I MAESTRI DELL’ACCADEMIA ALBERTINA. CESARE FERRO MILONE
FINO AL 9 SETTEMBRE
Da Torino a Bangkok. Per quattro anni, dal 1904 al 1907, Cesare Ferro Milone (Torino, 1880-1934), in quella meravigliosa fetta di Oriente Estremo che fu il Regno di Rattanakosin o del Siam (odierna Thailandia), dovette fare i conti con la terribile afa canicolare intrappolata –tutto l’anno o quasi – nelle strade e fra i palazzi delle città, subire il tormento senza fine (è lui stesso a scriverlo nelle lettere ai famigliari) di implacabili zanzare e l’esplosiva“invasione” degli artigiani cinesi; ma in compenso, alla corte di Rama V, ancora oggi venerato dai thailandesi per il ruolo che ebbe nella modernizzazione e nel mantenimento dell’indipendenza del Paese dalle mire coloniali di Francia e Inghilterra, Ferro Milone poté ampiamente godere di
“quell’arte che si riveste al Siam – sono sempre parole sue – di una più perfetta grazia”, per la quale “la profusione dell’oro e delle ceramiche è ricchezza meravigliosa e non sfarzo, i mille dettagli sono bellezza e non superstruttura”. In Siam, l’artista torinese – che già aveva terminato gli studi all’Accademia Albertina di Belle Arti, allievo di Giacomo Grosso e Pier Celestino Gilardi, e già aveva esordito alla Promotrice nel 1900 e vinto, l’anno successivo, la medaglia d’oro all’“Esposizione Universale” di Livorno – fu invitato dal “grande e amato re” per decorare il Palazzo Reale di Bangkok (dove farà ritorno nel ’24 per lavorare alla decorazione del principesco Palazzo Norashing), affrescando sale, ma anche disegnando servizi da tavola in porcellana e il conio di alcune monete. Di quella prestigiosa attività restano molteplici bozzetti, disegni e acquerelli di intensa policromia che, al ritorno a Torino, il pittore custodisce gelosamente nel suo studio. Memoria di un’esperienza umana e professionale
impareggiabile che accompagna in parallelo la ripresa, sotto la Mole, di un’attività pittorica dove alla rigorosa e solida rappresentazione realistica di ascendenza grossiana, si intrecciano spesso cifre stilistiche quasi preraffaellite o simboliste – nella leggerezza dei toni cromatici – accanto a cenni di prezioso “importato” decorativismo. Pittore ancor giovane, ma dal curriculum d’alto blasone (cui contribuì non poco il regal lavoro in Siam) Ferro Milone sarà pure docente di fama alla
“sua” Accademia Albertina, di cui divenne anche presidente dal 1930 al 1933, ultimo incarico prima della scomparsa avvenuta nel 1934, a seguito di un incidente d’auto. Cesare aveva solo 54 anni, ma già una carriera altamente prestigiosa alle spalle e il nome inserito nelle principali manifestazioni d’arte a livello nazionale e internazionale. Assolutamente condivisibile dunque l’idea di dedicare a lui (dopo le rassegne su Andrea Gastaldi e Giacomo Grosso) il terzo appuntamento del ciclo “I Maestri dell’Accademia Albertina”, promosso dalla stessa Accademia e dal Museo di Arti Decorative “Accorsi-Ometto” di via Po, a Torino. L’esposizione, a cura di Angelo Mistrangelo, è presentata in tre sedi: alla “Pinacoteca” dell’Accademia Albertina, al Museo “Accorsi-Ometto” e al Museo Civico Alpino “Arnaldo Tazzetti” di Usseglio, nelle amate Valli di Lanzo, dove l’artista era solito trascorrere le vacanze estive, in frazione Quagliera, e dove è sepolto in una cappella voluta dalla moglie Andreina Gritti e da lui affrescata. Ben oltre un
centinaio le opere esposte, fra dipinti, disegni, incisioni, affreschi portatili, oggetti d’arte accanto a riviste, giornali d’epoca e raccolte di fotografie eseguite dallo stesso artista. Al Museo “Accorsi-Ometto” troviamo, oltre all’“Autoritratto” del ’33, eseguito per il “Circolo degli Artisti”, il Ferro Milone più intimo e famigliare de “I primi passi” o “La mamma e Checco”, ma anche vivide tracce del periodo siamese, come disegni di oggetti per il re, modelli per monete, preziosi abiti di manifattura cinese, dipinti realizzati in Siam e perfino la spada donata dal Rama V a Umberto I, nel 1897, in occasione del suo primo viaggio a Torino. Negli spazi espositivi della “Pinacoteca” dell’Albertina, prevalgono ritratti di solida impostazione narrativa, nudi e composizioni
allegoriche, insieme a sculture, incisioni e, anche qui, immagini del Siam. Da segnalare anche la suggestiva installazione multimediale, realizzata dagli studenti di “Scenografia del Cinema”, che consente un viaggio immersivo nel Siam di oltre un secolo fa e nel “Padiglione Siamese” realizzato per l’Esposizione Universale di Torino del 1911. Il Museo “Tazzetti” di Usseglio propone, infine, esempi significativi della tecnica dell’affresco portata avanti dall’artista con gli studi preparatori delle grandi decorazioni per il Palazzo Comunale di Imperia e delle cappelle funerarie di Vaglio Pettinengo e di Neive. Interessanti anche le opere di proprietà della famiglia o in permanente esposizione al Museo, un grande cartone raffigurante la “Deposizione” e la “Testa di bambino” del ’34, in plastilina e appena abbozzata.
Gianni Milani
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“Cesare Ferro Milone. La magia del colore tra Torino e Bangkok”
Museo “Accorsi-Ometto”, Torino, tel. 011/837688 int. 3; “Pinacoteca” dell’Accademia Albertina, Torino, tel. 011/0897370; Museo Civico Alpino “Arnaldo Tazzetti”, Usseglio (Torino), tel. 0123/83702 – Fino al 9 settembre
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Nelle foto
rigagnolo si fa torrente mano a mano che scende a valle. Per un bel po’ della sua strada è un lungo, stretto e tortuoso filo d’acqua corrente che prende forza per caduta fino a spegnersi nel lago a Baveno

trovavamo scavando nella fossa del letame che stava pochi passi dietro la grande cascina dove il Guerra teneva le vacche e qualche animale da cortile. Ai vermi s’associavano anche le camole del miele, fornite dal vecchio Brambilla, un milanese che – dopo la guerra – aveva scelto di vivere sul lago dopo esservi arrivato per sfuggire ai bombardamenti alleati. Aveva due dozzine di arnie e produceva un miele dolcissimo e denso. Nel far sparire quelle larve dai bozzoli biancastri e robusti gli facevamo un piacere perché la “galleria mellonella“, la tarma maggiore della cera, più comunemente chiamata camola del miele, è un lepidottero infestante degli alveari.
E al Brambilla davano un sacco di noie. Così, riempiti i barattoli di lombrichi o di camole, pescavamo a striscio nelle pozze, seguendo il filo della corrente, fino a quando uno strappo secco ci comunicava la soddisfazione della cattura della preda. Sgusciavano tra la mani, vivaci e ribelli, le “fario” grigio-olivastre sul dorso, argenteo-giallastre sui fianchi e più bianche sul ventre. Le macchioline nere e rosso-aranciate che punteggiavano la parte superiore del corpo le distinguevano da quelle di lago, dove le macchie erano nere e irregolari. Eravamo espertissimi in questo tipo di pesca dove la scelta del piombo era importante quanto la scelta dell’amo, perché lungo il torrente dove l’acqua corre veloce è fondamentale riuscire a far lavorare bene l’esca. Al Selvaspessa non si andava solo a “bagnare” la lenza ma anche a prendere il sole, srotolando gli asciugamani sui sassi più larghi e piani , allungandoci sopra come lucertole al sole. Oppure, come facevo io d’estate, a leggere. Passavo lì le mie vacanze, da luglio a settembre. Il rumore dell’acqua corrente rappresentava il sottofondo ideale per estraniarsi dal mondo. Non disturbava affatto, aiutando la concentrazione, favorendo la riflessione, stimolando la fantasia. E’ lì che ho letto i
racconti avventurosi di Emilio Salgari, immaginandomi a Mompracem , nel mar di Malesia, attraversando il Riff, gli oceani o le praterie del West. Ho conosciuto nei romanzi di Cesare Pavese le langhe, Santo Stefano Belbo, il mare di Varigotti e il rigore livido dei viali di Torino. Con l’immaginazione ho viaggiato nell’ America di John Steinbeck grazie alle pagine di Furore, Uomini e Topi, la Valle dell’Eden o tra il Vicolo Cannery e Pian della Tortilla . Ho incontrato i moschettieri di Dumas, attraversato le foreste al confine con il Canada insieme all’ultimo dei Mohicani, frequentato pirati e
bucanieri all’isola della Tortuga e sognato con Giulio Verne di scendere nel ventre della terra, fuggire con Michele Strogoff, viaggiare verso la luna e navigare ventimila leghe sotto i mari insieme al capitano Nemo. Il fiume – perché definirlo torrente ci pareva riduttivo – mi faceva dimenticare la predilezione che avevo per gli alberi. Era sui rami bassi di un albero, infatti, che passavo ore e ore a leggere libri e fumetti quand’ero da mia nonna, lontano dall’acqua del Selvaspessa. Ora di quel mondo fantastico e misterioso resta solo un ricordo. La parte bassa del fiume è completamente stravolta e mai nessuno s’avvia in quella direzione con un asciugamano e un libro sottobraccio. E’ un peccato perché la parte a nord del Selvaspessa, merita ancora. Ma oggi, si sa, il divertimento è meno semplice e l’acqua che scorre non accompagna più la fantasia dei ragazzi.

















