Il puntaspilli- Pagina 2

Debito e nuvole  

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Le due crisi economiche innescate dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina hanno provocato un massiccio intervento di sostegno da parte dei governi e, con questo, un ulteriore aumento del già elevato livello del debito mondiale.

Ma ad essere indebitati non sono solo i governi ma anche le famiglie e le aziende e a fare il punto della situazione, mettendo a confronto i debiti diversi paesi, ci ha pensato il recente rapporto, il Global Debt Monitor, dall’ Institute of International Finance.

La, piccola, buona notizia è che sebbene il debito globale rimanga, sia in valore assoluto che in rapporto al PIL, enorme (305.000 miliardi di dollari, il 333,2% del PIL) il suo valore è sceso nel 2022 di 4.000 miliardi ed è la prima volta dal 2015.

La cattiva notizia, sottolineata dal sibillino titolo del rapporto dell’IIF “Crepe nelle fondamenta”, è che quest’anno il trend di crescita è ripreso con forza con 8.300 miliardi aggiunti nei soli primi tre mesi del 2023 ed è ora 45.000 miliardi più alto del livello pre-pandemico.

Proviamo allora a comprendere come il debito sia diventato una costante presente in tutti i settori dell’economia mondiale e come potrebbe evolversi la situazione futura.

Cominciamo con il dire che il nostro pianeta ha da sempre offerto nuovi territori e nuove popolazioni da esplorare, conoscere e, qualche volta sfruttare (con i rischi che tocchiamo ormai con mano ogni giorno).

L’ingegno dell’uomo ha contribuito al progresso generando costanti, e nell’ultimo secolo in particolare, accelerate innovazioni.

Così facendo, nuove risorse, popolazioni e tecnologie hanno fatto progredire l’economia ed il benessere (in particolare in quella parte del mondo, l’occidente, che prima si è attrezzata per questa avventura).

Ma in un contesto che offriva così grandi opportunità perché accontentarsi di quanto si ha a propria disposizione? Perché limitarsi ai propri, spesso scarsi, mezzi?

Il debito è stato così una delle innovazioni che più hanno plasmato il mondo nel quale oggi viviamo.

Il fuoco, la ruota, la scrittura sono state invenzioni che hanno avuto un impatto sull’umanità ben più evidente (e risaputo) ma la possibilità di fare leva sulle proprie idee e sulla lungimiranza (non priva, spesso, di cinici calcoli) di chi fornisce un capitale per poterle sviluppare, ha costituito un prepotente acceleratore di crescita e di opportunità.

L’origine del debito si può fare risalire ai mercanti che nell’antica Mesopotamia, 3.500 anni prima di Cristo, pochi secoli dopo la comparsa della scrittura, scrivevano su tavolette di argilla, marchiate con il sigillo del debitore, i loro crediti.

Ma la nascita del debito nella sua forma “organizzata” (con persone ed istituzioni dedicate a farne una vera e propria attività: le banche) ci riporta all’epoca del Rinascimento e guerre, conquiste ed esplorazioni si sono succedute grazie, anche, ad esso per secoli.

Negli ultimi 60-70 anni, però, il gioco, riservato in passato ad “élite” (Stati, teste coronate, nobili, avventurieri e qualche geniale e convincente inventore) ha fatto un salto di qualità ed è diventato fruibile a tutti.

Non a caso negli anni ’50, negli Stati Uniti, cominciano a comparire le prime carte di credito: è finalmente possibile spendere quello che non si ha.

La democratizzazione del debito è stata certamente un apprezzabile sottoprodotto della fine dei totalitarismi e del dilagante entusiasmo per il libero mercato.

Grazie ad esso non servivano più capitali accumulati dalle generazioni precedenti per acquistare la casa dove abitare o, più modestamente, la nuova automobile.

Idee e opportunità, ampiamente disponibili, diventavano finalmente raggiungibili grazie alle banche, prima, e, successivamente, all’universo in continua espansione degli investitori pronti a prestare il loro denaro (a governi e società) per una adeguata remunerazione.

E, sia detto chiaramente: non è certo un problema contrarre un debito per perseguire un progetto che genererà (per sé o per il Paese) una ricchezza ben maggiore del suo costo.

Senza debito occorre accontentarsi di quanto si ha a disposizione e la crescita tecnologica procede a ritmo modesto per mancanza di adeguate risorse finanziarie.

Il debito crea nuovi consumi (di risorse e di prodotti) e nuova occupazione (per produrre e sviluppare prodotti e servizi).

Tutto bene dunque? Per un po’ di tempo abbiamo certamente potuto ammirare, rilassati nelle nostre poltrone, solo il lato illuminato della luna.

L’indebitamento è andato accumulandosi alimentando così la crescita dell’economia, dell’occupazione e, in ultima analisi della prosperità.

Negli Stati Uniti il debito complessivo (pubblico e privato) è salito dal 160% del PIL (più di una volta e mezza la ricchezza prodotta nell’anno) del 1979 a circa il 350% attuale.

In Europa siamo arrivati a livelli superiori al 365% ed in Giappone al 610%: tra le 4 e le 6 volte il prodotto di questi Paesi.

Ma, si dirà, poco male: il debito genera ricchezza e prosperità… o no?

Il problema del debito è che fino a che se ne fa un utilizzo avveduto, generando, con il suo utilizzo, risultati superiori a quanto si dovrà restituire (comprensivo degli interessi pagati) il circolo è virtuoso.

L’equilibrio diventa precario quando il debito viene utilizzato in modo poco efficiente: è come se il corpo (l’economia) si fosse assuefatto al suo effetto stimolante e ne chiedesse sempre di più senza però riuscire a tornare più in piena forma.

Questa situazione si verifica perché le opportunità di investimento col tempo e la scomparsa di nuovi territori e popolazioni da sfruttare, e, quel che è peggio, la stagnazione della crescita demografica, tendono a diventare meno abbondanti ed una certa quantità di debito, accumulato quando le condizioni erano più favorevoli (e per questo con minore prudenza), diventa più difficile da rimborsare.

Se non si è iniziato a ripagare il proprio debito quando se ne aveva la possibilità diventa più difficile quando la situazione è meno propizia.

Il ciclo del debito è ritenuto per questo da molti economisti come una delle principali cause dei “cicli economici” (le oscillazioni da situazioni di estremo benessere a quelle di crisi).

Si arriva periodicamente ad un punto dove i creditori chiedono di riavere i denari che avevano prestato e questo riduce le possibilità di spesa e di investimento dei debitori, complica la vita alle banche che, non essendo in grado di rientrare delle somme prestate, smettono di concedere credito e ci si trova, senza quasi capirne il motivo, nel mezzo di una recessione. 

L’allarme rosso scatterebbe, secondo alcuni economisti, quando il debito complessivo supera il 250% del Pil.

Nel 2008 il meccanismo sembrava essere sul punto di generare una crisi simile a quella del 1929 ma le banche centrali, acquistando le obbligazioni (il “debito”), evitando così che perdessero valore o che portassero al fallimento i debitori, e concedendo denaro a basso costo al sistema bancario, hanno reso possibile un riassestamento ordinato della situazione.

L’indebitamento si è così, per qualche anno, stabilizzato ma non, ridotto (ad eccezione, per un breve periodo, degli Stati Uniti).

Il debito ha cambiato, dunque, nel tempo la propria natura: da lievito in grado di fare crescere economie e benessere (passando attraverso sanguinosi conflitti) a una zavorra che oggi rappresenta un potente freno alla crescita futura.

Non è detto che tutto ciò condurrà, alla fine, al baratro (come pensano i più pessimisti) ma potrebbe venire a mancare nei prossimi anni quel propellente che ha consentito all’economia mondiale, per molti decenni, di crescere al di sopra delle proprie possibilità.

Il noto investitore e filantropo Ray Dalio ha descritto molto bene quanto potrebbe avvenire nei prossimi 10 anni (più complesso e frutto del caso è fare previsioni di più breve termine).

Nel suo studio “Productivity and Structural Reform: Why Countries Succeed & Fail, and What Should Be Done So Failing Countries Succeed” effettua una attenta ed acuta disamina dei fattori di successo (e di insuccesso) dei principali Paesi mondiali delineando così quali saranno, anche dal punto di vista degli investimenti, quelli che con maggiori probabilità raccoglieranno i frutti, sempre più rari e meno succosi, della crescita.

La “formula della felicità” della crescita dipenderebbe da due fattori: il livello di indebitamento e la crescita della produttività.

Il debito influenzerebbe di più il futuro immediato (ma nel tempo gli effetti positivi e quelli negativi dovrebbero compensarsi) mentre la produttività ha effetti più duraturi, nel lungo termine. 

Ray Dalio ha stimato in questo modo la crescita economica dei principali Paesi nei prossimi 10 anni ed il nostro Paese si trova al penultimo posto (peggio di noi solo la Grecia).

Ad essere favoriti saranno i Paesi che hanno un minor debito in rapporto al loro reddito ed una sua crescita inferiore a quella del prodotto nazionale (il PIL).

Ma questo non basta: nel tempo entrano in ballo altre variabili fondamentali come la popolazione in età lavorativa e la produttività.

Una minore disponibilità di persone in grado di dare il loro contributo ai processi produttivi limita la crescita economica (il lavoro è uno dei “fattori di produzione”) ma d’altro canto non è sufficiente disporre di una forza lavoro abbondante se questa non è adeguatamente preparata e pronta a rispondere alle richieste delle imprese, se non è, in altre parole, “produttiva”.

Il debito, dunque, è solo la punta di un pericoloso iceberg che minaccia la navigazione dell’economia mondiale e, in particolare, dell’Italia.

Proprio in questi giorni, per finire in bellezza, oltreoceano crescono le preoccupazioni legate al raggiungimento del tetto del debito *.

Occorrerà un non semplice accordo bipartisan tra il partito del Presidente e l’opposizione repubblicana, per potere elevare il livello della spesa, spazzando via le nuvole che si sono accumulate negli ultimi mesi.

Il cielo tornerà probabilmente presto azzurro ma le nubi in lontananza non potranno essere per sempre ignorate. E neanche le crepe che si intravedono nelle fondamenta…

*    https://iltorinese.it/2023/05/16/il-tetto-che-scotta/

Il tetto che scotta 

IL PUNTASPILLI  di Luca Martina 

Ai problemi che il presidente Joe Biden si trova ad affrontare si è aggiunta nelle ultime settimane un’altra gatta da pelare.

Si tratta del raggiungimento del tetto massimo di spesa.

Il Congresso degli Stati Uniti ha fissato un “Debt ceiling”, un limite al debito che il Governo può creare, sin dal 1917.

Prima di allora ogni debito assunto dal Governo andava autorizzato dalle due Camere ma l’ingresso degli USA nel primo conflitto mondiale rese necessaria una maggiore flessibilità e velocità di azione e fu così previsto un ammontare, un tetto, sino al quale non era più necessario attraverso il voto di deputati e senatori.

Va detto che non si tratta assolutamente di un fatto inusuale: il Congresso ha autorizzato l’innalzamento del debito per ben 78 volte dal 1960 (l’ultima nel 2021) e quasi sempre questo è avvenuto senza che fossero necessarie estenuanti negoziazioni tra il partito del Presidente e quello all’opposizione.

Questo nuovo modus operandi ha però sicuramente contribuito ad una violenta crescita del debito pubblico nel nuovo millennio, quando si è passati dai 5 mila miliardi, nel 2000, ai 31.400 miliardi dollari, all’inizio di quest’anno, arrivando a toccare per l’ennesima volta il tetto prestabilito.

La crescente polarizzazione tra i due schieramenti, Democratici e Repubblicani, dell’ultimo decennio ha complicato ulteriormente la vita dei governi, costringendoli più volte negli ultimi 15 anni a prove di forza che hanno fatto temere il “default” tecnico (una, solo temporanea, incapacità di fare fronte agli impegni assunti).

E’ stato in particolare sotto la presidenza di Barack Obama che si sono verificati due momenti di altissima tensione, nel 2011 e nel 2013, che, pur conducendo sull’orlo di una “crisi del debito” (pari a quel tempo a 16,4 mila miliardi di dollari), non arrivarono però, per fortuna, a generare un vero e proprio default in quanto un accordo in extremis venne sempre raggiunto.

Il danno provocato dall’incertezza si fece comunque sentire: i mercati finanziari vissero settimane di grande volatilità e anche il costo del debito americano (gli interessi sui titoli di Stato) ne pagò le spese, aumentando di più di un miliardo di dollari nei 12 mesi immediatamente successivi all’introduzione del nuovo tetto.

La situazione attuale è del tutto simile a quanto avvenuto un decennio fa.

Anche oggi la presidenza è democratica e la negoziazione, in atto con il partito di Trump, che controlla la Camera dei Rappresentanti, è quanto mai difficile.

La richiesta repubblicana di approvare un aumento di 1,500 miliardi, impegnando però il Governo a ridurre le spese in settori quali quello dell’istruzione e dei servizi sociali, con l’obiettivo, nei prossimi 10 anni, di tagliare la spesa pubblica del 14%, ha trovato sinora una fiera opposizione da parte del Presidente.

Che si tratti di un muro contro muro, molto più politico ed opportunista che ideologico, lo possiamo chiaramente comprendere dal fatto che il partito repubblicano, ora paladino del contenimento della spesa, abbia esso stesso approvato aumenti durante la presidenza Trump pari a 3,800 miliardi dollari.

Le conseguenze sui mercati finanziari di questa “impasse” non sono state sinora così evidenti.

Le borse, ferme o leggermente calanti da un mese a questa parte, sembrano in attesa di capire meglio quale direzione indicheranno i prossimi dati economici (su inflazione, occupazione e crescita) e come questi influenzeranno la politica delle banche centrali (che sembrano essere ormai vicine ad una pausa del ciclo di aumento dei tassi d’interesse) e non particolarmente interessate alle schermaglie in atto a Capitol Hill.

Più nervoso è il comportamento del mercato obbligazionario statunitense, dove il rischio di un default (anche se di pochi giorni) potrebbe impedire il pagamento delle cedole e, sebbene più difficilmente, il rimborso dei titoli in scadenza inducendo così le agenzie di rating a rivedere i loro giudizi (attualmente fermi al massimo dei voti, la tripla A, con l’eccezione di Standard and Poor con un lusinghiero AA+) al ribasso, con effetti molto negativi per i detentori dei titoli pubblici (e con un deciso aumento dei tassi).

Le trattative tra Repubblicani e Dem procedono intanto freneticamente anche perché, pur non essendo possibile dire con precisione fino a quando le risorse finanziarie saranno sufficienti per pagare gli stipendi degli statali e pensioni ciò potrebbe avvenire già nelle prime settimane di giugno, secondo quanto ha dichiarato recentemente la segretaria del Tesoro, Janet Yellen.

La mancanza di un accordo potrebbe arrestare l’erogazione di molti servizi pubblici (alcuni stimano che il 30-40% sarebbero a rischio) ed aprire la porta ad infiniti contenziosi in quanto si imporrebbe una scelta dei dipendenti e dei fornitori da pagare e di quelli per i quali ciò non sarà possibile.

Questo scenario non mancherebbe, poi, di avere ripercussioni sul dollaro, nel quale sono accumulate la metà delle riserve valutarie mondiali, con scosse che si avvertirebbero ben al di là delle sponde statunitensi.

Il rischio, seppur remoto, è che il rallentamento dell’economia, necessario per riportare l’inflazione sotto controllo, possa materializzarsi troppo velocemente e che l’inchiodata possa rendere eccessivi gli ultimi aumenti dei tassi di interesse da parte della Fed, provocando così una vera e propria recessione.

Ecco spiegato perché la questione del tetto (del debito) è davvero scottante e dobbiamo solo sperare che oltre oceano prevalga (com’è molto probabile) il ben noto pragmatismo e si eviti così un incendio in grado bruciare le, ancora elevate, possibilità di uscire non troppo malconci dall’ondata inflattiva (frutto del doppio tsunami pandemia-guerra in Ucraina).

Aggiungiamo dunque alle nostre preghiere per la fine del conflitto anche un pensiero per una rapida soluzione di questa nuova potenziale incognita perché “Quando brucia il tetto non serve né pregare né lavare il pavimento. Comunque pregare è molto più pratico.”

Mona Lisa smile

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

Inflazione in calo (ma sempre elevata) e disoccupazione ancora molto bassa (al 3,5%), anche se stanno aumentando i disoccupati (specie nel settore delle tecnologie).

La medicina della Fed (che da ormai due anni ha iniziato ad aumentare i tassi d’interesse) sta producendo i suoi effetti (rallentare l’economia ed i prezzi al consumo) ma più lentamente di quanto voluto e questo riduce al minimo la possibilità di un cambio della politica monetaria a breve termine, come era stato invece rapidamente scontato dai mercati finanziari dopo i fallimenti bancari di marzo (dalla Silicon Valley Bank a Credit Suisse).

Niente tagli dei tassi, dunque, sebbene il “pivot”, il livello massimo dei tassi d’interesse ufficiali, sia ormai molto vicino: i tassi potrebbero assestarsi per qualche tempo, in attesa che l’indice dei prezzi si raffreddi, prima di potere tornare nuovamente a scendere (nel 2024).

Inoltre, il mercato immobiliare statunitense, dove l’aumento degli interessi sui mutui scoraggia nuovi acquisti, sta subendo un brusco rallentamento (superiore al 20% rispetto al 2022) con una conseguente discesa dei prezzi (dopo la forte salita degli ultimi anni).

Anche il dollaro, una delle vie di fuga preferite dagli investitori in presenza di situazioni incerte, è tornato ad indebolirsi.

Ma se i mercati obbligazionari ed immobiliari riflettono abbastanza fedelmente la situazione non si può certo dire la stessa cosa dei mercati azionari.

Da un lato gli investitori nel reddito fisso si attendono che il ciclo dei rialzi sia vicinissimo al capolinea, possibile solo in presenza di un forte rallentamento economico, e dall’altro le quotazioni delle borse sembrano suggerire una tenuta degli utili delle società, incompatibile con una, seppur moderata, recessione.

Questa apparente dicotomia rappresenta un rebus di difficile soluzione.

La risposta può forse essere trovata nel pessimismo che pervade da un anno e mezzo i mercati; gli investitori temono da tempo un rallentamento degli utili e dell’economia che sinora non si è materializzato e quindi la mancanza di notizie univocamente negative ha giovato ai listini (che pur oscillando ampiamente non sono deragliati).

Una riprova è data dall’ultimo sondaggio tra gli investitori professionali elaborato da Bank of America che ha mostrato un pessimismo molto vicino ai livelli toccati durante la grande crisi finanziaria del 2007-8 e una conseguente allocazione dei portafogli prudente (con meno azioni e più titoli obbligazionari).

Un’ulteriore recente analisi condotta da un’altra importante istituzione finanziaria, la JP Morgan, indica che ben due terzi dei gestori azionari si attendono che l’anno in corso terminerà con un calo delle borse superiore del 10% rispetto ai livelli attuali.

I mercati, recita un vecchio adagio di Wall Street, si arrampicano sui muri dell’incertezza e delle preoccupazioni: più le pareti sono ripide ed elevate, maggiore è la salita degli indici.

Ed è esattamente quanto sta avvenendo.

La crisi delle banche regionali americane è troppo recente (e forse non ancora completamente alle nostre spalle) per poterne valutare appieno gli effetti sul credito bancario (la volontà delle banche di continuare a finanziare privati ed imprese) e sull’economia.

L’economia del vecchio continente, poi, è ben lontana dalla forza di quella statunitense ma, paradossalmente, l’inflazione da noi sta scendendo in modo meno rapido scoraggiando così anche la BCE da un repentino cambiamento di rotta (i tassi saliranno ancora).

Insomma, il compito degli investitori si conferma tutt’altro che semplice e il quadro che ci si trova ad analizzare è sempre più simile, come ci ricorda un recente articolo del The Economist, alla Monna Lisa.

Grazie al genio di Leonardo e alla sua straordinaria capacità nell’utilizzo dello “sfumato” la Gioconda, infatti, restituisce allo spettatore un’espressione misteriosa e indecifrabile ed il sorriso, che ci appare al primo impatto, sembra dissolversi dopo un suo più attento esame per poi ripresentarsi, sornione, al successivo sguardo.

La pensa così anche il Fondo Monetario Internazionale che nel suo recente rapporto menziona la parola “incertezza” per ben 60 volte!

A tutto ciò ha certamente contribuito la nuova era, siamo nel terzo anno D.C. (dopo Covid), con il mutamento delle abitudini e dei comportamenti: le analisi congiunturali, ad esempio, richiedono la partecipazione (rispondendo ai questionari) di uno spaccato della popolazione e sembra ormai assodato che molti di coloro che abitualmente fornivano le loro risposte (ad esempio sullo stato del loro reddito e sulle attese sul futuro) abbiano smesso di farlo, falsandone così i risultati e la loro comparabilità con il passato.

A complicare ulteriormente il quadro si aggiunge quanto sta avvenendo in Cina dove il governo, dopo la ormai completa riapertura del Paese e senza il problema dell’inflazione, bassissima nel Celeste Impero, sta spingendo senza esitazione sull’acceleratore.

Il gigante asiatico ha sorpreso gli analisti con una crescita nel primo trimestre dell’anno superiore alle attese, alimentata dai consumi domestici e non, come avveniva in passato, dagli investimenti (necessari per aumentare la capacità produttiva finalizzata alle esportazioni) e punta per quest’anno su un progresso del PIL del 5%, più del doppio del dato globale.

A ben vedere questa dinamica, fortemente voluta dal governo per consentire un riequilibrio all’interno del Paese ed un aumento della “prosperità comune”*, se verrà in futuro confermata, renderà la Cina assai meno trainante per la crescita globale rispetto al passato e questo lo si può già osservare 0dall’andamento asfittico dei prezzi delle materie prime negli ultimi mesi.

Non ci resta, quindi, che rimanere ad osservare con attenzione tutte le sfumature che continuerà a mostrare il quadro economico, sperando che esso si dimostri un po’ meno sfuggente ed indecifrabile dell’enigmatica, bellissima, espressione della Monna Lisa…

https://www.pannunziomagazine.it/la-pedalata-dellelefante-di-luca-martina/

Il Terrore corre sul Web 

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

Le banche sono indispensabili alla crescita dell’economia. 

Raccogliendo il denaro in eccesso (non utilizzato per vivere, dalle famiglie, o per essere investito da parte delle imprese), attraverso i depositi, e rendendolo disponibile a chi ne ha necessità (per acquistare una casa o per finanziare la propria azienda) un sistema finanziario efficiente consente all’economia di allocare al meglio le proprie risorse, distribuendole a seconda delle necessità e delle capacità di utilizzarle. 

Nella realtà il meccanismo può incepparsi per una serie di motivi. 

Innanzitutto i clienti che hanno affidato la loro liquidità ai conti correnti bancari possono improvvisamente decidere di riavere indietro il proprio denaro e questo, come visto nelle ultime settimane, può fare precipitare le banche coinvolte in una severa crisi di liquidità e, in ultimo, costringerle al fallimento (o al salvataggio in extremis, come avvenuto in Svizzera con il gruppo Credit Suisse). 

Un altro brutto incidente che può funestare la vita di una banca è l’incapacità dei propri debitori di ripagare i finanziamenti ed i mutui ricevuti: la crescita incontrollata delle insolvenze e dei crediti “incagliati” rappresenta spesso uno degli effetti collaterali delle recessioni.  

Gli azionisti/investitori, poi, possono perdere la fiducia (o anche solo la pazienza) nelle banche e iniziare a venderne le azioni causandone così il loro crollo, con la conseguente impossibilità di ottenere nuovi capitali per fronteggiare le situazioni di difficoltà. 

La crisi attuale è del primo tipo (con il conseguente crollo dei titoli in borsa) e riguarda, per ora, essenzialmente le banche statunitensi. 

La riduzione dei depositi è iniziata quando i tassi d’interesse offerti dai titoli governativi sono tornati ad essere positivi, dopo essere rimasti inchiodati allo zero per diversi anni, grazie all’aumento inaugurato dalla Fed un anno fa ma la fuga si è fatta precipitosa solo negli ultimi mesi. 

In sostanza il “parcheggio” infruttuoso sui conti correnti ha perso completamente il suo appeal (le somme possono essere utilizzate in qualunque momento senza dovere effettuare dei disinvestimenti) quando il tasso a breve termine (direttamente legato a quello ufficiale stabilito dalla Federal Reserve) si è avvicinato al 4%. 

A quel punto l’attrazione esercitata dai titoli di stato, privi di rischio, è diventata irresistibile e i deflussi dei conti correnti si sono moltiplicati. 

Le banche non sono attrezzate a fronteggiare prelievi massicci dai propri clienti e questo fenomeno può risultare letale per quelle che non sono in grado di rendere liquidi, o lo possono fare solo con pesanti perdite, gli investimenti nei quali hanno investito il denaro dei risparmiatori. 

Le più colpite sono state le banche locali americane, meno solide e meno controllate dei grandi gruppi, che stanno fronteggiando una violentissima ondata di prelievi a favore dei fondi monetari (investiti in titoli governativi a breve termine) e delle banche maggiori (ritenute più solide ed affidabili per accogliere la liquidità). 

Il fenomeno non è certamente nuovo: la fuga dei clienti è storicamente il principale fattore che conduce, alla fine, persa la fiducia dei propri clienti, alla scomparsa delle banche. 

Il fattore di novità è la velocità con la quale ciò può avvenire.  

Il fattore tempo è diventato sempre più cruciale in tutte le attività economiche: compriamo ormai sempre di più “online” senza doverci alzare dalla nostra sedia per spostarci negli affollati centri commerciali (o, sempre più raramente, nel nostro negozio di fiducia) e, similmente, utilizziamo questa modalità anche per movimentare, spinti anche dalle banche (colpevolmente inconsapevoli del rischio che corrono), i nostri conti correnti. 

Diventa così estremamente facile svuotare il nostro conto con un semplice click. 

Se poi a questo aggiungiamo il fatto che nell’era dei social network il passaparola/terrore corre sul WEB/filo, è facile immaginare come la situazione possa avvitarsi molto, molto rapidamente. 

L’amministratore delegato di Citigroup, una delle maggiori banche americane ha così sintetizzato il dramma della Silicon Valley Bank (SVB):  “Ci sono stati un paio di tweet e poi c’è stata una accelerazione come mai visto prima nella storia. In passato si aveva più tempo per rispondere a problemi di questo genere. Francamente penso che i regolatori abbiano fatto un buon lavoro nel rispondere rapidamente”. 

Per fortuna le autorità si sono mosse con grande rapidità e la crisi di liquidità è stata fronteggiata rendendo disponibili tutto quanto necessario per fronteggiare le richieste dei clienti terrorizzati e questo potrebbe riportare la calma sui mercati e la fiducia nel settore (i tremori si sono avvertiti anche da noi). 

L’acquisto “pilotato” dalla banca centrale svizzera di Credit Suisse da parte di UBS (ad una minuscola frazione del valore che la banca aveva pochi mesi fa) e quello, spinto dal tesoro statunitense, dei prestiti e dei depositi della SVB da parte della First Citizens BancShares  vanno nella direzione auspicabile per evitare che la situazione vada fuori controllo.  

Uno degli sgraditi effetti degli ultimi eventi è stato infatti l’aumento del costo al quale le banche possono finanziarsi sul mercato, emettendo obbligazioni, o dai propri depositanti (che chiedono a gran voce di essere remunerati per quanto dispongono sui conti correnti) e questo porterà certamente ad una stretta creditizia che contribuirà a rafforzare il rallentamento economico già in atto.  

Ma se una riduzione della crescita è esattamente quanto desiderato dalle banche centrali per potere ridurre l’inflazione (la minore domanda di beni e servizi si traduce in un abbassamento del loro prezzo) altra cosa sarebbe l’arresto brusco e disordinato del credito bancario, in grado di produrre una vera e propria recessione, dalle conseguenze difficilmente immaginabili. 

Di tutto questo sono consapevoli i governatori delle banche centrali che continueranno a fare quanto è nelle loro possibilità per fornire al sistema bancario liquidità a sufficienza e per evitare che questa stagione sia ricordata solo come una maledetta (e terribilmente siccitosa) primavera. 

Il Bastone e la Carota

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

La sequela dei buoni dati economici pubblicati negli ultimi mesi hanno convinto, gli investitori che la recessione non è poi così probabile, specie negli USA, favorendo un inizio d’anno molto positivo per i mercati finanziari. 

Quelle che potrebbero sembrare ottime notizie hanno però avuto l’effetto (scontato) di rinfocolare l’attenzione, e la conseguente preoccupazione, della banca centrale americana. 

La prima funzione degli istituti nazionali è quella di proteggere il valore (il potere d’acquisto) della moneta, messo seriamente a rischio dall’ancora elevata inflazione. 

L’aumento dei prezzi, infatti, riduce la capacità di spesa dei redditi: quello che riusciamo ad acquistare oggi è inferiore a quanto potevamo fare un anno fa. 

Per calmierare la dinamica inflazionistica le principali banche centrali hanno da tempo ricominciato ad alzare i tassi d’interesse, rendendo così più costosi i prestiti (per famiglie ed aziende) con lo scopo di ridurre la domanda di beni e servizi e, in questo modo, calmierare i loro prezzi. 

La Federal Reserve statunitense, in particolare, ha aumentato in meno di dodici mesi i tassi ufficiali dallo zero (dove erano rimasti inchiodati per due anni) al 4,5% ma l’economia statunitense ne ha sinora risentito assai poco. 

Possiamo quindi facilmente comprendere la frustrazione dei signori della moneta di fronte all’ apparente inefficacia della stretta posta in essere.

Questo stato d’animo è stato chiaramente espresso dal capo della Fed, Jerome Powell, che una settimana fa ha rovesciato acqua gelata sugli investitori mettendo in chiaro che la sua missione non si potrà ritenere compiuta sino a quando l’inflazione non scenderà al livello desiderato (fissato, convenzionalmente, nel 2%). 

Il messaggio è stato che la carota/taglio dei tassi d’interesse sventolata per anni davanti al cavallo/economia è stata ormai sostituita dal bastone/aumento dei tassi e gli investitori non possono fare altro che prenderne atto con dispiacere. 

Le borse, meccanismi che riflettono il valore delle società quotate sulla base dei loro utili futuri attualizzandoli con tassi di sconto più elevati, hanno quindi lasciato sul terreno in pochi giorni buona parte dei risultati accumulati nei primi due mesi dell’anno. 

Lo stesso è avvenuto per i mercati obbligazionari, vittime della ben nota relazione inversa tra i tassi d’interesse (in risalita) ed i loro prezzi (in discesa). 

La nostra Europa aveva per la verità risentito sino ad agli ultimi giorni molto poco di questi scossoni “americani”. 

Nel nostro continente prevale ancora, a differenza degli Stati Uniti, una grande prudenza: l’inflazione è anche qua elevata ma il suo calo è supportato da un quadro economico ancora estremamente incerto e quindi sembra essere assai meno giustificato un “animus pugnandi”, a voler mulinare il bastone, da parte delle BCE.  

In questo contesto si è appena profilata all’orizzonte la sagoma inconfondibile di quello che Nassim Nicholas Taleb avrebbe definito un “cigno nero”; un evento non previsto, poco probabile ma dalle conseguenze potenzialmente disastrose. 

Nella ricchissima California la banca delle start up e di molte delle aziende più dinamiche ed innovative, la Silicon Valley Bank, si candida ad essere la prima vittima illustre del repentino aumento dei tassi d’interesse. 

Occorre ricordare che durante la pandemia, tra il 2020 e il 2021, la liquidità affluita alle banche statunitensi è stata enorme e solo in minima pare è stata utilizzata per concedere prestiti: il grosso è stata “parcheggiata” in emissioni obbligazionarie.  

Le regole contabili prevedono due possibili metodi di valorizzazione di questi titoli nei bilanci bancari: al loro prezzo di acquisto (“held-to-maturity”, HTM, detenute cioè fino alla loro naturale scadenza) o a quello di mercato (“available-for-sale”, AFS, attività che possono essere rivendute prima del loro rimborso). 

A fine 2021 molte banche americane hanno in buona parte scelto di valutare le obbligazioni a più lunga scadenza (più rischiose perché più sensibili alla variazione dei tassi) come HTM (evitando così di dovere mettere a bilancio le possibili perdite di valore dovute al rialzo dei tassi), riducendo la componente AFS dal 75% al 50%. 

Come spiegato precedentemente, la risalita dei tassi d’interesse ha prodotto il peggior calo delle obbligazioni degli ultimi quarant’anni e, con esso, l’erosione degli attivi investiti in essi delle banche, il cui valore è in buona parte “mascherato” dalla loro valutazione a prezzi di acquisto (ben inferiori a quelli reali).

Il caro denaro ha creato inoltre seri problemi proprio alle aziende più innovative e alle startups che nella loro fase di lancio non dispongono di mezzi finanziari e non sono in grado di produrre utili (gli investimenti iniziali sono ingenti e richiedono spesso molti anni prima di essere ripagati dai risultati) 

Il prezzo dato al tempo e alla pazienza dei finanziatori (l’interesse da pagare alle banche), che era nullo solo un anno fa, è tornato ad essere un onere insostenibile per tante società della “valle del silicio” ponendole a serio rischio di fallimento e riducendo la liquidità presso le loro banche. 

A farne le spese è stata la SVB che, dopo avere subito per quattro trimestri consecutivi un calo dei depositi dei propri clienti, è stata costretta a fare liquidità e a vendere (in perdita) parte dei titoli (quelli trattati come AFS) in portafoglio. 

Questo non è stato però sufficiente e la SVB si è ritrovata priva di capitali e con l’impossibilità di vendere altri titoli (gli HTM vanno conservati sino a scadenza) o di ottenere la fiducia dei mercati finanziari (per niente intenzionati a finanziare un aumento di capitale) e, quindi, costretta a chiudere.

Ora i mercati temono che la banca californiana possa non essere stata la sola a patire di questa venefica accoppiata di tassi in rialzo e massicce perdite degli investimenti obbligazionari e certamente non ha aiutato il fatto che altre due banche, la Silvergate, specializzata in criptovalute, e Signature Bank, che investiva nelle valute virtuali, abbiano dichiarato bancarotta negli stessi giorni. 

E’ stato subito chiaro a tutti che il rischio “sistemico”, di un allargamento a macchia d’olio dei fallimenti, andava evitato a qualunque costo e lo schieramento compatto di governo americano, Federal Reserve e Fdic (la Federal Deposit Insurance Corporation, che assicura il rimborso dei clienti sino ai 250.000 dollari) ha garantito immediatamente che i clienti coinvolti non perderanno nessuno dei circa 300 miliardi di dollari depositati. 

Com’è noto, infatti, il maggior rischio per gli istituti finanziari è la fuga dei propri clienti che si affollano agli sportelli per richiedere la restituzione del loro denaro che le banche non hanno materialmente a disposizione (detenendone solo una piccola parte, in contanti, per i prelievi).

Nel caso della SVB durante la sola giornata del 9 marzo un quarto del totale dei depositi, pari a 43 miliardi di dollari su 173 totali, erano stati prelevati dai correntisti presi dal panico ed il rischio era quello di vedere ripetersi la scena per molte altre banche per il semplice (ingiustificato) timore di non essere in grado di tornare in possesso del proprio denaro. 

Vedremo nei prossimi giorni se le misure annunciate saranno sufficienti a fare tornare la calma.  

Per ora a prevalere è il nervosismo e a trascinare al ribasso i listini sono proprio le azioni delle banche e le scosse di questo terremoto si sentono con forza anche nelle piazze europee. 

E’ presto per dire se davvero si tratta di un cigno nero, segnale di allarme sugli effetti di un (troppo) repentino aumento dei tassi dopo molti anni di (troppo) bassi tassi d’interesse, o solo di episodi isolati di cattiva gestione (provocati da operazioni speculative e mancanza di adeguati controlli). 

ln quest’ultimo caso l’esito finale sarebbe quello di avere “ripulito” i mercati dall’eccesso di ottimismo con il quale avevano iniziato l’anno per poi tornare a brillare una volta chiaro che il rallentamento economico (già in atto, seppure ancora sottotraccia) ha definitivamente invertito la corsa dei prezzi. 

Per qualche tempo il bastone sarà probabilmente messo a riposo, così da consentire alla situazione di stabilizzarsi e di porre le basi per una ripartenza del ciclo economico nella seconda metà dell’anno. 

Nel frattempo, gli effetti della stretta creditizia sull’economia reale e sull’inflazione (ci vogliono normalmente almeno 18-24 mesi dall’inizio del ciclo di rialzo dei tassi) potrebbero dispiegarsi rimettendo così le cose a posto. 

Nella speranza che le bastonate ricevute possano diventare un utile insegnamento per il futuro, in grado di farci apprezzare meglio le gustosissime e salutari carote. 

La scoperta del capitano

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IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Il capitano Cook nella seconda metà del ‘700 allargò la conoscenza del mondo. 

 Arruolandosi nella Royal Navy il suo obiettivo era non soltanto quello di viaggiare «…al di là di dove chiunque è andato prima, ma fin dove è possibile per un uomo andare». 

Fu il primo ad approdare, con la nave da ricerca Endeavour, in Australia e la pubblicazione dei suoi diari, dove raccontava i propri viaggi e le loro scoperte scientifiche, gli guadagnarono una enorme popolarità.

Durante il terzo dei suoi lunghi viaggi scoprì le Isole Sandwich, ora note come Hawaii.  

Quest’ultima esplorazione finì per costargli cara: dopo essere ripartito il mare in burrasca danneggiò gravemente l’albero di prua e, costretto a tornare all’isola, fu ucciso dagli indigeni inferociti per motivi ancora oggi non completamente chiariti. 

Dagli scritti del buon capitano si legge anche di un’altra, meno letale per lui, scoperta: “L’inflazione rende i ricchi ancora più ricchi e le masse più povere”.  

Eh sì anche un uomo assai poco avvezzo alle speculazioni economiche aveva compreso come l’aumento indiscriminato dei prezzi provochi conseguenze nefaste nella distribuzione della ricchezza. 

Proviamo a riassumere brevemente i meccanismi tramite i quali si realizza questa distorsione. 

I percettori dei redditi più bassi ne spendono una larga parte in beni e servizi “essenziali” per la propria sopravvivenza (e quindi difficili da ridurre in tempi di crisi): si tratta del cibo, delle bollette e del carburante (anche se è pur vero che, almeno in parte, questo potrebbe essere sostituito da un maggiore ricorso ai mezzi pubblici).  

Si tratta proprio dei beni e servizi che hanno subito i maggiori rincari, aumentandone così l’aggravio per tutti, in valore assoluto, ma in termini relativi (in percentuale sul reddito) in particolare per i meno abbienti.  

Un altro elemento che provoca un allargamento delle distanze rispetto a coloro che hanno redditi più elevati è dato dall’utilizzo dei risparmi: quando il loro ammontare è piccolo sono spesso detenuti sui conti correnti, senza alcuna remunerazione, e perciò si deprezzano a causa dell’inflazione (l’utilizzo futuro consentirà di acquistare minori quantità di prodotti e servizi, che nel frattempo saranno stati resi più cari dall’aumento dei loro prezzi).

I maggiori patrimoni hanno, invece, la possibilità di essere investiti in forme più remunerative (seppur rischiose) che (almeno nel lungo termine) proteggono meglio dall’inflazione. 

Le argomentazioni addotte sono nel complesso convincenti anche se non trovano immediata applicazione quando l’animale dell’inflazione esce dalla sua gabbia (spaventando gli investitori). 

Può infatti accadere che, come durante l’anno passato, i timori legati ai rincari dei prezzi possano gravare pesantemente sui mercati finanziari (dove sono investiti grandi e piccoli patrimoni) provocando danni in modo molto “democratico” e risparmiando solo il valore nominale, ma non certo quello reale, delle somme mantenute liquide sui conti. 

E’ pur vero che nel lungo termine gli investimenti più rischiosi (le azioni in particolare) sono quelli che danno i migliori frutti ma occorre non farsi spaventare ed avere tanta pazienza: in caso contrario la redistribuzione della ricchezza premierà solo i più “coraggiosi”. 

E la pazienza è un po’ come il coraggio di don Abbondio: se non lo si ha non ce lo si può certo dare… 

Bisogna a questo punto ricordare che i veri e indiscussi trionfatori in tempi di inflazione sono coloro che devono ripagare i propri debiti ad un tasso fisso. 

E’ questa la situazione di chi ha sottoscritto mutui e finanziamenti ad un tasso di interesse predefinito ma è soprattutto il caso dei più grandi debitori del pianeta: gli Stati sovrani. 

La storia ci insegna che la riduzione dei più grandi debiti (come quelli contratti per finanziare i costi dei conflitti mondiali del secolo scorso) si raggiunge solo grazie ad un tasso di inflazione che sale ben al di sopra del loro costo (gli interessi da pagare) erodendone così il loro valore reale. 

Va anche detto che la tendenza ad una maggiore concentrazione della ricchezza in una minore frazione della popolazione sembra disinteressarsi dell’inflazione ed è più legata alla progressiva perdita di potere contrattuale della forza lavoro, alla “globalizzazione e alla maggiore capacità dei grandi risparmiatori di fare fruttare i propri patrimoni, anche perché le loro oscillazioni non ne mettono a rischio lo standard di vita costringendoli a disinvestire nei momenti meno propizi.

 

Rimane il fatto che l’inflazione, come ricordava Luigi Einaudi, è “la più iniqua delle tasse” ed i suoi effetti si riverberano in modo incontrollato, aumentando il senso di incertezza sul futuro e innescando fenomeni speculativi (i prezzi vengono in qualche caso aumentati anche senza una reale motivazione). 

Ecco perché dobbiamo augurarci, una volta di più, che possano presto venire meno le ragioni che ci hanno condotto a navigare in acque così agitate, prima di essere costretti a tornare, proprio come avvenne al capitano Cook, ad approdi molto scomodi e pericolosi (come ci ha insegnato l’”austerity” degli anni settanta). 

La Biblioteca di Babele

IL PUNTASPILLI di Luca Martina


Internet, il world wide web, la rete creata nel 1989 dall’informatico del CERN Tim Berners-Lee, che letteralmente avvolge il mondo delle comunicazioni, è una giungla non sempre così facile da esplorare.

Per fortuna esistono delle guide che ci aiutano a percorrerne i sentieri e che ci conducono alla nostra destinazione. 

Questi “sherpa” sono i motori di ricerca che, a partire dalla fine degli anni ’90, sono stati creati per consentire di rintracciare le pressoché infinite, e in perenne espansione, pagine di quella che assume sempre più le sembianze della biblioteca di Babele dell’omonimo racconto di Jorge Luis Borges. 

La battaglia che si è scatenata sin dagli albori dell’era digitale ha visto inizialmente competere AltaVista (creato dalla Digital Equipment Corporation di Palo Alto) e Yahoo (fondata da due studenti dell’università di Stanford, David Filo e Jerry Yang) ma è stato il terzo incomodo, Google, nel 1998, a rivoluzionare la appena nata ma già molto promettente industria. 

L’algoritmo elaborato dalla creatura di Larry Page e Sergey Brin ha sbaragliato in breve tempo la concorrenza grazie alla capacità di estrarre i risultati migliori tra tutti quelli possibili (sulla base del numero di link ricevuti da ogni pagina) per ogni domanda che gli veniva sottoposta. 

Non a caso il termine “Google” ha origine dalla parola inglese googol, che sta ad indicare 10 elevato alla centesima potenza e, per estensione, una grandezza incommensurabile, proprio come le informazioni presenti in rete.

Poco importa se, una volta deciso di utilizzare questo termine (coniato nel 1938 da Caroline, la nipote di nove anni del matematico americano Edward Kasner), al momento della registrazione fu erroneamente indicato come “Google”: la storia di uno dei più grandi colossi della tecnologia era iniziata. 

Il successo fu enorme e possiamo ben dire che è proprio grazie alla possibilità di muoverci in questo oceano pressoché infinito di pagine e di informazioni in modo rapido e senza il rischio di perdere la strada che internet è diventato così pervasivo nelle nostre attività quotidiane (lavorative e non). 

Basti pensare che in ogni singolo secondo di ogni santo giorno, Google processa circa 100.000 ricerche, più del 90% di quelle fatte nel web e il suo predominio non è stato mai seriamente messo a rischio nei 25 anni successivi alla sua nascita. 

Chi ci ha provato con più forza è stata la Microsoft, che nel giugno del 2009 ha lanciato il suo motore “Bing” riuscendo però a raccogliere, dopo quasi 14 anni, meno dell’8% delle ricerche della rete. 

Va anche detto, però, che non tutte le ricerche (gratuite per gli utilizzatori) sono ugualmente profittevoli: la benzina nei “motori” è versata generosamente dalle società che ricevono, grazie ai risultati suggeriti da Google & friends, la visita dei potenziali compratori. 

Si tratta degli introiti generati dagli annunci pubblicitari, tanto più preziosi quanto più precisamente indirizzati a coloro che sono potenzialmente più interessati (e che proprio per questo si trasformeranno con maggiore probabilità da ricercatori a compratori dei beni e dei servizi pubblicizzati) e questo è il lavoro che Google sa fare meglio di chiunque altro. 

Si stima che il 54% dei ricavi pubblicitari generati da tutti i motori di ricerca finiscano nelle casse di Google, in discesa dal 67% del 2016, erosi solo dalla crescita in questo settore di Amazon (con il 23% dei ricavi totali, generati dagli inserzionisti della sua enorme piattaforma di “eCommerce”). 

Quella di Jeff Bezos è un’altra storia di successo, in grado di produrre uno dei maggiori colossi di Wall Street, ma solo dopo avere cambiato il nome della sua azienda da “Cadabra”, dalla parola magica “abracadabra”, nome la cui assonanza con la parola “cadaver” non prometteva nulla di buono, a, per l’appunto, Amazon, dal Rio delle Amazzoni, il fiume con il più grande bacino idrografico del mondo. 

Tornando ai motori, ora la sfida sembra potrebbe davvero spostarsi ad un altro livello.

L’annuncio fatto nelle scorse settimane da Microsoft ha provocato forti scossoni nel settore: verrà presto lanciata una nuova versione di Bing che incorporerà “ChatGPT” (“Chat Generative Pre-trained Transformer”) e che dovrebbe consentire alla società di Redmond di fare quel balzo che per un decennio ha tentato inutilmente di fare.

Il nuovo e, per noi profani, criptico acronimo non è nient’altro che un avanzato “modello di linguaggio naturale” (che utilizza il nostro abituale modo di comunicare) che consente ricerche molto più elaborate e prive di quei vincoli che ancora limitano le potenzialità dei motori attuali e dei loro algoritmi.

L’importanza dell’innovazione uscita dai laboratori di OpenAi, società fondata nel 2015 da Sam Altman e Elon Musk, è tale che, secondo Bill Gates, il fondatore i Microsoft, potrebbe un giorno diventare potente quanto lo sono stati il Pc e lo stesso Internet. 

Nei soli primi due mesi dal suo lancio ChatGPT è stato utilizzato da più di 100 milioni di persone, diventando immediatamente l’applicazione con la crescita più veloce della storia, è stato valutato ben 29 miliardi di dollari (a fronte di ricavi che, ad oggi, sono pari a circa 80 milioni) e la stessa Microsoft ha investito 10 miliardi di dollari in OpenAi, la sua casa madre. 

La nuova creatura di “Elon Musk & friends” offrirà nelle prossime settimane il servizio in abbonamento a 20 dollari al mese ma c’è già chi si è sbizzarrito nell’interrogare la versione “jailbreak” (priva dei vincoli posti alla versione che sarà messa in commercio per limitarne i possibili utilizzi illegali) su quando avverrà il prossimo crollo dei mercati finanziari. 

E se la risposta fornita dalla versione ufficiale di ChatGPT era stata che “è impossibile prevedere un evento di questo genere” quella senza freni ha affermato, senza tanti complimenti, che il giorno del tracollo sarebbe stato lo scorso 15 febbraio (sospiro di sollievo e pericolo scampato, almeno per ora). 

La possibilità di navigare in modo più veloce, intuitivo, preciso e creativo ha sollevato dunque enormi interessi economici e morbose curiosità (sarà forse possibile un giorno delegare al software la scrittura di articoli, romanzi, poesie, barzellette, brani musicali ma già ora è in grado di svolgere compiti e sostenere le prove di molti esami universitari) e in pochi giorni sono state messe in campo le prime controffensive: Google ha annunciato di avere pronto al lancio il suo chatbot “Bard” mentre Baidu (la Google in salsa cinese) a marzo svelerà la sua creatura “Ernie”. 

Ma le opportunità che si svilupperanno potranno coinvolgere anche le piccole società, che spesso sono le prime a cavalcare le nuove tecnologie, e tra queste la Anthropic dell’italo-americano Dario Amodei, con il suo “Claude” 


Siamo solo all’inizio, ne sentiremo ancora molto parlare, e presto potremo sperimentare direttamente queste novità e capire se saranno davvero così rivoluzionarie e in grado di trasformare il mondo della rete. 

La ricerca, in fondo, non è altro che l’atto di percorrere i vicoli per vedere se sono ciechi… e, se non lo sono, per fare molti, molti soldi. 

Le Fondamenta dei Regni  

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

Le prospettive economiche rimangono quantomai incerte ma da qualche tempo è iniziato a filtrare un certo ottimismo da parte degli investitori, degli analisti e degli economisti. 

Ultime, ma solo in ordine di tempo, sono giunte le previsioni del Fondo Monetario Internazionale (FMI). 

Secondo l’FMI il rallentamento sarà inferiore alle attese e si passerà da una crescita del PIL del 3,4% nel 2022 al 2,9%. 

A patire le peggiori conseguenze saranno i Paesi industrializzati, destinati nel loro complesso a dimezzare la crescita dal 2,7% all’1,2%. 

L’Europa, epicentro degli eventi scatenati dalla guerra in Ucraina, pagherà il prezzo più salato e l’area dell’euro sarà in virtuale stallo (+0,7%) per tutto l’anno appena iniziato. 

Note più liete sono riservate dall’FMI all’Asia emergente che, trainata dalla Cina dovrebbero crescere di più del 5%.

 

Ma se quanto sopra era in una certa misura atteso quello che sorprende forse di più sono le previsioni sulla Russia, vista in miglioramento (dopo una discesa del 2,2% nel 2022) sia quest’anno (+0,3%) che il prossimo (+2,1%). 

In effetti il regno di Putin ha sinora subito delle conseguenze tutto sommato modeste dall’embargo dei Paesi occidentali. 

Com’è possibile, ci si chiede, che un Paese che dipende quasi esclusivamente dall’esportazione di petrolio e gas naturale possa fare fronte alla perdita dei suoi più importanti clienti (i principali Paesi europei) senza subire un tracollo della sua economia. 

La risposta sta nei dati che consentono di fare luce sulla destinazione dei flussi di greggio: da questi appare evidente che a compensare il netto calo della domanda europea ci abbia pensato l’Asia. 

Basti pensare che, dall’inizio della guerra, un anno fa, le importazioni cinesi di petrolio russo sono quasi raddoppiate e sono pressoché esplose (moltiplicandosi di 14 volte) da parte dell’India (che ha quasi appaiato Pechino come primo cliente di Mosca).  

Non desta sorpresa, poi, che, sebbene assai meno importanti, anche la Turchia e la Bulgaria abbiano approfittato delle “offerte speciali” (greggio a prezzo scontato) del supermercato russo. 

Meno ovvia è stata la crescita delle importazioni di petrolio russo da parte del nostro Paese, raddoppiate nel corso del 2022. 

La situazione paradossale si spiega con la presenza della raffineria russa, della Lukoil, ad Augusta, in Sicilia.  

Prima della guerra, infatti, solo il 30% del petrolio raffinato in Italia dalla Lukoil era di provenienza russa ma dopo l’imposizione delle sanzioni le banche italiane hanno chiuso le linee di credito “costringendo” la raffineria ad approvvigionarsi al 100% con petrolio domestico (importato dalla Russia). 

Vedremo nei prossimi mesi se le misure ulteriormente restrittive sulle esportazioni di greggio via mare, a fine anno scorso, e di prodotti raffinati, dal 5 febbraio, finiranno per sortire gli effetti sperati (togliere ossigeno alla macchina da guerra russa). 

 

Per ora possiamo solo convenire con quanto sosteneva l’economista statunitense Jeremy Rifkin: “Il regno dei cieli potrà anche essere fondato sulla giustizia ma i regni terrestri sono fondati sul petrolio.”

Guida notturna (con nebbia) 

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Larry Summers, segretario al tesoro degli Stati Uniti nell’ultimo periodo della presidenza Clinton, è ritenuto essere notoriamente un “falco” avendo sostenuto, per tutti gli ultimi due anni, la necessità di alzare i tassi d’interesse per potere combattere efficacemente l’inflazione.

Anche lui però sembra essere ormai convinto che, a causa dell’incertezza che pervade il quadro economico, non sia il caso di preannunciare ulteriori ritocchi al rialzo quando, mercoledì primo febbraio, la Federal Reserve si riunirà per aumentare i tassi ufficiali d’interesse dello 0,25% (questa la previsione degli analisti).

I dati economici pubblicati negli ultimi mesi sono, infatti sempre più contraddittori. 

Negli Stati Uniti i consumi stanno rallentando, i licenziamenti annunciati dalla grandi corporates del settore tecnologico si susseguono in modo preoccupante e l’inflazione sembra avere finalmente svoltato (l’aumento dei prezzi per le famiglie, pubblicato la scorsa settimana, è sceso al 3,9%, al di sotto del tasso ufficiale che è pari al 4,5%). 

Non che la locomotiva statunitense stia perdendo così rapidamente e pericolosamente (rischiando una dura recessione) velocità: il Pil dell’ultimo trimestre è salito del 2,9%, rallentando solo leggermente rispetto al +3,2% di quello precedente. 

Quello che disturba Summers è la mancanza di una direzione chiara e prevedibile del treno a stelle e strisce. 

In questo contesto il compito della Federal Reserve, la banca centrale USA, si fa difficile ed il rischio è quello di schiacciare troppo sul pedale del freno (innescando una recessione) o, al contrario, di lasciare viaggiare il convoglio ad una velocità che potrebbe provocarne un deragliamento inflazionistico (aiutato dalla forza dei consumi). 

L’immagine che utilizza Larry Summers nella sua recente intervista è molto esplicita: “La Fed sta guidando il suo veicolo in una notte molto, molto nebbiosa”. 

Malgrado ciò i tassi nell’era d.C. (dopo Covid) potrebbero assestarsi nei prossimi anni, secondo l’economista americano, ben al disopra delle previsioni attuali del 2,5% (lo 0.5% “reale”, una volta depurati i tassi ufficiali dell’inflazione “desiderata” del 2%). 

La preoccupazione non sembra essere però il sentimento principale che si percepisce in questo periodo nei mercati finanziari. 

L’ottimismo emerso dagli incontri del World Economic Forum di Davos nelle scorse settimane è stata benzina sul fuoco dei listini, felici di iniziare l’anno su toni opposti a quelli con i quali avevano concluso il 2022. 

Al pacchetto delle buone notizie si sono aggiunte ultimamente la cancellazione delle restrizioni in Cina (la fine della “tolleranza zero” nei confronti dei contagi Covid) e la discesa dei prezzi delle fonti energetiche (il gas è sceso del 70% rispetto ai picchi di fine agosto ed è tornato ai livelli pre-guerra). 

Le famiglie americane, poi, dispongono ancora di ampi risparmi parcheggiati sui conti correnti (o su investimenti monetari, a scadenza brevissima) pronti ad essere spesi (supportando la crescita) o investiti sui mercati finanziari. 

Ma nella notte nebbiosa nella quale stiamo brancolando anche le timide luci possono provocare delle ombre poco rassicuranti: per potere davvero riportare l’inflazione ai livelli desiderati (individuati universalmente nel 2%) i numi tutelari della moneta (le banche centrali) richiedono la presenza di chiari segni di rallentamento (e borse meno ottimiste sul futuro prossimo dell’economia). 

Il mix di dati economici migliori del previsto e delle previsioni, da parte delle imprese e degli economisti, di un forte rallentamento nel prossimo futuro è a livelli mai visti negli ultimi cinquant’anni e la possibilità che alla fine l’atterraggio sia più morbido di quanto temuto non è, fortunatamente, da scartare. 

Sarebbe una gradita sorpresa e sancirebbe la ripartenza del ciclo economico senza avere subito una fase “ciclica” recessiva. 

La risposta non la conosceremo con certezza ancora per qualche mese e l’indicatore che andrà osservato attentamente (e certamente lo farà la Fed) è quello della disoccupazione. 

I licenziamenti stanno accelerando negli Stati Uniti e presto ne vedremo le conseguenze (temperate dal nostro stato sociale) anche in Europa. 

Sebbene non si tratti certamente di una buona notizia, un aumento dei disoccupati ridurrebbe la pressione agli aumenti dei salari, consentirebbe alle aziende di tagliare i costi (come avvenne nel 2009, dopo la “Grande recessione” degli anni precedenti), rafforzerebbe il trend al ribasso dell’inflazione e rappresenterebbe il segnale ultimo che i mercati aspettavano per aprire una nuova fase di rialzi delle quotazioni. 

Rimaniamo quindi con lo sguardo attento a scrutare nella notte, certi che quando scomparirà la nebbia torneremo a riveder le stelle. 

Per aspera ad astra. 

 

L’età dell’incertezza

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

La fase storica che stiamo attraversando mi ha riportato alla mente una vecchia, ma ancora molto piacevole ed istruttiva, lettura.  

Cinquant’anni fa, più precisamente nell’estate del 1973, l’economista canadese, naturalizzato americano, John Kenneth Galbraith veniva contattato dalla BBC per realizzare una serie di trasmissioni divulgative sulla storia del pensiero economico.  

Lo studioso racconta, con il suo ben noto sarcasmo, che gli era spesso richiesto dal rettore dell’università di Harvard, dove era professore, di manifestare pubblicamente entusiasmo per l’insegnamento e come questa consuetudine fosse per lui vieppiù pesante e poco sincera (col passare degli anni si rendeva conto di provare un malcelato fastidio nei confronti dei giovani studenti).  

L’impegno televisivo, durato tre anni, lo riconciliò con il mondo accademico, rinverdì i rapporti con i partecipanti ad i suoi corsi e gli fornì il materiale per scrivere uno dei suoi libri di maggior successo: “L’età dell’incertezza”.  

La tesi, in estrema sintesi, espressa nelle pagine del volume del 1977 è quanto mai attuale: le grandi aziende del sistema capitalistico occidentale, contribuiscono all’incertezza sul futuro dei sistemi sociali ed economici in quanto perseguono obiettivi che non sono compatibili con gli interessi generali ed il bene comune.  

Winston Churchill, in uno dei suoi aforismi più fulminanti, sosteneva che “il capitalismo è un’ingiusta ripartizione della ricchezza mentre, per contro, il comunismo è una giusta distribuzione della miseria” e la storia non può che confermarlo ma quello che è avvenuto nei rapporti con la Cina e la Russia ci rende oggi più che mai consapevoli dei rischi che il nostro sistema ha accettato di correre, per mancanza di lungimiranza politica e a causa di un sempre maggiore e pervasivo potere delle grandi multinazionali.  

L’età dell’incertezza si riflette naturalmente anche sulla capacità di prevedere il futuro dell’economia, in balia di potenti quanto imprevedibili correnti.  

La pandemia ci ha ricordato la vulnerabilità di un mondo circumnavigabile ormai in una piccolissima frazione degli ottanta giorni narrati da Jules Verne, nel suo omonimo romanzo, nel 1872.  

La sensazione di insicurezza che ci pervade da tre anni è stata poi drammaticamente rafforzata dall’esplosione di un conflitto che, così vicino al nostro continente, epitome del “mondo civilizzato”, non immaginavamo potesse più avvenire.  

Le forze che si sono scatenate hanno sgretolato il vaso di Pandora nel quale era rimasto rinchiuso per molti anni (uno degli effetti benefici della globalizzazione) il demone dell’inflazione e messo a repentaglio il fragile equilibrio che si stava ricreando dopo la fase più acuta della diffusione del coronavirus.  

Di tutto ciò non potevano certo disinteressarsi i mercati finanziari che rimangono sospesi tra l’incudine dell’inflazione e dei tassi di interesse in salita e il martello della recessione incombente.  

D’altro canto, è risaputo che ciò che più detestano gli investitori non sono tanto le notizie negative certe e ben definite quanto l’indeterminatezza che caratterizza i cambiamenti imprevisti.  

L’incertezza, dunque, è la peggiore iattura che possa affliggere gli investimenti.  

Meglio, allora, cercare di comprendere quando e come una ormai probabile recessione si materializzerà, perché solo allora l’”aggiustamento” dei prezzi, che sempre la precedono come abbiamo già dolorosamente visto nel 2022, potrà completarsi e si inizierà a pensare ad un futuro dove l’obiettivo non sarà più quello di riportare l’inflazione sotto controllo ma di fare ripartire la crescita economica e, con essa, le borse mondiali.  

Va ricordato che non è certo un caso che si parli di “ciclo economico”: la ruota economica girando velocemente sviluppa energie positive (grazie alla innata capacità dell’uomo di generare innovazioni e maggiore ricchezza globale, secolo dopo secolo) fino a che la pedalata frenetica non provoca la rottura della catena, le inevitabili recessioni, o, molto più raramente, rovinose cadute, le depressioni.  

L’età dell’incertezza ci sta portando a ripensare a un modello consolidato, quello derivato dalla globalizzazione, caratterizzato da un trentennio di crescita economica completamente priva di inflazione (cancellata dallo spostamento della produzione in Paesi a basso costo e sempre più in competizione tra loro). 

L’apertura indiscriminata dei mercati internazionali delle merci e dei capitali seguita alla caduta della cortina di ferro, nel 1989, ha completamente trascurato le sue potenziali future conseguenze geopolitiche, rafforzando oltre misura gli avversari storici del mondo occidentale.  

Le parole dell’economista francese del XIX secolo Frédéric Bastiat, “Dove non passano le merci, passeranno gli eserciti”, hanno guidato negli ultimi decenni le strategie europea e statunitense, trascinate anche dall’interessato entusiasmo delle grandi corporations, prime beneficiarie del nuovo verbo.

Ora che gli eserciti si sono rimessi in moto siamo in attesa di comprendere quale sarà il nuovo equilibrio. Il progresso mondiale certamente non si arresterà ma, memore di quanto sta accadendo, sarà forse più sostenibile e meno incerto. Forse…