Il puntaspilli

Washington Abbiamo un Problema!

IL PUNTASPILLI  di Luca Martina

Il confronto organizzato dalla CNN tra i due candidati alla presidenza USA, fortemente voluto dal presidente in carica, sembra essersi tramutato per lui in un clamoroso boomerang e c’è già chi lo accosta, non senza ragione, al celebre confronto televisivo (il primo della storia) tra Kennedy e Nixon, finito in una clamorosa sconfitta di quest’ultimo, repubblicano e vicepresidente in carica.
Nel 1960 gli Stati Uniti erano impegnati in una guerra fredda con l’Unione Sovietica (che stava anche guadagnando la leadership nello spazio con il lancio del satellite Sputnik) e con l’espansione del comunismo vicino ai suoi confini, a Cuba dove Fidel Castro stava procedendo alla nazionalizzazione di tutti i possedimenti americani, comprese le raffinerie, le fabbriche e le case da gioco.
Oggi la leadership mondiale statunitense si trova nuovamente messa in dubbio da un nuovo ordine mondiale che ricorda da vicino i tempi della guerra fredda e che vede l’ascesa della Cina e, ancora una volta, la minaccia proveniente dalla Russia (che con Putin punta a restaurare la grandeur sovietica), per non parlare del peso economico e geopolitico sempre più importante dei Paesi “non allineati”; India in testa.
L’esordio del match Biden-Trump non ha riguardato però i grandi temi internazionali bensì un problema molto più sentito dall’americano medio.
La prima domanda, posta dal giornalista della CNN Jake Tapper, che conduceva il dibattito insieme alla collega Dana Rash, è stata infatti relativa “alla maggiore preoccupazione degli elettori americani: il fortissimo        aumento del costo della vita provocato dall’inflazione”.
Che si tratti di uno dei temi cruciali per la corsa presidenziale non ci sono dubbi e ne avevo parlato poche settimane fa in questo articolo https://iltorinese.it/2024/06/04/domande-complicate-e-semplici-risposte-elezioni-pessimismo-e-inflazione/ .
L’impoverimento percepito da una vasta fascia di popolazione è una delle maggiori “sconfitte” imputate, a torto o a ragione, al presidente Biden, con conseguente perdita di popolarità nei sondaggi degli ultimi mesi.
Senza volerci troppo inoltrare nei contenuti del dibattito, ampiamente commentati dalla stampa, sono emersi alcuni aspetti che ritengo valga la pena esaminare.
Va sottolineato, innanzitutto, che nessuno dei due candidati ha brillato e la vittoria di Trump va attribuita innanzitutto alla pessima vena manifestata da Biden (apparso stanco, la voce roca e monocorde, e poco lucido sin dalle prime battute).
Lo scontro è stato, poi, combattuto sui (presunti) successi e fallimenti dei due presidenti (quello attuale e quello precedente) e quasi per nulla sui progetti che intendono proporre per il futuro, l’argomento che più interessa gli elettori.
Mentre la trasmissione era ancora in corso, di fronte alle incertezze del presidente, sono subito iniziate a fioccare le critiche (anche democratiche) alla candidatura di Biden e il giorno dopo è stato il New York Times, storicamente molto vicino alle posizioni “liberal” dei democratici, a chiedere un passo indietro al presidente in carica.
La questione per i “Dem” non è certo di facile soluzione: con Biden si va probabilmente incontro ad una sconfitta (la performance dell’altra sera è stata definita “uno schianto automobilistico visto al rallentatore”) ma un cambiamento in corsa difficilmente cambierebbe il destino delle elezioni, come d’altronde già avvenuto in passato, nel 1968, quando Lyndon B. Johnson, in calo di popolarità per il perdurare della guerra in Vietnam e con seri problemi di salute, lasciò il posto al vice Hubert Humphrey (sconfitto, poi, dal redivivo Nixon).
Va anche ricordato come la corsa presidenziale sia anche una gigantesca idrovora di denaro: nel 2020 la campagna di Biden costò complessivamente 1,7 miliardi di dollari mentre quella di Trump la superò con ben 1,96 miliardi di dollari.
Un candidato completamente nuovo, possibile comunque solo di fronte ad una rinuncia di quello attuale, dovrebbe avere la capacità di raccogliere somme enormi ed in tempi brevi per potersi sobbarcare una campagna da affrontare velocemente e con un vento contrario.
L’unica ipotesi finanziariamente sostenibile sarebbe la candidatura della vicepresidente (come avvenne con Lyndon Johnson) Kamala Harris: trattandosi dello stesso “ticket” presidenziale (rispettivamente come presidente e suo vice) potrebbe attingere ai fondi raccolti e finanziare così la corsa elettorale.
Peccato che Kamala sia in patria estremamente impopolare e una sua candidatura sarebbe improponibile perché troppo divisiva per il partito democratico.
Biden, in fondo, è comunque riuscito ad ottenere un’investitura pressoché plebiscitaria, con il 99% dei voti, da parte dei delegati democratici durante la lunga serie di “primarie” tenutesi tra il 23 gennaio e l’8 giugno e di questo si fa ancora forte, respingendo le richieste, sempre più pressanti, di fare un passo indietro.
Osservatori interessati a quanto sta accadendo sono anche i mercati finanziari.
Il denaro, si sa, non ha colore politico e quello che conta sarà il programma economico del nuovo presidente.
Quasi mai una presidenza è stata automaticamente avversata, o favorita, dagli investitori e anche il giudizio espresso a freddo, il giorno dopo l’incontro, ha confermato lo scarso entusiasmo trasmesso dal confronto televisivo.
Per concludere, possiamo affermare che dagli studi della CNN in Georgia, è risuonato, forte e chiaro, all’indirizzo del partito democratico un messaggio: “Washington abbiamo un problema!” (*)… E sono davvero in molti, anche al di fuori degli Stati Uniti, che si augurano che Biden abbia la saggezza di ascoltarlo e di trarne le dovute conseguenze.
(*) La frase “Houston abbiamo un problema”, diventata presto sinonimo dell’insorgere di problemi imprevisti e di difficile soluzione, fu pronunciata da Jack Swigert, pilota del modulo di comando della celebre ma sfortunatissima missione lunare Apollo 13. Dopo gli allunaggi delle missioni Apollo 11 e 12 si doveva trattare di un viaggio di routine (molto criticata perché ritenuta da molti inutile) verso la Luna ma venne funestata da moltissimi problemi. Il film “Apollo 13” (con un cast stellare che comprendeva tra gli altri Tom Hanks e Kevin Bacon) ha raccontato le vicende dell’equipaggio e il lieto fine della vicenda, con l’ammaraggio nelle acque del Pacifico ed i tre componenti dell’equipaggio sani e salvi, il 17 aprile 1970.

Domande complicate e semplici risposte: elezioni, pessimismo e inflazione

IL PUNTASPILLI  di Luca Martina

Tra 5 mesi, il 5 novembre, l’anno elettorale più affollato della storia si concluderà in bellezza con la chiamata alle urne del popolo statunitense.

Beh in realtà non è esattamente così in quanto a dicembre si voterà ancora in Ghana, Sud Sudan, Uzbekistan, Croazia e Romania ma possiamo certamente ritenere quello americano l’evento più importante del 2024.

Ancora una volta il risultato appare in bilico e lo rimarrà probabilmente sino al fatidico martedì che segue il primo lunedì di novembre (questo prescrive la tradizione).

Il dibattito tra i due candidati, l’attuale presidente Biden ed il precedente Trump, non sta ancora appassionando l’elettorato e anche le loro vicende personali non spostano, per ora, l’ago della bilancia.

Quello che sembra evidente è che la crescita economica degli ultimi, non certo semplici anni, ha rallegrato molto di più gli investitori (il mercato azionario americano ha toccato ultimamente nuovi massimi, il 10% al di sopra dei livelli raggiunti prima dell’esplosione del conflitto russo-ucraino) che i cittadini americani.

Tutti i sondaggi indicano, infattim un diffuso pessimismo e una sostanziale insoddisfazione per lo stato delle cose e gli analisti si interrogano sul perché l’adagio “it’s the ecomy, stupid” (coniato dal consigliere di Clinton, James Carville, che sintetizzava come le fortune del presidente andassero di pari passo con quelle dell’economia) questa volta suoni così stonato.

Il motivo sembra risiedere, più che nella situazione dell’economia (resiliente e resistente anche alla politica restrittiva della Federal Reserve) nell’inflazione che ha eroso il potere d’acquisto di una parte importante della popolazione statunitense.

Ma prima di capire chi imputa a Biden il peggioramento della propria condizione, minandone la popolarità e costringendolo ad un testa a testa nei sondaggi, varrà la pena spendere qualche riga sulla mala bestia dell’inflazione che, dopo essere rimasta ingabbiata per molti anni, è stata risvegliata bruscamente dal binomio epidemia-guerra.

E’ pur vero che dal 9%, raggiunto nel luglio del 2022, la discesa è stata notevole ma da un anno a questa parte sembra essersi arrestato intorno al 3,5%, un livello ancora lontano dall’obiettivo, fissato al 2%, della banca centrale statunitense che per ora non ha alcuna intenzione di tagliare i tassi di interesse (dopo averli portati dallo zero della primavera di due anni fa al 5,50% attuale).

Ma se è vero che un’inflazione del 3% non si discosta troppo dalla media degli ultimi quarant’anni, a fare male è quanto avvenuto tra la metà del 2021 e del 2023: il biennio “horribilis” ha registrato una crescita dei prezzi di prima necessità (cibo ed energia) del 20% e da allora, la moderazione della loro salita, non li ha certo resi più economici né riportati minimamente nei pressi del loro livello pre-shock.

Ecco dunque spiegato il malumore di gran parte dei lavoratori americani: si tratta, in particolare, di quelli con salari più bassi, per i quali il carrello della spesa è diventato molto più caro e di scarso aiuto sono stati i loro (invero modesti) incrementi salariali.

Il concetto è semplice e l’esito brutale: meno soldi hai in tasca e più gli aumenti dei prezzi peggioreranno la qualità della tua vita, costringendoti a fare lo slalom tra offerte e discount (a piedi, per eludere gli aumenti dei costi di trasporto) o a indebitarti (a tassi di interesse molto alti).

Questo serve anche a ricordarci come il concetto di inflazione sia estremamente elusivo e soggettivo: dipende, cioè, totalmente da quelli che sono i propri, personalissimi, consumi.

La situazione difficilmente cambierà nei prossimi mesi ed appare chiaro come una risposta, a coloro che domandassero perché nel Paese che meglio si è ripreso da tutte le brutte soprese del nostro decennio, con un’economia che ha evitato una recessione e la disoccupazione ai minimi storici, serpeggi una così elevata insoddisfazione, esiste e non è poi così diversa da quella fornita dallo staff del presidente Clinton nel 1992:  “Non cercate risposte complicate: in fondo è solo l’inflazione, stupido!”.

 L’enigma dei tassi

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

L’andamento dei tassi d’interesse è certamente uno dei rebus più discussi (e indecifrabili) dagli investitori.

Il ricordo degli eventi che si erano succeduti mezzo secolo fa è ritornato clamorosamente alla mente dopo gli eventi degli ultimi anni e vale forse la pena di fare un po’ di storia e ricapitolare quanto accaduto.

Due violentissimi shock petroliferi, il primo nel 1973 e il secondo nel 1979-80, avevano provocato la salita dell’indice dei prezzi a ritmi vertiginosi e la Banca d’Italia non aveva potuto fare altre che alzare i tassi d’interesse ufficiali fino a raggiungere il livello record del 19% nel corso del 1981.

Solo molti anni dopo, nel 1993, i tassi erano tornati al di sotto del 10%, a conferma di un trend disinflazionistico che da qualche anno aveva preso avvio a livello mondiale.

Si trattava dell’onda lunga prodotta dalla globalizzazione.

Il termine, coniato pare dai giornalisti del The Economist, designa la liberalizzazione del commercio mondiale a partire dagli anni 60, attraverso istituzioni quali il GATT (Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio) e, nella sua successiva trasformazione, il WTO (Organizzazione mondiale del commercio, creata nel 1995).

A rafforzare questo trend ha contribuito poi la politica di apertura economica iniziata dalla Cina, con Deng Xiaping, nel 1978 e, successivamente, il dissolvimento (e la sua conseguente apertura agli scambi con il resto del mondo) dell’“impero” Sovietico (alla fine degli anni 80).

Anche l’innovazione tecnologica, legata alla diffusione di internet e personal computer a sempre prezzi più bassi, ha contribuito fattivamente a questo processo.

Quello che era difficilmente immaginabile è stato lo sprofondamento dei tassi al di sotto dello zero, una sorta di mondo al contrario dove si pagava per il diritto di acquistare il debito di un Paese, la Germania, accettando di investire più di quanto sarebbe, alla scadenza, molti anni dopo, stato rimborsato.

Gli economisti si sono a lungo interrogati, senza raggiungere un parere condiviso, sul perché, una volta usciti dalla “grande crisi finanziaria” del 2007-8, l’inflazione non tornasse a salire (come di solito avviene dopo una recessione).

E’ così avvenuto che i tassi d’interesse dettati dalla Banca Centrale Europea si sono accomodati a livelli prossimi o, per la maggior parte del periodo, uguali allo zero per circa un decennio (dal 2012 al 2022).

Pandemia e, successivamente, il conflitto in Ucraina hanno risvegliato l’animale, ingabbiato per quarant’anni, costringendo i signori della moneta ad agire di conseguenza, tornando a mettere mano al bastone (dopo avere offerto carote con grande generosità) con un forte incremento dei tassi.

Ma se questo non deve in fondo, sorprendere (si tratta di un ritorno alla “normalità”) il nuovo mistero materializzatosi sotto gli occhi degli economisti è legato allo scarso effetto che il caro-denaro (l’aumento del costo dei mutui e dei finanziamenti a famiglie ed imprese) ha sinora prodotto sull’economia ed in particolare negli Stati Uniti.

La locomotiva americana, infatti, continua a crescere e a compensare, a livello globale, gli effetti della frenata cinese (dovuta alla ricetta indigesta, per l’economia, di una politica neo-maoista ed accentratrice e della crisi del mercato immobiliare).

Ad onor del vero occorre sottolineare come l’inflazione, galoppante un anno fa, è ormai tornata su livelli non troppo distanti dalla sua storia (intorno al 3% contro il 2,5% del decennio passato) ma, ciononostante, le banche centrali non sembrano avere alcuna fretta a ridurre i tassi e i mercati obbligazionari (che beneficerebbero fortemente dei tagli, con la salita dei loro prezzi) rimangono asfittici.

Ad oggi l’equazione manca ancora di una soluzione che, probabilmente, scopriremo solo in prospettiva, esaminando i dati economici dei prossimi anni.

Un’ ipotesi è che la crescita attuale sia sostenuta da un aumento della produttività, consentita dalle nuove tecnologie, ormai estremamente pervasive nella nostra spesa (e nella nostra vita) quotidiana.

Il miglioramento della produttività è una delle caratteristiche di tutte le “Rivoluzioni” economiche del passato: a partire dalla rivoluzione industriale della fine del ‘700 che con l’introduzione di nuove “tecnologie”, prima fra tutte la macchina a vapore, consentì produzioni di massa a prezzi molto più contenuti e accessibili con conseguente effetto disinflazionistico (o deflazionistico).

A riprova di ciò possiamo osservare come i settori legati alle nuove tecnologie, e in particolare il segmento dell’Intelligenza Artificiale, abbiano prodotto un aumento enorme dei loro utili negli ultimi anni e, anche, in questo risiede il “segreto” dell’economia e delle imprese statunitensi, in grado di crescere molto più velocemente di quanto avviene in Europa (dove le aziende tecnologiche hanno un peso molto inferiore).

Sebbene non sia per nulla certo il futuro prossimo dei tassi rimane, comunque, probabile che abbiano smesso di salire e che presto inizierà la loro inversione di marcia.

Esiste peraltro anche la possibilità che l’economia americana esaurisca, o attenui, nei prossimi mesi la sua forza propulsiva: questo convincerebbe i banchieri centrali a tagliare i tassi d’interesse più velocemente di quanto attualmente previsto dagli analisti e potrebbe riflettersi negativamente sulle borse.

Per il momento, l’ottimismo manifestato dai mercati azionari (che attribuiscono ogni giorno un valore alle imprese quotate, tanto maggiore quanto positive sono le loro prospettive) sembra essere giustificato, vista la forza dell’economia statunitense, e non così irrazionale come si potrebbe essere indotti a pensare.

Venendo alle obbligazioni ed ai tassi d’interesse, gli investitori continuano invece ad essere disorientati proprio come noi ci potremmo ritrovare, ancora oggi, rileggendo il racconto “La quercia del Tasso” di Achille Campanile…

Buona lettura!

”La quercia del Tasso” (Achille Campanile)

“Quell’antico tronco d’albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, come avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi sotto, quand’essa era frondosa. Anche a quei tempi la chiamavano così. Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide. Meno noto è che, poco lungi da essa, c’era, ai tempi del grande e infelice poeta, un’altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi. Un caso. Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la “t” maiuscola e della quercia del tasso con la “t” minuscola. In verità c’era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall’altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso. Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano “il tasso del Tasso” e l’albero era detto “la quercia del tasso del Tasso” da alcuni, e “la quercia del Tasso del tasso” da altri. Siccome c’era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, poeta anch’egli), il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: “È il Tasso dell’olmo o il Tasso della quercia?”. Così poi, quando si sentiva dire “il Tasso della quercia” qualcuno domandava: “Di quale quercia?”. “Della quercia del Tasso.” E dell’animaletto di cui sopra, ch’era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: “il tasso del Tasso della quercia del Tasso”. Poi c’era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s’era dedicata al poeta e perciò era detta “la guercia del Tasso della quercia”, per distinguerla da un’altra guercia che s’era dedicata al Tasso dell’olmo (perché c’era un grande antagonismo fra i due). Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: “la quercia della guercia del Tasso”; mentre quella del Tasso era detta: “la quercia del Tasso della guercia”: qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso. Qualcuno più brevemente diceva: “la quercia della guercia” o “la guercia della quercia”. Poi, sapete com’è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l’albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia. Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi. Viveva. E lo chiamarono: “il tasso della quercia della guercia del Tasso”, mentre l’albero era detto: “la quercia del tasso della guercia del Tasso” e lei: “la guercia del Tasso della quercia del tasso”. Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto: “il tasso del Tasso”. Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l’animaletto venne indicato come: il tasso del tasso del Tasso. Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all’ombra d’un tasso perché non ce n’erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora: il tasso barbasso del Tasso; e Bernardo fu chiamato: il Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal Tasso del tasso. Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell’animaletto fu indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso. Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.”

L’anno che non è stato, l’anno che sarà 

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Anche questo 2023 sta arrivando ai titoli di coda e, ancora una volta, ci troviamo a riflettere su quello che a inizio anno si pensava fosse destinato ad avvenire e che invece non è successo.

I mercati finanziari, si sa, si muovono sulla base delle aspettative degli investitori. Sono questi ultimi, infatti, che, comprando e vendendo azioni e obbligazioni provocano i loro rialzi (quando ci sono più compratori disposti ad acquistare ad un certo prezzo rispetto a coloro che se ne vogliono disfare) o ribassi (il fenomeno opposto: una maggioranza di investitori che vuole sbarazzarsi dei propri titoli rispetto a coloro che sono pronti ad acquistarli).

Accade così che più elevato è il pessimismo che regna e maggiore è la probabilità che i prezzi alla fine salgano (chi doveva vendere l’ha già fatto e basta poco per fare ripartire gli acquisti).

Il 2023 è stato, da questo punto di vista, davvero paradigmatico: vediamo in rapida successione quali pericoli minacciavano la crescita economica e l’andamento delle quotazioni lo scorso gennaio o nei primi mesi dell’anno.

Il rischio più ampiamente dibattuto 12 mesi fa era quello di una recessione: il mix venefico di elevata inflazione e tassi d’interesse in salita giustificavano i peggiori timori degli analisti.

Alla prova dei fatti, l’unico Paese di una certa rilevanza a registrare una crescita negativa del PIL sarà quest’anno la Germania (con il -0,1%). Tra i pochi a chiudere l’anno in recessione merita una menzione anche la Svezia, con un -0,7%, frutto di un forte rallentamento del settore immobiliare (dopo molti anni di crescita i prezzi delle case scandinave sono, infatti, scesi quest’anno dell’11%).

Gli Stati Uniti chiuderanno invece l’anno con una crescita vicina al 2,5% e in forte accelerazione (il terzo trimestre è stata del 5,9%).

Insomma, il binomio tassi/inflazione ha provocato danni soprattutto nel nostro continente, anche a causa del perdurare dell’incertezza legata alla guerra russo-ucraina, mentre oltreoceano la locomotiva a stelle e strisce ha continuato a viaggiare, aiutata dai forti aiuti che il governo aveva distribuito alle famiglie negli anni passati (ed ancora completamente utilizzati) per fronteggiare il rallentamento provocato dalla pandemia.

Nel complesso, dunque, la tanto temuta recessione globale non c’è stata e i mercati hanno tremato solo quando, questa estate, sembrava che le banche centrali fossero determinate a mantenere i tassi (dai quali dipendono gli interessi sui prestiti e sui mutui di imprese e famiglie) alti per molto tempo: questo era, in effetti, un altro dei timori che aleggiavano da parecchio tempo.

Non a caso il 2022 era stato l’Annus horribilis per i mercati obbligazionari, funestati dall’aumento dei tassi e timorosi che, dopo un lungo periodo di costante discesa, gli anni a seguire avrebbero riservato niente di meglio di una loro stabilizzazione, con il rischio non indifferente di un’ulteriore salita.

Com’è noto, infatti, i prezzi dei titoli di stato scendono quando i tassi richiesti dagli investitori per la loro sottoscrizione salgono al di sopra delle cedole offerte degli stessi…

Le dichiarazioni più distese dei signori della moneta, con il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, in testa, degli ultimi mesi hanno invece rimesso le cose a posto e i listini in carreggiata per chiudere l’anno in forte recupero (dopo le perdite del 2022).

Un altro spettro si è aggirato, poi, per il mondo finanziario quest’anno: quello di una crisi bancaria.

A marzo, negli Stati Uniti, erano fallite, in rapida successione, tre banche regionali facendo così temere il peggio per l’intero settore.

La Silicon Valley Bank, in particolare, è stato il peggior fallimento della storia bancaria americana e negli stessi giorni il collasso di uno dei pilastri del sistema bancario elvetico, Credit Suisse, sembrava fosse solo l’inizio di un periodo molto complicato, spesso le crisi economiche sono innescate o esasperate da quelle bancarie (ne avevo parlato qui: https://www.pannunziomagazine.it/uno-due-tre-stella-di-luca-martina/ ).

In realtà dopo la nevicata non c’è stata nessuna valanga: le banche hanno sofferto di una pessima performance borsistica ma non si sono registrati ulteriori dissesti e il pericolo è stato rapidamente messo alle spalle.

Anche il perdurare del conflitto alle porte dell’unione europea e l’inizio di una nuova guerra in Medio Oriente non hanno turbato più di tanto la crescita economica e l’andamento dei mercati.

Il cinismo degli investitori guarda sempre e solo agli effetti economici e se pandemia e invasione dell’Ucraina avevano, nel 2020-22, creato colli di bottiglia nei rifornimenti energetici e nel commercio internazionale, con salite vertiginose dei prezzi delle materie prime, la situazione si è ora normalizzata (si sono aperte nuove rotte, con nuovi fornitori) e neanche i tragici eventi israelo-palestinesi hanno cambiato la situazione (il prezzo del greggio rimane sui livelli pre-conflitto).

Quello che appare chiaro è che, dunque, quest’anno non si sono materializzati i disastri annunciati ed economie e mercati ne hanno, alla fine, beneficiato.

Rimane ora da capire cosa avverrà nel 2024.

L’inflazione continuerà probabilmente a scendere ed i tassi d’interesse di mercato stanno iniziando a incorporare queste aspettative.

Occorrerà vedere se il rallentamento economico inizierà a materializzarsi, in particolare negli Stati Uniti, dato che gli aumenti dei tassi tendono a riflettersi sulla crescita 18-24 mesi dopo il loro inizio (avvenuto a partire da marzo del 2022 e dunque forse ci siamo…).

Il 2024 sarà anche un anno elettorale: saranno chiamati ad esprimersi ben 76 Paesi, il 50% della popolazione mondiale e ben l’80% dei Paesi industrializzati e tra questi l’India e gli Stati Uniti.

Le elezioni possono avere l’effetto di produrre incertezze legate al potenziale subentro di un diverso partito/presidente rispetto a quello in carica ma anche spingere chi è attualmente al comando a fare tutto quanto in loro potere per arrivare alle elezioni con la migliore situazione economica possibile (per guadagnare più consensi).

Come sempre, poi, non mancheranno gli eventi, al momento non prevedibili, che renderanno l’anno in arrivo molto interessante.

Non possiamo, allora, che predisporci a vivere il nuovo anno con grande circospezione ma anche senza lasciarci spaventare troppo: a scommettere sulla fine del mondo, in fondo, non ci ha mai guadagnato nessuno!

 

Buon anno a tutti!

SE questo è un augurio

IL PUNTASPILLI  di Luca Martina

Quelli della mia generazione (baby boomers) ricorderanno forse ancora con nostalgia, come me, una poesia che, troppo lunga da essere inculcata a forza nella memoria, si imponeva, pur nella sua semplicità, per la profondità del suo significato.

Dopo averla letta per la prima volta in uno dei “Manuali delle giovani marmotte” (Nota per i più giovani: non si trattava di una trattazione sui simpatici e sonnolenti roditori…) ricevuto come regalo natalizio ne avevo rimediato, non ricordo come, una copia stampata in bianco e nero, niente di più che un semplice foglio A4, e l’avevo fatta incorniciare da mio padre.

Il “Breviario per laici”, come l’aveva definita Antonio Gramsci, il primo a tradurla nella nostra lingua, faceva dunque bella mostra nella mia cameretta e, quando mi sentivo più solo o triste, bastava gettargli una veloce occhiata per rimettermi di buon umore…. beh forse non era proprio così ma sì, insomma, si trattava comunque di una ventata di meditato ottimismo e pragmatica saggezza che non mancava di addolcire anche i momenti meno lieti.

Rudyard Kipling è diventato famoso per avere appassionato generazioni di lettori con il suo “Libro della Giungla” ma io gli sono stato sempre molto più riconoscente per questa sorta di bignami del Libro della vita.

A questo è tornata in questi giorni la mia mente intenta a cercare di partorire un augurio sincero, non di maniera, alla vigilia del tramonto di un altro anno pieno di tutto il bello e di tutto il brutto che noi umani sappiamo esprimere e sopportare.

Che davanti a voi si possa dunque affacciare il miglior futuro che potete immaginare e che la lettura di “Se” sia in grado di riportare alla mente i vostri più bei ricordi e suscitare le emozioni che solo la rivelazione (o la sua riscoperta) di un piccolo capolavoro possono provocare.

Giudicate voi se questi miei sforzi hanno raggiunto il loro obiettivo e se questo è un augurio che appaga le vostre aspettative.

Se, invece, il miracolo non riuscisse, cercherò di fare di meglio il prossimo anno… Se…

 

Se

Se saprai mantenere la testa quando tutti intorno a te la perdono, e te ne fanno colpa.
Se saprai avere fiducia in te stesso quando tutti ne dubitano,
tenendo però considerazione anche del loro dubbio.
Se saprai aspettare senza stancarti di aspettare,
O essendo calunniato, non rispondere con calunnia,
O essendo odiato, non dare spazio all’odio,
Senza tuttavia sembrare troppo buono, né parlare troppo saggio;

Se saprai sognare, senza fare del sogno il tuo padrone;
Se saprai pensare, senza fare del pensiero il tuo scopo,
Se saprai confrontarti con Trionfo e Rovina
E trattare allo stesso modo questi due impostori.
Se riuscirai a sopportare di sentire le verità che hai detto
Distorte dai furfanti per abbindolare gli sciocchi,
O a guardare le cose per le quali hai dato la vita, distrutte,
E piegarti a ricostruirle con i tuoi logori arnesi.

Se saprai fare un solo mucchio di tutte le tue fortune
E rischiarlo in un unico lancio a testa e croce,
E perdere, e ricominciare di nuovo dal principio
senza mai far parola della tua perdita.
Se saprai serrare il tuo cuore, tendini e nervi
nel servire il tuo scopo quando sono da tempo sfiniti,
E a tenere duro quando in te non c’è più nulla
Se non la Volontà che dice loro: “Tenete duro!”

Se saprai parlare alle folle senza perdere la tua virtù,
O passeggiare con i Re, rimanendo te stesso,

Se né i nemici né gli amici più cari potranno ferirti,
Se per te ogni persona conterà, ma nessuno troppo.
Se saprai riempire ogni inesorabile minuto
Dando valore ad ognuno dei sessanta secondi,
Tua sarà la Terra e tutto ciò che è in essa,

E — quel che più conta — sarai un Uomo, figlio mio!

La bellezza dell’impresa 

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Lo scorso 5 dicembre ho organizzato nel centro di Torino, nelle splendide sale di Palazzo Bricherasio, sede di Banca Patrimoni Sella & C., un evento dedicato al giornalista e scrittore Adriano Moraglio e, con lui, alle tante storie di imprenditori che contribuiscono a fare dell’Italia un Paese così ricco di aziende di successo (malgrado tutto…).

La professione, per così dire, dell’imprenditore è tra le più sottovalutate e male interpretate: viene spesso, con colpevole superficialità, associata ai mali e ai vizi che sono, piuttosto, tipici dell’italiano furbetto, atavicamente ostile al riconoscimento dei meriti e dei valori in nome di una supposta eguaglianza che, alla prova dei fatti, finisce per azzerare lo spirito di iniziativa.

Fare impresa seriamente ed in modo responsabile significa, innanzitutto, creare ricchezza (per tutti), finanziare la spesa pubblica (con le tasse pagate), generare posti di lavoro e costruire un futuro migliore per le nuove generazioni.

Ma essere imprenditori vuole anche dire andare oltre i propri limiti, avere coraggio ma anche paura di non farcela (il fallimento è un rischio impossibile da eliminare).

Nel libro “Volevo fare il pasticcere”, pubblicato insieme a Moraglio, il compianto Alberto Balocco scriveva: “Volevo fare il pasticcere: forse è arrivato il mio momento. Ma al fondo, al di là di questo sogno, rimane una domanda, quella che ogni imprenditore si fa tutte le mattine guardandosi nello specchio: “Ce la farò? Ce la faremo anche oggi? “. Non è un modo di dire… Sono le domande che, credo, si siano posti mille volte mio padre, mio nonno, i miei bisnonni. Sono le domande che vivono dentro la coscienza di ogni imprenditore quando si trova di fronte a scelte difficili, consapevole che dietro l’angolo, anche quando tutto sembra andare bene, c’è sempre il rischio di un imprevisto, di un’emergenza che può mettere in pericolo tutto e tutti. Dentro le preoccupazioni, dentro l’impegno sempre vivo, a spronarti a continuare è la coscienza che altri, prima di te, hanno rischiato tutto. Hanno avuto coraggio – un coraggio autentico, puro, sincero – di avere paura.”.

Le parole dell’imprenditore fossanese sono echeggiate in una sala gremita dalla presenza di tanti imprenditori che ce l’hanno fatta, spesso superando crisi durissime e la sfiducia di chi li riteneva pazzi e senza alcuna speranza di riuscita.

Dopo la galoppata tra le storie raccontate dai trenta volumi sinora pubblicati (il trentunesimo è stato presentato alla conclusione della serata) da Adriano Moraglio sono intervenuti alcuni dei protagonisti.

Marco Boglione (co-autore di “Piano piano che ho fretta”) ha ricordato le sue tre proverbiali “P”: Passione, perché senza non si combina nulla, Pazienza, perché i tempi per portare a compimento i propri sogni sono lunghi e non bisogna arrendersi, e Persuasione, in quanto per avere successo occorre essere capaci di convincere gli altri a seguirti, da soli, infatti, non si va da nessuna parte.

Cesare Verona e Edolinda Di Fonzo (protagonisti de “Questioni di stilo”) hanno raccontato come un marchio iconico come Aurora sia stato rivitalizzato dalla valorizzazione della tradizione, fieramente mantenuta in vita da Cesare, rivisitata dal gusto per il bello che solo il tocco femminile di Linda poteva dare.

Il professor Roberto Schiesari ha poi sottolineato l’importanza di condividere con gli studenti le storie edificanti degli imprenditori che hanno avuto successo mettendo al primo posto il rispetto delle persone e dell’etica.

L’editore di molti dei volumi presentati, Florindo Rubbettino, una storia, anche la sua, di imprenditoria famigliare, che ha compiuto in questi giorni 51 anni, è arrivato apposta da Soveria Mannelli (borgo della presila catanzarese) per raccontare il bel sodalizio con Adriano.

Dulcis in fundo è stato presentato, fresco di stampa e con la coautrice Silvia Lessona, “Nel nome delle donne”.

Il libro, che raccoglie le storie di Alba Menozzi, Adriana Gasco Fiorentini, Cristiana Poggio, Enrica Acuto Jacobacci, Roberta Mantellassi, Chiara Salvetti e Nunzia Giunta, è la naturale continuazione del precedente volume, pubblicato l’anno scorso, “L’impronta delle donne”, e sottolinea una volta di più come la gentilezza e la determinazione di tante professioniste, imprenditrici e compagne di imprenditori (“Dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna”, Virginia Wolf dixit) possano essere d’esempio e da sprone per tutte coloro che rischiano di abbandonare i propri sogni di fronte a frustrazioni ed assurde discriminazioni.

La serata si inseriva idealmente in un percorso, da me iniziato quattro anni fa con Napoleone Leumann ed Adriano Olivetti, dedicato a quegli imprenditori che con la loro opera hanno lasciato il loro ricordo indelebile sul territorio piemontese, attualizzando il discorso ed allargandolo a tutto il territorio nazionale.

Le esperienze, infatti, possono essere straordinari strumenti di diffusione della conoscenza perché, citando Seneca, “La via per imparare è lunga se si procede per regole, breve e efficace se si procede per esempi”.

Buoni del Tesoro Pericolosi (BTP) 

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

È davvero sorprendente come le, spesso travagliate, vicende dei titoli obbligazionari emessi dal nostro governo non siano state sufficienti a mettere in guardia le famiglie, sempre alla ricerca di rendimenti “sicuri”.

Sfugge, purtroppo, ancora troppo spesso la conoscenza di alcuni, semplici, parametri che dovrebbero consentire di orientarsi, non per calcolare le distanze al centimetro ma almeno per stabilire la direzione da percorrere, nel mondo degli investimenti obbligazionari (le azioni richiedono un discorso a sé stante).

Le obbligazioni sono un debito, nel caso dei BTP dello Stato italiano, che andrà restituito ad una scadenza prestabilita.

I pericoli per chi decide di prestare il proprio denaro sono di due tipi: se il debitore sarà in grado di onorare il proprio impegno e quale sarà il valore reale del denaro prestato al momento nel quale ne rientreremo in possesso.

Il primo rischio ha a che fare con la solidità del debitore: più esso è inaffidabile e maggiore sarà la probabilità che il prezzo del titolo “balli” paurosamente prima del suo rimborso. Non serve, infatti, fidarsi del fatto che alla scadenza lo Stato pagherà il suo debito: nel corso della sua esistenza l’obbligazione subirà inesorabilmente le ondate di sfiducia (l’Italia ne è periodicamente soggetta…) che dovessero abbattersi sulle nostre sponde.

Inoltre, più è lontana nel tempo la scadenza e maggiore è l’incertezza legata al debitore (quale sarà il nostro debito pubblico tra 5,10, 20 anni e saremo ancora in grado di onorarlo?) così come la possibilità di subire un deprezzamento del nostro capitale dovuto ad un tasso d’inflazione superiore alle cedole riscosse dai nostri titoli.

Proprio al pagamento delle cedole, infatti, è affidato il gravoso compito di preservare il valore reale dei capitali prestati ma se, dopo avere pattuito un certo rendimento, l’inflazione sale al di sopra dei livelli iniziali e/o insorgono dubbi sulla credibilità del debitore è il prezzo dei titoli in portafoglio a pagarne le spese.

Chi non volesse troppo approfondire questi concetti, ritenendoli troppo astrusi o teorici, potrà con grande facilità toccare con mano quanto avvenuto alle quotazioni dei nostri amatissimi BTP negli ultimi anni.

Prendiamo, per fare un esempio, il BTP emesso lo scorso agosto, con scadenza fine marzo del 2034. Il rendimento, alla sua emissione, ha calamitato le attenzioni di moltissimi risparmiatori.

Dopo anni di rendimento azzerato, il 4% sembrava un ottimo tasso rendimento: peccato che le valutazioni che guardano solo al passato (ignorando l’incertezza propria del futuro che ci attende) si possono rivelare quantomai fallaci.

Dopo essere andato letteralmente a ruba il valore del titolo ha subito iniziato a scendere ed ora vale circa 94: in meno di due mesi, cioè, ha perduto ben il 6%…

Molto peggio è andata a coloro che avevano deciso di destinare parte dei loro risparmi al BTP Futura 2037, nell’aprile del 2021, valutati ora 63,5, il 36% in meno rispetto al valore di emissione!

Insomma, quello che si immaginava un viaggio rilassante si è rivelato essere una spiacevole corsa sull’ottovolante dei mercati finanziari.

A questa debacle hanno contribuito due fenomeni: l’aumento dell’inflazione, e con essa dei tassi d’interesse (lo strumento che dovrebbe proteggere il potere d’acquisto del prestatore di denaro), e la lunga durata (più lontano nel tempo è il rimborso e maggiore sarà l’impatto negativo sul prezzo del titolo).

Da quanto detto sin qui si evince chiaramente che tutto si può dire sui titoli di Stato (e, per la verità, sulle obbligazioni in generale) ma non che essi siano privi di rischio.

Senza volere troppo calcare la mano sui problemi del nostro Paese, con il debito più elevato del mondo occidentale, un terzo del quale da rifinanziare nei prossimi tre anni, occorrerebbe perciò esaminare con estrema attenzione gli strumenti da inserire nel nostro portafoglio.

Lo Stato italiano dovrà rifinanziare la metà del proprio enorme debito pubblico nei prossimi 5 anni ed il 32% nei prossimi due: sarà cruciale essere molto, molto convincenti per potere trovare abbastanza investitori disposti a concederci la loro fiducia…

L’obiettivo di questa analisi non è certo quello di scoraggiare tout court l’investimento nel nostro debito, se non altro per spirito patriottico, ma rendere consapevoli  che non basta la parola magica “BTP” per garantire, anche ai tassi attuali, un investimento sicuro e a basso rischio: bisogna prima comprendere quali sono i pericoli che andremo ad affrontare e, se vogliamo veramente ridurre al minimo le fastidiose oscillazioni del nostro patrimonio, concentrarci sulle scadenze più brevi che oggi, peraltro, offrono rendimenti di poco inferiori a quelli delle, molto più rischiose, obbligazioni a medio e lungo termine.

Solo così potremo rileggere l’acronimo BTP come abbiamo, più meno consciamente, sempre fatto: Buoni del Tesoro Prudenti… Ma non troppo!

A qualcuno piace calda

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

La caduta del muro di Berlino, nel novembre 1989 e, poco più tardi, la dissoluzione dell’Unione Sovietica hanno segnato la fine di un conflitto che aveva diviso per più di quarant’anni il mondo in due schieramenti.

La contrapposizione sempre più accesa tra gli Stati Uniti e l’URSS, iniziata dopo la seconda guerra mondiale, venne definita nel 1947 dal giornalista americano Walter Lippmann “Guerra Fredda” e così venne in seguito sempre ricordata.

Ad essere più precisi a coniare il termine era in realtà stato, pochi anni prima, lo scrittore George Orwell che aveva descritto il mondo sopravvissuto al secondo conflitto mondiale come sovrastato dall’ombra di una possibile catastrofe nucleare con una “pace che non è una pace.”

La “Guerra fredda” designava quindi una situazione dove lo scontro avveniva sul terreno delle relazioni diplomatiche, delle alleanze, della politica, della deterrenza (il possesso, da parte delle due parti in causa dell’arma atomica) e raramente (come avvenne in Corea e Vietnam) si traduceva in veri e propri fenomeni bellici, le cosiddette “guerre calde”.

La fase successiva, sino alla seconda metà dello scorso decennio, ha consentito un periodo di forte espansione economica, allargata ad aree del mondo virtualmente assenti fino ad allora dalla cartina economica (i Paesi emergenti, con la Cina a tirare la volata), che può essere racchiuso in un termine quanto mai abusato: globalizzazione.

Sebbene fosse stato introdotto per la prima volta dal settimanale The Economist nel 1962 sono stati proprio gli anni 90 a cogliere i frutti dell’appena nata libertà degli scambi, una volta cadute le frontiere politiche ed ideologiche.

Da qualche anno, però, abbiamo assistito al rallentamento della crescita degli scambi internazionali ed al ritorno di movimenti nazionalisti, a partire dagli Stati Uniti, che non hanno risparmiato nessun continente (anche la Cina, con Xi Jinping ne è stata fiera protagonista).

Che questa fase di “guerre commerciali” sarebbe stata seguita da un ritorno delle “guerre calde” non era certamente immaginabile, sebbene, vista con la lente della storia, non sembri oggi così sorprendente.

Le fasi economiche incerte producono insoddisfazione, squilibri sociali, derive nazionalistiche e (solo in passato, si sperava) guerre e rivoluzioni.

La debolezza occidentale (con il disimpegno statunitense dai principali scenari internazionali operato a partire dalla presidenza Obama) ha consentito, per citare solo gli eventi più recenti, il ritorno al governo del regime talebano in Afghanistan e, successivamente, il risorgere delle ambizioni imperiali (o sovietiche) nella Russia di Putin.

Anche le ultime tragiche vicende israelo-palestinesi, pur nella loro stratificata complessità storica, hanno forse a che fare con una fase caratterizzata dall’assenza di una forte leadership (innanzitutto negli Stati Uniti, alleato storico del Paese di Abramo), insoddisfazione e debolezza interna (il governo di Netanyahu, molto sbilanciato a destra e molto criticato dai suoi connazionali), povertà e desolazione (nei territori palestinesi) e sottovalutazione dei pericoli (il primo ministro aveva destinato il grosso del potente apparato militare alla difesa dei nuovi, sgraditissimi ai palestinesi, insediamenti di coloni lasciando sguarnito il confine con la striscia di Gaza).

Stiamo forse assistendo ad un cambiamento di paradigma, dopo un trentennio di “pax economica”, che andrà seguito con grande attenzione.

La guerra fredda è alle nostre spalle, la globalizzazione è seriamente messa in dubbio ed a qualcuno, purtroppo, è tornata a piacere calda….la guerra.

I tempi e i modi con i quali la situazione si evolverà ci diranno se l’approdo di questa fase magmatica sarà un mondo più stabile (con una Russia più debole, fiaccata dal lungo conflitto e un Medio Oriente non troppo destabilizzato da quanto sta avvenendo) o un luogo più rischioso dove vivere ed investire.

A quest’ultimo proposito, i mercati finanziari hanno mantenuto per ora una relativa calma, con una modesta discesa dei prezzi azionari ed un aumento di pochi dollari del petrolio, nulla a che vedere con il panico generato giusto cinquant’anni fa dalla guerra del Kippur (quando forze egiziane e siriane entrarono nel Sinai innescando la reazione israeliana e l’impennata del greggio).

Il futuro rimane molto incerto e la possibilità di una moderata recessione sembra ora molto più concreta.

Gli investitori non hanno certo perso le speranze, fiduciosi nell’azione benefiche che potrebbe arrivare dalla politica delle banche centrali che, dopo 18 mesi di rialzi dei tassi, potrebbero presto invertire la rotta (cessando gli aumenti per poi iniziare un ciclo di ribasso dei tassi d’interesse).

L’inverno è alle porte ed una delle variabili che ha più spesso trascinato l’occidente in una recessione è stato l’aumento del prezzo del petrolio (ora alla vigilia dei suoi maggiori consumi stagionali) evento che si verificherebbe con l’allargamento del conflitto all’Iran.

Il coinvolgimento di Teheran potrebbe davvero fare perdere la calma agli investitori e provocare danni economici difficili da immaginare ma questo, per fortuna, non sembra essere un rischio così imminente.

Il quadro è decisamente nebuloso ma, come sempre quando la luce si affievolisce, non è il caso di muoversi freneticamente, in preda alla paura ma, piuttosto, di rimanere fermi sulle proprie posizioni.

Solo così eviteremo di procurarci danni maggiori urtando contro gli ostacoli che non riusciamo a vedere.

Cime tempestose

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Il risveglio repentino e rabbioso, dopo molti di letargo, dell’inflazione, doloroso effetto collaterale dell’uno-due COVID-guerra in Ucraina, ha provocato una tempesta perfetta sui mercati obbligazionari.

La salita degli indici dei prezzi degli ultimi due anni si è ripercossa violentemente sui tassi d’interesse con il conseguente fortissimo ribasso dei portafogli investiti in obbligazioni, ritenuti ancora da molti, erroneamente, privi di rischi…

La funzione dei tassi (e, con essi, delle cedole pagate) è proprio quella di proteggere i prestatori di denaro dal rischio di ricevere alla scadenza un capitale, comprensivo degli interessi incassati, con un minore potere di acquisto di quello iniziale, eroso dall’aumento dei prezzi dei beni e dei servizi (l’inflazione).

Le vette raggiunte dai tassi d’interesse di mercato, riflesso delle previsioni degli investitori sul loro andamento futuro, e da quelli ufficiali, frutto dell’azione delle banche centrali, rappresentano ora un pericoloso snodo per il futuro dell’economia.

L’aumento del costo del denaro si riflette, infatti, sui debitori, siano essi famiglie (con i loro mutui e finanziamenti), aziende o Paesi (con i titoli di Stato), costretti a destinare una crescente quota di reddito e risparmi al loro rimborso.

Ad oggi, va detto, l’effetto “restrittivo” si è fatto sentire pochissimo sulla principale economia mondiale, gli Stati Uniti, in grado di sconfiggere, grazie ai massicci aiuti provenienti dalle manovre del suo governo, le previsioni più negative che a inizio anno davano per certo un forte rallentamento e forse anche una moderata recessione.

Anche in Europa le cose sono andate, fortunatamente, meglio del previsto ma gli ultimi dati economici, in particolare quelli provenienti dalla Germania, sono tutt’altro che rassicuranti.

L’Asia, per inciso, fa storia a sé: la Cina fatica ancora a riprendersi, dopo le chiusure totali dovute alla pandemia ed ancora afflitta dalla crisi che coinvolge alcuni dei più importanti gruppi del settore immobiliare, mentre il Giappone sta beneficiando di un tasso d’inflazione moderato (e non è affatto una brutta notizia, dopo molti anni vissuti sull’orlo della deflazione), di tassi d’interesse molto bassi (inferiori all’inflazione) e di una valuta debole (che aiuta le esportazioni).

Tornando ai Paesi occidentali, si ha l’impressione che la stretta rappresentata dalle vette (ai massimi degli ultimi anni) dei tassi imposti dai banchieri centrali sia oggi più vicina a fare avverare le più fosche previsioni.

Le ultime mosse annunciate nelle settimane scorse dalle banche centrali, con la pausa dei tassi negli USA e l’aumento dello 0,25% nell’area Euro, sono state accolte, con i relativi commenti che li hanno seguiti, in modo cauto dai mercati finanziari, per i quali l’incertezza è il peggiore dei mali.

Ci si chiede, dunque, se sia all’orizzonte un’inversione, dopo quasi due anni di forti rialzi dei tassi, delle politiche adottate dalla Federal Reserve e dalla Banca Centrale Europea.

Su questo delicato e molto controverso argomento si è espresso qualche settimana fa Huw Pill, il capo economista della Bank of England.

Secondo Pill gli scenari per il futuro andamento dei tassi d’interesse si possono sintetizzare attraverso il profilo di due celebri rilievi montuosi: il Matterhorn (in nostro Cervino) e la Table Mountain.

Anche grazie alla sua riproduzione nel parco divertimenti di Disneyland, il profilo aguzzo del rilievo italo-svizzero è diventato l’esempio paradigmatico della montagna.

Lo scenario “Matterhorn” è quello che vede i tassi d’interesse scendere piuttosto velocemente, dopo la brusca salita degli ultimi anni, disegnando così un profilo simile a quello del rilievo alpino, e rappresenta anche il loro tipico andamento storico.

Normalmente, infatti, accade che i tassi vengono aumentati per fare fronte a un’eccessiva crescita economica, che finisce per fare salire i prezzi al consumo creando inflazione, per poi successivamente essere ridotti per consentire all’economia di riprendersi dal rallentamento/recessione provocato dal loro precedente incremento (o da altri eventi imprevisti).

L’altra strada possibile è quella che ricorda l’iconico monte sudafricano, la Table Mountain, piatto ed allungato, con tassi stabili ed elevati per un lungo periodo di tempo.

L’economista britannico propende per questo secondo scenario: i tassi hanno probabilmente smesso di salire (un’ottima notizia) ma ci vorrà molto tempo prima di vederli ritornare a scendere (una pessima notizia).

Per la verità il buon Pill non ha fatto altro che riportare il messaggio proveniente da qualche tempo dai banchieri centrali di tutto il mondo occidentale, dagli Stati Uniti all’Europa, dalla Svizzera al Regno Unito e alla Svezia.

Il timore è che l’aumento dei prezzi rallenterà, sta già avvenendo, ma in modo più lento di quanto è successo in passato perché oggi è assai meno accettabile, socialmente e politicamente, indurre una forte frenata dei consumi e, con essa, una recessione, da sempre la principale cura alla malattia dell’inflazione.

Quello che potrebbe riportare le banche centrali a più miti consigli, iniziando prima del previsto ad abbassare i tassi, sarebbe proprio un brusco rallentamento economico, accompagnato da un aumento della disoccupazione.

Paradossalmente questo scenario potrebbe diventare più probabile con il permanere dei tassi agli attuali livelli, anche considerato il fatto che, prima che gli aumenti passati dei tassi si traducano in un freno per l’economia, è stimato ci vogliano 18-24 mesi ed è proprio la posizione dove ci troviamo adesso (visto che i rialzi sono iniziati nel marzo del 2022)!

Come ricordato più sopra, sinora negli Stati Uniti a compensare l’effetto “frenante” di tassi ed inflazione ha contribuito la messa in campo di una serie di massicci piani di sostegno economico: l’ Infrastructure Investment and Jobs Act il CHIPS and Science Act e l’ Inflation Reduction Act, per complessivi 2.100 miliardi di dollari (pari all’8% del PIL nazionale).

Il rischio di un (eccessivo) rallentamento, e potenzialmente di una recessione, aumenterà però a partire dalla primavera quando i tassi d’interesse avranno iniziato a produrre pienamente i loro effetti.

Ci sarebbe allora il tempo per Biden per fare quanto in suo potere per arrivare alla scadenza elettorale del novembre del 2024 con un quadro economico sereno, il presupposto indispensabile per puntare ad una propria rielezione.

 

In conclusione, sono in pochi coloro che ritengono possibile che i tassi d’interesse continuino a salire e il futuro potrebbe, alla fine, dare ragione a chi ritiene troppo pericoloso (per l’economia) mantenerli ai livelli che hanno raggiunto.

La discesa dei tassi potrebbe quindi iniziare e questo renderebbe meno complicata la vita degli investitori in obbligazioni e titoli di Stato mentre sarebbero invece i mercati azionari a dovere prendere atto di una crescita degli utili, legata all’andamento dell’economia, da rivedere al ribasso.

Come sempre occorrerà non farci troppo influenzare dalle oscillazioni dei nostri investimenti, vendendo nei momenti peggiori, e ricordarci che l’uomo può arrampicarsi sulle vette più alte ma non può, sferzato dalle tempeste di neve, rimanervi a lungo.

Perché, in fondo, raggiungere la cima è facoltativo. Tornare indietro, invece, è obbligatorio, facendo però estrema attenzione a non scivolare…

Investimenti pazienti  

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Le borse, luoghi un tempo fisici ed oggi mercati virtuali, telematici, dove si acquistano e vendono senza sosta quote di società reali (le “azioni”), salgono e scendono.

Sarebbe più corretto dire che di solito salgono e qualche volta, più raramente, scendono ma quando lo fanno devastano i portafogli e, ancor più, la psiche degli investitori che tendono, depressi e spaventati, a vendere nei momenti peggiori, consegnandosi all’impoverimento.

Le borse non sono per tutti e la cosa peggiore sarebbe leggere queste righe come un invito a investire.

Provare a raggiungere dei risultati superiori a quelli consentiti dalla propria, del tutto soggettiva, soglia del dolore finanziario (il livello di perdita che conduce a liquidare i propri investimenti) è una battaglia tanto inutile quanto dannosa.

Le riflessioni che vorrei condividere riguardano tutti, anche coloro che, per ragioni professionali, dovrebbero essere immuni da un eccesso di emotività da perdita in borsa.

Le borse, dicevo, per lo più salgono ma il timore che queste possano prima o poi scendere porta a perdere buona parte del viaggio che porterebbe alla felicità finanziaria.

Il 2022 sembrava potere sorgere sulle più rosee prospettive ma queste non potevano conto dello scoppio di una guerra. Disattesa la possibilità di proseguire il ciclo economico positivo nato sulle ceneri della pandemia, con l’inflazione in ascesa incontrollata (frutto dell’aumento dei prezzi delle materie prime), le borse non potevano che innescare la retromarcia.

Succede quando le recessioni si affacciano all’orizzonte e questo può rappresentare l’inizio di un periodo, anche molto lungo, di scarsissimi risultati e profonde frustrazioni per i risparmiatori.

Questo era certamente il timore che aleggiava ancora all’inizio del 2023, quando le previsioni economiche erano decisamente funeste: la guerra non dava (e così purtroppo è ancora oggi) segni di volere cessare, l’inflazione era del tutto comparabile ai livelli degli anni ’70 e le banche centrali manifestavano tutta la loro insofferenza promettendo nuovi rialzi dei tassi (che avrebbero dovuto “raffreddare” la domanda di beni e servizi e con essa anche l’indice dei prezzi).

Lo spavento dell’”annus horribilis” 2022 aveva nel frattempo spinto non pochi risparmiatori ad abbandonare la beccheggiante barca degli investimenti azionari nel timore di un possibile naufragio.

Ma l’economia è una scienza sociale: un modo elegante per dire che è dedicata allo studio della soddisfazione dei bisogni degli individui e le cui previsioni dipendono, di conseguenza, dai comportamenti umani.

Prevedere l’imprevedibile può essere frustrante e certamente lo è stato quest’anno per analisti ed economisti: la recessione, data per scontata a inizio anno, ancora non ha fatto capolino e questo è vero in special modo per gli Stati Uniti, che, mantenendo il loro passo di crescita, hanno sostenuto anche l’economia del vecchio continente.

Spiegare l’equazione apparentemente impossibile di inflazione elevata, autorità monetarie severamente impegnate a rallentare la crescita ed economia americana pervicacemente solida è compito arduo.

Certamente ha aiutato il cambiamento di direzione dell’andamento dei prezzi al consumo, tornati a crescere a ritmi molto più contenuti (negli Stati Uniti l’ultimo dato era del 4% non più così lontano dalla media dello scorso decennio) per merito della discesa dei prezzi delle materie prime (rientrato lo choc provocato dalla guerra e depresse, poi, dalla crescita inferiore alle attese della Cina, il Paese energivoro per eccellenza).

Ma a questo non basterebbe a spiegare l’imperturbabilità dei consumatori americani e la solidità dei loro consumi.

Per arrivare a una delle spiegazioni più convincenti occorre tenere conto della politica economica (attuata attraverso la spesa pubblica) messa in campo da Biden.

L’amministrazione USA, infatti, ha approvato negli ultimi 18 mesi una serie di massicci piani di sostegno economico,  l’ Infrastructure Investment and Jobs Act il CHIPS and Science Act e l’ Inflation Reduction Act, per complessivi 2.100 miliardi di dollari (pari all’8% deL PIL nazionale).

Seppure gli effetti di questi enormi programmi di spesa si dispiegheranno nell’arco di più anni, gli investimenti effettuati nel corso degli ultimi 12 mesi sono stati già pari al 4% del PIL.

Ecco quindi che sembra avere più senso l’andamento dell’economia americana, del tutto immune dalla zavorra dei tassi d’interesse (e dei maggiori costi sostenuti, a causa di questo, dal governo sul proprio debito pubblico).

In parallelo, a beneficiare maggiormente di quanto descritto sono stati mercati borsistici (sensibili innanzitutto all’andamento dei profitti aziendali, strettamente legati a quello del PIL) mentre deludenti sono stati quelli obbligazionari (convinti che alla fine un rallentamento arriverà ma ancora non persuasi che l’inflazione tornerà presto al livello desiderato dalle autorità monetarie).

Gli analisti, attori anch’essi della scienza economica, spiazzati dal positivo ed inatteso andamento dei mercati, si trovano ora a rivedere le loro aspettative.

Dei 23 “strategists” delle principali case d’investimento, ben 18 prevedono una discesa dell’indice Standard and Poor entro la fine dell’anno, e ciò malgrado quasi tutti abbiano cercato di adeguare le loro stime ai rialzi avvenuti negli ultimi mesi!

Ma se tutto ciò spiega il progresso, ormai alle nostre spalle, delle borse poco ci può suggerire sul loro futuro.

I rialzi dei tassi, sinora inefficaci, grazie, come detto, all’azione dei governi ma anche al fatto che per dispiegare i propri effetti richiedono tempi lunghi (tra i 12 e i 24 mesi), potrebbero iniziare presto a incidere sulla crescita economica ma, per contro, la rapida discesa dell’inflazione, se continuasse, avrebbe l’effetto di indurre le autorità monetarie ad arrestare i rialzi dei tassi, rinvigorendo così l’umore degli investitori.

La bellezza e il fascino dell’economia risiedono forse, proprio nella sua natura, legata ai comportamenti di noi esseri umani, ma questo rappresenta anche uno dei suoi limiti più evidenti, rendendola uno straordinario strumento di analisi e monitoraggio a discapito però delle sue capacità predittive.

Come ricordava Isaac Newton, uno scienziato senza se e senza ma, possiamo misurare il moto dei corpi ma non l’umana follia…

Forse solo la pazienza può aiutare ad affrontare serenamente gli alti e bassi dei mercati, senza dimenticare che, come il coraggio di manzoniana memoria, “uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”.

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