Se la riduzione a occasione teatrale è il punto debole della serata

“Il fu Mattia Pascal”, dal romanzo di Pirandello, in scena all’Erba sino a domenica 15 dicembre

 

“Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal”. La battuta iniziale del romanzo che Luigi Pirandello scrisse nel 1903, per consegnarlo l’anno successivo alla “Nuova Antologia” a puntate, occasione forse dettata dalle gravi difficoltà economiche e dai pensieri di suicidio procurati dal tracollo finanziario familiare dovuto ad una frana che all’improvviso allagò la zolfara nella quale il padre Stefano aveva investito i propri averi e la dote di Maria Antonietta Portulano, moglie dell’autore.

Un romanzo dove tanti temi pirandelliani sono già presenti, l’introspezione esatta del protagonista, il costante vedersi vivere, l’essere e l’apparire, la realtà della quotidianità a confronto con quella che siamo obbligati a crearci, la maschera che indossiamo e con cui ci presentiamo agli altri. Nulla di più facile, come per tantissimi altri esempi, certi racconti coinvolti a divenire pagine teatrali, che Il fu Mattia Pascal abbia tutte le carte in regola per trovare la strada del palcoscenico. Fattane una riduzione che ne colleghi i vari momenti della narrazione e ne rispetti la vena intimista, il dramma personale, la negazione di se stesso. Ecco che allora, nello spettacolo in questi giorni all’Erba, appare subito chiaro che sia proprio questa riduzione, dovuta a Guglielmo Ferro, regista senza generosità di guizzi, e soprattutto a Daniele Pecci, interprete nella passata stagione del ruolo principale, che ha lasciato a Pino Quartullo, il punto debole della serata: soprattutto nella prima parte, nel chiuso della vecchia biblioteca di Miragno, tra polverosi titoli vecchi ormai di secoli pronti ad essere catalogati da un sacerdote anche disposto a ricevere le confessioni di Mattia. La discreta eredità di famiglia andata pressoché in fumo per la disonestà dell’amministratore, Batta Malagna, la vendetta di Mattia che ne compromette la nipote Romilda, che poi è costretto a sposare, l’inferno di quell’esistenza capovolta pure dalla presenza di una suocera che lo disprezza, l’insoddisfazione del piccolo incarico bancario: il tutto esclusivamente raccontato nel chiuso della scena inventata da Salvo Manciagli, alti scaffali scorrevoli che riempiono troppo l’ambiente e quasi lo soffocano, inventati per essere poi tenuti troppe volte fermi, oltre il bisogno, senza una scena che ne movimenti la piatta andatura, al di là delle opache apparizioni di questo o quel personaggio minore che certo non ha il potere di alzare la quota di staticità.

La sostanziosa vincita a Montecarlo, il soggiorno romano in casa dei Paleari (con un padrone di casa, Rosario Coppolino, che ha tra le mani forse le pagine più belle e vive del romanzo e se le gioca con grande divertimento: la tragedia d’Oreste, la lanterninosofia), l’operazione all’occhio malato, il furto di una parte del denaro di Mattia – che la sorte ha spinto a prendere il nome di Adriano Meis -, la seduta spiritica, alzano nella seconda parte il tono della rappresentazione, ma è solo perché questo tono trova in quegli episodi una maggiore materia teatrale che scuote e infervora lo svolgimento. Il ritorno alla realtà infelice di Miragno, davanti ad una famiglia ormai scomposta e nel chiuso della biblioteca a prendere appunti per i ricordi di una vita cancellata, chiude in un cerchio anonimo là dove si era iniziato. Al centro del quale Pino Quartullo non convince mai appieno, nei movimenti, nella varietà della voce, nell’approfondimento soprattutto di un personaggio che avrebbe necessità di una maggiore robustezza, di una più ispirata profondità.

 

Elio Rabbione

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