CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 560

Se la riduzione a occasione teatrale è il punto debole della serata

“Il fu Mattia Pascal”, dal romanzo di Pirandello, in scena all’Erba sino a domenica 15 dicembre

 

“Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal”. La battuta iniziale del romanzo che Luigi Pirandello scrisse nel 1903, per consegnarlo l’anno successivo alla “Nuova Antologia” a puntate, occasione forse dettata dalle gravi difficoltà economiche e dai pensieri di suicidio procurati dal tracollo finanziario familiare dovuto ad una frana che all’improvviso allagò la zolfara nella quale il padre Stefano aveva investito i propri averi e la dote di Maria Antonietta Portulano, moglie dell’autore.

Un romanzo dove tanti temi pirandelliani sono già presenti, l’introspezione esatta del protagonista, il costante vedersi vivere, l’essere e l’apparire, la realtà della quotidianità a confronto con quella che siamo obbligati a crearci, la maschera che indossiamo e con cui ci presentiamo agli altri. Nulla di più facile, come per tantissimi altri esempi, certi racconti coinvolti a divenire pagine teatrali, che Il fu Mattia Pascal abbia tutte le carte in regola per trovare la strada del palcoscenico. Fattane una riduzione che ne colleghi i vari momenti della narrazione e ne rispetti la vena intimista, il dramma personale, la negazione di se stesso. Ecco che allora, nello spettacolo in questi giorni all’Erba, appare subito chiaro che sia proprio questa riduzione, dovuta a Guglielmo Ferro, regista senza generosità di guizzi, e soprattutto a Daniele Pecci, interprete nella passata stagione del ruolo principale, che ha lasciato a Pino Quartullo, il punto debole della serata: soprattutto nella prima parte, nel chiuso della vecchia biblioteca di Miragno, tra polverosi titoli vecchi ormai di secoli pronti ad essere catalogati da un sacerdote anche disposto a ricevere le confessioni di Mattia. La discreta eredità di famiglia andata pressoché in fumo per la disonestà dell’amministratore, Batta Malagna, la vendetta di Mattia che ne compromette la nipote Romilda, che poi è costretto a sposare, l’inferno di quell’esistenza capovolta pure dalla presenza di una suocera che lo disprezza, l’insoddisfazione del piccolo incarico bancario: il tutto esclusivamente raccontato nel chiuso della scena inventata da Salvo Manciagli, alti scaffali scorrevoli che riempiono troppo l’ambiente e quasi lo soffocano, inventati per essere poi tenuti troppe volte fermi, oltre il bisogno, senza una scena che ne movimenti la piatta andatura, al di là delle opache apparizioni di questo o quel personaggio minore che certo non ha il potere di alzare la quota di staticità.

La sostanziosa vincita a Montecarlo, il soggiorno romano in casa dei Paleari (con un padrone di casa, Rosario Coppolino, che ha tra le mani forse le pagine più belle e vive del romanzo e se le gioca con grande divertimento: la tragedia d’Oreste, la lanterninosofia), l’operazione all’occhio malato, il furto di una parte del denaro di Mattia – che la sorte ha spinto a prendere il nome di Adriano Meis -, la seduta spiritica, alzano nella seconda parte il tono della rappresentazione, ma è solo perché questo tono trova in quegli episodi una maggiore materia teatrale che scuote e infervora lo svolgimento. Il ritorno alla realtà infelice di Miragno, davanti ad una famiglia ormai scomposta e nel chiuso della biblioteca a prendere appunti per i ricordi di una vita cancellata, chiude in un cerchio anonimo là dove si era iniziato. Al centro del quale Pino Quartullo non convince mai appieno, nei movimenti, nella varietà della voce, nell’approfondimento soprattutto di un personaggio che avrebbe necessità di una maggiore robustezza, di una più ispirata profondità.

 

Elio Rabbione

Kriszta Székely dirige Zio Vanja al Carignano

Martedì 7 gennaio 2020, alle ore 19.30, debutta in prima nazionale al Teatro Carignano di Torino la nuova produzione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale: ZIO VANJA di Anton Čechov, diretto dalla giovane regista ungherese Kriszta Székely.

L’adattamento è della stessa Székely e di Ármin Szabó-Székely e la traduzione di Tamara Török curata da Emanuele Aldrovandi. Lo spettacolo è interpretato da Paolo Pierobon, Ivano Marescotti, Ariella Reggio, Ivan Alovisio, Federica Fabiani, Lucrezia Guidone, Franco Ravera, Beatrice Vecchione. Le scene sono di Renátó Cseh, i costumi di Dóra Pattantyus, le luci di Pasquale Mari e le musiche di Flóra Matisz.

 

Lo spettacolo sarà replicato al Teatro Carignano fino a domenica 26 gennaio e, dopo Torino, andrà in scena il 29 e il 30 gennaio 2020 al Teatro Katona József Színház di Budapest.

Zio Vanja è la tragedia delle occasioni mancate, delle aspirazioni deluse, dell’incapacità di essere felici. Racchiude l’essenza del teatro di Anton Čechov: il senso di fallimento. Tragicomici, frustrati, depressi, i suoi personaggi parlano molto, ma non fanno niente per sfuggire alla loro condizione di perenne insoddisfazione: illudono se stessi e gli altri con mutue bugie, mentre i loro nervi pian piano si consumano nel soffocante calore estivo. A dirigere Zio Vanja è la regista ungherese Kriszta Székely, tra i migliori talenti della scena europea, che firma il suo primo spettacolo in Italia, prodotto dallo Stabile di Torino, una nuova e importante edizione del grande dramma cechoviano.

Ricorda Székely che l’Ungheria, e soprattutto il Teatro Katona dal quale proviene, hanno una lunga tradizione di messe in scena delle opere di Čechov molto realistiche, psicologicamente sofisticate: «La desolata campagna russa, dove non succede niente, dove le persone si sfiancano, i sentimenti muoiono e dove pian piano tutto si scompone, per decenni ha funzionato come un parallelo della sensazione della vita depressa del blocco socialista dell’Europa dell’Est».

Da allora il mondo è cambiato e con esso i registri teatrali. La Székely ha abbandonato la ricerca del dramma psicologico e, reduce da un Platonov ineditamente chiassoso, ironico, pieno

di un umorismo nero, allestisce con Zio Vanja una commedia che fa stringere il cuore, con i suoi personaggi animati da ideali, passioni e sentimenti, che non sono in grado di realizzare.

In questo lasciar passare la vita senza esserne partecipi, la regista legge un monito per l’uomo contemporaneo: «Incapace di agire, mentre è assolutamente cosciente che il mondo che lo circonda sta cadendo a pezzi».

 

Maria La Barbera

 

INFO: Tel. 011 5169555 – Numero verde 800235333 – info@teatrostabiletorino.it

Teatro: Carignano, Piazza Carignano 6, Torino

Orari degli spettacoli: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.45; domenica, ore 15.30. Lunedì riposo.

Date di programmazione dello spettacolo al Carignano: dal 7 al 26 gennaio 2020

Prezzi dei biglietti: Settore A: Intero € 37,00. Ridotto di legge € 34,00 – Settore B: Intero € 31,00. Ridotto di legge € 28,00

Biglietterie del Teatro Stabile di Torino:

TEATRO GOBETTI (Via Rossini 8, Torino). Telefono: 011 5169555

dal martedì al sabato, dalle ore 13.00 alle ore 19.00. Domenica e lunedì riposo.

Orari apertura biglietteria il 24 dicembre dalle ore 10.00 alle ore 17.00 e il 31 dicembre dalle ore 13.00 alle ore 19.00. La Biglietteria del Gobetti resterà chiusa nei giorni 23, 25, 26, 29 e 30 dicembre.

TEATRO CARIGNANO (Piazza Carignano 6, Torino). Telefono: 011 5169484

venerdì, sabato e domenica, dalle ore 15.00 alle ore 19.00

Nei giorni 23, 27, 28, 29, 30, 31 dicembre 2019 la biglietteria del Carignano sarà aperta dalle ore 15.00/19.00. Resterà chiusa nei giorni 24, 25, 26 dicembre.

 

Apertura biglietteria del teatro a partire da un’ora e mezza prima dell’inizio dello spettacolo.

Vendita on-line: www.teatrostabiletorino.it

Note colorate, una serata all’insegna di arte e solidarietà

Gli appuntamenti natalizi non finiscono mai: sabato 13 dicembre è il turno della serata Note colorate, dedicata all’arte in tutte le sue forme.

L’evento Note colorate, che avrà luogo sabato 13 dicembre, promette di passare una serata circondati dall’arte e dalla musica. Dove? In Via Druento 30 (angolo via Venaria). 

A partire dalle 19:30 si potrà visitare la mostra d’arte e per l’occasione si esibirà il gruppo musicale LABBANDA. Nel repertorio c’è spazio per il meglio dello swing italiano e straniero: da Buscaglione a Carosone, passando per la samba del Brasile per poi tornare in Francia con La Vie En Rose, e ancora molto altro. 

In serata è previsto anche l’intervento di Ornella Demo di Servizio Cani Guida Lions, che spiegherà l’importanza del centro di addestramento di Limbiate, un’eccellenza nella selezione e nell’addestramento di cani per accompagnamento di persone non vedenti. Servizio Cani Guida Lions è una Onlus che addestra e consegna gratuitamente cani guida ai non vedenti su tutto il territorio nazionale, dal 1959, ed è una delle realtà europee più importanti.

Dove e Quando 

Note colorate, in Piazza dell’arte Torino
Via Druento, 30 (angolo via Venaria)
10148 Torino
Ore 19:30

L’Harlem Gospel Choir si esibisce a Nichelino

Sabato 14 dicembre l’Harlem Gospel Choir, il più famoso coro gospel d’America arriva in città.

L’Harlem Gospel Choir è letteralmente il più famoso e longevo coro gospel d’America. L’appuntamento è a Nichelino, presso il Teatro Superga, sabato 14 dicembre. 

Il coro è stato fondato nel 1986 da Allen Bailey per le celebrazioni in onore di Martin Luther King e vanta le più raffinate voci e i migliori musicisti delle Chiese Nere di Harlem e New York CIty. 

L’Harlem Gospel Choir e le celebrità

Non solo: è l’unico coro al mondo ad essersi esibito per moltissime celebrità, tra cui i due Papi (Giovanni Paolo II e Benedetto XVI), la Famiglia Reale, Nelson Mandela e due presidenti degli Stati Uniti d’America (Jimmy Carter e Barack Obama). E non si contano le celebrità che hanno collaborato con loro (Dagli U2 a Pharrell Williams). 

Dove e quando

Sabato 14 dicembre, ore 21

Teatro Superga, via Superga 44, Nichelino (TO)

Per ulteriori informazioni e per acquistare i biglietti: www.teatrosuperga.it

Tel. 011 6279789

mail: biglietteria@teatrosuperga.it

 

Carmen nella Spagna di Franco

L’opera,  ambientata nella Spagna franchista, è protagonista al teatro Regio di Torino per la direzione del giovane Giacomo Sagripanti e la regia di Stephen Medcalf

 

Carmen, il capolavoro di Georges Bizet, è riproposto in scena al teatro Regio di Torino da martedì 10 dicembre alle ore 20. A guidare l’Orchestra del Teatro Regio sarà, per la prima volta, il maestro Giacomo Sagripanti, vincitore degli International Open Awards quale giovane direttore emergente, e poi distintosi come interprete del repertorio lirico e del Bel canto presso La Fenice di Venezia, la Openhaus di Zurigo, l’Opera di Parigi. A firmare l’allestimento in cui è ambientata la tragica e passionale vicenda della gitana, simbolo della libertà e vittima emblematica del femminicidio, è Stephen Medcalf. La regia è stata creata per il Teatro Lirico di Cagliari nel 2005 ed ha conquistato il Premio Abbiati 2006 quale miglior regia d’opera.

Il dramma di Bizet, originariamente ambientato nel primo ventennio dell’Ottocento, viene trasposto nella Spagna franchista, a guerra civile appena conclusa. Scene e costumi sono stati realizzati da Jamie Vartan e riescono a delineare uno spazio claustrofobico, seppur in continuo movimento. Su di esso si aprono e si richiudono le prospettive della fabbrica di sigari, della locanda di Lillas Pastia e della plaza de toros. Lo spettatore assiste anche all’atterraggio di un aereo nei pressi di un covo di contrabbandieri.

Nel ruolo di Carmen debutta al Teatro Regio il mezzosoprano franco armeno Varduhi Abrahamyan, interprete di grande bravura di un repertorio che spazia da Handel a Rossini, da Verdi a Cajkovskij. La sua voce, scura e piena, si accompagna al carattere sensuale tipico del personaggio di Carmen. Andrea Care’ è l’interprete del ruolo di don José, nel quale ha debuttato nel 2009; allievo di Luciano Pavarotti, è stato vincitore del Concorso Internazionale di Spoleto nel 2005. Ciò che più turbo’ il pubblico parigino durante la prima di Carmen non fu tanto il suo finale tragico, quanto l’assoluto realismo dell’opera, i cui protagonisti erano soggetti tratti dal proletariato urbano contemporaneo al compositore. Georges Bizet iniziò a lavorare alla Carmen nel 1875, fu la sua ultima opera, un capolavoro che non venne riconosciuto immediatamente come tale. Il successo giunse dopo la morte dell’autore, che incontro’ una certa difficoltà a trovare l’interprete femminile per un ruolo così complesso come quello di Carmen. Alla fine la scelta cadde su Celestine Galli-Marie’, che si rivelò una buona alleata di Bizet nel sostenere che la trama dell’opera, nonostante le insistenze da parte della direzione artistica, non andasse modificata.

 

Mara Martellotta

La solitudine di un uomo e gli affetti mancati

Al Carignano “Si nota all’imbrunire”, testo e regia di Lucia Calamaro

Il suo essersi nascosto in un paese abbandonato, dove ancora sopravvivono una manciata di persone, il trascorrere delle giornate l’una eguale all’altra, quella malattia di “solitudine sociale” che da tempo lo ha colpito, quel simbolico rifiuto a muoversi, a camminare, ad alzarsi da sedie a sdraio o da piccoli divani, il dialogo a tratti spento, sbocconcellato, rivolto in forma di monologo ad uno spettatore cui chiedere aiuto o solidarietà, le delusioni, i rifiuti, lo scetticismo continuo, il fastidio nel sentirsi vicini gli altri e proprio in quel dialogo che dovrebbe accomunare: è la vita di Silvio, una sorta di stilita pinelliano del nuovo millennio, è questa, ormai consolidata, appartata, solitaria, vuota d’affetti e d’umanità. A nulla serve la visita dei tre figli e del fratello maggiore, in occasione del suo compleanno (tutto risolto nella presentazione di una povera torta, di cui il protagonista tristemente si diverte ad accendere e spegnere l’unica candelina) e dell’anniversario della morte dell’amatissima moglie (ci sarà da preparare le solite parole di circostanza, qualcuno cercherà il pensiero profondo o vorrà allungare l’intervento soltanto per farne un bel “pezzo): anzi, mentre si cerca di arrivare al cuore, sarà l’occasione per far crescere l’astio, le incomprensioni, la incomunicabilità che da sempre la fa da padrone in famiglia. Una visita che è l’occasione per sfoderare piccole e grandi frustrazioni, rimpianti ed egoismi, incontri a due, in regolare cadenza, che dovrebbero portare ad affettuosi chiarimenti ma che al contrario allargano ancor più il solco creatosi tra quei famigliari.

Lucia Calamaro, autrice e regista di Si nota all’imbrunire (non so quanto chiarificatore il titolo), in scena sino a domenica per il cartellone del Teatro Stabile di Torino -Teatro Nazionale, scommette a ragione sulle proprie buone intenzioni ma si arena strada facendo, costruisce il ritratto della solitudine di un uomo con una serie di eleganti quanto accattivanti monologhi, di quotidiane riflessioni, di scene dove lo spazio è completamente riempito di sensazioni, di innocue citazioni, di tentativi di allentare la tensione con sprazzi di divertimento e di dar vita e rotondità ai personaggi (a cancellare divisioni in palcoscenico ogni personaggio mantiene il nome del suo interprete), usando un linguaggio alto e ricercato che non poche volte fa a pugni proprio con quella quotidianità (ma chi oggi usa ancora il temine “foriero”?): la commedia, che dramma non diviene mai, ma che al contrario nel finale s’affievolisce in un tranquillo sogno del protagonista, non si forma, non prende corpo né sviluppo, non un’azione o più azioni forti che consolidino e si facciano materia teatrale. Nella scena azzurrina inventata da Roberto Crea, pareti trasparenti e a tratti ingombranti, Silvio Orlando, con quel viso da clown triste, con quei rimandi lasciati cadere imperturbabili nel vuoto e nell’assenza, con quel muoversi stanco e rassegnato ma anche con quel misto di ironia e piccola perfidia, di ricercate dolcezze e scatti d’ira, è l’interprete appropriato che raccoglie i numerosi applausi del pubblico; tra gli altri, Alice Rendini, Maria Laura Rondanini e Roberto Nobili, scivolato in scena dalla Vigata di Montalbano, forte del suo essere più sfaccettato personaggio, Vincenzo Nemolato si ritaglia uno spazio maggiore, simpaticamente deciso.

 

Elio Rabbione

 

Le foto dello spettacolo sono di Maria Laura Antonelli

“Scintillae”… di cultura alla Biblioteca Civica di Moncalieri

Luci d’artista natalizie firmate “Progetto Cantoregi” all’ex fabbrica di fiammiferi: un omaggio a libri, lettura e biblioteche

Da venerdì 13 dicembre a lunedì 6 gennaio 2020

Torna a produrre scintille, ma questa volta luminosissime scintille di cultura, l’antica SAFFA di Moncalieri, fabbrica di fiammiferi fondata nella seconda metà dell’ ‘800 e dal 1995 sede della Biblioteca Civica “Antonio Arduino”, progettata nel lontano 1914 dall’insegnante Erminia Arduino come “ biblioteca popolare circolante” e, dopo varie migrazioni, definitivamente ospitata al civico 31 di via Cavour, mirabile esempio di recupero industriale, come quello delle Fonderie Teatrali Limone sempre a Moncalieri in zona Borgo Mercato. Scintille, o meglio come recita il titolo del progetto, “Scintillae” di cultura, come quelle che, dal prossimo venerdì 13 dicembre (inaugurazione alle 19) a lunedì 6 gennaio 2020, illumineranno la Biblioteca Civica moncalierese, attraverso un originale e artistico allestimento curato da “Progetto Cantoregi” (la compagnia teatrale carignanese fondata nel 1977 dal regista e autore Vincenzo Gamna) su ideazione di Koji Miyazaki, ex regista Rai, e sostenuto dalla Città di Moncalieri, come faville metaforiche capaci di stimolare e risvegliare menti e coscienze, rimarcando il ruolo culturalmente e socialmente insostituibile delle biblioteche”. Ad ispirare l’evento, precisa “Progetto Cantoregi”, la celebre frase di Plutarco: “La mente non ha bisogno, come un vaso, d’essere riempita, ma, come un fuoco da ardere, necessita solo di una scintilla che l’accenda, che vi infonda l’impulso alla ricerca e il desiderio della verità.

“Il progetto – dice l’Assessore alla Cultura di Moncalieri Laura Pompeo – si inserisce nel percorso di arte pubblica che stiamo proponendo da tempo, con l’idea di diffondere la bellezza e la luce del Natale non solo nello straordinario centro storico della nostra città, ma anche in una via che potrebbe sembrare solo di passaggio, come via Cavour, e che grazie a ‘Scintillae’ diventerà per alcune settimane sede di luci d’artista”.

“Scintillae” è la terza iniziativa che “Progetto Cantoregi” realizza a Moncalieri, dopo l’istallazione luminosa “The Bridge-Bulders”, che durante le festività natalizie 2016 aveva illuminato il Ponte dei Cavalieri della città, come atto politico e gesto simbolico contro i troppi muri che si innalzano nel mondo e “Il giardino delle delizie”, istallazione allestita nel Giardino delle Rose del Castello Reale nel maggio 2017, come riflessione sulla necessità di preservare la terra e i suoi frutti.

 

Questo nuovo progetto vedrà l’applicazione di“frammenti di lastre in policarbonato- spiega il presidente di Progetto Cantoregi  Marco Pautasso – ai bordi delle venti finestre del secondo piano della Biblioteca che, retroilluminate a luce blu, riprodurranno le forme di stalagmiti e stalattiti di ghiaccio, a simboleggiare l’aridità e povertà culturale che deriva dalla mancata trasmissione della conoscenza, dalla chiusura ad ogni esperienza conoscitiva”. E ancora: “L’ esplorazione della realtà, della società, dei sentimenti e delle emozioni, la presa di consapevolezza del mondo, dell’altro da sé, di terre e culture lontane passa attraverso la ricerca della verità e quindi attraverso i libri e la lettura, vere e proprie scintille che accendono la mente. Sarà quindi una intensa luce rossa che si ‘infiamma’ all’improvviso a rappresentare il valore fondamentale degli strumenti per decifrare la realtà quali i libri sono”.

L’immagine guida dell’allestimento è stata ideata e disegnata dall’artista racconigese Rodolfo Allasia.

 

g.m.

 

Per info: Biblioteca Civica “Antonio Arduino”, via Cavour 31, Moncalieri (Torino), tel. 011/6401611 o www.comune.moncalieri.to.it/biblio o www.progettocantoregi.it  

 

Nelle foto
– Biblioteca Civica di Moncalieri
– Immagine guida di “Scintillae”

 

“E iliadi di corpi trascendono la mia condizione”

POESIA / ASTERIO  di Alessia Savoini

Ch’ “ogni cosa esiste più d’una volta, infinite volte”.

L’osservai
(:eremo)
al patibolo del possibile;

la sua causa gli fu condanna

e quivi stava
in attesa della sua virgo,

per l’espiazione d’una sete edonica,
sul crinale flebile del bivio,

a consumare
il plesso – lunare- del recesso.

Tutto era taciuto
fuorché grida
del suo [appetitoso] incesto.

Ne udii il lamento
“fui dell’uomo
la sua medesima condizione
o della bestia
la sua parte più sensibile?”

Mi vide.

Sopraggiunse
e d’ira
si accesero, – alle mie istanze -,
i vermigli della penombra.

Aggredì il suo atto,
sovvertì l’istinto,
confuse gli aneliti.

Mi afferrò i capelli e mi scoprì i seni,
soffocò il respiro
costringendomi in ginocchio
e con la bocca sorbire
la resina dell’estasi.

Vendicò (me:)
Arianna
nell’incavo umido dell’edonismo.
Mi legò i polsi
con il filo del suo inganno
e in questo
avea saputo precedere
ogni fittizia resistenza
del mio bramar il suo
ibrido corpo.

Dedalus
nel circuito pulsionale dell’erranza
imprigionò
i sepolcri incustoditi d’un desio indomabile
e tale condanna dissipò,
negli antri del mio ardore,
fiumi di ardesia.

Si nutrì degli acini acerbi di una vergine carnale,
nella dimora dell’illecito,
ai confini della percezione dell’errore,
insinuando perversamente le dita
nella fessura delle mie labbra,
ungendo di saliva l’estuario della mia libido,
graffiando la cenere
della sua estorsione.

“Nostro peccato fu ermafrodito;
ma perché non servammo umana legge,
seguendo come bestie l’aperitivo,

in obbrobrio di noi, per noi si legge,
quando partinci, il nome di colei
che s’imbestiò ne le ‘mbestiate schegge.”

(Borges, La casa di Asterione)
(Dante, Purgatorio, canto XXVI, vv. 86-87)

 

Leggi qui:

“Curare con la parola”. Microprovincia festeggia i suoi primi 40 anni

Con una monografia dedicata al grande psichiatra Eugenio Borgna

E’ nelle librerie l’ultimo numero di Microprovincia, la rivista di letteratura fondata nel 1979 a Stresa dal poeta Franco Esposito. Tra le più longeve nel panorama italiano,la rivista – pubblicata in origine dalle Edizioni Rosminiane Sodalitas ed ora  dalla novarese Interlinea Edizioni – dedica annualmente un numero monografico a personalità che hanno lasciato un segno importante nella cultura italiana ed europea.

 

Un appuntamento ormai classico, atteso da tanti amanti delle buone letture, che ha visto Franco Esposito e molti altri scrittori e intellettuali occuparsi negli ultimi numeri di Enrico Emanuelli, Mario Soldati, Sebastiano Vassalli, Vincenzo Consolo, dopo aver dedicato interi volumi anche a Clemente Rebora, Piero Chiara, Antonio Rosmini, Sandro Sinigaglia, Gianfranco Contini e tanti altri. Il numero del quarantennale di Microprovincia (il 54°,per l’esattezza) s’intitola “Eugenio Borgna.Curare con la parola” ed è interamente dedicato, con interviste e testimonianze,  ad uno dei protagonisti e maggiori autori della psichiatria italiana alla vigilia dei novant’anni:. Borgna, nato a Borgomanero nel novarese il 22 luglio del 1930, ha riassunto così la sua incredibile storia lunga pcoo meno di un secolo: “La psichiatria ha cambiato la mia vita, è stata il mio destino”. Eugenio Borgna  è stato libero docente alla Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università degli Studi di Milano, primario emerito di Psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara, nonché autore – come scrisse la giornalista di Repubblica Giuliana Sica, prematuramente scomparsa nel 2013, ” di libri bellissimi su temi sempre uguali e sempre diversi, sull’arcipelago delle emozioni che abitano la nostra vita interiore come la nostalgia e i sentimenti di colpa, l’inquietudine e la disperazione, l’ansia e i rimpianti, le attese e le speranze, la gioia e la solitudine“.Tra i suoi successi editoriali, Le parole che ci salvano (Einaudi) e La solitudine dell’anima (Feltrinelli). La scrittura e il pensiero di Borgna rifuggono dal linguaggio dello specialismo e propongono il costante incontro e confronto con la grande letteratura, da Proust a Thomas Mann a Goethe, e la poesia, da Emily Dickinson a Giacomo Leopardi. Un numero prezioso, questo di Microprovincia, e proprio per questo molto atteso. Il volume ospita i testi di Pierfranco Bruni, Barbara Castellaro, Marina Corradi, Andrea Dallapina, Luca Doninelli, Gillo Dorfles, Raffaele Fattalini, Angelo Gaccione, Umberto Galimberti, Giulio Giorello, Antonio Gnoli, Gianmaria Messina, Umberto Muratore, Ercole Pelizzone, Giannino Piana, Giovanni Scarafile, Gabriele Scaramuzza e Luciana Sica.

Marco Travaglini

Lazzaretti. Fu delitto di Stato

David Lazzaretti, barrocciaio autodidatta, nel 1868, ricevuta ‘l’illuminazione’ a 34 anni, iniziò nella regione del Monte Amiata una predicazione millenaristica di totale rinnovamento religioso. Dapprima il Governo e la Chiesa guardarono a lui con occhio benevolo, pensando di poterne sfruttare la figura nei difficili anni successivi all’Unità d’Italia, ma quando fondò una comunità cristiana su basi solidaristiche e giunse  a proporre una nuova cosmogonia che lo voleva ‘secondo figlio  di Dio’ accanto a Gesù i potenti lo abbandonarono e una pallottola in fronte in uno scontro con la forza pubblica pose fine alla sua vita.

Sabato il Centro Studi che porta il suo nome, di Arcidosso, in Provincia di Grosseto, in collaborazione con l’Archivio di Stato di Grosseto, il Museo delle Civiltà di Roma, l’Istituto centrale per la Demoetnoantropologia di Roma ha organizzato un convegno su ‘Il processo ai seguaci di David Lazzaretti – Corte d’Assise Siena 1879’ che si è svolto nella sala del consiglio comunale della città toscana. Tra i relatori c’era anche il Roberto Gremmo, autore, tra le sue diverse opere del libro ‘Davide Lazzaretti. Un delitto di Stato’ edito per i tipi di Storia Ribelle, nel 2002. Il suo contributo si è soffermato su ‘Il delegato di pubblica sicurezza Carlo De Luca al processo di Siena’. “C’è un legame con il Piemonte – spiega Gremmo, ricercatore e storico che si è soffermato più volte su aspetti in chiaroscuro della storia più o meno recente – ed è rappresentato da quel don Francesco Grignaschi al quale avevo dedicato nel 1997 un libro ‘Il Nuovo Messia e la Madonna Rossa’ andato da tempo esaurito”. In sostanza don Grignaschi, sacerdote della Val d’Ossola, in odore di eresia, venne allontanato dalla Diocesi di Novara, arrivò a Viarigi nell’Astigiano e si proclamò il ‘Cristo tornato sulla terra” e qui ebbe un seguito tra i contadini. Arrestato e cacciato in Francia scrisse un libro ‘Rivelazioni sull’Apocalisse’ che sarebbe stato scritto ‘alle sorgenti del Tevere’ e qui potrebbe avere avuto un collegamento con il giovane barrocciaio. Gremmo, nel suo intervento, si è soffermato sul particolare del carabiniere che colpì a morte Lazzaretti, poi ucciso in circostanze misteriose e sul delegato di polizia presente sul posto, che sarebbe stato legato ai servizi segreti. Insomma un mistero dell’Italia diventata da pochi anni uno Stato unitario, timorosa che quelle idee comnitarie di Lazzaretti potessero fare attecchire la pianta del socialismo utopistico del secolo scorso.

Alla figura di Lazzaretti ha dedicato anche un libro Arrigo Petacco qualche anno fa, ‘Il Cristo dell’Amiata’, mentre il vincitore di Sanremo, Simone Cristicchi ha portato in scena una piece teatrale a partire dal 2015.

Massimo Iaretti