Per la prima volta in Italia nei Pronto soccorso degli ospedali della Città della Salute di Torino arrivano le “Schede triage multilingua”
Nei prossimi giorni esordiranno per la prima volta in Italia nei Pronto soccorso degli ospedali della Città della Salute di Torino le “Schede triage multilingua” per favorire il dialogo tra operatori sanitari ed i cittadini stranieri nell’ottica di una migliore comunicazione, comprensione e soprattutto diagnosi.
I Pronto soccorso degli ospedali della Città della Salute rilevano un continuo incremento di pazienti stranieri che vi accedono, anche alla luce degli ultimi mesi purtroppo contraddistinti dalla pandemia da Covid-19.
Gli infermieri del Triage del Pronto soccorso si trovano quindi spesso in difficoltà poiché possono aver necessità di interagire e porre domande ad un utente che non parla l’italiano. A poco servono gli strumenti, quali i traduttori on-line dei cellulari o i frasari cartacei: il tempo è poco, la condizione d’urgenza richiede tempestività e precisione. Per questa ragione è stato costituito in Azienda Città della Salute (diretta dal dottor Giovanni La Valle) un gruppo di lavoro per l’elaborazione di uno strumento atto ad agevolare la comunicazione tra infermiere e paziente straniero durante il triage. L’iter di raccolta dei dati sanitari, atto a comprendere l’urgenza della situazione, per definire poi il codice di priorità di accesso, rispetta la procedura del Triage Globale, che concatena le domande che il sanitario pone all’utente in modo codificato. Sulla base di questa organizzazione, il gruppo di lavoro, coordinato dal dottor Mario Caserta dell’Area Progetti dell’URP (diretto dalla dottoressa Lia Di Marco), composto da un infermiere di ogni Pronto soccorso (Daniela Camerano per le Molinette, Elisa Lazzeri per il CTO, Ilaria Bergese per il Regina Margherita e Chiara Ferrari per il Sant’Anna), e supportato dagli esperti del GFT – Gruppo di formazione e triage (Silvia Ambrosio e Daniele Marchisio), ha rielaborato lo strumento inizialmente redatto dal GFT a scopo didattico, l’ha adattato alle nuove esigenze ed alle peculiarità dei differenti Pronto soccorso e l’ha sottoposto ad un meticoloso lavoro di traduzione a cura dei mediatori culturali dell’ospedale. Quest’ultima scelta è degna di rilievo poiché, a differenza di un traduttore, il mediatore ha saputo contestualizzare la domanda allo specifico antropologico di provenienza della persona straniera.
Il risultato è un set di 6 schede, per ora in inglese, arabo, cinese, albanese e romeno, anche se sono in corso di traduzione quelle in spagnolo, francese e russo, così composto: la principale, la “scheda delle risposte”, da porre davanti al paziente e che lo stesso usa per indicare le risposte sulla sagoma di un uomo (dove hai male?), la scala del dolore (indica quanto hai male?), gli intervalli di tempo (da quanto tempo hai male?). A questa si aggiungono 5 schede, una per il sintomo o l’evento principale, e le altre suddivise per distretto anatomico, che riportano le domande da indicare al paziente in modo che quest’ultimo possa leggerne la traduzione nella propria lingua.
Nei prossimi giorni si avvierà la sperimentazione al Pronto soccorso delle Molinette (sotto la supervisione del dottor Franco Riccardini e del dottor Pietro Tuttolomondo) e del CTO, ultimata la quale si aggiungeranno in seguito anche il Regina Margherita, con le schede pediatriche, ed il Sant’Anna, con le schede ostetrico-ginecologiche.
L’interrogativo tra gli addetti ai lavori, anche un po’ per mitigare eventuali timori ricorrenti tra la popolazione, è il seguente: la frase più utilizzata con i pazienti cinesi, sarà “hai la febbre?”. In questo modo verrà posta in modo corretto ottenendo una risposta altrettanto precisa.
Nel 2019 65678 (dei quali il 12,65% stranieri) sono stati gli accessi totali al Pronto soccorso delle Molinette, 43035 (9,30% stranieri) al Cto, 35040 (19,83% stranieri) al Regina Margherita e 16105 (25,70% stranieri) al Sant’Anna. Le nazionalità che hanno avuto maggiori accessi sono state: alle Molinette la Romania con 2886 (3,84%), Marocco 1209 (1,61%), Albania 806, Perù 588, Egitto 416, Cina 305. Al Regina Margherita: Romania 2793 (6,39%), Marocco 1274 (2,91%), Egitto 607, Albania 600, Perù 567, Cina 449. Al Sant’Anna: Romania 1542 (7,11%), Marocco 772 (3,56%), Nigeria 431, Perù 408, Albania 323. Al CTO: Romania 1492 (3,14%), Marocco 574 (1,21%), Albania 320. A seguire tutte le altre nazionalità.
In una società in cui i valori sono calpestati ed ignorati e tutto si riduce ad un relativismo etico che umilia le coscienze, Zanardi ci ha indicato la via del sacrificio e di valori etici decisivi. Questa in cui viviamo – secondo il laico Valerio Zanone – non è una società laica, ma una società profana senza valori.
di Marco Travaglini
Due realtà separate, come ho letto in un reportage sul portale ecologista “Terra News”, “da una linea invisibile lunga più di mille chilometri. Non è mai segnalata, eppure ha un nome ben preciso: si chiama Ielb, Inter-entity boundary line, e ricalca più o meno fedelmente il fronte di guerra del 1995. Da quel momento in poi, il confine tra i due stati confederati non ha più avuto alcun bisogno di essere indicato. Tanto lo conoscono tutti: è rimasto scolpito in ogni ruga, in ogni memoria. La Ielb è la stessa linea che quel maledetto 11 luglio del 1995 i bosniaci in fuga cercarono disperatamente di raggiungere, passando per i boschi”. Dall’altro lato c’erano i luoghi che ci siamo lasciati alle spalle: il territorio libero di Tuzla, controllato dall’armata repubblicana bosgnacca,
e quindi la salvezza. Per migliaia restò un miraggio e furono uccisi sul percorso della “marcia della morte” dalle truppe paramilitari serbe sguinzagliate sulle loro tracce dal generale Ratko Mladić, il boia condannato all’ergastolo dal Tribunale internazionale dell’Aja insieme all’altro criminale di guerra, Radovan Karadžić. Di lui si ricordano frasi agghiaccianti come “le frontiere sono sempre state tracciate col sangue e le nazioni delimitate dalle tombe”. Nell’ordinare la strage di Srebrenica Mladić raccomandò ai propri uomini di uccidere solo gli uomini perché “le loro donne devono vivere per soffrire”. Sono gli stessi uomini, ragazzi e vecchi i cui nomi sono impressi nell’enorme lapide di pietra che circonda la grande pagoda del Memoriale di Potočari . E’ lì che stiamo andando. Il pullman ci mette quasi tre ore a coprire una distanza di circa cento chilometri. I ragazzi chiacchierano, ridono, scherzano. Alcuni sono assorti nell’ascolto dell’iPod. Qualcuno dorme. Arriviamo a Potočari e lasciamo il pullman a qualche centinaio di metri dal memoriale. Sono da poco passate le undici del mattino e fa molto caldo. Tra le file delle steli bianche e verdi delle lapidi s’aggirano anziane donne. Camminano sotto il sole, ognuna con la sua bottiglietta d’acqua in mano. Si rimane sbalorditi dal senso di pace e dal silenzio. S’avverte appena il brusio, sommesso, della preghiera di un gruppo di musulmani raccolti con il loro mullah sotto la grande cupola della moschea all’aperto. La visita prosegue con l’intervento dei rappresentanti della municipalità di Srebrenica e la posa di una corona d’alloro del Consiglio regionale ai piedi della lapide con inciso “8372″. E’ il numero delle vittime, che corrisponde a quello ipotizzato quando venne aperto il memoriale. In realtà la cifra più attendibile è di oltre diecimila morti. Terminata la cerimonia si attraversa la strada per visitare l’ex-fabbrica delle batterie che fu la base dei caschi blu dell’ONU, luogo dove si consumò la pulizia etnica nei giorni della vergogna. Il contrasto è netto. Se fuori fa caldo e la luce è accecante, dentro fa freddo ed è semibuio. La fabbrica, pur mantenendo gli ambienti originali con i grandi capannoni, è diventata un museo. Sui muri ci sono le fotografie dell’assedio di Srebrenica, dei militari, delle fosse comuni. Alcuni pannelli raccontano le storie di alcune delle vittime e accanto, dentro delle teche di vetro illuminate, ci sono gli oggetti personali che sono stati trovati accanto ai loro corpi. Ciò che resta di un orologio, un pacchetto di sigarette, un anello, un piccolo quaderno. Oggetti semplici, quotidiani, che fanno parte delle storie semplici di vite spezzate. Sui muri ci sono ancora le scritte e i disegni osceni dei militari olandesi. Gli stessi che avevano il compito di proteggere gli sfollati e non alzarono un dito. Ci sono anche due video.
Il primo mostra quello stesso cortile nel primo pomeriggio dell’11 luglio 1995. È ingombro di automezzi carichi di anziani, donne e bambini attorniati da paramilitari serbi e caschi blu olandesi. Le donne vengono separate dagli uomini con la collaborazione degli stessi caschi blu, forse impauriti da una possibile reazione. Poi i maschi spariscono per sempre nei boschi e le donne vengono selezionate: quelle più giovani sono portate all’interno, dove tuttora è intatta la ‘infertivno dom’, la stanza dell’inseminazione, corredata dalle scritte che sui muri celebrano orari e protagonisti di ogni stupro. Viene voglia di voltare lo sguardo ma gli occhi rimangono incollati alle immagini. Quelle donne, ferite e coraggiose, sono le stesse donne che da tanti anni aspettano di ritrovare il corpo dei loro cari, ostinandosi a visionare ogni reperto trovato e effettuare gli esami del dna. E’ grazie a loro se tutto ciò oggi può essere raccontato. Al loro dramma il Tribunale dell’Aja non ha mai riconosciuto un indennizzo di guerra poiché quel genocidio, si è detto, fu opera di singoli e non del governo serbo. Ed eccoli, nel filmato del documentario,i “singoli”: dagli “Scorpioni”, truppe paramilitari d’assalto, alle milizie di Mladić, il “boia di Srebrenica”. Si filmano da soli, in preda a un delirio di onnipotenza, per testimoniare le loro nefandezze. Si vedono mentre inseguono i fuggiaschi nei boschi, puntando le armi su una fila di bosnacchi disperati. Sanno cosa fare: prendono un uomo alla volta, lo portano in mezzo alle frasche, gli sparano. Nel filmato si comprende bene la loro richiesta prima di ogni esecuzione: “guarda per terra”. Poter non guardare in faccia la propria vittima, hanno spiegato gli psicologi, è ciò che serve anche al più duro dei criminali per resistere così allo stress di una mattanza. In questo caso di un genocidio. E’ una richiesta allucinante: “abbassa gli occhi e muori. Muori, ma non guardarmi”. Le immagini scorrono, incollando gli
sguardi allo schermo. Il silenzio si fa ancora più assordante. Di tanto in tanto un rumore metallico ( basta appoggiarsi o inciampare in qualche struttura per provocarlo e amplificarlo nel vuoto di questi enormi scatoloni di ferro e cemento) lo spezza , facendo sobbalzare i ragazzi. L’atmosfera è pesante e la tensione diventa palpabile, densa. Un grumo di emozioni s’accumula e fatica a sciogliesi. Non sono pochi quelli che, pur cercando in qualche modo di mascherarlo, non reggono allo stress emotivo e piangono. In fondo è un atto liberatorio, un modo per espellere il veleno inoculato negli animi da queste immagini che non sono tratte da un film ma dalla testimonianza, diretta e cruda, di una realtà violenta e arrogante. Mi sembra di udire la voce profonda e un po’ rauca di Giovanni Lindo Ferretti. Ne immagino la faccia scavata, senza età mentre canta “Memorie di una testa tagliata”. Parole che fanno riflettere a Srebrenica. “Chi è che sa di che siamo capaci tutti,vanificato il limite oramai. Vanificato il limite, sotto occhi lontani, indifferenti e bui…Pomeriggio dolce assolato terso, sotto un cielo slavo del Sud. Slavo cielo del Sud non senza grazia”. Un limite oltrepassato, calpestato, negato con un cinismo paragonabile solo alle pianificazione nazista dell’Olocausto. E tutto questo cinquant’anni dopo. Segno che la storia, troppe volte, non insegna nulla nonostante ci offra un’infinità di cose sulle quali riflettere. Quando si esce dai capannoni sotto il sole caldo e accecante sono quasi le tredici. E’ come s’uscisse da una tomba. Gli sguardi sono persi, attoniti, provati. I ragazzi salgono sul pullman ammutoliti. Difficilmente dimenticheranno ciò che hanno visto. Si passa veloci dal centro di Srebrenica, si svolta e si torna indietro, costeggiando il grande cimitero dove ci sono ancora moltissime tombe provvisorie. Secondo i precetti musulmani, le steli di legno verde devono anticipare di un anno la lapide definitiva in marmo bianco. Ma sopra ognuno di quei legni verdi, c’è un nome e un cognome. E ci sarà qualcuno che, finalmente, potrà ritrovarsi lì per piangere un padre, un marito o un figlio. Ci si lascia alle spalle, silenziosi, il cuore della memoria rimossa dell’Europa, mentre il sole s’avvia con una lentezza esasperante verso il tramonto a ovest. Nella stessa nostra direzione. C’è chi fa notare che , a poche centinaia di chilometri , oltre l’Adriatico, c’è l’Italia. Non troppo lontana e ugualmente europea , anche se pare un altro mondo.
La situazione attuale della pandemia in Italia, a meno che ci nascondano dei dati, difficilmente giustifica un provvedimento del genere. Dobbiamo essere tutti disciplinati e non possono essere ammessi comportamenti difformi dalle regole perché la salute e la vita sono valori prioritari.
Oggi siamo finiti sugli scogli e non si trova nessun intellettuale disposto a dare anche solo una mano. Un gruppo di oltre 150 intellettuali negli Stati Uniti ha avuto il coraggio di sottoscrivere un appello per difendere la libertà di opinione minacciata dalla nuova inquisizione del politicamente corretto che intende imbavagliare il dibattito presente e giudicare in modo manicheo e antistorico anche il passato con l’abbattimento di monumenti.