CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 569

I vincitori del Glocal Film festival

Si è conclusa domenica 11 marzo la 17ª edizione del gLocal Film Festival di Torino, dopo 5 giorni di rassegna che hanno portato in sala 88 film. La serata di PREMIAZIONE vede svelati i film vincitori tra i 20 cortometraggi e i 10 documentari in concorso, partecipanti alle sezioni competitive SPAZIO PIEMONTE ePANORAMICA DOC. Le sezioni, cardine del festival, sono riservate ad opere di autori piemontesi o che hanno scelto il Piemonte per le riprese o realizzate da case di produzione locali.

 

La giuria di PANORAMICA DOC guidata da Emanuela Piovano (regista) con Emanuele Baldino (FIP Film Investimenti Piemonte), Sara Benedetti (Scuola Holden), Ettore Scarpa (attore) e Fabrizio Vespa(giornalista) assegna il

Premio Torèt Alberto Signetto – Miglior Documentario (2.500 €)

La poltrona del padre di Alex Tibaldi e Alex Lora (produzione GraffitiDoc)

Un film coraggioso, che affronta un tema disturbante, conducendolo con essenzialità e maestria nella costruzione registica e nella delineazione dei protagonisti. L’opera, dalla multiforme essenza della realtà, fa emergere una struttura narrativa classica regalandoci una vera lezione di cinema. Nel ritrarre una realtà apparentemente circoscritta, il film richiama temi di carattere universale: la fragilità umana, il conflitto corpo-spirito, il problema della perdita. Un documentario che abbatte le latitudini. Un cammino difficoltoso verso la rinascita, dagli esiti inaspettati e lirici.

Premio Professione Documentario (del valore di 500 €) assegnato da 170 studenti degli istituti ISS Baldessano-Roccati, Liceo Artistico Renato Cottini, ISS Bodoni-Paravia, Piazza dei Mestieri e Scuola O.D.S. Operatori Doppiaggio e Spettacolo

Più libero di prima di Adriano Sforzi

Un film coinvolgente che mostra quanto sia sottile il filo che divide il desiderio di divertimento dal dolore per una tragedia. Il regista è in grado di trasportare lo spettatore direttamente nel salotto in cui la famiglia di Tomaso aspetta ansiosamente il responso, creando un sentimento di trepidante e speranzosa attesa. Immagini e disegni ci aiutano a capire quanto possa essere importante la positività in situazioni apparentemente inaffrontabili.

 

La giuria di SPAZIO PIEMONTE composta da Flavio Bucci, presidente di giuria e i membri Carla Signoris (attrice), Francesco Ghiaccio (regista), Mirna Muscas (Skepto Film Festival) e Stefano Di Polito (regista) assegna i seguenti premi

Premio Torèt – Miglior Cortometraggio (1.500 €)

Framed di Marco Jemolo (produzione Grey Ladder, distribuzione Lights On)

Per la regia, l’impianto, la messa in scena, la ricerca dell’immagine, il ritmo che creano identificazione e rendono reale il protagonista. Siamo tutti uomini di pongo.

Premio O.D.S. – Miglior Attore (buono di 600 € per i percorsi di formazione o seminari di O.D.S.)

Gianluca Bottoni per Tale figlio di Giacomo Sebastiani.

Per aver dato emozione a un personaggio succube di una vita spoglia e monotona, vittima del proprio destino.

Premio O.D.S. – Miglior Attrice (buono di 600 € per i percorsi di formazione o seminari di O.D.S.)

Alice Piano per Musicomantia di Mauro Loverre

Per la consapevolezza con la quale si è calata in un’interpretazione intesa, cambiando registro in ogni snodo narrativo.

Premio Miglior Corto d’Animazione (buono di 200 € in libri presso la libreria Pantaleon di Torino)Dandelion di Elisa Talentino

Per la leggerezza del tratto che esalta la profondità dell’amore dei due protagonisti…si cercano, si allontanano, si uniscono e si dissolvono per poi ritornare. Speriamo.

Le giurie partner del gLocal Film Festival assegnano i seguenti premi

 

Premio Cinemaitaliano.info – Miglior Corto Documentario (pubblicazione del corto sul portale Cinemaitaliano.info) assegnato da Cinemaitaliano.info

Makhno di Sandro Bozzo

Per il coraggio mostrato nell’usare la sperimentazione per raccontare una terra e una realtà unica e dimenticata, mantenendo però una forte valenza documentaria e narrativa.

 

Premio Scuola Holden – Miglior sceneggiatura (partecipazione a uno dei corsi Palestra Holden) assegnato dagli allievi del primo anno di College Cinema della Scuola Holden

Framed di Marco Jemolo

Per la brillantezza e l’ingegnosità con cui la coscienza del burattino è indagata e interpretata, in una ricca rete di riferimenti kafkiani e orwelliani.

 

Premio Machiavelli Music – Miglior Colonna Sonora (pubblicazione della colonna sonora su iTunes e sui principali digital stores sul web) assegnato da Machiavelli Music Publishing

Julia Kent per la colonna sonora originale del film Dandelion, regia di Elisa Talentino

Musica ed animazione in Dandelion interagiscono tra loro rincorrendosi come in un gioco, in un crescendo onirico, in una danza visionaria che ci racconta dell’incontro tra due Amanti. Le note della Bourrée di Julia Kent sono emozioni che diventano immagini; accompagnano e ritmano poeticamente la danza di Seduzione dei Due che, trascinati dalla musica, arrivano ad incarnare l’archetipo dell’Uomo e della Donna nel loro trepidante incontro.

Frank Horvat. Storia di un fotografo

FINO AL 20 MAGGIO

Mostra di quelle rare. Che quando hai terminato di visitarle ti sembra di aver capito tutto, ma proprio tutto, “vita opere e miracoli”, dell’ artista che l’ha firmata.Grandiosa per qualità, importanza storica e ricchezza di significati e contenuti, l’antologica di Frank Horvat ospitata nelle “Sale Chiablese” dei Musei Reali di Torino è anche la prima, per portata di pezzi esposti – ben 210 – che mai sia stata dedicata in Italia all’artista nato nel 1928 a Opatjia (Abbazia, allora città italiana, oggi Croazia) e che, a pieno titolo, può collocarsi fra i massimi rappresentanti della grande storia della fotografia internazionale dagli anni ’50 a oggi. Curata dallo stesso Horvat, la rassegna testimonia appieno l’enorme ricchezza e la varietà di un percorso artistico segnato, da quasi settant’anni, dalla curiosità per mondi ed esperienze totalmente diverse fra loro. Da fotoreporter attento al puntuale racconto di realtà sconosciute e lontane dalla nostra, a fotografo di moda fra i più gettonati e assolutamente sui generis in quel singolare immergere le sue modelle nei fatti quotidiani, rubandole ad asettici studi e a rutilanti passerelle per farne figure comuni nel via vai di gente comune fra piazze strade e civiche metropolitane, Horvat (che da tempo vive in Francia) ha sempre guardato con grande interesse e ansia di confronto e conoscenza anche agli stimoli della pittura e della scultura, fotografando uomini e donne e animali e paesaggi carichi di “interiori esplorazioni”e colte assonanze estetiche , non meno che – sotto l’aspetto tecnico – alla sperimentazione di quei “nuovi” mezzi e virtuosismi digitali (è stato fra i primi a usare Photoshop e qualche anno fa ha studiato un’applicazione per iPad chiamata Horvatland) che ancor oggi danno al suo linguaggio i caratteri di un’attualità decisamente al passo coi tempi. Il suo è un geniale pungente ragionare da caparbio giovanotto novantenne (lo sarà in aprile) che di mestiere fa da sempre il fotografo e da sempre cerca di imbrigliare a suo uso e consumo quello strumento fotografico in cui “c’è davvero –scrive convinto – qualcosa di faustiano o mefistofelico, soprattutto nell’illusione di arrestare il movimento continuo che ci trascina”. E poi precisa: “Ho un’età in cui si guarda al proprio passato per cercarne un senso”. In totale serenità e con le idee ben chiare. “Più che i soggetti in se’ – puntualizza – mi interessano le relazioni fra le cose. Così, se dovessi fotografare le piramidi, aspetterei il passaggio di un cammello, di un turista, di una jeep o qualcos’altro. Immortalare le piramidi in se’ e per se’ non mi importa nulla”. Del resto “la fotografia è – per lui – l’arte di non premere il bottone”. Almeno fino a quando non si è di fronte alla possibilità (che ti cade addosso inaspettatamente come un fulmine) di compiere in un battito di secondi il “miracolo”, di fermare con uno scatto “un fatto unico, accaduto una volta sola e che non accadrà mai più”. E’ il caso delle trentuno foto della ricchissima collezione personale di Horvat, realizzate da grandi maestri e amici-colleghi che egli stesso ha voluto portare in mostra e che rappresentano in modo iconico la Storia della fotografia come il celebre scatto di Jeff Widener che, nel 1989 a Pechino, ritrae il giovane studente di fronte ai carri armati di piazza Tienanmen. Accanto, altre a firma di Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Mario Giacomelli, Helmut Newton e Sebastiao Salgado, solo per fare qualche nome. Maestri autentici che a tratti hanno anche segnato la carriera di Horvat e determinato in certo modo quella sua “versatilità” che non sempre è stato un vantaggio per lui: “Alcuni hanno messo in dubbio – sottolinea – la sincerità del mio impegno, altri hanno trovato che le mie foto erano poco ‘riconoscibili’, come se fossero state fatte da autori diversi. Questo mi ha spinto a ripercorrere la mia opera per cercarvi un denominatore comune. Ne ho trovati quindici e li ho chiamati ‘chiavi’. E quindici sono appunto le sezioni-chiave in cui si articola la mostra torinese. Si va (fra le più suggestive) da Luce – con scatti in debito di magica suggestione da Cartier-Bresson, non meno che da Caravaggio e Rembrandt – a Condizione umana (al centro le “persone che soffrono” anche se “non mi piace l’idea che la mia arte si nutra del suo dolore”), da Tempo sospeso a Voyeur. Via via in un sorprendente eclettico percorso artistico, che in Vere somiglianze ci presenta grandi e bellissimi ritratti femminili di corposa e “plastica” sensualità, fino alle Foto fesse e agli Autoritratti (ma “trovarsi di fronte a se’ stessi, quando non si è Montaigne, può diventare noioso”). E, all’uscita, c’è perfino uno spazio per farsi un selfie a ricordo della mostra. Il massimo per un grande giovanotto di appena novant’anni. Ancora da compiere.

Gianni Milani

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“Frank Horvat. Storia di un fotografo”

Musei Reali Torino – Sale Chiablese, Piazzetta Reale 1, Torino; tel. 011/5211106 www.museireali.beniculturali.it

Fino al 20 maggio – Orari: lun. 14-19; dal mart. alla dom. 10-19

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Nelle foto:
– “Monique Dutto all’uscita della metro”, Parigi, 1959
– “Scarpe e Tour Eiffel”, Parigi, 1974

 

Quando la paura arriva a teatro

Partirà a marzo da Torino la tournée di “La Bambola Maledetta”, spettacolo inedito che segna l’arrivo della paura come ingrediente fondamentale, preso in prestito dal mondo cinematografico per creare suspense e coinvolgimento all’ennesima potenza fra le comode poltrone del teatro. Un esperimento che il giovane cast di “Chi è di scena”, associazione con quartier generale a Bosconero (To), fra le campagne del Canavese, ha già testato negli scorsi anni con “La Dama in Nero” e che viene prepotentemente riproposta in questo 2018 con un nuovo spettacolo non privo di agganci con la magica Torino e con il territorio piemontese. Annunciata dallo slogan “#sfidalapaura”, la trama di “La Bambola Maledetta” esordisce con due domande: “Da dove arriva quella bambola? E quale viaggio l’avrà portata nella notte dei tempi proprio nel piccolo borgo di Coatbridge?” Interrogativi che aprono la strada ad un enigma tutto da risolvere da parte del pubblico in sala che vivrà sulla propria pelle il confine assai labile fra la bambola come strumento di gioco e come trappola della dimensione introspettiva e psicologica dell’infanzia personale di ognuno di noi. E da un Piemonte misterioso che fa da grande culla a storie inedite, la scena “vola” oltre Manica, per atterrare nell’atmosfera lugubre di un villaggio scozzese dove, negli anni Quaranta il ritorno del protagonista, il restauratore Eric, alla vecchia casa di famiglia e dell’infanzia, non è che l’inizio di un crescendo di coinvolgimento per il pubblico in sala. Gli spettatori avranno a teatro un benvenuto fatto di effetti speciali tipici del mondo cinematografico e rivolti al gradimento di una platea di ogni età. Eric inizia a compiere un cambiamento sempre più inspiegabile dinanzi la moglie Isabel e la figlia Eveline.

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E gli strani fatti, con sempre maggior intensità e incredulità, si manifesteranno nella casa preoccupando via via anche James, medico e amico di Eric, Norah, maestra di Eveline, e Paul, il sarto del villaggio. Il tutto sotto gli occhi costanti di quella bambola e di suoni e voci che generano un’inquietudine insostenibile. Un passato angosciante si impadronisce nuovamente della casa, forse per chiudere i conti ancora in sospeso. In attesa del debutto le aspettative crescono, alimentate da tanti fattori peculiari fra i quali il mix di talento creativo del giovane ed eclettico cast di “Chi è di scena” che vede i componenti operare nella scrittura teatrale, nella danza, nei costumi. Uno spettacolo di sola paura? Non esattamente: la paura va a braccetto con quell’inafferrabile sfera psicologica che caratterizza l’essere umano e che da allo spettacolo un valore riflessivo e quasi di indagine degli stati più reconditi della mente umana. Al comando della regia e nei panni di attore Gioacchino Inzirillo, artista multiforme con esperienze in recitazione e musical anche televisive (Rai5 e La7, fra le altre), supportato da un interprete di fama quale Michele Renzullo, cofondatore della Compagnia della Rancia e volto noto sulle scene teatrali nazionali, e dagli attori Francesca Melis, Chiara Gusmini, Gabriele de Mattheis , Mariasole Fornarelli e Noemi Garbo, molti dei quali già impegnati in “La Dama in nero”. I costumi (studio di Gabriele de Mattheis) sono messi a punto dall’Old House Company, le scenografie sono a cura del gruppo di professionisti chiamato “COB” ovvero lo street artist Matteo Capobianco, il scenotecnico Alessio Onida e il designer Cosimo Bertone mentre le luci, i sorprendenti effetti live e l’audio sono curati da Roberto Chiartano. Infine vi sono musiche inedite, composte da Nicola Barbera che ha studiato effetti sonori davvero “da brivido” per far vivere al pubblico le forti emozioni dello spettacolo. A precedere l’atto unico, nato per impedire di perdere anche solo un minimo secondo di puro coinvolgimento, è in fase di studio un “pre-show” per fare entrare gli spettatori nel “mood” di “La Bambola Maledetta”, facendo conoscere la storia realmente avvenuta fra Torino e il Monferrato, che fa da premessa allo spettacolo. Prima assoluta a Torino, al Teatro Cardinal Massaia di via Sospello dove la paura potrà essere sfidata dal pubblico del debutto nazionale previsto nelle serate di venerdì 16 e sabato 17 marzo 2018.

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Prenotazioni al link: http://www.bigliettoveloce.it/new_spettacolo.aspx?id_show=5024

Il Capitano di Lavia vittima dei perfidi raggiri della moglie

Duro, vecchio, solidissimo teatro. Fuori del nostro tempo, un’immagine eternamente ferma e bloccata, se non fosse per l’eterna lotta tra i sessi che ancora oggi crudelmente troppe volte sfocia in fatti di sangue. Quindi la immutabilità fotografata da Gabriele Lavia nel mettere in scena – per la terza volta lungo la sua carriera – Il padre di August Strindberg, fino a domenica sul palcoscenico del Carignano per la stagione dello Stabile torinese. Un testo (del 1887) che autobiograficamente gronda misoginia (e assistere alla replica della serata dell’8 marzo qualche problema l’ha comportato), la vivisezione di un rapporto coniugale che deflagra allorché il Capitano pretende in una discussione d’imporsi alla moglie Laura circa l’educazione della figlioletta Berta, che lui vorrebbe spedire in città a farsi le ossa per diventare una brava insegnante. “Un capolavoro di dura psicologia”, lo definiva Nietzsche, e la rabbiosa introspezione calata nei caratteri, l’arretrare continuo e lento dell’uomo, il gioco perfido della donna che manipola anche i più piccoli indizi e s’accaparra tutti gli occupanti della casa, la vecchia balia e il pastore suo cognato, il medico arrivato da poco e messo lì immediatamente a giudicare una situazione e a schierarsi, gli stessi giovani militari della guarnigione, anche la ragazzina che al contrario ad ogni incontro stravede per la figura paterna, ogni momento della tragedia è uno studio perfetto e carico a suo modo di una dolente umanità. Il gioco e la forza della donna hanno il sopravvento quando fa entrare nell’animo e nel cervello dell’uomo il tarlo e il dubbio di una paternità che potrebbe far guardare Berta con occhi diversi. Strindberg tende con ogni sua forza verso il Capitano, spalleggia una parabola inevitabilmente dolorosa, svela a poco a poco le ragioni del suo rifugiarsi negli studi – quelli che la donna ha cercato in ogni modo di ostacolare, nascondendogli quelle lettere che erano per lui i rapporti e gli sviluppi con i vari editori -, come la logicità nel contrastare le opposizioni che come una banda di ciechi gli presentano quanti gli stanno intorno. Il mondo del Capitano, quello familiare come quello militare (come ha sempre governato questo vorrebbe governare quello), sparisce, anche quello delle stelle, suo ultimo baluardo, viene meno mentre lui cerca di recuperare la propria dignità di uomo e di padre con le stesse parole dello Shylock shakespeariano: e sotto lo sguardo della Vincitrice, la vecchia balia lo aiuterà a indossare la camicia di forza. Stretto in un’epoca in cui la scienza non aveva ancora prodotto i mezzi per una sicurezza paterna, chiuso nella cupezza di un primo atto della lunghezza di un’ora e 55’ e di un secondo, quasi come una liberazione per il protagonista, di 25’, quasi soffocato in uno spazio di enormi tendaggi rossi che calano vertiginosamente sino giù in platea (la scena è firmata da Alessandro Camera, con le poltrone e la scrivania e l’orologio che scandisce le ore tenuti sghembi e incerti, i costumi sono di Andrea Viotti), luogo dell’intimità e del dolore nel finale, una volta spogliato di ogni arredo, Lavia costruisce senza risparmio personale uno spettacolo angoscioso, soffocante e lentissimo, ma grandioso, in cui la fa da padrone, con un ritratto di protagonista, granitico nella voce e negli atteggiamenti prima, un esempio di resa perfetta poi, che s’acclama per la saggezza con cui lo compone, per la disperazione e la drammaticità di quel suo perdersi tra le grinfie della sua personale altra metà del cielo. Di fronte a lui un’incisiva Federica Di Martino e tutti gli altri in ottima resa. Se una stonatura c’era, possiamo averla ritrovata in quell’incessante bamboleggiamento della balia e della figlia soprattutto, che si sarebbe potuto alleggerire o assolvere del tutto.

 

Elio Rabbione

Sintesis di Roberto Demarchi

 

“Sintesis”: non, banalmente, “sintesi”. Non è solo una consonante in più o in meno: è un mondo diverso, un richiamo al passato, alle radici della nostra civiltà, il titolo dell’antologica di Roberto Demarchi attualmente in corso a Torino

“Raccolta”: non, semplicemente, “riassunto”; ed eccole davanti a noi, sapientemente esposte, le 29 tavole, raccolte insieme (“syntithemi”: cioè, in greco, “mettere insieme”, appunto) da precedenti mostre e godibili, eccezionalmente, in un’unica visita. Illuminazione opportunamente studiata e fondo monocromo della parete sono soltanto strumenti, per quanto necessari: le tematiche e il linguaggio pittorico dei cicli “Perì physeos”, “Genesi dell’arte”, “Eschilo”, “Haiku”, “Giardini zen”, “Antologia astratta”, “Paesaggi della memoria”, “La luce nella pietra”, “Acqua”, “Notturni di Chopin” e “Zodiaco” bastano a se stessi.

Descriviamo tre delle tavole, scelte quasi a caso a sostegno del lettore (che, ne siamo convinti, dovrebbe diventare, nei prossimi giorni, visitatore).

La luce nella pietra N. 3

Tre elementi quadrangolari – sufficientemente vicini da suggerire un confronto (simili, non identiche, le proporzioni), non abbastanza da sfiorarsi – sembrano galleggiare nel magma. Il fruitore ha la tentazione di allungare la mano, di sfiorare quella superficie (superficie? No, per nulla: qui le dimensioni sono tre, come i rettangoli), ma l’esperienza lo trattiene: ciò che ha quel colore, in natura, brucia. Come la lava.

Haiku N. 5

Tra dio / e il mendicante sboccia / il fiore di U (Kobayashi Issa). Di questo fulminante haiku Demarchi rispetta la metrica (sì, anche la pittura astratta può rispettare la metrica; o, se l’artista-poeta lo ritiene necessario, eluderla, riscriverla, mescolarla), il tema e l’ordine logico. Eccolo, il fiore di U, rettangolo di sette “on”, candido e venato di rosa, tra un dio e un mendicante che sono, fatto salvo un piccolo particolare (non lo indicherò: andate a scoprirlo di persona), assolutamente identici.

Tolstoj, Resurrezione

Un vecchio dalla barba profetica scrive, medita e ama nella profondità della Russia. Il secolo sta morendo, l’aspettativa di vita dell’uomo non potrà superarlo di molto: ma il titolo che sceglie è “Resurrezione”. Eccola, la campagna russa, che da una manciata di decenni appena non è più calcata dai piedi dei servi della gleba: eccola, tutta rappresentata in quattro rettangoli inscritti in una cornice quadrata, la fertile terra di quello che fu il principato di Moscovia, cosparsa di piccoli e timidi fiori, verde o bruna in seguito all’aratura, sotto un cielo che è, come lei, profondamente russo.

Tutte le tavole di Sintesis

Eumenidi; Haiku N. 16, Haiku N. 5; Giardini Zen; Jan De La Cruz, Iqbal, Cvetaeva; Chopin N. 3, Chopin N. 1, Chopin N. 2; La luce nella pietra N. 1, La luce nella pietra N. 2, La luce nella pietra N. 3; Sagittario, Toro, Gemelli, Cancro; Acqua N. 1, Acqua N. 3, Acqua N. 3; Buzzati, Tolstoj, Mann; Brunelleschi; Perì physeos (1), Perì physeos (2), Perì physeos (Stele), Perì physeos (3); Apollo Musagete.

È possibile visitare “Sintesis”, gratuitamente e su prenotazione, fino al 20 marzo, in corso Rosselli 11 a Torino. Informazioni e contatti: www.robertodemarchi.info.

Andrea Donna

L’omaggio a Flavio Bucci apre il Glocal Film Festival

La ricca fucina cinematografica piemontese che agisce localmente puntando all’orizzonte

Si è aperta ieri sera al Cinema Massimo la 17° edizione del gLocal Film Festival con un omaggio a Flavio Bucci con la proiezione di Ligabue, di Salvatore Nocita, nella versione cinematografica dello sceneggiato televisivo andato in onda su Rai 1 nel 1977, digitalizzato da Rai Teche e dal Museo Nazionale del Cinema. Quarant’anni fa il grande successo di pubblico che ottenne valse all’attore il premio come Miglior attore protagonista al Festival Internazionale del Cinema di Montreal. E Flavio Bucci, torinese di nascita, con la sua comicità un po’ lunare e fuori dal tempo, ieri sera è stato lieto di raccontare al pubblico la sua vocazione per il mestiere di attore che lo folgorò giovanissimo, il legame con i grandi registi, uno fra tutti Elio Petri, l’insolita amicizia nata fra lui ed Alain Delon. Nel corso della serata Flavio Bucci, che è anche presidente di giuria, è stato inoltre insignito del Premio “Riserva Carlo Alberto”.
Quest’anno il festival, organizzato dall’Associazione Piemonte Movie, si alleggerisce nel nome, non si chiama più infatti Piemonte Movie gLocal Film Festival, ma si arricchisce nei contenuti e negli eventi, confermando la sua funzione di vivace salotto di scambio dove fare il punto sulla cinematografia locale con uno sguardo che abbraccia l’orizzonte più vasto. Sono passati dieci anni da quando il festival da Moncalieri è approdato a Torino e il direttore artistico Gabriele Diverio commenta così questa prima importante decade: “Sono passati dieci anni dalla nostra prima edizione torinese e il ricordo ancora chiaro delle prime riunioni e della curiosità con cui mi sono avvicinato mi farebbe dire sia passato meno tempo. D’altro canto, la quantità di iniziative ideate con l’associazione Piemonte Movie e il percorso che ci ha portato a diventare un appuntamento atteso in città, mi fa sentire come incontrovertibili tutti i giorni passati dal 2008 a oggi. Una cosa però è rimasta uguale, la passione che ci muove nella realizzazione di ogni nuova edizione del Festival che siamo certi, anche quest’anno, saprà stupire il pubblico e richiamare registi e professionisti che insieme a noi lo rendono tale”. Sempre presenti le due sezioni competitive che mostrano la creativa fucina cinematografica piemontese, Panoramica Doc con dieci documentari, di cui cinque anteprime (una assoluta e quattro regionali) e Spazio Piemonte, il contest che presenta i venti cortometraggi selezionati durante la rassegna che si tiene a febbraio Too Short to Wait. Domenica 11 marzo la proiezione di Fred, documentario sulla vita di Fred Buscaglione, sarà un altro evento speciale per celebrare un emblema della cinematografia regionale, il documentarista torinese dalla carriera eclettica Pier Maria Formento, meglio conosciuto come Pit Formento. All’interno della sezione ABC gLocal tre gli appuntamenti imperdibili per un confronto vivo con il cinema per film maker, addetti ai lavori e appassionati: sabato 10 marzo la Masterclass per indagare il rapporto tra attore e regista con due giovani protagonisti del cinema, Marco D’amore, attore della serie Gomorra e Francesco Ghiaccio che ha diretto l’attore nel film Un posto sicuro, la cui proiezione attiverà il confronto; una nuova sezione del festival, il lab contest Torino Factory per filmmaker under 30 presieduto da Daniele Gaglianone e sempre nell’ottica di incoraggiare la partecipazione dei più giovani la quarta edizione del premio professione Documentario che ha coinvolto centosettanta studenti di alcuni istituti di Torino e provincia che avranno la possibilità di confrontarsi con registi. Il 9 Focus & Festival gemellati sono invece lo spazio in cui la produzione regionale mostra tutta la sua variegata offerta attraverso i diversi festival che la animano e il confronto con il cinema contemporaneo e internazionale. E poi viene riproposto il grande cinema nella retrospettiva dedicata a Flavio Bucci, Il teatro è il mio pane quotidiano, curata da Alessandro Gaido e Fabrizio Dividi, con La proprietà non è un furto di Elio Petri, Maledetti vi amerò di Marco Tullio Giordana e L’ultimo treno della notte di Aldo Lado. Pochi film ma che danno un’idea delle viscerali capacità interpretative di un grande attore italiano.Il festival si chiude domenica 11 marzo con un documentario in anteprima regionale Non ne parliamo di questa guerra di Fredo Valla che sarà ospite in sala per parlare di un tema che sembra non esaurirsi col tempo: la giustizia di guerra nel primo conflitto mondiale.

 

                                                           Giuliana Prestipino

 

Per maggiori informazioni consultare il sito http://www.piemontemovie.com/site/festival/

Un’appassionata operazione di crowdfunding per guardare dentro se stessi

Esce nelle sale “La terra buona” di Emanuele Caruso

Con una vasta operazione di crowdfunding – un budget di 195.000 euro e 500 sottoscrittori pronti a divenire coproduttori, quote minime da 50 euro per un totale di 80.000 euro, gli altri importanti aiuti da parte di Egea, della Film Commission Piemonte e della Cassa di Risparmio di Cuneo – il trentatreenne regista Emanuele Caruso è riuscito a varare il suo secondo film, La terra buona, che con il passaparola e con la lenta ma approfondita ricerca del pubblico e delle sale dovrebbe ripetere il successo di E fu sera e fu mattino, caso cinematografico scoppiato tre anni fa. In una settimana di proiezioni in provincia (anche qui il cammino è inverso, prima questa la metropoli poi) i biglietti staccati sono stati 15.000, l’opera precedente in un anno era arrivata a oltre 40.000. Senza assolutamente dimenticare gli altri aiuti non da poco offerti durante la preparazione e la lavorazione del film, da Eatily che ha offerto quantità grandiose di cibo pronte a sfamare la troupe, al Parco Nazionale della Val Grande, ai confini con il territorio svizzero, 152 km quadrati pressoché incontaminati dalla civiltà – dove la storia è stata trasportata dalla primitiva Val Maira cuneese -, che ha messo a disposizione scenari incomparabili e un efficace supporto logistico, agli abitanti dell’ultima frazione raggiungibile in auto, Capraga, dove nulla esiste che si possa definire moderno, che per due mesi, nel luglio e nell’agosto del 2016, hanno aperto le loro case.


Tre storie che confluiscono nel film, la sceneggiatura è firmata dallo stesso regista con la collaborazione di Marco Domenicale, tre storie diverse tra loro, quasi un pretesto. Ma pretesto non sono. In questa natura che non conosce contaminazioni, vive il vecchio padre Sergio, benedettino, che in anni di eremitaggio ha costruito una biblioteca di oltre 60.000 volumi, con lui un oncologo, Mastro, e il suo assistente, sfuggiti dalla città e dalla gente che li ha condannati per il loro desiderio di sperimentare e di conoscere se al di là della medicina ufficiale vi potessero essere altre cure contro i tumori. In questo eremo, arriva un giorno, all’insaputa di tutti, anche della sua stessa famiglia, una ragazza, Gea, in compagnia di un amico forse innamorato di lei, Martino. Gea è malata terminale, forse con la ricerca di un’ultima naturale medicina è alla ricerca di se stessa, di un rapporto col padre, incompreso, infelicemente concluso. Nel racconto e nella regia di Caruso che dimostra di saper scavare con esattezza nei propri personaggi, s’intrecciano i destini, si consolidano i caratteri, si guardano con occhi nuovi l’ambiente e la cura per il cibo, la sua esatta scelta, si afferma quella spiritualità della vita che tutti dovremmo fare più nostra. Si va a zigzag tra le speranze e le delusioni, si incrociano mai a caso certe sensazioni e i discorsi forti della vita e della morte, si tende a qualcosa oltre. Martino forse è il personaggio che meglio finisce col comprendere e attuare la “filosofia” del regista, l’invito a stabilire una pausa su quanto abitualmente ci circonda, è l’occhio dello spettatore, il tramite e il collante delle tre diverse vicende: ma il film non si sbilancia e non vuole dare risposte, ed è uno dei suoi meriti più immediati.


Superate in maniera brillante le difficoltà di girare in condizioni più che svantaggiate, il percorso s’è fatto sicuro. E quel che più salta all’occhio è la passione che circola (“I soldi sono pochi, e chi li ha dei soldi per pagare un fattorino che consegni il film nelle sale? è chiaro che ci vado io a consegnarlo”). Certo, a tratti alcune interpretazioni appaiono troppo urlate, certa gestualità fuori luogo, la musica che nella prima parte invade binari western alla Leone rimane incomprensibile, la scrittura corre forse in maniera troppo lineare: ma dalla semplicità del racconto può in non poche occasioni nascere una costruttiva robustezza. Convince soprattutto la naturalezza dei due ragazzi, Lorenzo Pedrotti, già con Caruso nell’opera prima, e Viola Sartoretto, torinese; e dopo l’ultima immagine si vorrebbe che il cinema si ricordasse di più di Fabrizio Ferracane, il medico in fuga, indimenticata punta d’eccellenza tre anni fa di “Anime nere” di Francesco Munzi.

Oggi al cinema

LE TRAME DEI FILM NELLE SALE DI TORINO

A cura di Elio Rabbione

 

A casa tutti bene – Commedia. regia di Gabriele Muccino, con Stefano Accorsi, Massimo Ghini, Stefania Sandrelli, Valeria Solarino e Gianmarco Tognazzi. Una ricorrenza da festeggiare, le nozze d’oro dei nonni, una permanenza forzata, il traghetto bloccato e l’isola di Ischia a fare da sfondo: gli antichi ristoratori, i tre figli che hanno preso strade diverse, le mogli attuali e quelle di un tempo, il cugino solo e poveraccio con debiti e un figlio in arrivo, i rancori, le confessioni e le urla, il ritratto di una famiglia italiana in perfetto stile Muccino, figliuol prodigo tornato a casa dopo i (quasi totali) successi d’oltreoceano. Ma Muccino rimane Muccino, con le tante tessere di una storia, con il suo nervoso montaggio, con una sceneggiatura che non brilla, con certi attori presi nel vortice del dramma ad ogni costo, con altri che continuano a ripetere i loro soliti personaggi. Però un palmarès alle prove di Massimo Ghini e Valeria Solarino, all’invasione altissima del mai così bravo Gianmarco Tognazzi. Durata 105 minuti. (Massaua, Eliseo Blu, Lux sala 3, Reposi, The Space, Uci)

 

Anche senza di te – Commedia. Regia di Francesco Bonelli, con Nicolas Vaporidis, Andrea Branciamore e Myriam Catania. La storia di Sara, insegnante elementare precaria e prossima all’altare con il medico in carriera Andrea. Ma con il momento (troppo) fatidico arrivano gli attacchi di panico, incontenibili. Nei pressi c’è il collega (chiaramente, di lei) Nicola e con lui il sogno di una scuola gestita in un modo diverso, ad esempio con il linguaggio autentico delle emozioni: un metodo che potrebbe tornare comodo anche alla scombussolata protagonista. Durata 107 minuti. (Greenwich sala 3, Uci)

 

Black Panther – Fantasy. Regia di Ryan Coogler, con Chadwick Boseman, Lupita Nyong’o, Martin Freeman e Angela Bassett. Il protagonista è il nuovo re di Wakanda dopo la morte del padre: ma se sulla sua strada trova dei nemici pronti a detronizzarlo, lui sarà pronta a unirsi alla CIA e alle forze speciali del proprio paese. Durata 135 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

Belle & Sebastien – Amici per sempre – Avventura. Regia di Clovis Cornillac, con Félix Bossuet e Tchéky Karyo. Terzo capitolo della saga, Sebastien ha 12 anni e Belle gli ha regalato tre splendidi cuccioli. Senonché la tranquillità familiare è scalfitta dall’intenzione di Pierre, il padre del ragazzo, di trasferirsi in Canada e dall’arrivo di un presunto proprietario di Belle che vorrebbe portarsela via. Sebastien farà di tutto per non dover abbandonare la sua amica a quattro zampe. Durata 90 minuti. (Massaua, Ideal, The Space, Uci)

 

Benvenuti a casa mia – Commedia. Regia di Philippe de Chauveron, con Christian Clavier, Nanou Garcia e Ary Abittan. Come se dicessimo: dal dire al fare. C’è uno scrittore, un intellettuale decisamente aperto, punto di riferimento della scena letteraria, sposato ad una ereditiera lontanissima dalla realtà che la circonda. È il fortunato autore di un libro, “Benvenuti a casa mia”, in cui auspica che ogni suo lettore, soprattutto i ricchi e benestanti, accettino di aprire le loro abitazioni a chi ne ha davvero bisogno. Ma se il suo avversario lo sfida a mettere in pratica, lui per primo, quanto il libro consiglia, se quella sera stessa qualcuno busserà alla sua porta, che cosa potrà succedere? Durata 92 minuti. Lux sala 1, The Space, Uci)

 

C’est la vie – Prendila come viene – Commedia. Regia di Eric Toledano e Olivier Nakache, con Jean-Pierre Bacri, Jean-Paul Rouve, Hélène Vincent e Suzanne Clément. Gli artefici del fenomeno “Quasi amici” promettono risate a valanga e il successone in patria dovrebbe calamitare anche il pubblico di casa nostra. I due sposini Pierre ed Hélène hanno deciso di sposarsi e quel giorno deve davvero essere il più bello della loro vita. Nella cornice di un castello del XVII secolo, poco lontano da Parigi, si sono affidati a Max e al suo team, ad un uomo che ha fatto della sua professione di wedding planner una missione, che organizza e pianifica, che sa gestire i suoi uomini, che sa mettere ordine nel caos più supremo, che per ogni problema sa trovare la giusta risoluzione… Più o meno: perché quella giornata sarà molto ma molto lunga, ricca di sorpresa e di colpi di scena. Ma soprattutto di enormi, fragorose risate! Durata 115 minuti. (Romano sala 3)

 

Chiamami col tuo nome – Drammatico. Regia di Luca Guadagnino, con Timothée Chalamet, Armie Hammer e Amira Casar. Nei dintorni di Crema, il 1983: come ogni anno il padre del diciassettenne Elio, professore universitario, ospita nella propria casa un borsista per l’intera estate. L’arrivo del disinvolto Oliver non lascia insensibile il ragazzo, che scopre il sesso con una coetanea ma che poco a poco ricambiato approfondisce la propria relazione con l’ospite. Un’educazione sentimentale, i libri e la musica, Eraclito e Heidegger, Bach e Busoni, l’ambiente pieno di libertà della sinistra, i discorsi insperati di un padre, il tempo scandito dalle cene e dalle discussioni su Craxi e Grillo, il vecchio factotum che di nome fa virgilianamente Anchise, passeggiate e discussioni, corse in bicicletta, ritrovamenti di statue in fondo al lago, nuotate in piccoli spazi d’acqua, felici intimità, in una delicatezza cinematografica (la macchina da presa pronta ad allontanarsi velocemente da qualsiasi eccessivo imbarazzo) che assorbe nei temi (“Io ballo da sola”) e nei luoghi (i paesini, i casali, la calura di “Novecento”) il passato di Bertolucci o guarda al “Teorema” pasoliniano. L’ultima opera di un regista (“Io sono l’amore”, “A bigger splash”) che con la critica di casa nostra non ha mai avuto rapporti troppo cordiali, osannato all’estero. La sceneggiatura firmata da James Ivory e tratta dal romanzo di André Aciman ha conquistato meritatamente l’Oscar. Durata130 minuti. (Eliseo blu)

 

Cinquanta sfumature di rosso – Drammatico. Regia di James Foley, con Dakota Johnson e Jamie Dornan. Si cambia colore (ed è la terza e ultima volta), impaginazione dello stesso regista di “Cinquanta sfumature di nero”. L’ultimo dei romanzi di E.L. James in versione “oggi sposi”, con cerimonia nuziale, bella casa e viaggio di nozze in Europa, con qualche addolcimento per quel che riguarda la “padronanza” del bel tenebroso Christian verso la bella Anastasia, comunque – gli appassionati non disperino – nei dintorni del “bondage soft”. Uscendo un po’ di più dalla camera da letto e imboccando la via del thrilling, rapimenti e inseguimenti in auto si ricollegano ad un passato di gente che non molla, dall’ex datore di lavoro dell’ormai sposina fresca fresca alla Elena della sempre appetitosa e combattiva Kim Basinger, ancora una volta pronta a riconquistarsi il ragazzone che lei stessa ha avviato alle pratiche amorose tutte frustini in bella vista. Durata 104 minuti. (The Space, Uci)

 

Il filo nascosto – Drammatico. Regia di Paul Thomas Anderson, con Daniel Day-Lewis, Vicky Krieps e Lesley Manville. Nella Londra degli anni Cinquanta, il famoso sarto Reynolds Woodcock è la figura centrale dell’alta moda britannica, eccellentemente coadiuvato dalla sorella Cyril: realizzano gli abiti per la famiglia reale (qualcuno ha visto il ritratto del celebre Norman Hartnell), per le stelle del cinema, per ereditiere, debuttanti e dame sempre con lo stile distinto della casa di Woodcock. Il grande sarto è anche un incallito e incredibile dongiovanni, nella cui vita le donne, fonte d’ispirazione e occasione di compagnia, entrano ed escono: fino a che non sopraggiunge la presenza della semplice quanto volitiva, a modo suo spregiudicata, Alma, una giovane cameriera di origini tedesche, pronta a diventare parte troppo importante della vita dell’uomo, musa e amante. L’ordine e la meticolosità, doti che si rispecchiano meravigliosamente nella fattura degli abiti e nella condotta di vita, un tempo così ben controllata e pianificata, vengono sovvertiti, in una lotta quotidiana tra uomo e donna. Film geometrico e algido quanto perfetto, forse scontroso, eccezionale prova interpretativa per la Manville e per Day-Lewis, forse il canto del cigno per l’interprete del “Mio piede sinistro” e di “Lincoln”, convinto da oggi in poi ad abbandonare lo schermo. Oscar per i migliori costumi. Durata 130 minuti. (Centrale in V.O., Due Giardini sala Nirvana, Reposi, Romano sala 2)

 

La forma dell’acqua – The shape of water – Fantasy. Regia di Guillermo del Toro, con Sally Hawkins, Doug Jones, Octavia Spencer, Michael Stulhbarg e Michael Shannon. Leone d’oro a Venezia, tredici candidature agli Oscar, arriva l’attesissima storia del mostro richiuso in una gabbia di vetro all’interno di un laboratorio governativo ad alta sicurezza (siamo negli States, in piena guerra fredda, il 1962) e del suo incontro con una giovane donna delle pulizie, Elisa, orfana e muta, dei tentativi di questa di salvarlo dalla cupidigia dei cattivi. Avrà l’aiuto degli amici (il disegnatore gay, lo scienziato russo pieno di ideali, la collega di colore), cancellando la solitudine e alimentando i sogni, in un’atmosfera che si culla sulle musiche di Alexandre Desplat, contaminate da quelle dei grandi del jazz degli anni Sessanta. Durata 123 minuti. (Ambrosio sala 1, Massaua, Eliseo Grande, Massimo sala 1 anche V.O., Reposi, The Space, Uci)

 

Il giustiziere della notte – Drammatico. Regia di Eli Roth, con Bruce Willis. Nel 1974 il medesimo titolo esplose con l’interpretazione di Charles Bronson, oggi, riadattato e attualizzato, lasciati i grattacieli di New York per essere ambientato a Chicago, chiuso nel vortice dei fatti successi nelle scuole americane e nel dibattito circa lo sfrontato acquisto/uso delle armi da parte dei cittadini degli States, vede il duro a morire Willis, medico chirurgo, combattere contro chi gli ha ucciso la moglie e violentato la figlia. Durata 92 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi, The Space, Uci anche in V.O.)

 

Lady Bird – Drammatico. Regia di Greta Gerwig, con Saoirse Ronan, Lucas Hedges, Timothée Chalamet e Laurie Metcalf. Una storia che pesca nell’autobiografia, l’autrice, come il personaggio femminile del film, è nata a Sacramento, in California, e sin da giovane smaniosa di raggiungere la costa orientale per studiare e dedicarsi al cinema. Anche Christine sogna di iscriversi ad una università nella parte opposta degli States, sottrarsi alla madre autoritaria, alla figura del padre senza lavoro, a quel piccolo mondo che la circonda. S’inventa storie, fa fronte alle prime prove d’amore, dal risultato negativo, fa di tutto per mettersi in buona luce agli occhi dei compagni di scuola che sembrano valere più di lei, ricavandone delusioni, s’appiccica quel nome del titolo: quale sarà il suo futuro? Un ritratto femminile già visto altre volte, che cerca continuamente sfide interpretative e di regia: ma un film che non lascerà un grande ricordo di sé, a bocca asciutta nella notte degli Oscar. Durata 94 minuti. (Eliseo Rosso, Nazionale sala 2, Uci)

 

Omicidio al Cairo – Giallo. Regia di Tarik Saleh, con Fares Fares. La morte di una cantante di successo nelle stanze del Nile Hilton Hotel, la sua relazione con un politico, un caso che si vorrebbe chiudere al più presto. La capitale egiziana del 2011, le rivolte e la corruzione senza limiti, la criminalità che invade il paese, un commissario che pur tra le proprie zone d’ombra eccelle senza dubbio sui suoi superiori e che vuole andare fino in fondo pur di scoprire i colpevoli. Durata 106 minuti. (Classico)

 

Nome di donna – Drammatico. Tegia di Marco Tullio Giordana, con Cristina Capotondi, Valerio Binasco, Adriana Asti e Bebo Storti. Nina, madre di una bambina, trova lavoro in una elegante residenza per anziani, nel territorio di Cremona, dove il direttore, spalleggiato da un sacerdote fuori da ogni regola di accoglienza, fa il buono e cattivo tempo. Sulle dipendenti soprattutto, che ha molestato e che molesta, che continuano ad accettare. Nina rompe gli schemi ormai affermati, denuncia, cerca disperatamente ma inutilmente l’appoggio delle colleghe. Un tema quanto mai attuale, pronto a far discutere. Come è consuetudine per le storie raccontate da Giordana, da “Maledetti vi amerò” alla “Meglio gioventù”. Durata 98 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse, Nazionale sala 1, Uci)

 

L’ora più buia – Drammatico. Regia di Joe Wright, con Gary Oldman, Kristin Scott Thomas, Lily James e Ben Mendelsohn. L’acclamato autore di “Espiazione “ e “Anna Karenina” guarda adesso al secondo conflitto mondiale, all’ora decisiva del primo anno di guerra, alla figura del primo ministro inglese Winston Churchill. Nel maggio del ’40, dimessosi Chamberlain e da poco eletto lui alla carica, inviso al partito opposto e neppure in grado di poter contare sui suoi colleghi di partito e sul re che lo tollera, mentre le truppe tedesche hanno iniziato a invadere i territori europei, Churchill combatte in una difficile quanto decisiva scelta, se concludere un armistizio con la Germania dopo la repentina caduta della Francia oppure avventurarsi nell’intervento di un conflitto armato. Mentre si prepara l’invasione della Gran Bretagna, si deve pensare alla salvezza del paese, grazie ad una pace anche temporanea, o l’affermazione con una strenua lotta degli ideali di libertà: una delle prime mosse fu il recupero dei soldati intrappolati sulle spiagge di Dunkerque (come già ad inizio stagione ci ha insegnato lo stupendo film di Christopher Nolan). Oldman s’è visto per il ruolo assegnare un Globe, ha meritatamente conquistato poche sere fa l’Oscar, un’interpretazione che colpisce per la concretezza, per gli scatti d’ira e per quel tanto di cocciutaggine e lungimiranza britannica che in quell’occasione s’impose. Uno sguardo al trucco dell’interprete: un secondo Oscar al film, premio agli artefici e alle tante ore di perfezione ogni giorno di lavorazione cui l’attore s’è sottoposto. Durata 125 minuti. (F.lli Marx sala Chico, Greenwich sala 3)

 

Puoi baciare lo sposo – Commedia. Regia di Alessandro Genovesi, con Diego Abatantuono, Monica Guerritore, Salvatore Esposito e Cristiano Caccamo. Si sono fidanzati a Berlino (“dove è facile fare i gay…”) Antonio e Paolo e sperano che la loro unione venga benedetta dal padre di Antonio, sindaco di Civita di Bagnoregio e uomo fautore di ogni accoglienza. Ma il “suocero”, colpito nell’ambito familiare, non gradisce. Durata 90 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

Quello che non so di lei – Drammatico. Regia di Roman Polanski, con Emmanuelle Seigner, Eva Green e Vincent Perez. Delphine ha conosciuto l’importante successo editoriale dando alle stampe un romanzo che racconta il suicidio della madre. Ora deve combattere contro una crisi creativa che la blocca davanti al foglio bianco. L’incontro con Leila che poco a poco, in tante differenti occasioni, si insinua nella sua vita e quasi se ne appropria, la metterà di fronte ad un mondo di ambiguità, dove anche l’aspetto morboso (basta ripercorrere la filmografia di Polanski per ritrovarne ampi esempi) trova eccellente spazio. Tratto dal romanzo “D’après une histoire vraie” di Delphine Vigan, con uno sguardo anche alla lotta incrociata di “Eva contro Eva”. Durata 100 minuti. (Ambrosio sala 3, F.lli Marx sala Harpo, Greenwich sala 1)

 

Red Sparrow – Azione. Regia di Francis Lawrence, con Jennifer Lawrence, Joel Edgerton, Charlotte Rampling, Jeremy Irons e Matthias Schoenaerts. Con tutta probabilità il primo capitolo di una adrenalinica trilogia, dal momento che lo scrittore Jason Matthews, un ex agente della Cia che ha parecchie cose da raccontare dovute a una più che trentennale lotta sul campo, ha anche pubblicato, oltre a questo primo romanzo, “Il palazzo degli inganni” e “The Kremlin’s Candidate”. Con il visino, la carica erotica e l’escalation senza freni della bella Jennifer già pluripremiata e oscarizzata nonostante i suoi “soli” ventisette anni, la ballerina del Bolshoi Dominika, in una guerra fredda che sembra affatto terminata, dovrà vedersela con un intrepido agente della Cia sotto copertura al di là della Cortina, ma si sa che in questi incontri/scontri possono farsi strada crocevia amorosi. Dirige il regista di “Hunher Games”, intriganti i panorami che si inseguono tra Atene e Mosca, tra Helsinki e Washington. Durata 139 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 2, Reposi, The Space, Uci)

 

Ricomincio da noi – Commedia. Regia di Richard Loncraine, con Imelda Stauton, Celia Imrie e Timothy Spall. Il film che con risate, un po’ di autentica commozione e grande successo aveva aperto l’ultimo TFF. Scoperto che il marito la tradisce da anni con la sua migliore amica (mai fidarsi!), la protagonista scopre, attraverso l’eccentricità della sorella, quei tanti amici che la circondano, il suo modo spensierato di affrontare e condurre la vita, di avere voglia di buttarsi alle spalle tutto quanto, magari iniziando con il frequentare una sala da ballo. La attendono ancora altre prove ma un non più giovane innamorato la farà decidere la nuova strada da intraprendere. Nessuno scossone ma una bella botta di vita comunque, per lo spettatore e per la terna d’attori che sono tra il meglio del cinema e del teatro inglesi, da ammirare. Durata 110 minuti. (F.lli Marx sala Groucho, Romano sala 1)

 

La terra buona – Commedia drammatica. Regia di Emanuele Caruso, con Fabrizio Ferracane, Giulio Brogi, Lorenzo Pedrotti e Viola Sartoretto. Tre storie che s’intrecciano per confluire insieme in un angolo di serenità. La giovane Gea, malata terminale, all’insaputa della famiglia si rifugia con un amico, forse innamorato di lei, in una valle piemontese al confine con il territorio svizzero. Là, in una borgata antica, fatta di case di pietra, dimenticata, vivono un vecchio frate eremita che ha raccolto negli anni una ricchissima biblioteca e un medico, in cerca di medicamenti alternativi, senza risposte certe, e per questo cacciato dalla civiltà che lo ha giudicato e condannato. Un’altra scommessa per l’autore che tre anni fa con “E fu sera e fu mattina” divenne un caso cinematografico, ovvero budget ridotto all’osso e grande successo per i cinefili doc. Durata 110 minuti. (Reposi)

 

The lodgers – Non infrangere le regole. – Horror. Regia di Brian O’Malley, con Charlotte Vega, Bill Milner, Eugene Simon e David Bradley. Nell’Irlanda del 1920, i gemelli Edward e Rachel debbono combattere, per una punizione per le colpe dei loro antenati, contro le presenze sinistre che popolano la loro casa. Debbono andare a letto entro la mezzanotte, non debbono mai fare entrare estranei in casa e debbono stare sempre insieme, senza mai separarsi. Ognuna di queste regole va rispettata. Se il ragazzo è pronto ad accettare ogni norma, la sorella cerca di sfuggire per sottrarsi ad una crudele prigionia. Durata 92 minuti. (Ideal, The Space, Uci)

 

The Post – Drammatico. Regia di Steven Spielberg, con Meryl Streep e Tom Hanks. Ancora l’America descritta da Spielberg con gran senso dello spettacolo. L’argomento è ormai noto, il New York Times aveva tra le mani nel 1971 un bel pacco di documenti comprovanti con estremo imbarazzo la cattiva politica di ben cinque presidenti per quel che riguardava il coinvolgimento degli States nella sporca guerra nel sud-est asiatico. Il governo proibì che fossero dati alle stampe. Se ne fece carico il direttore del Washington Post (Tom Hanks), sfidando comandi dall’alto e un non improbabile carcere: ma a nulla sarebbe valsa quella voce pure autorevole, se la voce ancora più forte non fosse venuta dall’editrice Katharine Graham, all’improvviso ritrovatasi a doversi porre in prima linea in un mondo esclusivamente maschile, buona amica di qualche rappresentante dello staff presidenziale (in primo luogo del segretario alla difesa McNamara) e pur tuttavia decisa a far conoscere a tutti quel mai chiarito pezzo di storia. L’autore del “Soldato Ryan” e di “Lincoln” si avvale di una sceneggiatura che porta la firma prestigiosa di Josh Singer (“Il caso Spotlight”), della fotografia di Janusz Kaminski (“Schindler’s list”), dei costumi di Ann Roth. Durata 118 minuti. (F.lli Marx sala Harpo, Greenwich sala 1)

 

Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Drammatico. Regia di Martin McDonagh, con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Abbie Cornish e Lucas Hedges. Da sette mesi le ricerche e le indagini sulla morte della giovane Angela, violentata e ammazzata, non hanno dato sviluppi né certezze ed ecco che allora la madre Mildred compie una mossa coraggiosa, affitta sulla strada che porta a Ebbing, tre cartelloni pubblicitari con altrettanti messaggi di domanda accusatoria e di “incitamento” diretti a William Willoughby, il venerato capo della polizia, onesto e vulnerabile, malato di cancro. Coinvolgendo in seguito nella sua lotta anche il vicesceriffo Dixon, uomo immaturo dal comportamento violento e aggressivo, la donna finisce con l’essere un pericolo per l’intera comunità, mal sopportata, quella che da vittima si trasforma velocemente in minaccia: ogni cosa essendo immersa nella descrizione di una provincia americana che coltiva il razzismo, grumi di violenza e corruzione. Oscar strameritati per la protagonista e per il poliziotto mammone e fuori di testa di Rockwell. Durata 132 minuti. (Ambrosio sala 2, Greenwich sala 2, Massimo sala 2 in V.O.)

 

L’assassinio dell’inquisitore

L’assassinio dell’Inquisitore“, uscito in libreria per i tipi dell’Araba Fenice di Boves, è un romanzo storico ambientato in Valle di Susa nel XIV secolo, costruito attorno a un fatto realmente accaduto, l’assassinio di un inquisitore domenicano, padre Pietro Cambiani da Ruffia, che venne a morte da mano ignota

Il padre domenicano fu rinvenuto esanime una gelida mattina del lontano febbraio 1365 mentre si trovava a Susa, ospite della locale comunità francescana di Frati Minori Conventuali. Il grave fatto di sangue, oggi ricordato da una lapide collocata nel punto dove si consumò la barbara uccisione, in uno dei due chiostri del convento segusino di San Francesco, destò scalpore non solo nella Valle della Dora, com’era chiamata al tempo la Valle di Susa, ma anche a Chambéry, residenza principale del conte di Savoia, ed a Torino, all’epoca rientrante nei domini del ramo cadetto dei Savoia-Acaia. Qui aveva sede il tribunale presieduto dal beato Cambiani da Ruffia, protomartire degli inquisitori piemontesi, le cui spoglie mortali oggi riposano nel convento torinese di San Domenico.

Le indagini, condotte in precario equilibrio tra potere secolare, rappresentato dai Savoia, e potere ecclesiastico, incarnato dall’Inquisizione,vengono affidate al successore della vittima, padre Antonio Pavonio, che nel romanzo di Pamparato indossa i panni di “detective” prudente e saggio il quale, illuminato e guidato dalla fede, si addentra tra i meandri di un vero e proprio giallo medioevale, in cui, sullo sfondo di uno scenario politico e religioso tormentato, si agitano personaggi equivoci e talora misteriosi, che potrebbero nascondere, dietro la maschera rassicurante della rispettabilità, inconfessabili e crudeli propositi.

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Padre Pavonio, giunto a Susa da Torino, si confronta così con il rappresentante locale del potere secolare, il Balivo del conte di Savoia, destreggiandosi abilmente in un contesto travagliato da rivalità politiche, in particolare quelle che dividono il conte di Savoia dai principi d’Acaia, signori di gran parte del Piemonte occidentale, sospesi tra fedeltà al ramo comitale e spinte centrifughe, e da crescenti infiltrazioni ereticali, che minacciano l’ortodossia della fede cristiana, soprattutto attraverso la predicazione delle teorie del lionese Valdo.

L’autore tratteggia in modo documentato la situazione politica, sociale e religiosa che caratterizzava questa porzione di Piemonte alpino nella seconda metà del Trecento, facendo agire su questo palcoscenico un ampio parterre di attori, tutti potenzialmente sospettabili d’aver avuto movente e interesse ad uccidere l’inquisitore: bande di venturieri, armati prezzolati che combattevano al soldo del miglior offerente, gruppi di misteriosi cavalieri, forse legati al disciolto Ordine monastico-militare dei Templari, che si radunavano in casolari isolati per celebrare l’inquietante culto del Bafometto, adoratori del diavolo, sospettati di darsi ritrovo di notte in radure appartate o nel fitto della foresta, luoghi dell’oscurità e del mistero, e comunità di eretici, che s’insinuavano con i loro adepti tra le pieghe della società, alimentando insicurezza e reciproca diffidenza.

Dietro alle persone in carne e ossa si cela, però, il volto del vero nemico che padre Pavonio combatte nelle duplice veste di guardiano della fede cristiana e investigatore sulle tracce d’un criminale, il diavolo: è lui l’avversario del progetto salvifico di Dio, che allontana uomini e donne dalla retta via, per trascinarli nel baratro della perdizione e del delitto…

Il romanzo di Pamparato, assai accattivante e scorrevole nello stile di scrittura, è anche un invito a conoscere Susa, città d’antica e nobile origine, con significative testimonianze architettoniche e artistiche dei fasti medioevali, ed in particolare il complesso conventuale di San Francesco, eretto nel primo quarto del Duecento, che la tradizione collega al passaggio del Santo, recatosi a Susa dopo aver ottenuto in donazione da Beatrice di Ginevra, moglie del conte di Savoia Tommaso I, i terreni edificabili in cambio d’una manica del suo saio, oggi venerata come reliquia a Annecy.

Francesco Cordero di Pamparato, laureato in Giurisprudenza all’Università di Torino, è docente di Storia delle Crociate e di Storia di Bisanzio all’Università Popolare di Torino, scrive articoli per varie riviste di carattere storico, tiene conferenze in circoli e associazioni e alcuni corsi tematici di storia al Centro Pannunzio di Torino. Ha già pubblicato libri dedicati ai grandi ammiragli italiani, alla pirateria e guerra da corsa nel Mediterraneo, al Conte Verde Amedeo VI di Savoia, a Bisanzio, a Corrado di Monferrato e all’Arca dell’Alleanza.

Paolo Barosso

Francesco Cordero di Pamparato

L’assassinio dell’Inquisitore

Editore Araba Fenice Boves – 2017 – 160 pagg. – 16:00 €

 

 

Frank Sinatra come non l’avete mai ascoltato

Le canzoni del grande artista a Le Musichall attraverso l’inconfondibile voce di Matteo Brancaleoni, il crooner italiano per eccellenza, che da giovedì 8 a sabato 10 marzo porta in scena Frank Sinatra, una voce. Una leggenda

È più di un concerto live: il nuovo, suggestivo e coinvolgente show di Brancaleoni, da vedere e ascoltare, immerge il pubblico, anche attraverso immagini proiettate, nella vita e negli amori, nella musica e nella carriera di Sinatra, “The Voice”, la Voce che il mondo intero ancora ascolta e ama dopo oltre un secolo dalla sua nascita. A interpretare i brani di Frank Sinatra, anzi a reinterpretarli in chiave personale, è Matteo Brancaleoni, insieme all’Italian Swing Band composta da Nino La Piana (pianoforte), Gianpaolo Petrini (batteria), Roberto Chiriaco (basso e contrabbasso), Simone Garino (sax e clarinetto), Stefano Coco (tromba). In un viaggio che si snoda attraverso immagini, racconti e sulle note di quei brani di Sinatra considerati ormai grandi classici intramontabili (da I’ve Got You Under My Skin a Fly Me To The Moon, da Strangers In The Night aNew York New York, fino al marchio di fabbrica My Way), la voce di Matteo Brancaleoni e la musica dal vivo dell’Italian Swing Band rendono omaggio a un’artista entrato ‘nel mito’. Nato nel 1915 da una famiglia di immigrati italiani a Hoboken, un sobborgo di New York, Frank Sinatra è uno degli artisti più celebrati e influenti del XX secolo, una vera leggenda americana, poi diventato un’icona mondiale della musica swing.

 

Matteo Brancaleoni

Milanese di nascita, ma piemontese di adozione, Matteo Brancaleoni è ritenuto uno degli interpreti italiani più giovani e di spicco del songbook americano. Classe 1981, Brancaleoni è sin da piccolo appassionato di musica e ascoltatore curioso di ogni genere. Scopre la musica di Frank Sinatra attraverso una registrazione di quell’epico concerto al Palatrussardi di Milano in cui The Voice si esibì nel 1986 e attraverso una cassetta che gli regalò sua nonna in cui era incisa New York, New Yorkinterpretata da Liza Minelli. Da qui la folgorazione: Frank Sinatra e la sua musica entrano nella vita di Matteo Brancaleoni per non lasciarla più. Una passione che lo porta a studiare canto, chitarra classica, a fare un percorso al Conservatorio e ad avvicinarsi al jazz e allo swing. L’incontro con Renato Sellani e Franco Cerri lo convincono poi a intraprendere la carriera di cantante. Nel 2008 viene premiato come Miglior Nuovo Talento ad Elba Jazz, mentre il suo debutto discografico “Just Smile” viene stato accolto entusiasticamente dalla critica e dal pubblico che lo consacra con l’uscita di “Live in Studio”, suo album del 2010. Ha collaborato con artisti del calibro di Franco Cerri, Renato Sellani, Gianni Basso, Fabrizio Bosso, ma anche con Renzo Arbore e Fiorello (presenti nel suo album del 2015 “Made in Italy”) e Michael Bublè, che nel 2007 al Roma, lo ha invitato a duettare con lui dal vivo e a cui spesso viene paragonato.

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Le Musichall

Il teatro delle varietà con la direzione artistica di Arturo Brachetti, nasce dalla collaborazione tra Arte Brachetti srl e l’Opera Torinese del Murialdo, con l’obiettivo di rivitalizzare quelle forma di spettacolo popolare e coinvolgente, di arte varia, teatrale e musicale. Le Musichall si propone come teatro in cui è protagonista un intrattenimento leggero, divertente e di qualità, trasversale per proposte e per discipline, internazionale nell’approccio.

 

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BIGLIETTI (acquisto online su www.lemusichall.com)

Intero platea: 20 € + 1.50 di prevendita

Ridotto platea: 18 € + 1.50 di prevendita (over 65 under 12) e convenzionati (Abbonamento Musei, Torino+Piemonte card e Torino+PiemonteContemporary card)

Intero balconata: 17 € + 1.50 di prevendita

Ridotto balconata: 15 € + 1.50 di prevendita (over 65 under 12) e convenzionati (Abbonamento Musei, Torino+Piemonte card e Torino+PiemonteContemporary card)

L’8 marzo, in occasione della Festa della Donna, tutte le donne hanno l’opportunità di acquistare il biglietto a prezzo ridotto.

 

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Le Musichall

Corso Palestro, 14 – 10122 Torino

Per informazioni 011 1911 7172

www.lemusichall.com – info@lemusichall.com

Facebook: @LeMusichallTorino / Instagram: lemusicahalltorino