sberleffo drammaturgico, inventarsi un prologo e soprattutto un epilogo che quasi annienta lo spilorcio sotto il peso del proprio denaro, forsennatamente raccolto nelle saccocce del suo abito nero. È un giocare continuo sul personaggio principale, i suoi sbalzi d’umore, il terrore che gli si legge in viso al solo pensiero che quel tesoro nascosto nella cassetta sepolta in giardino gli venga sottratto, la sua gioia quando crede d’aver trovato un alleato, il ritratto dell’Egoismo e della Cupidigia. Alessandro Benvenuti, primo attore che non ha bisogno di sgomitare ma che si mette al servizio del regista e della insostituibile bravura dei propri compagni, provoca la risata, usa intelligenza e divertimento, dà l’immagine concreta di quella che è una malattia, occhieggia al pubblico, rumina tra sé e bofonchia giudizi e speranze, si perde quasi con felicità in quelle splendenti monete ritrovate. Della mezzana tratteggiata con grande bravura dalla Colzi s’è detto, come Dimitri Frosali è un perfetto mastro Giacomo e la presenza di Massimo Salvianti riaccompagna alla Commedia dell’Arte. Con le più giovani leve hanno fatto il successo della serata, durante e al termine accompagnata da interminabili applausi.

 

Elio Rabbione

Un turco a Savigliano

Correva l’anno 1483 e a Savigliano un principe turco si divertiva, come se niente fosse, nel carnevale cittadino tra sfilate e balli in maschera. Ma che ci faceva un Turco a Savian in una fredda domenica di febbraio di fine Quattrocento? Chi era costui? Era un principe ottomano che diventò, come d’incanto, il personaggio più importante della città, tra spettacoli e danze nei palazzi nobiliari, cortei carnevaleschi e concerti in piazze e vie del centro storico, sempre circondato da dame smaniose di baciare la mano all’illustre ospite, anche se infedele maomettano e figlio del “più grande e feroce nemico della Cristianità”, quel Maometto II che aveva appena conquistato Costantinopoli. Il Turco, di passaggio a Savigliano, era il principe Zizim, noto anche come Cem o Gem, il più giovane e sfortunato dei rampolli di Mehmet II, che non salirà mai sul trono imperiale perchè sconfitto in battaglia dal fratello Bayazed e che, dopo aver girovagato per l’Europa e l’Italia, alla corte di Papi, sovrani e cavalieri crociati, troverà una morte misteriosa a Napoli. Ma era pur sempre un principe e un poeta e ciò che qui ci interessa ricordare è il suo passaggio in Piemonte, attraverso Cuneo, Savigliano, Torino, fino ad Exilles, sulla strada verso la Francia. Soggiorni brevissimi durante i quali Zizim non fu arrestato in quanto figlio del sultano Conquistatore ma al contrario entrò nelle simpatie dei cuneesi che videro in lui un fiero ribelle anti-ottomano, forse l’ultima speranza di abbattere l’Impero sul Bosforo e riportare in mano cristiana la città di Costantino. Come aspirante al trono imperiale, Zizim restava pur sempre una minaccia per l’impero turco.

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Mamma, li Turchi nella Granda…verrebbe da dire, in un’epoca in cui l’odio verso la Mezzaluna soffiava sull’intera Europa (un po’ come oggi d’altronde, sia da una parte che dall’altra) e si cercava, assai faticosamente, di formare una grande crociata di re e cavalieri che andasse a liberare Costantinopoli, appena trasformata in una capitale imperiale di moschee e minareti. Si chiamava dunque Zizim il nostro bel principe che in realtà pare fosse tutt’altro che bello ma lo sfarzo dei suoi abiti orientali e il suo turbante fasciato di gemme e pietre preziose lo rendevano ugualmente affascinante e simpatico. Forse anche perchè sua madre, una concubina dell’harem del padre, era, probabilmente, una principessa serba. E poi era il figlio del grande sultano Maometto II che il 29 maggio 1453, a suon di cannonate, conquistò la capitale dell’Impero romano d’Oriente. Non era certo facile trovare un principe ottomano che scorazzasse per l’Europa alla fine del Medioevo, sicuro di farla franca e di non finire in qualche buia prigione della penisola a trascorrere il resto della sua vita. Zizim, governatore ottomano di alcune province dell’impero, poeta e scrittore, divenne ben presto un acerrimo rivale della corte sultaniale di Costantinopoli. Stava scappando dal fratello Bayazed che, alla morte del padre, era sul punto di salire al vertice dell’Impero come nuovo sultano ma doveva sbarazzarsi del fratello Zizim che pretendeva di essere il legittimo successore del sultano in quanto nato quando suo padre era già sul trono mentre Bayazed nacque prima della sua scalata al potere. Vinto in due battaglie dal fratello maggiore e ben consapevole di rimetterci la testa in caso di cattura, il principe Zizim fuggì in Egitto ma non trovò l’appoggio dei governanti mamelucchi. Lasciò la famiglia sulle rive del Nilo e partì per l’isola di Rodi dove ricevette accoglienza e sostegno politico da parte dei Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, i futuri Cavalieri di Malta.

 

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Il “prigioniero” Zizim divenne un prezioso alleato dei cristiani europei nella lotta contro l’inarrestabile espansione degli Ottomani, da usare, se necessario, contro il nuovo sultano. L’ospitalità a Rodi fu favolosa. Fu accolto dai Cavalieri di San Giovanni come se fosse un monarca mentre tutta la città era in festa con le strade affollate di cittadini, marinai e pescatori e con i balconi affollati da rodioti che volevano vedere il figlio del sultano che aveva cercato di distruggere la loro città. Zizim fu ospite del Gran Maestro dei Cavalieri di Rodi Pierre d’Aubusson che invece di tenerlo in prigione lo invitò a feste e banchetti con musica, donne e vino in abbondanza. Era un principe libero sull’isola ma costantemente sorvegliato dai Cavalieri. Per eliminare i suoi oppositori nascosti all’estero, Bayazed II (sultano dal 1481 al 1512) sguinzagliava i suoi 007 che si infiltravano nelle città nemiche senza troppi ostacoli. Avrebbe potuto assediare Rodi in qualsiasi momento ma l’isola, pur strategicamente importante, poteva aspettare il suo turno. Non solo, ma promise di far la pace con i Cavalieri, a condizione che tenessero sempre sotto custodia Zizim, sia a Rodi che in altre città europee. A tal proposito il sultano firmò un accordo con il Gran Maestro d’Aubusson impegnandosi a pagare una somma annua di 45.000 ducati all’Ordine di San Giovanni per tenere Zizim prigioniero e per evitare di trovarselo magari al comando di un’armata europea diretta contro di lui. Ma le spie turche infestavano il Mediterraneo e il Gran Maestro decise di inviare Zizim in esilio in Francia. Sbarcò a Nizza nel settembre 1482 ma una terribile pestilenza aveva decimato la popolazione, quindi Zizim proseguì la sua cavalcata fino a Cuneo dove giunse l’8 febbraio 1483 e poi a Savigliano il giorno successivo, nell’ ultima domenica di carnevale. L’ingresso in città fu trionfale. Scortato da un centinaio di uomini a cavallo tra cui quaranta devoti cavalieri turchi fu accolto dalle autorità comunali come un vero principe e, in suo onore, fu organizzata, come scrivono gli storici ottocenteschi Carlo Novellis e Casimiro Turletti nelle loro poderose Storie di Savigliano, “una magnifica festa da ballo in maschera e un concerto musicale sotto l’ampio portico di Emanuele Tapparelli illuminato sontuosamente per una splendida e capricciosa serata”. E le danze cominciarono… “Strano ricevimento per un Turco! Fu egli posto a sedere, con un vestito ricco e abbagliante, sopra una specie di trono frammezzo alle sue due donne, delle quali la favorita vestiva un abito di color cremesi e l’altra era in vestito ricamato d’argento”. Ignoriamo i particolari di questa festa, ammette il Novellis, “ma sappiamo però che le dame saviglianesi concorsero a rendergli omaggio e, nello accomiatarsi, non disdegnarono di fargli riverenza e di baciargli la mano. Ritirossi egli nel suo alloggio co’ suoi e dovendo poi proseguire la sua strada per la Francia, partì il dì seguente per Exilles”.

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Ma non è tutto, dopo le feste carnevalesche scoppiarono polemiche e scandaletti e sorsero gli scrupoli. “Fu dato carico a quelle donne, ricorda il Novellis, di aver baciato la mano a un infedele maomettano, quasi fosse un santo o un venerabile, e a gran fatica poterono ottenere di essere assolte dai confessori”. Prima di raggiungere la fortezza della Val Susa la comitiva partì alla volta di Torino, come racconta il Turletti, “salutata dalla popolazione accorsa in folla ad ammirare più che altro gli stranissimi costumi di quest’uomo di gran lunga più degno di sedere sul trono del padre che non il fratello Bayazed”. Dopo alcuni anni trascorsi in Francia il principe ottomano giunse a Roma, ospite-prigioniero di Papa Innocenzo III e poi di Papa Alessandro VI Borgia. Infine fu ceduto come ostaggio al re di Francia Carlo VIII che dopo aver occupato Roma restituì la libertà a Zizim, la cui vita, avventuosa e romantica, interessò a lungo le corti d’Europa e finì tragicamente a Napoli, dove il turco fu ucciso dal rasoio avvelenato di un finto barbiere. Era il 25 febbraio 1495 e Zizim aveva appena 35 anni. A Savigliano, da qualche tempo, il carnevale non impazza più come una volta ma siamo sicuri di veder folleggiare il grande principe anche in questi giorni tra nobildonne mascherate e danzanti, ansiose di baciargli la mano nei palazzi più blasonati e aristocratici di Savian, anche se in città nessuno sa chi fosse davvero Zizim-sultan…

Filippo Re

Oggi al cinema

LE TRAME DEI FILM NELLE SALE DI TORINO

A cura di Elio Rabbione

 

Benedetta follia – Commedia. Regia di Carlo Verdone, con Carlo Verdone, Ilenia Pastorelli, Lucrezia Lante della Rovere e Paola Minaccioni. Guglielmo, in depressione stabile, è il proprietario di un negozio di arredi sacri e abbigliamento d’eccellenza, per il piacere e l’eleganza della moltitudine di porporati romani. Depresso anche per il fatto che la moglie lo ha appena abbandonato perché innamorata proprio della commessa del suo negozio: quando come un ciclone entra nella sua vita una ragazza di borgata. Opera con un buon inizio se poi non prendesse la strada delle vogliose signore che in un modo o nell’altro vogliono accaparrarsi il misero quanto problematico single. Con una comicità che fa acqua da ogni parte (in sala piena ho contato un paio di risate davvero convinte), non priva di momenti quantomai imbarazzanti (oltrepassando di gran lunga, all’italiana, lo spudorato ma tranquillo divertimento della scena clou di “Harry, ti presento Sally”, la signora che nasconde il cellulare “nel posto più bello del mondo” finisce per ritrovarsi in una storiellina soltanto fuori dei limiti; l’attore/regista che si mette a fare il cicerone all’interno di palazzo Altemps a Roma denuncia tutta la sua odierna mancanza d’idee, lontanissimo dalle cose migliori; e poi le pasticche, i balletti, le cianfrusaglie tra colori e suoni…). La gieffina Pastorelli rimane se stessa in ogni occasione, immutabile se non fosse per i cambi d’abito (sempre più ristretto), alla ricerca dei begli effetti che una Ramazzotti ci ha dato in altre occasioni. Godetevi la manciata di minuti della Minaccioni. Un toccasana. Durata 109 minuti. (Uci)

 

C’est la vie – Prendila come viene – Commedia. Regia di Eric Toledano e Olivier Nakache, con Jean-Pierre Bacri, Jean-Paul Rouve, Hélène Vincent e Suzanne Clément. Gli artefici del fenomeno “Quasi amici” promettono risate a valanga e il successone in patria dovrebbe calamitare anche il pubblico di casa nostra. I due sposini Pierre ed Hélène hanno deciso di sposarsi e quel giorno deve davvero essere il più bello della loro vita. Nella cornice di un castello del XVII secolo, poco lontano da Parigi, si sono affidati a Max e al suo team, ad un uomo che ha fatto della sua professione di wedding planner una missione, che organizza e pianifica, che sa gestire i suoi uomini, che sa mettere ordine nel caos più supremo, che per ogni problema sa trovare la giusta risoluzione… Più o meno: perché quella giornata sarà molto ma molto lunga, ricca di sorpresa e di colpi di scena. Ma soprattutto di enormi, fragorose risate! Durata 115 minuti. (Romano sala 2, Uci)

 

Chiamami col tuo nome – Drammatico. Regia di Luca Guadagnino, con Timothée Chalamet, Armie Hammer e Amira Casar. Nei dintorni di Crema, il 1983: come ogni anno il padre del diciassettenne Elio, professore universitario, ospita nella propria casa un borsista per l’intera estate. L’arrivo del disinvolto Oliver non lascia insensibile il ragazzo, che scopre il sesso con una coetanea ma che poco a poco ricambiato approfondisce la propria relazione con l’ospite. Un’educazione sentimentale, i libri e la musica, Eraclito e Heidegger, Bach e Busoni, l’ambiente pieno di libertà della sinistra, i discorsi insperati di un padre, il tempo scandito dalle cene e dalle discussioni su Craxi e Grillo, il vecchio factotum che di nome fa virgilianamente Anchise, passeggiate e discussioni, corse in bicicletta, ritrovamenti di statue in fondo al lago, nuotate in piccoli spazi d’acqua, felici intimità, in una delicatezza cinematografica (la macchina da presa pronta ad allontanarsi velocemente da qualsiasi troppo imbarazzo) che assorbe nei temi (“Io ballo da sola”) e nei luoghi (i paesini, i casali, la calura di “Novecento”) il passato di Bertolucci o guarda al “Teorema” pasoliniano. L’ultima opera di un regista (“Io sono l’amore”, “A bigger splash”) che con la critica di casa nostra non ha mai avuto rapporti troppo cordiali, osannato all’estero, in corsa verso l’Oscar con quattro candidature. La sceneggiatura è firmata da James Ivory dal romanzo di André Aciman. Chissà come risponderà il pubblico italiano? Durata130 minuti. (Eliseo Blu, Massimo sala 1 (V.O.), Nazionale sala 1, The Space)

 

Cinquanta sfumature di rosso – Drammatico. Regia di James Foley, con Dakota Johnson e Jamie Dornan. Si cambia colore (ed è la terza e ultima volta), impaginazione dello stesso regista di “Cinquanta sfumature di nero”. L’ultimo dei romanzi di E.L. James in versione “oggi sposi”, con cerimonia nuziale, bella casa e viaggio di nozze in Europa, con qualche addolcimento per quel che riguarda la “padronanza” del bel tenebroso Christian verso la bella Anastasia, comunque – gli appassionati non disperino – nei dintorni del “bondage soft”. Uscendo un po’ di più dalla camera da letto e imboccando la via del thrilling, rapimenti e inseguimenti in auto si ricollegano ad un passato di gente che non molla, dall’ex datore di lavoro dell’ormai sposina fresca fresca alla Elena della sempre appetitosa e combattiva Kim Basinger, ancora una volta pronta a riconquistarsi il ragazzone che lei stessa ha avviato alle pratiche amorose tutte frustini in bella vista. Durata 104 minuti. (Massaua, Greenwich sala 1, Ideal, Reposi, The Space, Uci anche V.O.)

 

Coco – Animazione. Regia di Lee Unkrich e Adrian Molina. Fa parte di una famiglia che certo non stravede per la musica il piccolo Miguel e lui non ha altro sogno che diventare chitarrista. Questo il preambolo; e a dire quanto la Pixar guardi allo stesso tempo ad un pubblico di bambini (ma, per carità, senza nessun incubo) e di adulti, ecco che Miguel si ritrova catapultato nel Regno dei Morti a rendere omaggio ai tanti parenti che non sono più attorno a lui. Durata 125 minuti. (Ideal, Uci)

 

Corpo e anima – Drammatico. Regia di Ildiko Enyedi, con Alexandra Borbély e Géza Morcsànyi. Un film dove si mescolano realtà e sogno, immerso nella cruda realtà quotidiana (pur con qualche momento d’ironia) ancora più acida se si pensa all’ambientazione in un mattatoio. Una coppia “lontana”, lui direttore di quel luogo, lei addetta al controllo qualità, introversi entrambi, chiusa nelle proprie solitudini, scoprono di condividere ogni notte lo stesso sogno, essere una coppia di cervi in un bosco invernale. Orso d’oro all’ultima Berlinale, “Corpo e anima” è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani: “Un film capace di tracciare il racconto della storia d’amore che unisce due solitudini, sospendendolo con lucidità visiva tra la materialità della vita reale e l’impalpabile spiritualità del sentimento”. Durata 116 minuti. (Classico)

 

Ella & John – The Leisure Seeker – Drammatico. Regia di Paolo Virzì, con Donald Sutherland e Helen Mirren. Tratto dal romanzo americano di Michael Zadoorian, con alcune varianti apportate dalla sceneggiatura scritta dallo stesso regista in compagnia di Francesco Piccolo, Francesca Archibugi e Stephen Amidon (a lui già Virzì si rivolse per “Il capitale umano”), è la storia della coppia del titolo, svanito e smemorato ma forte John, fragile ma lucidissima Ella, è il racconto del loro viaggio, dai grattacieli di Boston ai climi di Key West, lungo la Old Route 1, anche per rivisitare con la (poca e povera) memoria il vecchio Hemingway – John è stato un professore di letteratura di successo che ha coltivato con passione lo scrittore del “Vecchio e il mare” -, un viaggio che ha la forma di una conclusiva ribellione ad una famiglia e soprattutto a un destino che ha riservato per lei il cancro all’ultimo stadio e a lui l’abisso dell’Alzheimer. Momenti di felicità e anche di paura in un’America che sembrano non riconoscere più, una storia attuale e un tuffo nella nostalgia (quella che guarda agli anni Settanta), a bordo del loro vecchio camper, mentre corpo e mente se ne vanno. Un’occasione, per ripercorrere una storia d’amore coniugale nutrita da passione e devozione ma anche da ossessioni segrete che riemergono brutalmente, regalando rivelazioni fino all’ultimo istante. Un film di emozioni per coppie vecchio stampo, due formidabili interpretazioni, due doppiaggi – Ludovica Modugno e Giannini – da ascoltare con attenzione: ma a me è sembrato di essere lontano anni luce dalla stratosferica follia e umanità della “Pazza gioia”. Durata 112 minuti. (Ambrosio sala 3, Eliseo Rosso, F.lli Marx sala Harpo, Romano sala 3)

 

Final portrait – Drammatico. Regia di Stanley Tucci, con Geoffrey Rush e Armie Hammer. Quinta prova dietro la macchina da presa (Big night, uno per tutti i titoli) di uno dei migliori caratteristi hollywoodiani (ricordiamo soltanto Il diavolo veste Prada e Shall we dance?), questa volta per raccontare l’incontro e l’amicizia (era il 1964) dell’artista Alberto Giacometti con il giovane scrittore e appassionato d’arte James Lord. L’invito dello scultore, il sì con la certezza che si tratterà di poche sedute: sarà l’inizio di un lungo percorso, l’attraversare da parte del ragazzo del mondo di insicurezze e frustrazioni dell’artista, delle sue fragilità e della sensibilità come della sua grandezza artistica. Grande successo all’ultimo TFF, un eccezionale ritratto nell’interpretazione di Rush (Shine, La migliore offerta di Tornatore), con la personalissima immedesimazione, con il suo calarsi appieno nella creatività come nelle zone d’ombra dell’uomo. Durata 90 minuti. (Romano sala 1)

 

Jumanji – Benvenuti nella giungla – Avventura. Regia di Jake Kasdan, con Dwayne Johnson, Karen Gillan e Jack Black. Un fenomeno che ha più di vent’anni (eravamo nel 1996) e che ricordiamo ancora oggi per il personaggio, Alan Parrish, interpretato dal compianto Robin Williams, attore al culmine del successo dopo la prova in “Mrs. Doubtfire”. Hollywood non dimentica e rispolvera un passato di ottimi botteghini. Messi in punizione nella scuola che frequentano, quattro ragazzi scoprono un vecchio videogame. Una volta dato il via al gioco, essi vengono catapultati all’interno del sorprendente meccanismo, ognuno con il proprio avatar. Assumeranno altre sembianze, entreranno nell’età adulta: ma che succederebbe se la loro missione fallisse e la vita di ognuno finisse intrappolata nel videogame? Durata 119 minuti. (Ideal, Uci)

 

Made in Italy – Commedia. Regia di Luciano Ligabue, con Stefano Accorsi, Kasia Smutniak e Filippo Dini. L’autore di “Radiofreccia” guarda al nostro paese tra malinconia rabbia e qualche speranza con il ritratto di Riko, fortunato per quel lavoro che possiede ma che gli consente con fatica di mantenere la propria famiglia. Una moglie e un figlio e un gruppo di amici che all’occorrenza lo aiutano: ma qualcosa s’inceppa e se Riko vorrà sottrarsi ad altre sconfitte dovrà necessariamente condurre la propria vita in maniera diversa. Durata 104 minuti. (Reposi, The Space, Uci)

 

Maze Runner: la rivelazione – Fantasy. Regia di Wes Ball, con Dylan O’Brien e Aiden Gillen. Terzo appuntamento (già avevamo avuto “Il labirinto” e “La fuga”) con le avventure che già hanno coinvolto Thomas e i suoi amici. Adesso si tratta di dare l’assalto a un treno in puro stile western, di salvare a ogni istante la ragazza amata, di liberare i ragazzi che stanno per diventare le cavie di un grande laboratorio. E poi, si sa, il mondo è salvato dai ragazzini, specialmente quando a sconvolgerlo potrebbe essere un gruppo di adulti che aspira ad un pieno, feroce potere. Durata142 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

Morto Stalin se ne fa un altro – Commedia. Regia di Armando Iannucci, con Steve Buscemi, Micael Palin, Olga Kurylenko, Simon Russel Beale. Scozzese di nascita ma napoletanissimo per origini paterne, Iannucci ci ha dato una delle opere più godibili degli ultimi anni, ricca di effetti sulfurei, di una sceneggiatura che supera con facilità la risata fine a se stessa per immergersi nella satira più corrosiva, per graffiare e far sanguinare un mondo ben sistemato sugli altari. Il vecchio castiga ridendo mores, in folclore politico. Ovvero la morte del baffuto Stalin, che ha appena impartito l’ordine che gli sia recapitata la registrazione di un concerto che però registrato non lo è stato. Orchestra, pubblico e pianista dissidente, tutti di nuovo al loro posto. Ma le preoccupazioni sono e saranno ben altre: quella sera stessa, era il 28 febbraio 1953, il dittatore è colpito da un ictus e le varie epurazioni delle vette sanitarie in odore di tradimento fanno sì che le cure non possano arrivare che in ritardo e infruttuose. Cinque giorni dopo, passato lui a miglior vita, può così cominciare l’arrembaggio alla poltrona tanto ambita da quanti tra i collaboratori l’hanno vistosamente sostenuto o tacitamente avversato, a cominciare da un atterrito Malenkov chiamato da un ridicolo Consiglio a reggere le sorti dei popoli. Senza dimenticare, tra il tragico e il ridicolo, le mosse dei tanti Mikoyan, Zukov, Bulganin, Molotov e Berija in atteggiamenti da vero macellaio sino a Nikita Kruscev (un impareggiabile Steve Buscemi, ma ogni personaggio si ritaglia un momento di gloria), astutissimo nel saper raccogliere le tante intenzioni, lotte, sospetti, accuse, sparizioni dei propri colleghi, e capace di afferrare il primo posto. Tutto questo sullo schermo, applaudito al recente TFF, risate e sberleffi come non mai: apprezzato, ma allo stesso temo ti chiedi quanto sia stato giusto cancellare la vena tragica di quelle giornate. E del poi. Durata 106 minuti. (Centrale)

 

L’ora più buia – Drammatico. Regia di Joe Wright, con Gary Oldman, Kristin Scott Thomas, Lily James e Ben Mendelsohn. L’acclamato autore di “Espiazione “ e “Anna Karenina” guarda adesso al secondo conflitto mondiale, all’ora decisiva del primo anno di guerra, alla figura del primo ministro inglese Winston Churchill. Nel maggio del ’40, dimessosi Chamberlain e da poco eletto lui alla carica, inviso al partito opposto e neppure in grado di poter contare sui suoi colleghi di partito e sul re che lo tollera, mentre le truppe tedesche hanno iniziato a invadere i territori europei, Churchill combatte in una difficile quanto decisiva scelta, se concludere un armistizio con la Germania dopo la repentina caduta della Francia oppure avventurarsi nell’intervento di un conflitto armato. Mentre si prepara l’invasione della Gran Bretagna, si deve pensare alla salvezza del paese, grazie ad una pace anche temporanea, o l’affermazione con una strenua lotta degli ideali di libertà: una delle prime mosse fu il recupero dei soldati intrappolati sulle spiagge di Dunkerque (come già ad inizio stagione ci ha insegnato lo stupendo film di Christopher Nolan). Oldman s’è già visto per il ruolo assegnare un Globe, sta sopravanzando sugli altri papabili per quanto riguarda gli Oscar, un’interpretazione che colpisce per la concretezza, per gli scatti d’ira e per quel tanto di cocciutaggine e lungimiranza britannica che in quell’occasione s’impose. Uno sguardo al trucco dell’interprete: gorse un altro Oscar assicurato. Durata 125 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse, F.lli Marx sala Harpo, Lux sala 1, Massimo sala 2, Reposi, Uci)

 

Ore 15:17 assalto al treno – Drammatico. Regia di Clint Eastwood, con Spencer Stone, Alek Skarlatos e Anthony Sadler. Era il 21 agosto 2015 quando il mondo ricevette la notizia di un attentato, ad opera di un terrorista islamico, sventato sul treno che proveniva da Amsterdam ed era diretto a Parigi da tre ragazzoni californiani che già s’erano fatte le ossa sui vari fronti di guerra. Il film è il racconto delle loro vite sino a quel momento, del loro viaggio attraverso l’Europa, del loro atto di coraggio, di quell’essere in un momento preciso coraggiosi eroi per caso. Eastwood ha voluto che sullo schermo raccontassero la loro vicenda i diretti protagonisti, con i sogni, la realtà, lo spirito d’avventura e l’amicizia della loro età. Il film è il racconto di come quel giorno hanno salvato 500 vite, i buoni contro i cattivi o le avversità, come già avevano combattuto Bradley Cooper cecchino implacabile in “American Sniper” o Tom Hanks in “Sully” ammarando sull’Hudson. Durata 94 minuti. (Massaua, Eliseo Grande, F.lli Marx sala Groucho, Ideal, Lux sala 3, Massimo sala 1 V.O., Reposi, The Space, Uci)

 

Sono tornato – Commedia. Regia di Luca Miniero, con Massimo Popolizio, Stefania Rocca e Franck Matano. I tedeschi tre anni fa proposero “Lui è tornato” riaffacciando i baffetti di un tempo sul suolo germanico. Noi veniamo in scia (molto sbiadita) e immagine che il Duce dai tratti mascolini che ha il viso di Popolizio ricompaia a piazza Vittorio, multietnica, di Roma e venga scambiato per un discreto attore che ne fa discretamente l’imitazione. Trattandosi di pura realtà, il soggetto vuole raddrizzare la molliccia Patria e riprendere le cose là dove le ha lasciate. Un inesistente regista di documentari pregusta già il successo e lo prende sotto la sua ala protettrice: e se i risultati non sono quelli sperati, oggi i social aiutano per cui la buonanima, che ha visto il proprio nome sempre più pubblicizzato, si lascia catturare dalla ferrea vicedirettrice di un’emittente, pronta a spargerlo per l’intero palinsesto. Nell’Italia arrabbiata e indecisa di oggi lo share può salire alle stelle. Ci voleva tutt’altro approccio, altra regia e soprattutto una sceneggiatura che si potesse definire tale. È l’ennesimo esempio dell’insicurezza (o se volete, della pochezza, faciloneria, dabbenaggine, pressapochismo) di certo nostro cinema. Ed è chiara sempre più la rarefazione di quelli che un tempo (per carità, non è che dell’oggi si debba fare tabula rasa!) sapevano mettersi a tavolino e scrivere una vera storia. Con tutta l’intelligenza che serviva. E che servirebbe ancora. Durata 100 minuti. (Massaua, Greenwich sala 3, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

The Party – Drammatico. Regia di Sally Potter, con Timothy Spall, Kristin Scott Thomas, Emily Mortimer, Cillian Murph e Bruno Ganz.    Metti una sera a cena, una tavolata di amici, ambiente di sinistra, di quelli ci diciamo tutto in faccia e ancora di più, noi siamo per la schiettezza a qualunque costo, con una padrona di casa (siamo a Londra) che è appena stata nominata ministro ombra della sanità, un marito che sta a guardare e che fatto di tutto per appoggiare la carriera della moglie, anche a scapito della sua, due lesbiche che aspettano un figlio e altro ancora. Uno stile, l’amicizia, la cordialità. l’ideologia, che cosa rimarrà in piedi dopo che il paziente consorte avrà buttato lì sul tavolo un paio di rivelazione che porteranno lo sconquasso tra gli ospiti? Un po’ dalle parti di “Chi ha paura di Virginia Woolf”, un po’ “Carnage”, un po’ anche del nostro Paolo Genovese con il suo “Perfetti sconosciuti”. Durata 71 minuti. (Nazionale sala 2)

 

The Post – Drammatico. Regia di Steven Spielberg, con Meryl Streep e Tom Hanks. Ancora l’America descritta da Spielberg con gran senso dello spettacolo, segue candidatura a due Oscar, miglior film e migliore attrice protagonista. L’argomento è ormai noto, il New York Times aveva tra le mani nel 1971 un bel pacco di documenti comprovanti con estremo imbarazzo la cattiva politica di ben cinque presidenti per quel che riguardava il coinvolgimento degli States nella sporca guerra nel sud-est asiatico. Il governo proibì che fossero dati alle stampe. Se ne fece carico il direttore del Washington Post (Tom Hanks), sfidando comandi dall’alto e un non improbabile carcere: ma a nulla sarebbe valsa quella voce pure autorevole, se la voce ancora più forte non fosse venuta dall’editrice Katharine Graham, all’improvviso ritrovatasi a doversi porre in prima linea in un mondo esclusivamente maschile, buona amica di qualche rappresentante dello staff presidenziale (in primo luogo del segretario alla difesa McNamara) e pur tuttavia decisa a far conoscere a tutti quel mai chiarito pezzo di storia. L’autore del “Soldato Ryan” e di “Lincoln” si avvale di una sceneggiatura che porta la firma prestigiosa di Josh Singer (“Il caso Spotlight”), della fotografia di Janusz Kaminski (“Schindler’s list”), dei costumi di Ann Roth; con questo ultimo ritratto Meryl Streep si conquista la sua ventunesima nomination agli Oscar. Riuscirà la fantastica Frances McDormand di “Tre manifesti” a sbarrarle la strada? Durata 118 minuti. (Ambrosio sala 1, Centrale V.O., Massaua, Due Giardini sala Nirvana, Lux sala 2, Reposi, The Space, Uci)

 

Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Drammatico. Regia di Martin McDonagh, con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Abbie Cornish e Lucas Hedges. Da sette mesi le ricerche e le indagini sulla morte della giovane Angela, violentata e ammazzata, non hanno dato sviluppi né certezze ed ecco che allora la madre Mildred compie una mossa coraggiosa, affitta sulla strada che porta a Ebbing, tre cartelloni pubblicitari con altrettanti messaggi di domanda accusatoria e di “incitamento” diretti a William Willoughby, il venerato capo della polizia, onesto e vulnerabile, malato di cancro. Coinvolgendo in seguito nella sua lotta anche il vicesceriffo Dixon, uomo immaturo dal comportamento violento e aggressivo, la donna finisce con l’essere un pericolo per l’intera comunità, mal sopportata, quella che da vittima si trasforma velocemente in minaccia: ogni cosa essendo immersa nella descrizione di una provincia americana che coltiva il razzismo, grumi di violenza e corruzione. Da parte di molti “Tre manifesti” è già stato giudicato come il miglior film dell’anno, i quattro recenti Golden Globe spianano la strada verso gli Oscar. Durata 132 minuti. (Ambrosio sala 2, Eliseo Rosso, Greenwich sala 2)

 

Un sacchetto di biglie – Drammatico. Regia di Christian Duguay, con Dorian Le Clech, Batyste Fleurial e Christian Clavier. Joseph e Maurice hanno rispettivamente dieci e dodici anni, la loro famiglia è ebrea, abitano a Parigi. Quando la pressione delle persecuzioni diventa insostenibile, i genitori decidono di mandarli al sud, nella Francia libera, perché raggiungano i fratelli. Non è soltanto un viaggio attraverso il paese occupato, è anche un percorso per una crescita interiore. Incontri, difficoltà di ogni genere, sorprese inaspettate, il quotidiano aiuto reciproco per sfuggire alle truppe di occupazione, l’ingegno e il coraggio per sfuggire al nemico e ricongiungersi con la famiglia. Durata 110 minuti. (Greenwich sala 3)

 

Slumber – Il demone del sonno – Horror. Regia di Jonathan Hopkins, con Lucas Bond e Maggie Q. La dottoressa Alice Arnolds, durante le proprie ricerche intorno alle varie componenti del sono, incontra un particolare caso che vede coinvolta una intera famiglia, in primo luogo il piccolo Daniel. Dovrà combattere sino all’ultimo con una agguerrita entità diabolica che cerca di distruggere vite e menti. Durata 84 minuti. (Uci)

 

L’ultima discesa – Drammatico. Regia di Scott Waugh, con Josh Hartnett e Mira Sorvino. La storia vera del campione olimpionico di hockey Eric LaMarque, il suo ritiro in montagna per spegnere il dolore dall’aver procurato un incidente automobilistico, il pericolo di una tempesta di neve che lo travolge. Nessuno sa dove lui si trovi, sarà necessario tutto il suo coraggio (e l’intuito di una madre quando le squadre di salvataggio hanno già abbandonato ogni ricerca) per tornare alla vita. Durata 98 minuti. (The Space, Uci)

 

L’uomo sul treno – Azione. Regia di Jaume Collet-Serra, con Liam Neeson, Vera Farmiga e Dean-Charles Chapman. Sul treno di pendolari che prende regolarmente da dieci anni, l’assicuratore Mc Cauley è avvicinato da una bella donna, una psicologa, che gli promette una bella quantità di soldi se lui vorrà fare con lei un gioco: su quel treno viaggia un tale che non ha proprio le caratteristiche di un normale pendolare, a lui scoprire di chi si tratta. Come nelle storie del maestro Hitchcock, l’uomo entrerà negli ingranaggi di un gioco più grande di lui, se volesse sottrarsene ne andrebbe della sua famiglia. Durata 105 minuti. (Massaua, Lux sala 1, The Space, Uci)

 

Il vegetale – Commedia. Regia di Gennaro Nunziante, con Fabio Rovazzi, Luca Zingaretti e Ninni Bruschetta. Fabio è laureato in scienze della comunicazione e all’improvviso si ritrova a gestire la società paterna, cresciuta a suon di malaffare. Lui è forte della propria onestà, lascia Milano e se ne va al sud, in cerca d’aria nuova: finirà a raccogliere frutta agli ordini di un caporale di colore, unico bianco in mezzo a cento immigrati. Dovrà tenere a bada una sorellina pestifera che per lui non ha nessuna considerazione, ma in compenso troverà anche una maestrina dal cuore tenero. Durata 90 minuti. (The Space, Uci)

 

Wonder – Drammatico. Regia di Stephen Chbosky, con Julia Roberts, Owen Wilson e Jacob Tremblay. Auggie è un bambino di dieci anni, una malformazione cranio facciale ha fatto sì che non abbia mai frequentato la scuola. Quando i genitori prendono la decisione che è venuta davvero l’ora di affrontare il mondo degli altri, per il ragazzino non sarà facile. Al tavolo di Auggie, in refettorio, nessuno prende posto, un gruppetto di compagni continua a divertirsi a prendere in giro il suo aspetto. Poi qualcuno comunicherà ad apprezzarlo e ad avvicinarsi a lui. Durata 113 minuti. (Uci)

 

“Scrittori e trincee”, la Grande Guerra degli intellettuali italiani

Scrittori e trincee” è un bel libro che racconta come gran parte degli intellettuali italiani prese posizione nei confronti della prima Guerra mondiale. Edito da SEB27 nella collana Laissez-passer , il volume ospita interventi degli storici Marco Brunazzi, Leonardo Casalino e  Alberto CavaglionE in appendice un testo teatrale, “Gaddus alla Guerra Grande. Monologo per un attore e un mimo“, ideato e scritto da Leonardo Casalino e Marco Gobetti, liberamente ispirato al “Giornale di guerra e di prigionia” di Carlo Emilio Gadda. Molti intellettuali maturarono la consapevolezza, in modo vario e non senza contraddizioni, che l’imminente conflitto avrebbe prodotto una svolta epocale e che quel presente che vivevano si sarebbe, nel giro di pochissimi anni, radicalmente trasformato. Nel volume vengono sintetizzate alcune di queste voci presenti nell’uno e nell’altro schieramento, interventisti o neutralisti, a partire naturalmente dalle posizioni di Carlo Emilio Gadda. Lo scrittore che segnò la narrativa del Novecento fu sottotenente degli Alpini durante la Prima Guerra Mondiale. “Giornale di guerra e di prigionia”, il diario che tenne fra il 24 agosto 1915 e il 31 dicembre 1919, racconta la sua vita di soldato, prima al fronte e poi prigioniero degli austriaci che lo catturarono sulle rive dell’Isonzo, nell’ottobre del 1917. Un documento straordinario, nel quale Gadda descrive i combattimenti, la morte e la fame, il dolore e la voglia di vivere accanto alle tante “coserelle interessanti”, dimostrando coraggio, sensibilità e intelligenza sorprendenti. “Con una lingua in cui già traspare la potenza evocativa delle sue opere future – scrivono Gobetti e Casalino –  Gadda restituisce, un attimo dopo l’altro,   insieme alla propria, la storia dell’Italia di quegli anni”. Nel conflitto, come scrisse il drammaturgo tedesco Ernst Toller, che combattè con la divisa dell’Impero, si sentivano “ tutti viti in una macchina che si scaglia avanti e nessuno sa dove, che si ributta indietro e che nessuno sa perché […]”. Lo stesso Ungaretti , anch’esso partito volontario per la grande guerra, conobbe l’esperienza traumatica della trincea e del fronte. E scrisse, riferendosi al fuoco delle le mitraglie tedesche che abbattevano i suoi compagni d’armi nel  bosco di Courton, l’indimenticabile “ Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie”. “Scrittori e trincee” è un libro utile per indagare su alcuni aspetti di quel tragico conflitto che il Papa di allora, Benedetto XV, definì una “inutile strage”, il “suicidio dell’Europa civile”.
 
Marco Travaglini