L’ Arcivescovo di Torino, cardinale Roberto Repole, ha fatto visita ieri, per la prima volta, all’Istituto di Candiolo – IRCCS. Accompagnato dal parroco e assistente religioso dell’Ospedale, don Carlo Chiomento, è stato ricevuto dal Presidente della Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro, Allegra Agnelli, dal Direttore Generale Gianmarco Sala, dal Direttore Generale dell’Istituto, Salvatore Nieddu, e dal Direttore Sanitario, Piero Fenu. Era presente anche la sindaca di Candiolo, Chiara Lamberti.
Un incontro speciale, che rafforza il valore della vicinanza, della speranza e del supporto alla cura e alla ricerca oncologica. Accolto con calore da medici, ricercatori, infermieri e pazienti, il Cardinale ha visitato i reparti di Medicina Interna e di Oncologia Medica e i laboratori di ricerca, cuore pulsante dell’innovazione scientifica per la ricerca contro il cancro. Gli sono state mostrate le più avanzate attrezzature tecnologiche di cui sono dotati e si è particolarmente interessato agli studi in corso per rendere sempre più efficaci le cure.
“Mi viene da pensare – ha detto Repole a conclusione della visita, guidando un momento di preghiera nella cappella dell’Istituto – che qui si possono toccare gli ‘abissi‘ dell’umanità, ma anche le ‘vette’. Ci sono, infatti, le ‘vette’ della ricerca in continua evoluzione, con grandi prospettive per la cura, e ci sono poi gli ‘abissi’, soprattutto della sofferenza. Quando guardiamo in profondità sia le ‘vette’ che gli ‘abissi’ allora impariamo a vivere conoscendo meglio la vita e intuendo anche qualcosa del Signore che per noi credenti in Cristo è all’origine delle ‘vette’ e Salvatore quando ci troviamo negli ‘abissi’”.

Nel riallestire, il divertimento rimane, innegabile e contagioso, ma tutto pare – inevitabilmente – un po’ lontano, sbiadito, legato a un’epoca che è stata, morta e sepolta, anch’essa con le sue grandi gioie e i piccoli dolori, con i sorrisi, con l’estate (magari eguale a mille altre, pensate a Maurizio Arena e Renato Salvatori a inseguire Marisa Allasio pochi anni prima!) che sta finendo e con i Righeira che su quelle stesse spiagge imperversavano: nonostante sul buon Johnson – come sui Duran Duran un ventennio appresso, e allora ti sei chiesto per un attimo sere fa se il fascinoso Simon Le Bon l’abbiano lasciato a casa, a salvaguardarsi con impacchi di naftalina – il pubblico sanremese abbia fatto scrosciare applausi su applausi, in mezzo ai mille “cuoricini”, e quindi qualcosa ancora circoli con buona pace dei troppo troppo boomer, fai fatica a ritrovare quei caratteri, freschi giovanili ma incisivi, capaci di disegnare un’epoca, di stabilire ancora una volta la loro esatta importanza, non giocattoli tante volte inespressivi come la Barbie di Greta Gerwig. Nascono episodi, piccoli piccoli, che a volte s’ingolfano e si sgonfiano, s’intrecciano personaggi che sudano le sette camice (tralasciamo le voci, affaticate alcune oltre il dovuto, disinvolte sì ma falsate, bruttarelle come le tante ascoltate al Festivalone: ma non si può essere tutti Giorgia) ma quei caratteri è difficile ritrovarli e riscaldarli nuovamente. Sapete quel che fa gioia ritrovare? quei costumi con trucco e parrucco firmati da Diego Dalla Palma, le scenografie di Clara Abruzzese fatte di godibili siparietti (c’è anche posto laggiù in fondo per la band tutta da apprezzare) e le coreografie sbarazzine di Rita Pivano, soprattutto quel bignami della musica leggera dell’epoca che ti accompagna per tre ore, quei cinquanta brani cinquanta che ti riempiono ancora il cuore: tanto Morandi (corse ai cento all’ora e piogge che scendono e ritorni all’amata in ginocchio) e Pavone (cuori che soffrono, e geghegé, balli sulla stessa mattonella e martelli da dare in testa alla smorfiosa di turno che tenta di fregartelo), Edoardo Vianello a spandere come Mina e Pino Donaggio, il Modugno immancabile e l’Endrigo di “Io che amo solo te”, la bambola della Patty e una spruzzata di Bobby Solo e di Rocky Roberts, il giusto contributo di Caselli e di Celentano, di Paoli per cui esistono un cielo in una stanza e quel sapore di sale stampato sulle labbra della Sandrelli, il mondo di Fontana e anche quei giorni che hanno fatto la felicità di tal Santino Rocchetti. Un mondo da guardare col cannocchiale, dalla poltrona rossa, tutt’intorno la leggerezza degli autori: dice Vanzina che la leggerezza non è una sciocchezza, “è la profondità della gioia quando è vera”. E in questo, dopo anni, ha ancora ragione lui.
