Conigli, orsi e riccioli d’oro

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

L’anno che abbiamo da pochi giorni messo alle spalle è stato, per noi poveri investitori, di un’insolita durezza. 

 

Una saggia e ben diversificata gestione del patrimonio, bilanciata dalla presenza di prudenti obbligazioni e ben più rischiose azioni, ha garantito per molti anni (una quarantina per i risparmiatori statunitensi e almeno una decina per gli europei) risultati positivi o vicini allo zero. 

Normalmente, infatti, la crescita economica favorisce le borse (le società quotate beneficiano del miglioramento degli utili) e lascia al palo i titoli di Stato (con la crescita arriva anche l’aumento dei tassi che provoca la discesa delle obbligazioni) mentre i rallentamenti hanno effetti diametralmente opposti sugli investimenti. 

 

Accade, quindi, che azioni e obbligazioni si muovano in direzioni opposte, compensando (in un portafoglio che le contenga entrambe) i loro effetti e riducendo così le oscillazioni complessive. 

 

Dopo anni di crescita “anomala” (senza inflazione) e di risultati positivi il 2022 si è comportato in modo completamente diverso. 

 

Il ciclo economico, rilanciato nel 2021 dagli investimenti e delle riaperture, seguite alle chiusure messi in atto all’esplosione della pandemia ad inizio 2020, sembrava proiettato e dispiegare i suoi benefici effetti ma la decisione della Russia di andare fino in fondo nell’invasione della vicina Ucraina ha scombinato le carte e dato il via ad una spirale inflazionistica, attraverso la salita incontrollata dei prezzi delle materie prime energetiche. 

 

L’inflazione è spesso il frutto amaro della fioritura economica: la “troppa” crescita (e l’eccessivo ottimismo) porta (ciclicamente) a una domanda di beni e servizi in eccesso rispetto alla loro produzione e questo ne fa salire i prezzi. 

 

Ma questa volta la storia si è dipanata in un modo diverso che ha, a buon diritto, ricordato quanto avvenuto negli anni 70 quando lo “shock” fu provocato, ancora una volta, da una guerra: l’attacco di Egitto e Siria ad Israele durante la festività ebraica dello Yom Kippur (giorno di digiuno e di astensione dal lavoro e di massima vulnerabilità per il Paese) del 1973. 

 

A questo seguì l’intervento, al fianco d’Israele, degli Stati Uniti e, come ritorsione nei confronti di Washington, l’embargo dell’OPEC dell’esportazione di petrolio il cui prezzo in poco tempo triplicò, da 23 a 71 dollari al barile. 

 

Qualche anno dopo, nel 1978, arrivò una seconda crisi, ancora una volta originata in Medio Oriente con la rivoluzione iraniana, che portò ad una brusca riduzione del greggio prodotto dal Paese che da allora in poi sarebbe stato definito “degli Ayatollah” (titolo ottenuto dagli esperti di studi islamici quale riconoscimento dell’autorità di guida spirituale). 

A fare le spese dell’ulteriore raddoppio del prezzo del petrolio, che superò i 140 dollari, fu ancora una volta la crescita economica mondiale: l’inflazione (la più iniqua delle tasse, come ricordava Luigi Einaudi) provocò una recessione lunga e molto dolorosa. 

Solo a partire dal 1982 i massicci tagli dei tassi e la riduzione dei prezzi del carburante consentirono alla crescita di ripartire. 

 

La situazione oggi ci appare, per fortuna, molto diversa sebbene gli editori del dizionario Collins English abbiano proclamato “Permacrisis” (un periodo lungo di instabilità ed insicurezza) la parola dell’anno, ulteriore sottolineatura ad un periodo, il terzo dall’insorgere del Covid, davvero difficile.

 

La crisi “geopolitica” è certamente seria ma molto più localizzata (nei territori dell’ex Unione Sovietica) e gli schieramenti, “ferrei” ed impenetrabili, in piena guerra fredda, di cinquant’anni fa si sono gradualmente ammorbiditi (e in alcuni casi liquefatti). 

 

I rapporti politici e commerciali (esportazioni di armi, a causa della pessima esibizione di sé nella guerra in corso, e di petrolio, venduto a sconto ai Paesi amici dai russi, in particolare) della Russia con il Medio Oriente si sono deteriorati a favore di Cina e, in minore misura, Stati Uniti. 

 

Non a caso un vecchio modo di dire nel mondo della diplomazia recita: “Gli americani hanno alleati mentre russi e cinesi hanno clienti” … 

 

I cambiamenti generati dai drammatici eventi ucraini non mancheranno comunque di fare sentire i loro effetti nel prossimo futuro, costringendo ad un radicale ripensamento del processo di globalizzazione che aveva guidato negli ultimi trent’anni l’espansione economica occidentale e la rinascita di un’antica superpotenza come la Cina. 

 

Ma l’economia “due punto zero” di questo millennio è ben lontana da quella che fu strangolata dalle crisi petrolifere descritte sopra. 

 

Il cambiamento del modello dei consumi energetici che sta maturando, con un più massiccio utilizzo delle fonti rinnovabili ed un rapido cambiamento delle rotte di approvvigionamento del gas da parte dei Paesi europei, ci rende meno vulnerabili e in grado di tornare ad un percorso di crescita sostenibile in tempi, probabilmente, brevi. 

 

Si tratta di quanto stanno già iniziando a scontare i mercati finanziari che hanno affrontato il nuovo anno con una baldanza che non si vedeva da molti mesi. 

 

Le previsioni di una recessione ormai prossima rimangono plebiscitarie in Europa ma per gli Stati Uniti si sta facendo strada la speranza che si tratterà di un semplice rallentamento. 

 

Oltreoceano la frenata dell’inflazione è evidente (sebbene molta strada si debba ancora fare per tornare ad un livello “sano”, intorno al 2%) e non si sta accompagnando né ad un aumento dei salari (che alimenterebbe la spirale dei prezzi) né a un crollo della domanda. 

 

Analisti ed economisti sono concordi nel prevedere una prima metà dell’anno caratterizzata da dati economici negativi (soprattutto in Europa) alla quale seguirà una stabilizzazione e un ritorno alla crescita, stimolata da un cambio di direzione delle banche centrali (dopo la stagione dei rialzi sarà tempo di tagliare i tassi d’interesse). 

 

La riapertura della Cina (con la ferma intenzione della sua leadership di rendere l’”anno del Coniglio” un anno da leoni…) e uno scenario “riccioli d’oro” (dove la crescita si mantiene su livelli positivi e in grado di consentire il contenimento dei prezzi al consumo) per la locomotiva statunitense darebbero corpo alle attese di un 2023 speculare al 2022 (quando sia le obbligazioni che le azioni hanno registrato perdite pesantissime). 

 

A gettare acqua sul fuoco potrebbero però essere, ancora per qualche tempo, le banche centrali, quantomai determinate a chiudere la partita con l’inflazione e a non lasciare che si generi un eccessivo (e ingiustificato) ottimismo tra gli investitori. 

 

Un altro rischio, per i mercati azionari, è dato dal fatto che le previsioni sugli utili, pur essendo state ridotte negli ultimi mesi, rimangono ancora piuttosto elevate; ne sono un esempio gli Stati Uniti, dove, in un anno potenzialmente recessivo, si prevede ancora una loro crescita del 10%.

 

Il 22 gennaio, infine, si festeggia il Capodanno cinese e questa festività metterà in moto, internamente e all’estero, un gran numero di cinesi (nel 2019, anno in cui esplose il Covid furono più di 700 milioni) e la fine dell’inverno potrebbe coincidere con un colpo di coda della pandemia (seppur ora molto meno letale del passato). 

 

Insomma, sembra assolutamente ragionevole aspettarsi un anno meno complicato di quello appena trascorso ma faremo bene a non lasciarci troppo influenzare dall’euforia o dall’eccessivo pessimismo che periodicamente faranno capolino sui mercati finanziari. 

 

Per lo zodiaco orientale il Coniglio è un simbolo di fortuna e buon auspicio e possiamo solo sperare che sia così deciso e determinato da mettere in fuga gli orsi (*) (all’inseguimento di Riccioli d’oro) che da un anno a questa parte scorrazzano nei mercati. 

 

 

(*) Nel gergo finanziario “orsi” sono coloro che spingono le borse al ribasso (“Mercato orso”) in contrapposizione ai “tori”, ottimisti sull’andamento delle quotazioni (“Mercato toro”). 

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