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Il ritorno della Festa del IV novembre

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

L’aula del Senato ha approvato il ritorno della Festa del IV novembre che il governo di solidarietà nazionale  presieduto da Giulio  Andreotti provvide ad eliminare. Era la festa della Vittoria e la stessa denominazione dava fastidio ai catto-comunisti,  ostili al Risorgimento di cui la Grande Guerra rappresentò il coronamento con Trento e Trieste e i territori del confine orientale. Era la vittoria del 4 novembre 1918 che segnava la fine della guerra iniziata il 24 maggio 1915.
Neppure per il centenario nel 2018 il governo ripristinò la festa. Può anche essere festa dell’Unità nazionale e delle Forze Armate, ma  essa è soprattutto la festa in cui gli Italiani festeggiano il tricolore su San Giusto a Trieste e sul Castello di Trento dove vennero martirizzati Cesare Battisti e altri eroi irredenti. Mio nonno nel cinquantenario del martirio di Battisti e di Damiano Chiesa nel 1916, mi portò a Trento.
Un’esperienza unica  alla vigilia del ‘68 che avrebbe messo sotto i piedi l’idea di Patria. Con il ripristino della festa del 4 novembre sarà possibile riprendere nel modo più adeguato il ricordo di una data che uni’ tutti gli Italiani dopo la sconfitta di Caporetto. Non si tratta di essere militaristi perché ricordare i Caduti in guerra al suono della Leggenda del Piave non rappresenta nessuna forma di  bellicismo. Chi ha combattuto nelle guerre ha maledetto le guerre molto più di chi nelle retrovie sabotava a parole la guerra o addirittura con atti eversivi nell’agosto torinese del 1917 tentò una sorta di rivoluzione russa come fece in grande dopo la Vittoria.
Chi è vissuto nel fango delle trincee o sulle altitudini ghiacciate delle Alpi pati’  la durezza della guerra e  spesso affrontò il sacrificio della vita. Onorare i caduti è un dovere civile. Onoriamo i caduti di tutte le guerre e di tutti i fronti, ma nel rispetto della storia storia nazionale che trovò il suo punto più alto nel 4 novembre con l’esercito austro-ungarico in fuga dopo tre anni di guerra con esiti alterni.

Privacy è libertà

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
Sabato scorso ho partecipato insieme  a Franco Pizzetti, Agostino Ghiglia, Mario Camisani Calzolari, Roberto Sarcinelli,  con la sapiente moderazione di Alberto Culatina,  ad un convegno su “Privacy e’ libertà” organizzato dall’Universita’ di Pavia. Pur con punti di vista diversi tutti i relatori hanno concordato sui pericoli che corre la libertà in assenza di una reale ( e forse oggi  impossibile ) tutela della privacy che soprattutto  internet rende molto problematica. Una società trasparente non concepisce la riservatezza e neppure uno iato tra vita pubblica e vita privata. I giornalisti alla  T r a v a g l i o  sono una delle cause maggiori della violazione della dignità della persona messa a repentaglio da chi  divulga notizie magari talvolta senza tutte le verifiche del caso,  distrugge prima di un processo l’immagine di chi apprende di un avviso di garanzia a suo carico  dai giornali (come di recente è capitato ad un noto deputato del PD )  e usa  intercettazioni  che dovrebbero rispettare il segreto istruttorio. L’abuso delle intercettazioni, per non dire dei trojan,  viola la stessa Costituzione e io mi auguro il Ministro Nordio vada avanti deciso nel realizzare la sua riforma liberale  della Giustizia. Nel convegno l’avv. Sarcinelli ha ricordato il saggio di Orwell “1984“ uscito a puntate sul” Mondo “ di Pannunzio nel 1950. Esso fu preceduto da un intervento di Benedetto Croce sul “Mondo” dal titolo “La città del Dio ateo” uscito l’anno precedente in cui il filosofo della libertà metteva in  evidenza come il totalitarismo staliniano era uno stravolgimento “più vasto e più forte della  caduta della  civiltà greco- romana“ . Croce fu tra i pochi a considerare “1984” la denuncia coraggiosa di un sistema oppressivo che negava la stessa dignità umana. Un qualcosa di simile aveva scritto Gustaw Herling in “Un mondo a parte “ in cui parlava dei gulag  sovietici dove era stato prigioniero. Il libro “1984” non venne considerato dalla cultura italiana schierata a sinistra e Togliatti così si espresse con il suo solito linguaggio astioso che cozza vistosamente con la sua fama di raffinato intellettuale : “Il libro e’ una buffonata informe e noiosa, strumento di lotta che uno spione ha voluto aggiungere al suo arsenale anti comunista apparsa in una sedicente rivista liberale“.  L’attacco togliattiano ad Orwel e al “Mondo“ ci dice molto sulle posizioni della sinistra di allora. Il fatto che la Privacy nella Costituzione sia prevista in modo esplicito solo per la corrispondenza e’ un elemento sufficiente per comprendere che  i tempi non erano maturi, ma che anche molti costituenti non erano assolutamente sensibili ad un tema che in altri paesi era invece già ben presente. Un Togliatti, un Dossetti, forse anche  un Moro  non avevano nessuna sensibilità al tema. Il fatto che la tutela della privacy sia stata affidata inizialmente ad un giurista come Stefano  R o d o t a’  che nella sua giovinezza scriveva sul “Mondo” e divenne deputato eletto dal PCI e fu il primo presidente del PDS non è stato certo un buon inizio: il suo giacobinismo illiberale era evidente, persino esibito con arroganza da una persona sicuramente  colta  che aveva smarrito per strada il liberalismo originario. Negli ultimi anni divenne la caricatura di se’ stesso e venne candidato alla presidenza della Repubblica dai grillini.

Il Cai e il “no” alle croci sulle vette

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Neppure l’ateo e mangiapreti accademico del CAI Massimo Mila avrebbe condiviso la decisione del CAI di condannare le croci in cima alle montagne, viste  come elemento divisivo. Forse il consigliere comunale  torinese che vuole eliminare il crocifisso nella Sala rossa , è diventato anche  dirigente del CAI , il Club alpino Italiano fondato da Quintino Sella, il grande statista biellese della nuova Italia nata dal Risorgimento e grande scienziato. Bontà loro, al CAI non contestano le croci esistenti, ma si dicono contrari a nuove croci  sulle montagne. La notizia potrebbe essere una barzelletta estiva che manderebbe su tutte le furie il  mio amico conte Edoardo Fiora di Centrocroci che sentirebbe il suo predicato nobiliare in pericolo. In effetti invece  è una  cosa apparentemente seria. Questi nuovi montanari scalatori di vette inesistenti non vogliono laicizzare le scalate, ma vogliono scristianizzare anche le vette più inaccessibili dove svetta da sempre la Croce di Cristo . Scristianizzare significa ripetere l’errore ingenuo della Rivoluzione francese che cambiò anche il nome dei mesi dell’anno, ottenendo come reazione Napoleone e la Restaurazione. Dove non entra il cittadino Cristo, non entra neppure il cittadino Parini, disse il poeta milanese  dell’illuminismo egualitario. Questi forse  panciuti alpinisti che vogliono distinguersi non nello scalare montagne, ma nell’ impedire nuove  croci, sono l’espressione montanara del nichilismo fallimentare che ha distrutto la nostra società. La laicità di Benedetto Croce portava il filosofo a non potersi  “non dire cristiano“. Questi velleitari laicisti vogliono accanirsi anche contro la storia. Il Cristianesimo, piaccia o non piaccia, fa parte della nostra civiltà, al di là del fatto di credere o non credere . Una verità elementare che gli scalatori del terzo millennio non riescono a comprendere. La notizia mi era sfuggita, ma oggi al castello di Issogne  l’amico editore valdostano  Ennio Pedrini mi ha raccontato le nuove prodezze del CAI.

Nordio garanzia di una giustizia giusta

IL COMMENTO Di Pier Franco Quaglieni

“Repubblica” accusa Nordio di “rancore” verso i Pm, ma la realtà parla di un odio giustizialista contro di lui. “La Stampa”  gianniniana e’ giunta a titolare in prima pagina  senza neppure le virgolette: Nordio giustifica gli evasori. Un titolo che meriterebbe una querela immediata e che rivela il settarismo intollerabile di quel giornale che tanti lettori non leggono più. Ha scritto Massimo Teodori, non propriamente un mio amico che mi ero proposto di non più citare : “Nell’Italia illiberale delle corporazioni finalmente un anticorporativo,  Carlo Nordio”. Ha infatti affermato  il ministro che “l’interlocutore istituzionale del Governo è il CSM”, replicando al Presidente dell’ A N M  il quale dava per scontato che il sindacato dei magistrati avesse diritto a giudicare preventivamente una legge che riguarda la riforma della Giustizia, prima ancora che essa  venisse scritta. La richiesta assurda aveva dei precedenti nell’ arroganza dell’A N M  e nell’ arrendevolezza della politica. Non era e non è assolutamente accettabile che un sindacato corporativo possa dettar legge al Governo e al Parlamento come faceva, ad esempio, Palamara, considerato forse troppo sprezzantemente  da Cossiga una marca di tonno.
I tempi sono cambiati e il consociativismo e’ finito. Nordio è  stato un magistrato  indipendente con la schiena diritta e oggi è un ministro competente, saggio e coraggioso. Se pensiamo al poco coraggioso Alfano, cogliamo molto bene le differenze tra passato e presente. E’ uno come Alfredo Biondi o Giovanni Conso che furono  fermati dal corporativismo di un gruppo di “toghe rosse”, come si diceva un tempo.
“Amai” Nordio tanti anni fa quando a Venezia fece ciò che a Milano fece Tiziana Parenti:  indagare anche verso il PCI. Di Nordio mi piacevano anche i berretti a spicchi di colori diversi che portava. In un negozio di Venezia li vidi in vetrina e ne acquistai tre. Mi dissero che quello era il negozio preferito da Nordio che nel 1999 invitai al Centro Pannunzio insieme al principe del foro Claudio Dal Piaz e a Giovanni Conso che parlo’ di indagini giudiziarie e indagini giornalistiche, riferendosi al “killer” Travaglio.
Solo recentemente ho avuto modo di conoscere Tiziana Parenti, donna straordinaria che seppe dire di no a Borrelli e d’Ambrosio, piu’  giustizieri  che giudici. Nordio sta facendo ciò che l’Italia aspettava da decenni: ripristinare le regole costituzionali, tutelare i cittadini e la loro dignità,  arginare lo strapotere di alcuni magistrati malati di protagonismo. In passato questi ultimi ebbero un tale peso che un mio ex allievo, che entrò a far parte di una famiglia di magistrati, evidenziava ad ogni piè sospinto che era il genero di un “noto magistrato“, per dare più autorevolezza al suo dire.
Quella fama conquistata con il tintinnare delle manette è finita piuttosto male  con Palamara destinato a pagare per tutti. Oggi l’ex giudice Davigo è stato condannato da un tribunale in prima istanza. Io gli auguro che venga assolto in appello e che non trovi giudici che condividano le sue idee sulla giustizia. Nordio e’ il punto di arrivo di una svolta civile che tutti i liberali autentici non possono non condividere e sostenere.Va ripristinata la Costituzione. Anche Marco Pannella sarebbe a fianco del ministro, mentre i finti radicali di “Più  Europa “ non lo  sostengono. Carlo Nordio ha fatto persino il miracolo di farmi riconciliare con Teodori! E non è poco!

In morte di Silvio Berlusconi

IL COMMENTO Di Pier Franco Quaglieni
Mi ero imposto di non scrivere in  morte  di Silvio  Berlusconi, perché la morte in molti casi impone il silenzio e richiede sempre  il  dovuto rispetto. Di fronte alla morte le risse politiche debbono cessare almeno per il tempo dei funerali come facevano gli antichi che avevano una civiltà oggi da tempo perduta. Lo spettacolo desolante di un’ Italia vergognosa e barbara mi impone di rompere il silenzio e condannare senza appelli chi ha festeggiato la morte di Berlusconi. Ieri avevo ripreso  bonariamente un amico in una chat che  si era lasciato andare a confrontare Napoleone con Berlusconi, un parallelo davvero assurdo e privo di  qualsiasi significato. Non ho apprezzato i servi encomi post mortem dei berluscones, ma i codardi di certa sinistra mi sembrano ancora più intollerabili e miseri, espressione di una povertà morale davvero meschina ed intellettualmente disonesta. Ci sarà il tempo per valutare con distacco storico Berlusconi, ma non è accettabile  lo schiamazzo molesto  di certi volgari antiberlusconiani come il vignettista autore di una satira immonda che va pubblicata per denunciare il livello infimo a cui si è giunti. Spesso sono stato in dissenso con il berlusconismo che non è mai stato veramente liberale. La Rivoluzione liberale è stata una favola tanto bella quanto inesistente e forse impossibile. Molte volte ho criticato atteggiamenti di Berlusconi che mi sembravano del tutto non condivisibili. Non so oggi dare un giudizio d’insieme su Berlusconi imprenditore, politico e uomo. Occorrerà  tempo e serenità e sarà indispensabile vedere come andrà a finire il suo movimento senza di lui. Di fronte a certi antiberlusconiani che starnazzano le loro  volgarissime malevolenze difronte ad un morto, non posso però non esprimere  la mia  totale condanna morale verso  chi non sa rispettare la morte di un avversario politico.
E’ certo che Berlusconi è stato un protagonista della storia italiana di cui cambiò il corso  degli eventi nel 1994 quando le sinistre pensavano di stravincere, dopo che i magistrati di Milano avevano raso al suolo la I Repubblica, salvando solo i comunisti. Anche in altri momenti della storia italiana  Berlusconi ha saputo essere protagonista, malgrado la sua evidente e neppure dissimulata impreparazione politica e incultura storica. In certi momenti ha avuto una visione lungimirante in politica estera e forse il suo torto maggiore è stato quello di esserci circondato di persone incapaci che lo hanno tradito. Con gli Alfano non si può cambiare l’Italia, questo è certo. Ma i diversi capi della sinistra, sapienti nell’uso del politichese e della storia  maneggiata come una clava, non si sono rivelati così significativi. Di Occhetto, di D’Alema e di Rutelli già oggi non è rimasto nessun ricordo, pur essendo  essi ancora in vita. Sono stati spazzati via anche dalla cronaca locale.
Rispetto  ai nani che oggi  lo insultano, Berlusconi   è stato e resterà un gigante. Delle Gruber, dei Travaglio, delle Annunziata e dei Fazio non resterà nulla di nulla, forse neppure la polvere. Per non dire dell’Arci di Arcore, che festeggia la  morte di Berlusconi  con le solite, disgustose  e puzzolenti salamelle  di sempre.

Giordano Bruno Guerri intervistato da “La Stampa”

IL COMMENTO  Di Pier Franco Quaglieni

L’intervista a  Giordano Bruno Guerri su “La Stampa  del 2 giugno  rappresenta qualcosa di importante sia perché è un fatto davvero inusuale che il giornale di Giannini dia voce a personalità libere come Guerri, sia perché  essa chiarisce in modo inequivocabile la posizione dello storico e dello scrittore, attuale presidente del Vittoriale. Guerri ha spiegato  in modo ineccepibile che occuparsi in termini storici di fascismo , non significa affatto essere  nostalgici. L’accusa di aver sdoganato il fascismo con la sua opera storica colpì in primis Renzo  De Felice e venne rivolta a tutti coloro che con il necessario distacco storico si occuparono del Ventennio e vennero accusati di revisionismo.
L’aver scritto di Bottai, di Marinetti, di D’Annunzio “per cambiare una vulgata sbagliata“ è  stato il  nobile compito che Guerri si è assunto ,infrangendo la feroce egemonia culturale che ha gravato pesantemente sulla cultura italiana per decenni. Guerri ha anche dichiarato di detestare il fascismo ed ha aggiunto che sarebbe stato “ un furioso antifascista durante il regime “ l’unica scelta che resta importante perché esserlo oggi senza rischi, anzi con molti vantaggi,  appare del tutto fuori tempo. L’antifascismo dei molti che cambiarono camicia dopo il 25 aprile 1945 ,andando in soccorso ai vincitori, come diceva Flaiano, non ha nulla di eroico, anzi esprime il più volgare opportunismo che non riguardò  solo gli intellettuali ma tanti italiani qualunque. Ernesto Rossi che subì’ carcere e confino ,scrisse in una lettera a Salvemini che molti a Firenze salutavano con il pugno chiuso perché, se avessero aperto la mano, sarebbe caduto in terra il distintivo fascista che avevano appena tolto dal bavero.
Guerri ha evidenziato nell’intervista come l’egemonia culturale del PCI  appaia un fatto storico indiscutibile. De Gasperi e i partiti laici scelsero la gestione del  potere, Togliatti rivolse la sua attenzione alla cultura che finì di prostrarsi al PCI : gli intellettuali – ha ricordato Guerri – “non sono leoni e sappiamo bene da dove vengono , dal Rinascimento stipendiati da un signore”.
Guerri ha anche spiegato come Berlusconi abbia  sottoscritto un tacito accordo con la sinistra, tenendo per se’ le televisioni e la cultura di massa. Il resto lo ha lasciato alla sinistra.” Secondo Guerri” non ha mai usato Mondadori o Einaudi a fini politici perché a lui non interessava. Sarebbero stati strumenti formidabili; anche sotto Berlusconi la cultura alta di destra è rimasta orfana.”Una verità sui limiti abissali di Forza Italia che ha i premiato spesso gli sprovveduti e gli incolti, lasciandosi scappare i “professori”, ma non soltanto quelli.
Nell’ intervista Guerri (che ha appena pubblicato un nuovo libro su D’Annunzio “Gabriele  D’Annunzio. La vita come opera d’arte” – Rizzoli 2023 ) ha anche  spiegato le distanze del Vate dal fascismo  come è ormai assodato dalla storiografia più seria. Guerri ha anche raccontato  un episodio emblematico: “Quando sono arrivato al Vittoriale fuori c’erano bancarelle con paccottiglia varia, i gagliardetti, gli Eja Eja Alalà, i manganelli, le magliette con la scritta “me ne frego“. Prima gli imposi di vendere  anche le magliette con Che Guevara. Quando scadde la concessione, sono riuscito a far rimuovere le bancarelle e a Gardone non si trova più un accendino con il duce. Per questo mi sono inimicato un sacco di gente a destra, prima di tutti Casa Pound.”
Conosco Guerri ed ho letto quasi tutti i suoi libri. Egli è davvero un intellettuale libero e la sua laicità è davvero un aspetto importante della sua opera. E’ un chierico che non ha tradito, se vogliamo evocare il grande e dimenticato  libro di Julien Benda.

Quaglieni: “Si’ al crocifisso nell’Aula del consiglio comunale di Torino”

Chiedo di essere ascoltato come studioso della laicità

Che un eccentrico consigliere comunale di Torino voglia digiunare contro il crocifisso nella sala rossa  del consiglio comunale ha certamente poca importanza,  come ha pochissima importanza la vulgata laicista del massone ultracentenario Segre che ripete stancamente  cose che forse la stessa Massoneria non condivide più. Il tema del crocifisso nella sala rossa è tema obsoleto, più volte riproposto inutilmente  nel corso degli anni da gruppuscoli di laicisti intolleranti. Ancora una volta la distinzione netta di Bobbio tra laici e laicisti riappare, così come la fondamentale precisazione di Passerin d’Entreves sulla  laicità che non significa miscredenza, dovrebbe essere ricordata almeno da chi non sia del tutto incolto. I veri laici sono pluralisti sempre e non sono disposti a battaglie di retroguardia del tutto fuori dal tempo. Basterebbe leggere qualche pagina del “Perché non possiamo non dirci cristiani “ di Croce per capire che il Cristianesimo è parte storica della nostra civiltà occidentale e laica. Basterebbe leggere cosa scrisse Natalia  Ginsburg sul Crocifisso, lei ebrea e atea comunisteggiante, per capire cosa significhi  il Cristo crocifisso che da tempo è stato fatto sloggiare dalle scuole. Quando i Francesi arrivarono a Milano , tolsero subito i crocifissi dalla Sala del Comune a Palazzo Marino. Il poeta illuminista Parini che non era distante dalle idee egualitarie della Rivoluzione francese, disse:  “Dove non entra il cittadino Cristo, non entra neppure il cittadino Parini”. Io chiedo in modo formale di essere ascoltato alla Presidente Maria Grazia Grippo  che ha ben altra sensibilità democratica dei suoi predecessori immediati, in primis come studioso della laicità su cui ho scritto saggi conosciuti a livello internazionale.
                 Pier Franco Quaglieni

L’autobiografia della Vedova Calabresi tra perdono e memoria storica

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Sono stato ad una presentazione del libro  “La crepa e la luce – Sulla strada del perdono” (ed. Mondadori)  di Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi ammazzato dai sicari di Lotta continua nel 1972. La signora Calabresi coglie l’occasione per tracciare una sua autobiografia all’insegna del perdono,  essendo ormai giunta a 75 anni di età.  Incontrandola,  ho detto pubblicamente  che è riuscita a trasformare una tragedia in poesia. Ho seguito con attenzione e anche commozione le sue parole ed oggi ho letto il suo libro.  Sotto il profilo umano emerge una donna fragile e forte ad un tempo che ha trovato nella fede il superamento di ogni odio sicuramente comprensibile in una persona che perdette il marito all’età di venticinque anni.
La Signora Calabresi è mia coetanea ed è anche torinese di origine: la nostra memoria quasi coincide ed ho sentito un’attrazione sentimentale verso questa donna che è riuscita a vivere due matrimoni tanto diversi uno dall’altro. Io ho conosciuto il figlio Mario Calabresi in alcune occasioni. Venne anche al ricordo di Carlo Casalegno che tenni nel luogo in cui subì l’agguato mortale delle Br. Posso dire che la vedova di Carlo Casalegno Dedi  nutriva sentimenti  molto diversi da quelli della Signora Calabresi e di suo figlio Mario. Così debbo dire anche  di un mio carissimo amico, il maestro Massimo Coco, figlio del Procuratore Generale di Genova  Francesco Coco  freddato dai brigatisti con la sua scorta. Massimo Coco ha scritto un grande libro destinato ad entrare nella memorialistica  del Novecento “Ricordare stanca” che ho presentato in diverse occasioni in cui dice anche con chiarezza che lui non è disposto a perdonare perché gli assassini di suo padre non sono mai stati identificati. Gemma Calabresi ha cercato invece nel suo libro addirittura di identificarsi nella vita dei responsabili della morte di suo marito, pensando a gente che avrebbe potuto anche fare del bene oltre che del male. Nel libro si parla  inoltre dei suoi incontri con il pentito Leonardo  Marino e degli “esuli” francesi condannati per l’omicidio Calabresi che non hanno mai fatto un giorno di carcere  per l’accoglienza loro accordata da Mitterand e confermata di recente dalle autorità d’Oltralpe. La comprensione della vedova Calabresi è sicuramente rispettabile, ma poco condivisibile. Con lo stesso metro avrebbe accordato fiducia anche al pluriomicida Battisti.  Sofri, il mandante, il capo supremo di “Lotta continua”, e’ difficile da perdonare non fosse altro perché mando’ allo sbaraglio tanti giovani in anni in cui bastava una parola per uccidere.  Ho chiesto alla Signora Calabresi cosa pensasse del delirante ed infame manifesto pubblicato su “L’Espresso” nel 1971 che raccolse 757 firme di intellettuali o sedicenti tali, il Gotha della cultura oltre che del culturame.
Persone come Giorgio Amendola firmarono il manifesto  insieme a Bobbio che si dissociò  molto tardivamente. Natalia Ginzburg  interrogata anni dopo disse: ”Non so cosa si vuole da me , non ho niente da dichiarare“. Il famoso critico Giulio Carlo Argan disse di “non ricordare nulla e di non volerne più parlare“.
A suo tempo mi sorprese che una storica dell’arte torinese stimata Anna Maria Brizio fosse stata tra i promotori del manifesto insieme a Musatti, Paci e Salinari, quello dell’ agguato di Via Rasella.
Ho raccontato in articoli e in un libro come fosse stata carpita da Moravia a Mario Soldati  la firma.  La signora Calabresi ha minimizzato il significato dell’appello di quasi tutta la cultura italiana  che armò la mano agli assassini del marito, dicendo che molte adesioni vennero ricavate dagli indirizzari di alcune associazioni. Può essere vero, come è vero quanto scrivo io per Soldati, ma solo in pochissimi si dissociarono dopo parecchi  anni. Bobbio espresse orrore per il testo sottoscritto.
Comprendo benissimo che armare la mano degli assassini con delle parole deliranti non equivalga ad ammazzare qualcuno, ma speravo che la signora Calabresi si sarebbe espressa  in un altro modo – pur perdonando tutti – nei confronti del meglio e del peggio della cultura italiana di allora che giudicò quasi coralmente  suo marito un assassino con le mani sporche di sangue dell’anarchico Pinelli. Io non riesco a dimenticare l’infame manifesto e non posso non ricordare che Giampaolo Pansa, Marco Pannella, Alberto Asor Rosa   e Sandro Galante Garrone rifiutarono la firma: rari nantes in gurgite vasto del conformismo e della violenza che sfociò nel terrorismo armato di cui l’ammazzamento di Calabresi fu il tragico inizio.
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Antifascismo, anticomunismo, antitotalitarismi

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Gian Luca Favetto su “Repubblica” ha scritto un articolo dal titolo  “Il 25 aprile: un verso di passione, colori, memorie e profumi “ in cui ad un certo punto ha  scritto quanto segue:  “Il 25 aprile deve sventolare fiero contro tutti i fascismi, nazismi, totalitarismi“. Nunzio dell’Erba mi ha segnalato l’articolo che mi era sfuggito.
In tutto il suo appassionato pezzo, che rivela il  valore del critico letterario capace, ma non certo dello storico, non compare mai la parola anticomunismo. A Fratelli d’Italia si imputa la colpa di non voler mai pronunciare la parola antifascismo, ma Favetto e tanti militanti e dirigenti della Sinistra non  si dicono mai  anticomunisti, commettendo  un identico errore. Il comunismo non è stato da meno del Nazismo, anzi dal 1917 al crollo del Muro di Berlino ha seminato milioni di morti, per non parlare della Cina  maoista e post maoista. Non basta prendere le distanze dallo stalinismo perché Krusciov che era antistalinista, invase l’Ungheria. C’è nel comunismo un’anima totalitaria che lo collega al giacobinismo della Rivoluzione francese, inasprito dalla visione marxista – leninista. Nella  ideologia totalitaria di Lenin ed anche di Trotsky c’è  il naturale ricorso alla violenza e al terrore  come armi di conquista e di mantenimento del potere. Stalin non fu una degenerazione di Lenin, ma la necessaria conseguenza, la normalizzazione di un regime che non poteva vivere in una “rivoluzione permanente“. Portare il socialismo in Russia stravolse tutti gli schemi utopistici di Marx che comunque, come colse subito  molto bene Mazzini, portava in sé una carica anche prussiana  di autoritarismo negatore di ogni  libertà individuale. Come vide Croce, non era possibile passare dalla dittatura del proletariato  del socialismo alla libertà del comunismo.
Dopo l’ esperienza dei dissidenti russi, da Solzeniskcin  a Sacharov, che hanno scoperchiato il vaso di Pandora del comunismo, non è più possibile non dirsi anticomunisti. Girare attorno a questo tema come fanno molti ex missini con l’ antifascismo è un atto di ipocrisia intellettuale e politica. Certo basterebbe una  chiara condanna comune nei confronti dei totalitarismi del Novecento, purché non sia un modo elegante per occultarne una parte come fa Favetto. Riccardo Lombardi arrivo’ a teorizzare l’acomunismo, prendendosi la severa critica filosofica  di Nicola Abbagnano; ci sono intellettuali novecenteschi che vennero accusati di afascismo, mentre molti  loro colleghi si fecero comprare dal regime e ne cantarono le lodi , salvo poi diventare comunisti dopo il 25 aprile 1945. L’ elenco sarebbe lungo. A tanti anni dalla caduta del regime forse anche definirsi afascisti potrebbe avere un senso, ma oggi la polemica politica incandescente richiede chiarezza assoluta. In ogni caso non devono essere i politici a scrivere o a riscrivere la storia, ma debbono essere gli storici. E se ci mettiamo su un piano storico il discorso non  appare  più riguardare il presente, ma il passato. E in questa dimensione può essere collocato anche il discorso di una possibile riconciliazione nazionale come sul terrorismo degli anni di piombo in parte si è realizzato.

Griffa: latinista insigne, preside coraggioso

IL COMMENTO Di Pier Franco Quaglieni

All’ età di 103 anni è mancato un grande latinista torinese, il prof. Lodovico Griffa ,autore di innumerevoli libri scolastici che continuano ad avere molte adozioni, è stato un preside storico del liceo classico “Cavour “. Iscritto alla Federazione nazionale dei docenti fondata da Salvemini e Kirner e presieduta da Gliozzi, seppe difendere le ragioni di una scuola seria nel diluvio universale provocato dal ‘68. Al liceo scientifico di Moncalieri seppe tener testa ad una violenta contestazione negli anni 70.
Era un preside – studioso, come lo fu Giovanni Ramella e come continua ad essere Gianni Oliva, e non di quei presidi burocrati ed ottusi che spesso governano le scuole in modo grigio ed alcune volte senza  possedere le qualità  minime richieste ad un dirigente scolastico. Il coraggio di decidere a Griffa non è mai mancato. Credo che al Liceo Cavour sia ricordato insieme ai grandi Presidi a cui  purtroppo sono succeduti molti personaggi , ubbidienti, fino al ridicolo ,al politicamente corretto, persino adottando gli *, condannati dall’ Accademia della Crusca nel catalogare gli allievi, anzi alliev*. Non è casuale che l’ ultraottantenne Presidente a vita  degli ex allievi del” Cavour”  abbia ignorato la morte del prof. Griffa che lascia un’opera immensa editoriale  per la scuola .Almeno gli ex allievi dovrebbero ricordarlo e il presidente ha l’età per aver conosciuto Griffa.
Era un uomo modesto e schivo  che non amava comparire, ma non è possibile ignorare la sua figura di Maestro di più generazioni di studenti. L’ultima volta che ci siamo visti all’Università mi prese da una parte e mi disse: ” Tieni duro, guai se molli”. Nei momenti più difficili ho pensato spesso a quelle parole così affettuose ed imperative. Per me Griffa resterà un maestro di vita morale e intellettuale come lo fu il comune amico Oscar Navarro. Grandi figure lontane di monaci del sapere ,ma anche uomini decisi e molto concreti nel condurre una scuola nelle acque agitate più insidiose di anni bui e difficili, tutt’ altro che “formidabili“.
Con Ludovico Griffa e altri pochi amici tra cui Luciano Perelli e Italo Lana abbiamo combattuto la battaglia in difesa della cultura e della scuola classica  che soltanto Concetto Marchesi ebbe il coraggio di condurre. Abbiamo tenuto testa alla demagogia di chi riteneva Omero e Catullo superflui e classisti. Griffa ci ha insegnato come lo studio del Latino serva a far crescere in noi la capacità di ragionare come si deve, per dirla con Pascal . Forse si potrebbe ancora dire oggi che aver studiato o non aver studiato il Latino costituisce una differenza  che non ha nulla a che fare con il classismo E’ stato insieme a Luigi Vigliani un grande preside del Liceo “Cavour “, ma è stato soprattutto il difensore di una certa idea di “scuola seria, libera e laica “che abbiamo condiviso nella FNISM e nel Centro Pannunzio negli anni dei furori ideologici che avrebbero voluto travolgere il nostro patrimonio culturale e civile.