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Anche gli artisti Studiano: l’equipollenza Albertina

Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
UniTo: quando interrogavano Calvino
Anche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina

 

10 Anche gli artisti Studiano: l’equipollenza Albertina

Da bambina volevo fare la paleontologa. Un giorno però mi resi conto che quella passione era sì grande ma non abbastanza stimolante, così mi ritrovai a rimuginare su che cosa mi coinvolgesse veramente. Non ci misi poi molto a capire che ciò che mi rendeva davvero felice era “creare”, “inventare”, utilizzare le mani per rendere visibili i mie pensieri; disegnavo molto, mi piacevano tutti i tipi di colori, dalle matite, ai pennarelli, agli acquerelli, mi divertivo a copiare i personaggi dei cartoni animati ma ricordo anche che mi cimentavo a riprodurre le illustrazioni dei libri sugli animali, soprattutto quelli marini.
Crescendo i miei interessi di bambina maturarono con me. Al disegno si affiancò la curiosità per la storia degli artisti e delle loro opere, al bisogno di manualità si affiancò quello della ricerca intellettuale e al desiderio creativo corrispose un giusto studio degli autori del passato, poiché se prima non ci si confronta con il passato come si può dire la propria sul presente?
Cosa vogliamo fare da grandi in realtà lo decidiamo da piccoli. In quegli anni in cui l’ingenuità la fa da padrone, quando il mondo fuori appare così enorme da pensare che ci sia sicuramente posto anche per la realizzazione del nostro desiderio, in quel lasso di tempo durante il quale convinzioni e obiettivi si fondono, ci mettevamo le mani sui fianchi, a mo’ di Superman, e affermavamo impettiti: “Io da grande sarò…”

Volevo fare l’artista. Ecco, l’ho detto, l’ho confessato. E forse sarebbe stato meglio se fossi rimasta dell’idea di diventare paleontologa. Ma quelli nati sotto il segno dell’ariete, come me appunto, sono noti per la loro testardaggine e una volta che si mettono in testa una cosa, non c’è niente che li faccia desistere. Decisi quindi che avrei frequentato l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, e questa mia ineluttabile convinzione si alimentava giorno dopo giorno, quando, uscendo dal Gioberti, andavo a prendere il pullman per tornare a casa proprio alla fermata davanti all’ingresso dell’istituzione artistica e vedevo tutti quei ragazzi “strani”, con i capelli colorati e i vestiti alternativi, armati di grosse tele o altrettanto scomode cartelline contenenti chissà quali opere. Non c’erano dubbi: quello doveva essere il mio mondo.
Oggi, quando mi chiedono se consiglierei a qualcuno di iscriversi in Accademia mi viene da storcere un po’ il naso, non di certo per la preparazione che la scuola offre, su cui non ho assolutamente nulla da obiettare, quanto per l’impatto con “il mondo vero” che si deve affrontare al termine degli studi. Al contrario, quando mi viene domandato se, potendo tornare indietro, rifarei la stessa scelta, la risposta è immediata: certo che sì.

L’ “Università dei Pittori, Scultori e Architetti”, è presente a Torino già dalla prima metà del Seicento, nel 1652 prenderà il nome di “Compagnia di San Luca”, la quale, a sua volta, verrà poi nominata “Accademia dei Pittori, Scultori e Architetti” per volere di Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, vedova di Carlo Emanuele II, che si ispirò volutamente alla Académie Royale de Paris.
Dopo circa un secolo dalla prima fondazione dell’istituzione, iniziano le riforme del regno di Vittorio Amedeo III, il quale porta avanti una politica di promozione e di aggiornamento culturale; tra i primi provvedimenti che inaugurano tale periodo, nel 1778 viene costituita la “Reale Accademia di pittura e scultura”.

Successivamente Carlo Alberto, grande appassionato d’arte e uomo di raffinata cultura, decide, nel 1833, di riformare tale istituzione, denominandola “Regia Accademia Albertina”.
Sempre grazie al sovrano, la sede della scuola per gli artisti trova la sua sistemazione definitiva in un palazzo donato proprio da Carlo Alberto, situato in Via Accademia Albertina 6. Al luogo di formazione si affianca una pinacoteca, con scopi prevalentemente didattici, i cui dipinti sono stati per la maggior parte donati da Monsignor Mossi di Morano, tra questi è il caso di segnalare la preziosa pala d’altare di Filippo Lippi. In pochi anni la pinacoteca si arricchisce di opere, non solo quadri, ma anche varie riproduzioni in gesso di statue in bronzo, marmo o terracotta e diversi volumi preziosi, stampe pregiate, schizzi e fotografie di grande valore, ampliando così la sua originaria funzione e diventando a tutti gli effetti anche gipsoteca e biblioteca.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’Accademia è un luogo d’avanguardia per qual che riguarda la particolare transizione artistico-culturale che dal realismo porta alle nuove correnti artistiche, a sostegno di tale affermazione basti pensare alla presenza all’interno della scuola di artisti quali Antonio Fontanesi, Giacomo Grosso, Vincenzo Vela, Odoardo Tabacchi ed Edoardo Rubino.

Successivamente, intorno agli anni Quaranta del Novecento, l’Accademia si trova di nuovo a vivere un periodo di particolare prestigio, grazie al lavoro di altre personalità illustri che sostennero l’importanza della scuola, tra di essi mi piace ricordare Felice Casorati, Enrico Paulucci, Francesco Menzio, Sandro Cherchi, Mario Calandri.
Questi nomi altisonanti dovrebbero bastare per far capire che, quindi, anche gli artisti studiano, e molto.
Negli ultimi anni l’edificio ha subito molti restauri e interventi di modifica soprattutto degli spazi laboratoriali. Anche la Pinacoteca è stata riorganizzata e resa più fruibile al pubblico.
Non solo in passato, ma ancora tutt’oggi gli studenti dell’Accademia hanno la fortuna di studiare a contatto con importanti nomi di artisti o personalità rilevanti nel settore, due esempi per tutti, gli storici dell’arte contemporanea Luca Beatrice e Maria Teresa Roberto.
Prima di proseguire ci terrei a soffermarmi sul motto dell’Accademia, che è “J’attends mon astre”. Carlo Alberto, nel 1843, fece incidere tale frase su una medaglia in cui era riprodotto un sigillo del 1373 appartenuto ad Amedeo VI di Savoia, detto il Conte Verde. La versione originale in francese antico era “Je atans mon austre”.

Sulla medaglia si vede una sfinge con Calea, abbassata sul volto con maschera di Scimmia. La sfinge schiaccia col corpo un serpente (l’Austria) e ha il collare di catene spezzato, attorno il motto “Je atans mo: astre”. Si potrebbe incominciare un interessante quanto complesso discorso a proposito dell’Ordine dei Cavalieri del Leone e della Scimmia, misteriosa associazione costituita in Germania verso il 1780, ramo della massoneria templaria, diretto discendente di un ordine templare dell’ XI secolo, ma le fonti sono assai poche e poi si andrebbe eccessivamente fuori argomento, vi basti sapere che in massoneria il leone rappresenta il potere e la gloria, mentre la sfinge è sinonimo di mistero esoterico.
Ora posso dire che il mio sogno di ragazzina è stato realizzato per ben cinque anni, sia durante il Triennio di Scenografia, e soprattutto durante il Biennio Specialistico di Decorazione.
Per tutta la durata della mia Alta Formazione Artistica (questa la definizione ufficiale del corso accademico) mi sono sentita totalmente coinvolta in quella realtà così peculiare, ho dato tutta me stessa sia nello studio sia nella realizzazione degli elaborati; mi preme tuttavia sottolineare che far parte di quella realtà non si esaurisce nel solo ruolo di studente, frequentare l’Accademia vuol dire rimanere in laboratorio quasi tutti i giorni fino a tardi, finché la scuola chiude, o, talvolta, “tagliare” e andare al bar di fronte, dove però ci si incontra con altri compagni di scuola e con cui si discute di arte, di artisti, di mostre da andare a visitare; e poi ci sono i mesi in cui fa bel tempo e il luogo di ritrovo diventa il cortile, dove si chiacchiera, si studia, si disegna, si fa amicizia con i ragazzi di altri corsi, ed è sempre tutto un continuo “crescere senza accorgersene”.

Sono sempre stata conscia della mia scelta di studi poco ortodossa, ci ho sempre scherzato sopra, sia con gli amici che mi dicevano che frequentavo “la scuola del pongo”, sia con i miei compagni di corso, con i quali ridevamo riguardo al difficile trasporto dei nostri lavori sui pullman (tra cui modellini in scala in compensato o tavole formato minimo 50×70 cm), oppure per quei fogli scritti a penna appiccicati alla porta della classe con scritto che la lezione era stata rinviata, peccato che noi eravamo carichi come muli e la lezione doveva tenersi all’ultimo piano senza ascensore.
Sono molti i ricordi che mi porto appresso, troppi da raccontare. Così come sono numerose le persone che ringrazio di aver incontrato, tra compagni e professori, che più o meno inconsciamente hanno contribuito alla mia formazione e alla mia crescita intellettuale e personale. Con loro ho condiviso non solo le fatiche degli esami e la preparazione delle due tesi, ma anche momenti di vita quotidiana, con loro ho parlato dei miei dubbi e delle mie idee, di cosa mi capitava nel frattempo al di fuori del laboratorio e a mia volta li ho ascoltati, studenti e docenti, cercando di carpire gli insegnamenti che sempre sono presenti quando il dialogo è vero e privo di barriere.

Ma tutto ha un prezzo e quello che sto ancora pagando io per aver perseguito i miei desideri si chiama “equipollenza”.
Non sto nemmeno a spiegarlo, dopo la tesi specialistica (110 su 110 e lode) non ci ho messo tanto a capire che il “momento artista” era terminato e che ora c’era “il mondo vero” da affrontare.
Permettetemi l’espressione colloquiale, ma è stata proprio “una bella botta!”
Reimpostare la bussola significa doversi guardare dentro, questa volta con la maturità intellettuale di un’adulta e non più con la frivolezza dell’adolescenza, accettare i proprio successi così come i propri errori, rimuginare ancora sul dove si vuole andare e soprattutto sul come arrivarci.
Il mio nuovo percorso aveva il sapore amaro dell’accettazione dei miei limiti, ma come sappiamo i fiori non nascono dai diamanti, e da quei pesanti pensieri è sorto il nuovo e attuale obiettivo di diventare insegnante di arte.

Ma torniamo a noi e a quella strana parola: “equipollenza”.
Se vi chiedessi che differenza c’è tra uno studente dell’Accademia di Belle arti e uno dell’Università, cosa rispondereste? Non è una barzelletta, è una semplice riflessione. In entrambi i casi si pagano le tasse universitarie, si viene immatricolati, gli studenti sono tenuti a frequentare le lezioni e a sostenere gli esami a cadenza regolare, i sacrifici delle famiglie per mantenere gli studi dei figli sono gli stessi da una parte e dall’altra eppure la situazione non sembra così semplice. Certo, siamo nella patria della burocrazia e tutto ruota attorno a cavilli e terminologie che hanno tutta l’aria di essere delle vere e proprie prese in giro, ma la questione resta: chi esce dall’Università ha una “Laurea” mentre chi ha frequentato l’ Accademia o il Conservatorio ha un “Diploma di Secondo Livello”. E, cari lettori, non avete idea di quando quel termine “diploma” possa risultare fastidioso dopo cinque anni di studio e fatica.
La lotta dei titoli tra Università e istituzioni AFAM è tutta dibattuta a suon di norme e leggi e va avanti dagli albori del tempo. Ma come in tutte le battaglie a rimetterci sono sempre i poveri fanti appiedati. Nella Legge 509 del ’99, che assegna alle istituzioni dell’Alta Formazione Artistica e Musicale un ruolo centrale nel sistema formativo italiano, si legge che: “L’Accademia con la riorganizzazione dell’assetto didattico, pedagogico, tecnologico ha perseguito l’intento di privilegiare anche il diritto allo studio. I corsi presenti (…) dialogano efficacemente con il variegato e affascinante mondo delle sperimentazioni (…). Appare sempre più evidente che produzione dell’arte ed elaborazione teorica non possono più essere viste come funzioni distaccate, ma devono divenire patrimonio comune di un fare e di un sapere contemporaneo in grado di sostenere il confronto dialettico con la complessità. Oggi, infatti, inevitabilmente i campi si intrecciano, poiché non esiste produzione senza riflessione teorica, né teoria che possa prescindere dalla creatività.“

Il sistema AFAM è costituito dai Conservatori statali, dalle Accademie di Belle Arti (statali e non statali), dagli Istituti musicali ex pareggiati promossi dagli enti locali, dalle Accademie statali di Danza e di Arte Drammatica, dagli Istituti Statali Superiori per le Industrie Artistiche, nonché da ulteriori istituzioni private autorizzate dal Ministero al rilascio di titoli aventi valore legale.
I titoli di Alta Formazione Artistica e Musicale hanno valore legale equiparato ai titoli universitari. Detto così sembra proprio che si possa dire che “siamo pari”, ma a tutti gli effetti non è così, come ben si evince, ad esempio, dal fatto concreto degli sconti sull’acquisto dei libri: gli studenti delle Accademie non ne possono quasi mai beneficiare poiché “quella non è Università”.
In attesa del completamento del processo di riforma del sistema AFAM, la costituzione di nuove istituzioni statali è possibile esclusivamente attraverso specifiche disposizioni di legge.
Il “contentino” ci è stato dato grazie alla Legge 228 del 24/12/2012, Art. 1, Commi da 102 a 107, in cui si attesta che, “al fine esclusivo dell’ammissione ai pubblici concorsi per l’accesso alle qualifiche funzionali del pubblico impiego per le quali ne è prescritto il possesso, è dichiarata l’equipollenza dei titoli di studio rilasciati dalle Accademie di Belle Arti del Decreto del Presidente della Repubblica 8 luglio 2005, n. 212”.
Quanto mi sta facendo faticare il mio sogno di bambina, ma è pur vero che “Solo nei sogni gli uomini sono davvero liberi, è da sempre così e così sarà per sempre.” (John Keating, “L’attimo fuggente”).

Alessia Cagnotto

Trump, la fine ingloriosa di un rivoltoso populista

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni Trump è stato un pessimo presidente degli USA. Adesso sta finendo il mandato in modo indegno con atteggiamenti che degradano gli USA ad uno staterello sudamericano

L’assalto al Senato e’ di una gravità senza pari. Non uso mai a sproposito la parola fascismo, ma qui Trump e’ paragonabile al duce che pure non ebbe mai il coraggio di far aggredire dalle squadracce la Camera .Si accani’ da vigliacco contro il deputato Giacomo Matteotti , fatto rapire e uccidere.  Mussolini disse che avrebbe potuto fare dell’aula sorda e grigia della Camera “il bivacco” per le camicie nere, ma non lo fece, non oso’ farlo. Se pensiamo alla storia della democrazia americana, quella citata ad esempio da Tocqueville e se pensiamo alla terribile guerra civile americana evocata ieri sera da Marcello Pera un tv, abbiamo chiaro chi siano davvero il bullo americano e i suoi rivoltosi assoldati. Al voto, un democratico si inchina, un autoritario nega il valore della volontà popolare. Non mi è mai piaciuto Obama ed ho espresso ripetute critiche ai Clinton.
Ma Trump non ha precedenti.  E’ un vecchio bilioso che ha compromesso la pace mondiale e che oggi ha perso totalmente il controllo di se’ . C’è da rabbrividire per il potere che era nelle sue mani e che riguarda anche il controllo della forza nucleare. Nel migliore dei casi e’ uno sbruffone populista e sovranista senza regole. Chi in Italia lo ha sostenuto è  un fesso o un potenziale fascista. Non dimentichiamolo! Gente senza cultura che vive di slogan e di frasi fatte, gente a cui non si potrà mai affidare l’Italia.

Il virus dell’indisciplina

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

L’indisciplina e’ una caratteristica italiana. Neppure il fascismo riuscì a battere l’indisciplina italica che si infiltro’ anche nei quadri del regime.

E tante cose negative del Ventennio non si realizzarono a pieno proprio per questo motivo che divenne quasi una virtù. Ma oggi,  di fronte ad un nemico come il COVID, l’indisciplina diventa micidiale. Non parliamo solo di movide e di assembramenti, ma anche delle recentissime code all’IKEA. La disciplina, secondo certe persone , vale solo per la cultura, i teatri, i musei considerati superflui che di norma sono frequentati da persone colte, equilibrate, civili, disciplinate. Circa le scuole invece si vorrebbe un’auto disciplina che risulta impossibile perché in primis le famiglie non formano i figli alla responsabilità. La parola obbedire e’ sconosciuta ai più. I giovanissimi sono di per se‘ incontenibili per natura,quelli più grandicelli guardano spesso  al bullismo come ad un modello di vita.  Come si può realizzare a scuola una vera sicurezza se manca in tanti giovani l’auto controllo
a cui le famiglie non li hanno educati? Anche certi docenti permissivi e faciloni non danno garanzie sufficienti. Per altri versi, il docente non è un poliziotto che possa garantire il
distanziamento.  Neppure nelle caserme non c’era più disciplina ben prima che venisse abolito il servizio militare obbligatorio. Nei momenti difficili non servono ne’ Rousseau ne’ Montessori, serve la docilità,  come diceva un mio vecchio professore. Una docilità a tutela di se’ stessi e degli altri. Serve soprattutto riscoprire i “Doveri dell’uomo “di Mazzini. Una società liquida priva di valori non è in grado di affrontare e di vincere i momenti difficili. Può dare fastidio a qualcuno leggerlo, ma è la verità che deriva dalla storia. Scaricare sui presidi tutte le responsabilità e’ indegno di un paese civile.

Come nuovo!

TORINO VISTA DAL MARE /10

Camminare per conoscere. Un’immagine semplice ma efficace che descrive al meglio uno dei migliori modi per scoprire una nuova città. Abituarsi a nuovi paesaggi, differenti abitudini di quartiere, spesso è difficile, ma passeggiando tra le vie e le piazze più battute, per poi allontanarsi e perdersi in quelle meno trafficate permette di appropriarsene, cogliendo scenari, scorci e dettagli che spesso si perdono nella frenesia del quotidiano. Torino – io che vengo dal mare – provo a scoprirla così, raccontandola per impadronirmene allo stesso tempo.

Ogni qual volta un nuovo calendario viene affisso alla parete siamo  sempre alla ricerca di cambiamenti, pare sempre giusto iniziare il nuovo anno con qualcosa che sappia di novità, ma siamo certi che il nuovo debba per forza coincidere con qualcosa che spunta dal nulla dal presente? Può essere, invece, che il passato muova i suoi elementi in avanti, trasmutandone le caratteristiche, deformandole in maniera nuova, ma non irriconoscibile. Il filosofo, e torinese, Gianni Vattimo per descrivere questa dolce traslitterazione dei termini in giocoutilizza il termine Verwindung.

Nella mia vita mi occupo d’arte, campo d’elezione prediletto per la rielaborazione di quell’elemento chiamato Aesthasis, l’Estetica, ovvero la sensibilità individuale, che le opere d’arte dovrebbero riforgiare e in qualche modo “evolvere”, come era nei progetti di quell’arte spirituale agognata dall’artista Kandinsky.

Ma questa sensibilità è coltivabile in molteplici modi, anche con opere non chiuse in quattro mura, ma esposte al cielo aperto, dove il percorso stesso per arrivarvici diviene un momento di rigenerazione estetica spirituale.

Questo lungo preambolo perché? Per cercare di riprendere questo concetto di Verwindung, di movimento progressivo distorcente,dove il passato diventa un Passato-Nuovo, provando a trasformaloin un augurio per l’anno appena iniziato. É per questo che voglioricollegarmi proprio con il primo articolo qui scritto, quello che ha dato inizio alla mia avventura su questo giornale, ma in qualche modo anche in questa città, quella prima passeggiata versoSuperga.

Lo faccio però in modo tutto nuovo e diverso, annotandovi qui gli effetti che essa ha avuto su di un torinese che Superga la vive da anni, ma che ha trovato ispirazione da quell’articolo per rielaborare la sua personale “Estetica di Superga”.

“Io sono un Torinese. Ed un ciclista; da corsa. Superga è il luogo della certezza donata dalla sua monumentalità e dalla sua posizione monumentale, tant’è che quando entro in una casa nuova mi accerto che la Basilica si possa vedere almeno da un balcone, così mi sento più sicuro.

Qual è la certezza che Superga dona a un ciclista come me? Gioia e piacere? Certo che no! Fatica e dolore, digrignamento di denti e sudore. L’ho scalata decine di volte, ma non l’ho mai trovata scontata, perché le sue pendenze non vanno mai in saldo. Il perché di questo masochismo sarà forse dovuto a quell’esperienza adolescenziale, la prima scalata, strada ignota e ruota storta, che tocca il freno, come a dire che la scalata in paradiso deve contenere un’agonia infernale, e la testa china, sempre china a guardare il profilo della ruota che avanza, centimetro dopo centimetro, su per l’asfalto; e poi ad un certo punto alzo la testa e mi ritrovo la Basilica davanti, enorme, e l’adrenalina si mischia alla serotonina, così come la mia sensibilità si macchia d’improvviso di eccitazione ed estasi, dando ragione all’idea romantica di contemplazione dell’infinito. D’allora salgo per rivivere quel momento di fondamentale sverginamento estetico, per soffrire e godere su asfalti in pelliccia di venere.

Ma di quella strada per il paradiso, io non so niente! Testa china. Testa giu. Ruota, asfalto e respiro, non so altro di quella strada, questa è l’abitudine.

Poi ho letto l’articolo sulla camminata a Superga, da Sassi, e allora qualcosa in me si è mosso, e mi ha imposto di salire là ancora, ma … a piedi.

Mai immaginato che lo avrei fatto. Ma l’ho fatto. E quindi mi emozionai. Sensazioni vecchie in salsa nuova hanno condito la scesa a una strada vecchia ma sconosciuta, un’ora e mezza sono ben più di venti minuti e permettono di sviscerare in maniera alquanto indiscreta le vedute e le abitazioni, paesaggi mai visti, e poi il percorso della dentiera, di cui non ho mai capito i movimenti, mi è sempre parso che il trenino comparisse e scomparisse a suo piacimento. E i profumi dell’autunno, molto piùnitidi, non più mascherati dalle lacrime del sudore, hanno rivelato sensazioni oppiacee alla mia mente in contemplazione, incrinata da questa esperienza para-normale, come vedere una persona vera al posto di una sua fotografia.”

Aldilà di queste sensazioni personali, poesia di parole gettate di impulso, righe che mi sono state consegnate, ma che magari possono essere comprese appieno solo da chi le ha vissute, ho scelto di raccontarle per provare a porre l’accento su quello scambio che c’è stato; un fortuito incontro con un articolo di giornale scritto da una “straniera” in una nuova città è riuscito a generare una nuova esperienza senza il quale magari non sarebbe mai stata vissuta. Un pezzo di vita vissuta che ha ispirato un’altra. A volte la propria città si scopre anche attraverso gli occhi o, come in questo caso, le parole di qualcun altro.

Questo il mio augurio per il nuovo anno e gli anni a venire, provare a capire che qualcosa di nuovo possiamo provare a rintracciarlo e costruircelo da sé anche sulla base di qualcosa che già è stato vissuto. E il 2021 mi sembra abbia il sapore adatto per farlo!

Annachiara De Maio

I costruttori, Mattarella e la storia

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni    Dai tempi di Ciampi non ascolto i messaggi presidenziali di Capodanno e quindi non so esattamente cosa abbia detto il presidente Mattarella il 31 dicembre 

Vedendo i giornali, ho letto che ha parlato della necessità in politica di “ costruttori”. Un’idea non particolarmente originale, anche se certamente rispettabile  e condivisibile. Ho letto anche il commento ai “costruttori” di Mattarella fatto dal direttore de “ La Stampa”, su segnalazione dell’amico Salvatore Vullo che giustamente metteva in evidenza le sue perplessità nell’aver individuato nei costruttori del Paese solo certi personaggi politici con l’esclusione a priori di  altri.
Non leggo di norma  i lunghi editoriali del direttore de “La Stampa“, giornale che ormai da tempo mi limito a sfogliare sul tablet. Sono rimasto stupito dal suo lungo articolo e dalle molte  omissioni, concordando con lui su un solo fatto: l’inesistenza odierna di statisti o costruttori. Infatti non è possibile ignorare tra i grandi costruttori della nuova Italia rinata a vita democratica le figure di Giuseppe Saragat,di Ugo La Malfa, di Pietro Nenni, di Giovanni Malagodi.

Limitarsi a De Gasperi, Togliatti, Moro, Berlinguer e Andreotti (anche se il direttore non omette di rilevare i legami con la mafia di quest’ultimo, malgrado una sentenza di assoluzione) ci appare storicamente limitativo. Tra i costruttori ci sono anche personaggi minori come l’ambasciatore a Londra Nicolò Carandini o come il ministro e poi segretario della Nato Manlio Brosio.

Alfredo Covelli, leader monarchico, fu anche lui un costruttore della democrazia parlamentare, come gli venne riconosciuto universalmente perché segui’ l’imperativo di re Umberto II : “L’Italia innanzi tutto“ e fu un parlamentare esemplare come onesta’, cultura giuridica, passione civile, totale lealtà verso le istituzioni.
Anche Almirante, sotto certi versi, ha avuto un ruolo positivo, tenendo a freno una banda di esagitati sconfitti e inserendoli nella dialettica parlamentare. Almirante andò a rendere omaggio alla salma di Berlinguer, atto non di poco conto. Ma il grande assente tra i costruttori è Bettino Craxi, presidente del Consiglio e capo di un partito socialista autonomo ed europeo che ha contribuito a scrivere una pagina di storia importante.
Limitarsi a pochi esempi nel corso di un lungo articolo non appare accettabile. Se poi rilevo l’assenza  incredibile di costruttori come Luigi Einaudi, primo presidente della Repubblica e ministro del Tesoro dopo Marcello Soleri, altro grande costruttore se la morte non lo avesse rapito  appen sessantenne nel 1945, rimango quasi esterrefatto.Tra i costruttori della nuova Italia ci furono anche altri comunisti come Giorgio Amendola, democristiani come Sturzo, Scelba e Fanfani, uomini di cultura come Croce, Salvemini e Pannunzio che ebbero un forte ed esemplare  impegno etico-politico. E per fortuna di questo Paese si potrebbero aggiungere anche altri nomi, tra cui alcune donne, meno note  ma non meno importanti, del tutto ignorate nell’articolo: in primis, Nilde Jotti.
Così mi appare di poter dire da storico che non bada a simpatie ideologiche contingenti, ma cerca di scavare nella storia per trovarne, come diceva Omodeo, il senso.
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scrivere a quaglieni@gmail.com
(nella foto grande Luigi Einaudi con la moglie. Portale storico della Presidenza della Repubblica / Quirinale)

Un Presidente per tutti gli Italiani

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni Tra i primi nomi che appaiono sui giornali come possibili candidati Presidenti della Repubblica c’è anche Walter Veltroni , diventato una delle firme di punta del “Corriere della Sera”e una stella del cinema italiano contemporaneo.  

Il ragazzo bocciato in ginnasio che rimediò un diploma professionale, ha sicuramente fatto molta strada.E’ stato direttore de “L’Unità”, leader, con scarso successo, del Pd, ministro, Sindaco di Roma per dieci anni, deputato e tanto altro. Nei rapporti istituzionali che ho avuto con lui si è sempre rivelato corretto, forse anche per la stima che aveva per Mario Soldati. Un politico di lungo corso ha inevitabilmente fatto cose buone e cose cattive e non basta il suo amore per il cinema a riscattarlo dagli errori. Il grande Giampaolo Pansa nel suo Bestiario lo definiva il “perdente giulivo “, già immaginando le sue aspirazioni quirinalizie Tra i tanti leader comunisti e poi del PD non è certamente stato dei peggiori. Pur avendo aderito al PCI giovanissimo, diceva di sé di non essere mai stato comunista, senza mai aver spiegato una frase abbastanza contraddittoria, non essendo l’Italia un partito unico come l’URSS. Certo, rispetto al ferreo D’Alema è stato meno dottrinario, ma è anche molto meno colto anche se ambedue non sono laureati… Quando moderai un dibattito tra Amato e D’Alema, mi resi conto del valore di quest’ultimo anche rispetto al dottor Sottile che avrei visto bene al Quirinale al posto di Mattarella e che ritengo l’unico statista sopravvissuto. La classe politica italiana di destra e di sinistra fa pena e c’è in questo Parlamento una sola candidata valida per cultura, equilibrio, terzietà, la Presidente del Senato Casellati che potrebbe anche guidare un Governo di salute nazionale che estrometta Conte. Si tratta di una donna umanamente ed intellettualmente straordinaria apprezzata, al di là delle valutazioni politiche di parte, come difensore ferreo delle prerogative parlamentari spesso calpestate dall’attuale governo senza che dal Colle siano giunti rilievi significativi.

L’ex Presidente della Consulta Cartabia che sarebbe un’altra candidata, appare piuttosto scialba, perché non basta essere donna per essere brava al Quirinale.
Non parliamo di Franceschini (che manifesta incredibilmente degli interessi per il Quirinale)  si tratta di un   mediocre e grigio  catto -comunista di provincia  e  di un pessimo ministro della cultura. Anche Prodi non ha perso tutte  le speranze naufragate sette anni fa, anche se  è ormai politicamente   decotto. Una figura di rilievo appare invece  MarioDraghi, una sorta di nuovo Ciampi che ha difeso l’Italia in Europa. C’è da augurarsi che Mattarella, ormai,  quasi ottantenne non intenda riproporsi per un altro settennato che sarebbe del tutto immotivato. Tra tutti i candidati di cui si parla, quelli più degni di attenzione sono Veltroni, Casellati e Draghi. I politicanti che sono in Parlamento, al massimo, se hanno l’altezza fisica necessaria, possono aspirare a fare il corazziere.  Veltroni è molto sponsorizzato e viene anche mitizzato, ma non ha  certo la  statura di un Napolitano. Una frase attribuita a Veltroni mi ha colpito  negativamente : avrebbe voluto nascere il 25 aprile 1945. A molti questo desiderio che lo
invecchierebbe di 10 anni ,sarà piaciuto moltissimo e porterà alla solita vulgata celebrativa cara all’ Anpi . Io invece ritengo quella data divisiva perché gronda sangue e violenze, anche se segna la fine di una guerra mondiale, ma non di quella civile. Avrei capito di più il 2 giugno 1946, data in cui nacque la Repubblica . Non posso dimenticare che un uomo come Luciano Violante , una vera,grande  riserva della Repubblica, uomo di rarissima intelligenza, parlò con rispetto dei “ragazzi di Salò”, molti dei quali quel rispetto forse non meritavano, Violante capi’  per primo a sinistra che la storia andava rivista senza retoriche e senza odi. Un atteggiamento simile a quello di Napolitano.
Oggi occorre un Presidente super partes che rappresenti gli Italiani.  L’esempio
cui  guardare è Ciampi che simboleggiò l’idea stessa di Patria,per non citare l’esempio irripetibile di Luigi Einaudi. Lo capiranno i peones che tra un anno, dopo un settennato travagliato, dovranno eleggere ilsostituto di Mattarella?  Ho dei forti dubbi sulla loro intelligenza. Chi divide o non sa unire non può
risiedere sul colle più alto. C’è bisogno di gente corazzata di cultura storica che sappia guardare avanti. L’Italia ha bisogno di voltare pagina con un paese in mano ai guitti e ai loro replicanti.
Scrivere a quaglieni@gmail.com 

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Nick Hornby  “Proprio come te”     -Guanda-     euro  18,00

Protagonista è l’insegnante di lettere 42enne Lucy, alle prese con un matrimonio sfaldato, un ex marito alcolista che cerca faticosamente di rimettersi in piedi e due figli ancora piccoli.

Si dibatte tra conoscenti superficiali, pseudo amiche pettegole e curiose della sua vita sessuale, appuntamenti al buio fallimentari, e la gioiosa fatica di crescere due  bambini decisamente simpatici, anche se forse un po’ troppo dediti ai videogiochi.

Poi nella sua vita irrompe una ventata di aria fresca e giovane. Si chiana Joseph, ha 22 anni, è di colore e si arrabatta tra più lavori per sbarcare il lunario. E’commesso in una macelleria (adocchiato dalle donne per il suo sex appeal), fa anche l’allenatore sportivo, ma il suo grande sogno è diventare un deejay.

Per arrotondare e conoscere meglio Lucy (cliente che non lo lascia indifferente) si offre come baby- sitter dei suoi pargoli.

Avrete già intuito che diventerà qualcosa di più, con tutte le remore e le difficoltà incluse nelle differenze tra i due: istruzione, colore della pelle, classe sociale e  uno scarto di ben 20 anni  che avrà il suo peso.

Ma  il romanzo non è solo una storia d’amore.

Hornby è abilissimo nel raccontare un quadro più ampio che sfocia anche nella politica -dal momento che ambienta la vicenda ai tempi del referendum sulla Brexit-  e nelle contraddizioni  di un paese, nelle divisioni più o meno labili tra classi sociali e nelle spinose questioni razziali.

 

 

Otessa  Moshfegh   “La morte in mano”  -Feltrinelli-  euro  16,50

“Si chiamava Magda. Nessuno saprà mai chi è stato. Non l’ho uccisa io. Qui giace  il suo cadavere” Il romanzo inizia con questo messaggio scritto su un biglietto e lasciato in un bosco, che viene ritrovato dalla 72enne  Vesta Gul, durante la sua passeggiata insieme al suo cane Charlie.

Ed è l’avvio di una vicenda a tratti surreale, immaginifica, intrigante e con toni da noir. Da quel momento non avrà più pace la solitaria protagonista, da poco rimasta vedova, che vive  in una casa isolata affacciata su un lago, con l’unica compagnia del cane.

La sua fantasia vola e, forse anche per passare il tempo, immagina chi potrebbe essere la Magda uccisa, chi l’autore del delitto e chi del biglietto. Perché lasciarlo sotto alcune  pietre in un luogo sperduto nel quale non vi sono tracce di cadaveri?

L’immaginazione di Vesta va a briglia sciolta e delinea i contorni della presunta vittima. Magda potrebbe essere una 19enne arrivata dalla Bielorussia, scappata da una famiglia disfunzionale, che ha avuto relazioni complicate con gli uomini, sospette con le donne, e si è arrabattata tra lavori incerti come  commessa di fast food e badante. Di lei ipotizza i passatempi prediletti, gli sport, i cibi, i tratti più salienti del carattere, da quelli positivi a quelli negativi….e via così sulle ali del fantasticare o dell’indagare….

Vesta fa ipotesi anche su chi potrebbe essere l’autore del biglietto, un giovane e smarrito Blake, e su chi l’avrebbe uccisa.

Ma nel romanzo c’è di più, ed è il passato di Vesta all’ombra di un marito ingombrante del quale conserva le ceneri in un’urna che non si decide a gettare nel lago, poi la sua scelta di solitudine, i suoi ricordi ….e altro che scoprirete leggendo.

Questo romanzo dell’autrice del best seller “Il mio anno  di riposo e oblio” è stato scritto prima, nel 2015, poi la Moshfegh l’ha lasciato da parte per riprenderlo in un secondo tempo.

 

 

Beth Morrey  “La seconda vita di Missy Carmichael”   -Garzanti-    euro 17,90

E’ il primo romanzo dell’inglese Beth Morrey che ha la passione della scrittura da quando aveva 20anni e ha già pubblicato alcuni racconti.

Protagonista è la solitaria 79enne Millicent Carmichael, e la sua quotidianità è fatta di gesti e cose sempre uguali nella casa di Stoke Newington a Londra dove vive. Il marito Leo è morto, l’adorato figlio Ali è finito in Australia, con la figlia Mel i rapporti sono franati dopo un violento litigio.

La sua è una vita ritirata e isolata nel silenzio della casa, che si fa ancora più pesante se  paragonato alla vitalità del passato, tra risate, screzi e ondate di vita.

Ora invece le sue giornate sono scandite dai soliti rituali, tra lettura dei necrologi e passeggiate nel parco, tutto condito da rimpianti amari per cose non dette e sentimenti  non espressi che però avrebbero fatto la differenza.

A scombussolare  questa rigida routine arrivano una dirompente 37enne, Angela, caotica e insolente, che la travolge con un fitto carnet di impegni e l’adozione di un cane. Costretta ad uscire dalla sua comfort zone, Missy scoprirà che la vita può riservare ancora infiniti doni, primo fra tutti un adorabile compagno a 4 zampe che ama incondizionatamente.

 

 

Kathy Reichs  “Predatori e prede”   -Rizzoli –   euro  19,00

L’antropologa forense Kathy Reichs, una delle autrici di thriller di maggior successo ci regala un’altra storia mozzafiato.

La sua eroina Temperance  Brennan (protagonista anche della serie tv “Bones”), anche lei antropologa forense di inarrivabile bravura, è convalescente dopo aver subito un importante intervento chirurgico, spossata da emicranie e sogni ossessivi.

La figlia è in missione in Afghanistan, il fronte lavorativo è un disastro e col suo compagno le cose non vanno tanto bene.

Eppure lei si ritrova subito alle prese con un nuovo caso sconvolgente.

Uno sconosciuto le ha inviato delle foto che mostrano un cadavere in una sacca mortuaria: una scena raccapricciante in cui il volto della vittima è deturpato, mani e piedi sono stati amputati e il tutto è un orrore di carne e ossa. Perché queste immagini sono state mandate proprio a lei?

Giorni dopo ha luogo il ritrovamento di un cadavere martoriato sullo sfondo della campagna.

Ed ecco i tasselli della nuova indagine, in cui Temperance dovrà muoversi al limite della legalità, un’oscura vicenda in cui emergono collegamenti  con vecchi casi  di bambini scomparsi. Ma lei è dinamica, caparbia, intuitiva e preparatissima…..tanto che nulla potrà fermarla e voi starete col fiato  sospeso.

 

 

I due concerti di Capodanno

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni Sono stato un assiduo frequentatore dal vivo dei concerti di Capodanno di Vienna e di Venezia

Quest’anno mi sono limitato con dispiacere alla televisione. Un concerto senza pubblico – mi diceva già tanti anni fa Massimo Mila – perde parte importante della sua vitalità. Ma certo la pandemia impone anche per i concerti delle regole tra cui la assenza di pubblico o almeno un contingentamento. Alla “Fenice” hanno scelto le mascherine e i distanziamenti tra i concertistici. Lo stesso maestro aveva la mascherina nera alla Zorro. La stessa regola è stata applicata al coro, quasi che il canto con o senza la mascherina sia un particolare trascurabile. Tutto il contrario di Vienna dove non si è vista traccia di mascherine e Muti ha diretto magistralmente. Mi sono commosso ad ascoltare il coro del Nabucco che appare il canto dolente di un popolo calpesto e deriso – uso apposta le parole del nostro inno nazionale – ma che io ho sentito un po’ illusoriamente anche come un canto di speranza, come lo sentivano Verdi e gli uomini del Risorgimento. Preciso che, come abito mentale, scelgo a priori la cautela perché il virus non perdona. Ma mi è venuto anche spontaneo domandarmi perché in Italia ci fossero le mascherine e in Austria no e mi sono chiesto chi abbia sbagliato o se esistano eventuali protocolli che lascino libere scelte in Europa in una materia tanto delicata anche sotto il profilo dell’esempio civico.
Ma soprattutto mi sono domandato dove fosse Franceschini, ministro di una cultura resa muta da provvedimenti assurdi che lasciano perplessi: chiudere i concerti e tenere aperte le chiese e’, ad esempio, una scelta comprensibile nel modo di ragionare clerico – marxista del ministro, ma non della gente normale.
Franceschini o un suo collaboratore non ha pensato di chiedere cosa facevano a Vienna e così l’Italia si è trovata con il bavaglio anche a Capodanno. La Fenice in una Venezia azzoppata e’ cosa internazionale che non può essere lasciata alla decisione burocratica del ministro Speranza o a qualche suo funzionario.
Un ministro inesistente è sempre meglio di un monstrum come la Azzolina,  ma l’Italia che ha avuto Verdi, Rossini, Puccini, Mascagni, non può avere Franceschini ministro della cultura. Piuttosto ridateci Bondi. Era più sveglio.

The W Place, il consorzio per una nuova cultura e cura d’impresa

Rubrica a cura di ScattoTorino

W come Wonder, W come Win-Win, W come Women. Lo scorso 26 novembre sei imprenditrici ed una libera professionista hanno dato vita ad nuovo un consorzio che si rivolge sia alle imprese – siano esse a conduzione femminile o maschile, micro, piccole, medie o grandi, italiane o estere con almeno una sede in Italia – sia ai liberi professionisti, con un’attenzione particolare per coloro che svolgono nuove professioni, senza riconoscimento formale o un albo di riferimento.
The W Place, questo il nome del consorzio, che conta tra i primi partner strategici API e APID Torino, verrà presentato ufficialmente a livello europeo il 25 febbraio 2021 in occasione dell’evento WOMEN 2027 #2. Le aziende fondatrici di questa realtà spaziano dalla gomma alla progettazione architettonica, dall’editoria al fundraising, dal settore immobiliare alla consulenza legale, unite dalla volontà di fare rete per generare innovazione partendo dal valore delle persone. TWP si propone come opportunità di joint-workingcon l’obiettivo di creare un nuovo dialogo tra le imprese, generare contaminazione settoriale ed innovazione, rispondere al senso di “solitudine dell’imprenditore” nel fare scelte importanti per la propria realtà, fornendo la possibilità di incontrare e confrontarsi con persone che hanno esperienze simili. The W Place, inizia formalmente la sua attività in versione diffusa presso le sedi delle aziende fondatrici e virtuale, ma entro il 2021 sarà dotato anche di una sede fisica. The W Place è attenta alla cultura sociale d’impresa e ai social goals di questo millennio: gli utili che produrrà verranno infatti reinvestiti in progetti di valore per supportare il territorio e le imprese più fragili come le start-up al femminile o le aziende in difficoltà a causa del Covid-19. L’obiettivo è attivare nuove catene del valore ed elementi essenziali per lo sviluppo strategico delle imprese di oggi e di domani, tenendo presenti gli aspetti sociali, ambientali e la sostenibilità delle scelte.

ScattoTorino ha incontrato le sette fondatrici di The W Place: Giuseppina Cavasino dello Studio Legale Miccoli Nosenzo Cavasino, Angela De Meo di ITG Lab Srls, Cristina Di Bari di Di.Co SaS, Raffaella Magnano di Areaprogetti Srl architettura e ingegneria, Silvia Maria Ramasso di Neos Edizioni Srl, Brigitte Sardo di Sargomma Srl ed Emanuela Zilio di Think Say Do Srls.

Qual è la mission di The W Place?

Raffaella Magnano: “La nostra mission è supportare imprenditrici e imprenditori nel percorso verso una nuova cultura e cura d’impresa. Essere un luogo fisico e virtuale dove scambiare competenze, attivare relazioni, co-progettare contenuti. Un luogo di confronto e riflessione. The W Place è un posto in cui i consorziati avranno la possibilità di accedere a servizi professionali di alto livello in materia di analisi e misurazione, e a strumenti oggi fondamentali, quali la progettazione europea, la finanza alternativa, l’accesso ad informazioni e strategie anche attraverso l’uso di tecnologia avanzata”.

The W Place logoA chi si rivolge il consorzio The W Place?

Brigitte Sardo: “The W Place si rivolge alle microimprese, alle piccole e medie imprese (MPMI) e ai liberi professionisti, con particolare attenzione alle imprese al femminile, ma non solo. Le imprenditrici e gli imprenditori, così come le professioniste e i professionisti potranno rivolgersi al consorzio per essere sostenute/i ed informate/i su come sviluppare ed accompagnare nuovi progetti, sperimentare nuove opportunità per le loro imprese, cogliere occasioni di sviluppo a livello internazionale. The W Place, che si presenta come schema aggregativo tra imprenditori, è anche la nascita di un luogo di scambio, smart e tecnologico insieme, un’occasione di fare comunità, e insieme di entrare in una rete virtuosa di scambi non solo informativi e formativi”.

Quali sono le modalità per consorziarsi?

Giusy Cavasino: “Le imprese ed i liberi professionisti che desiderano entrare nel consorzio The W Place per usufruire dei servizi messi a disposizione dovranno presentare formalmente la loro dichiarazione di interesse (da gennaio 2021 disponibile la form sul sito www.thewplace.eu). Con cadenza mensile il Consiglio Direttivo provvederà a valutare tutte le richieste e procederà con l’accettazione dei nuovi consorziati. Le aziende, per poter accedere, dovranno pagare una quota consortile una tantum. A loro e ai liberi professionisti, verrà quindi richiesta una quota a cadenza annuale, in proporzione al loro fatturato.

Cosa offre The W Place a chi si consorzia?

Giusy Cavasino: “The W Place propone un modo nuovo e al passo con i tempi di mettere in connessione e far collaborare le imprese, in un contesto di rapida trasformazione dei mercati.
Da gennaio 2021, il consorzio comincerà a raccogliere informazioni sui Musei e gli Archivi di impresa, per conoscere, condividere e mettere a sistema le storie e i modelli di valore già esistenti. Una call for action verrà aperta per tutte le MPMI che hanno voglia di raccontarsi. The W Place, inoltre, indagherà da subito sulle nuove figure professionali richieste dalle imprese, per cominciare a delineare indicazioni specifiche per gli enti che si occupano di formazione. Con l’avvio della nuova Programmazione europea, The W Place metterà a disposizione delle aziende consorziate l’accompagnamento alla candidatura delle loro proposte oppure l’assistenza professionale per lanciare una campagna di crowdfunding. Dalla primavera, saranno attivi su questi temi anche corsi di formazione per le aziende.

Cosa significa per The W Place promuovere una nuova Cultura d’impresa?

Silvia Ramasso e Angela De Meo: “Alla base del progetto c’è una visione nuova della cultura di impresa, un’interpretazione del mondo economico e produttivo che possiamo senza reticenze definire più femminile, che vuole creare allo stesso tempo valori economici e sociali, che mira a “prendersi cura” di prodotti, processi e “giusti rendimenti”, ma anche delle persone a ogni titolo coinvolte, del sistema-territorio e della sostenibilità ambientale e sociale dell’attività. È un obiettivo entusiasmante ma altissimo al quale deve concorrere fortemente la consapevolezza di ciascun attore coinvolto. Per fare questo è necessario costruire e mettere a disposizione una nuova narrazione attraverso azioni mirate: la costituzione di una biblioteca professionale, storica e di indirizzo, l’acquisizione e la riproposizione di archivi, raccolte e storie di imprese, la condivisione di contenuti e strumenti con i talenti del territorio per l’instaurazione di un benchmarking utile alle imprese, la creazione di un “diario continuo” dell’attività e delle motivazioni, un luogo di confronto, di bilancio e di testimonianza”.

Quali azioni avete già pianificato per il futuro?

Raffaella Magnano: “Le prime azioni di The W Place riguardano l’attivazione del dialogo con le imprese del territorio, l’ascolto delle loro necessità e la messa a disposizione di competenze e servizi professionali di alto livello. Il 2021 sarà poi l’anno della sede fisica. L’identità, gli spazi, le funzioni ed i servizi della futura sede di The W Place saranno fortemente integrati tra di loro, sul piano architettonico ed organizzativo, per armonizzare gli spazi per il lavoro e quelli dedicati a finalità partecipative, in una prospettiva solida di integrazione ed elaborazione di pratiche sociali condivise. Questa integrazione, architettonica, simbolica, organizzativa e funzionale diviene la condizione primaria per disporre di un ambiente culturale capace di confrontarsi con le sfide dell’oggi, nella loro dimensione locale e globale, alla luce anche degli scenari valoriali resi disponibili con i Sustainable Development Goals (SDGs) dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile”.

Cosa accadrà il prossimo febbraio a WOMEN 2027 #2?

Emanuela Zilio: Ispirato dalla prima edizione dell’evento WOMEN 2027 organizzato al Parlamento Europeo da Donne Si Fa Storia insieme alle Unioni camerali di Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna a novembre 2019, The W Place ha preso forma in nove mesi di co-progettazione che hanno visto coinvolto un gruppo attivo di imprenditrici torinesi.
The W Place verrà quindi presentato a livello europeo in occasione di WOMEN 2027 #2, il 25 febbraio 2021, in linea con l’avvio della nuova programmazione EU”.

Quanto è importante oggi fare squadra per un imprenditore o un libero professionista?

Brigitte Sardo: “Crediamo che sia essenziale. In un mondo sempre più connesso, che sembra essere tutto centrato sul fare rete, il concetto di fare squadra sembra scivolare, ma non è così. Agire con lo spirito di un gruppo, appunto di una squadra sportiva, seguendo regole e schemi predisposti, con il concorso coordinato di tutte le energie e le risorse disponibili, è davvero vincente. Condividere risorse e idee, mettendosi al servizio del bene comune, in questo caso di tutte quelle imprenditrici/imprenditori o liberi professionisti, che possano trovare, seppur virtualmente, per il momento, un punto di sostegno allo sviluppo e al cambiamento, crediamo sia fondamentale”.

Torino per voi è?

Giusy Cavasino: “Torino è lo spirito Sabaudo: quel concetto di discrezione e rigore così ineffabile e difficile da descrivere che si riesce a cogliere solo passeggiando per le strade, respirando le bellezze, e mangiando il buon cibo. Uno spirito discreto che ha reso grande questa città!”

Angela De Meo: “Un patrimonio storico (è stata la prima capitale d’Italia) e culturale da rendere fruibile e accessibile a tutti. Una città da amare e da scoprire in tutti i suoi angoli suggestivi”.

Cristina Di Bari: “Un grande incubatore di innovazione: basta pensare alle tante cose che sono nate a Torino e a quelle che ancora oggi stanno nascendo. Infine è la città ideale per vivere e per lavorare e può diventare un modello per il futuro”.

Raffaella Magnano: “È l’armonia del barocco, i fiumi e il verde della collina”.

Silvia Ramasso: “Un punto di partenza imprescindibile, culturale, affettivo relazionale e anche un laboratorio più disponibile alla sperimentazione di tante altre città”.

Brigitte Sardo: “È il crogiolo di una storia industriale che ha visto nascere gran parte delle più importanti realtà imprenditoriali d’Italia, e successivamente del mondo, restando nel suo continuo sviluppo fedele alla sua impronta internazionale e creativa”.

Emanuela Zilio: “La città dove sono nati il cinema e la moda. La prima grande città industrializzata d’Italia, la città dell’automobile. La città in cui un toro riuscì a sconfiggere un drago”.

Un ricordo legato alla città?

Giusy Cavasino: “Nel luglio del 2012 Torino si è colorata di bianco e per la prima volta, così come a Parigi, Berlino e New York, è stata organizzata una sobria ed elegante cena collettiva in uno dei luoghi più suggestivi della città: Piazzetta Reale. Che dire? Unconventional dinner”.

Angela De Meo: “La moltitudine di persone nelle vie e nelle piazze durante le Olimpiadi invernali del 2006. Per me che ho vissuto gli anni di piombo da ragazza, vedere persone, bambini, carrozzine, famiglie, riversarsi nelle strade, soprattutto durante le notti bianche e fare la coda per prendere la tanto desiderata metropolitana, vedere una città brulicante e viva è stata un’emozione immensa”.

Cristina Di Bari: “Ho la fortuna di abitare in una posizione dove posso godere di tre viste ogni mattina: la collina, le montagne e la città. Ognuno di questi panorami suscita in me dei ricordi passati e presenti. La bellezza delle passeggiate in bici o a piedi nel verde della collina o in riva al fiume sin da quando ero bambina, la forza che mi ispira ogni giorno il Monviso con le sue cime innevate e il cielo azzurro e la città, con i suoi palazzi storici, i suoi portici e i grattacieli”.

Raffaella Magnano: “I giorni della Torino olimpica, momenti di condivisione gioiosa di molte attività diverse, dallo sport alla cultura”.

Silvia Ramasso: “Sono vissuta tra Milano e la Val Susa. Torino, per me, è il ricordo della mia infanzia tra i favolosi ruggiti e barriti sul Po, guardando i profili della collina”.

Brigitte Sardo: “Sentendomi profondamente legata a Torino, che vivo con amore ed intensità, devo dire che i ricordi sono molti, non solo quelli legati ad avvenimenti storici o culturali importanti, ma quelli più semplici, come il perdersi passeggiando (qualche volta riesco a farlo) per le sue vie, i musei, i portici, il parco, riscoprendo sempre una città elegante, colta, cosmopolita e tradizionalista insieme”.

Emanuela Zilio: “Le Olimpiadi invernali del 2006, il momento in cui gli abitanti di Torino hanno intuito il potenziale di crescita della loro città, una città moderna in dialogo con il mondo”.

 

Coordinamento: Carole Allamandi
Intervista: Barbara Odetto
Ph: Silvano Pupella

Una firma storica recisa

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni   Il 2020 si chiude, com’è naturale che sia, con una cattiva notizia. L’anno della pandemia  non può chiudersi bene. Apprendo  infatti  da Facebook che la prof. Gabriella Bosco, ordinaria di Letteratura Francese all’Università di Torino, non scrive più per “T u t t o libri” della “Stampa”.

Il supplemento ideato da Arrigo Levi, Carlo Casalegno e Giorgio Calcagno è in crisi da tempo. Anche Quaranta non scrive più.  ”T u t t o libri“ da tempo è illeggibile ed ha anche  una grafica piuttosto volgare. Il grande Scardocchia la definiva parte nobile del giornale. Acqua passata. Si tratta di un giornale che sta tornando ad essere la Gazzetta Piemontese di Bersezio. I lettori sono in caduta libera, inarrestabile. Neppure Maurizio Molinari è riuscito a metterci un rattoppo. Una firma nota in Italia e all’estero come Gabriella Bosco andava salvaguardata come un fiore all’occhiello del giornale. Una delle poche autorevoli. E invece anche lei è stata recisa catullianamente dall’aratro dei giornalisti – burocrati. Le “firme“ di certi sprovveduti sopravvivono a tutto,  anche perché nessuno le legge. Con Gabriella Bosco il quotidiano torinese  perde una firma storica. Il giornale di via Lugaro si sta inabissando verso un 2021 che tutti sperano migliore, persino i ristoratori.
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scrivere a quaglieni@gmail.com