ilTorinese

Venerdì 8 sciopero dei mezzi pubblici

Venerdì 8 novembre 2024 è previsto uno sciopero nazionale della durata di 24 ore del servizio di trasporto pubblico locale per il rinnovo del CCNL Autoferrotranvieri, proclamato dalle OO.SS. Filt-Cgil, Fit-Cisl, UilTrasporti, Faisa-Cisal e Ugl Autoferro senza il rispetto delle fasce di garanzia.

Pertanto il servizio di trasporto pubblico locale sarà garantito come da Delibera della Commissione di Garanzia n. 02/183 e così come previsto dalla L. 146/90 (modificata dalla L. 83/2000) e dall’accordo sindacale del 16/10/2024 come di seguito indicato.

SERVIZIO URBANO–SUBURBANO.

Linee parzialmente garantite* dalle ore 6.00 alle ore 9.00 e dalle ore 12.00 alle ore 15.00:

METROPOLITANA – 2 – 3 – 4 – 4N – 5 – 8 – 9 – 10 – 11 – 13 – 15 – 17 – 18 – 35 – 36 – 55 – 68.

* Sarà assicurato il completamento delle corse in partenza entro il termine delle fasce orarie indicate.

SERVIZIO EXTRAURBANO.

Per conoscere le corse garantite da inizio servizio alle ore 8.00 e dalle ore 14.30 alle ore 17.30, CLICCA QUI.

 

CENTRI DI SERVIZI AL CLIENTE E ALTRI SPORTELLI GTT.

Dalle ore 6.00 alle ore 9.00 e dalle ore 12.00 alle ore 15.00 sarà garantito il 30 % del servizio programmato.

Lo sciopero potrà avere ripercussioni anche sui diversi servizi gestiti da GTT, con conseguenti possibili disagi per la clientela.

Sciopero trasporto pubblico venerdì 8: servizio al 30% senza fasce di garanzia

Le aziende del trasporto pubblico locale piemontese hanno comunicato in queste ore all’assessorato ai trasporti della Regione Piemonte le modalità dello sciopero dell’8 novembre.
Tali modalità sono completamente differenti rispetto alle precedenti e pur prevedendo la copertura del servizio al 30% non hanno, come nei casi gia vissuti, fasce orarie di tutela per l’utenza.
Per tali motivi, corre l’obbligo di informare preventivamente l’utenza che nella giornata di venerdì potrebbero verificarsi gravi disservizi che metteranno a rischio i collegamenti, anche quelli scolastici, che però derivano da un legittimo diritto allo sciopero.
Nella mattinata di ieri si è tenuto un incontro con l’ufficio scolastico regionale e con quelli provinciali per condividere e diffondere il più possibile queste informazioni dal quale è scaturita una nota tecnica che segue:
Le Organizzazioni sindacali autoferrotranvieri Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Faisa-Cisal e Ugl-Fna hanno proclamato uno sciopero nazionale di 24 ore per la giornata di venerdì 8 novembre p.v. che consente, in questa singolare occasione, di non rispettare a pieno le consuete fasce di garanzia (dalle 6.00 alle 9.00 e dalle 12.00 alle 15.00).
Si evidenzia pertanto che nella giornata dell’8 novembre si verificherà una drastica riduzione del servizio con linee che non potranno essere garantite dalle stesse società che svolgono i servizi TPL o con corse che, seppure garantite, non avranno a disposizione un numero di mezzi tale da soddisfare la normale domanda dell’utenza (principalmente studenti e lavoratori).
Si invita pertanto l’utenza, in particolare i genitori degli studenti, a consultare i siti web o i comunicati delle aziende per verificare quali servizi e linee potranno essere garantite, consapevoli che si verificheranno comunque condizioni di sovraffollamento tali da determinale la concreta possibilità di lasciare un significativo numero di studenti e lavoratori alle fermate dei mezzi.
Lo sciopero indetto per la giornata dell’8 novembre, come previsto dalla normativa di settore in materia, consentirà infatti ai lavoratori del comparto di partecipare ad una manifestazione unitaria, con modalità di adesione allo sciopero tale da prevedere obbligatoriamente la garanzia dei soli trasporti “assolutamente indispensabili” per la generalità degli utenti nonché di quelli specializzati di particolare rilevanza sociale (quale il trasporto dei disabili e i mezzi scuolabus relativi alle scuole materne ed elementari).
Le aziende che svolgono servizi di trasporto pubblico locale si sono pertanto confrontate con il sindacato locale e comunicato i servizi considerati assolutamente indispensabili, tenendo conto che, ferma la garanzia di effettuazione dei servizi di rilevanza sociale sopra citati (trasporto disabili e scuolabus dedicati per le scuole materne ed elementari), dovranno essere garantiti i servizi programmati solo nelle fasce di garanzia e con l’impiego del 30% massimo del personale viaggiante normalmente programmato.
Sono comunque  garantiti per tutta la giornata i servizi da e per l’Aeroporto di Malpensa e il servizio da Torino per Caselle Aeroporto sia Diretto che stradale nelle fasce di garanzia.

Mia madre e i ricordi di un tempo

IL RACCONTO  Di Marco Travaglini

Da mia madre ho imparato a tenere gli occhi aperti sulla vita. L’ho molto preoccupata quando, a pochi mesi, siamo stati sul punto di lasciarci a causa di una brutta gastroenterite che, a quell’epoca, era una delle cause di morte tra i neonati. Andò bene e l’unica conseguenza, passata la crisi acuta, fu la separazione (non consensuale ma necessaria) tra me e il latte. Un distacco non irreversibile che si protrasse comunque nel tempo, per molti anni. Di quei tempi ricordo bene i bagni nel mastello di zinco, al tepore della stufa a legna, sulla quale veniva fatto bollire il calderone dell’acqua. Le comodità, allora, avevano un loro prezzo. Per l’espletamento dei bisogni corporali, ad esempio, era necessario imboccare l’uscio di casa, percorrere due ballatoi e altrettante rampe di scale nella casa di ringhiera dove abitavamo ( e dove sono nato). Lì, nel sottoscala del locale dov’era il lavatoio, era stato ricavato un essenziale bagno alla turca. L’acqua potabile? Un lusso che in casa nostra non ci potevamo permettere. Dal rubinetto scendeva quella captata direttamente dal torrente Selvaspessa , con tutto ciò che l’accompagnava, dai residui di foglie ai piccoli animaletti che s’intrufolavano – loro malgrado – nella conduttura idraulica. E allora, per bere? S’andava a far rifornimento con fiaschi e bottiglioni alla fontana pubblica, distante quasi un chilometro, su in Tranquilla. Anche per l’energia elettrica c’era da tribolare. Nelle prese domestiche la tensione era di 160 volt e non c’era la terra. Poi tutto venne unificato ai 220 V monofase e, per far funzionare il frigorifero e la Tv (in bianco e nero, ovviamente), si rese necessario l’utilizzo di due trasformatori di corrente. Nonostante ciò, la nostra relativa povertà era più che dignitosa. Eravamo sempre puliti, mio fratello e io, vestiti con semplicità ma non goffi, e sulla tavola c’era l’essenziale. Mai troppo, mai troppo poco.

La lonza

E’ vero che, ad esempio, la lonza di maiale faccio fatica a guardarla con desiderio, visto e considerato che era l’unico “taglio” di carne che con una certa frequenza, transitava sulla nostra tavola. Ma è pur vero che c’erano anche quelli che la vedevano più raramente e, in fondo, s’era fortunati.

Avevamo un piccolo orto, diviso in “prose”, cioè in quelle strisce di terreno di varia ampiezza, sopraelevate sul livello del suolo e comprese tra due solchi, per smaltire celermente l’acqua piovana e non farla ristagnare. Lì si seminavano e crescevano le insalate, i porri, tal volta i fagioli che s’arrampicavano sulle “frasche” e ,più raramente, i pomodori. Ricordo quelle carote lunghe e arancio, sormontate dal ciuffo verde che, ripulite ben bene dal terriccio, si mangiavano così, crude, sgranocchiandole come i conigli.

Zio Edoardo

Mia madre, da giovinetta, aveva recitato anche nel teatro parrocchiale. Era spigliata, curiosa, intelligente. Amava leggere e le piaceva leggermi le favole che, da Milano, mi portava suo zio Edoardo. Lo zio di mia madre, basso di statura e mingherlino, con l’immancabile cravattina nera sulla camicia bianca (era anarchico e, in gioventù, aveva stretto amicizia anche con il regicida Gaetano Bresci, pur essendo d’indole mite e bonaria) ogni volta che veniva a Baveno mi portava dei libri bellissimi. Li ricordo con piacere quei bei cartonati spessi, illustrati a colori, con le fiabe di Esopo, dei fratelli Grimm e di La Fontaine. Li stampavano nella tipografia dove lavorava, vicino a Porta Ticinese. Fu lui a regalarmi il primo libro vero, quel Piccolo Alpino che era il capolavoro di Salvator Gotta. E anche il secondo, seppure postumo (morì poco prima): la Carica dei 101, con l’incredibile storia dei cani dalmata e della perfida Crudelia Demòn.

Il maestro Manzi

A leggere e scrivere imparai graffiando con il pennino ad inchiostro i fogli di carta grazie al maestro Manzi che curava alla tv la rubrica Non è mai troppo tardi. Sì, perché l’unica concessione al progresso vero era proprio la tv, che i nonni e i vicini venivano a vedere portandosi la sedia da casa. All’epoca il mezzo catodico incentivava la condivisione e attorno a programmi come Lascia o raddoppia, Il Musichiere o Campanile Sera si recuperava un senso di comunità, a differenza di oggi dove guardare la tv è diventata un rito individualista al cento per cento o poco meno. La tecnologia dell’epoca era quella che rea e anche le foto si scattavano con la Ferrania vinta con i punti delle figurine Mira Lanza che si trovavano nelle confezioni di detersivo.

Il rito di guardare le foto poteva ripetersi all’infinito ma c’era sempre quell’atmosfera d’attesa e di curiosità nel rivedere le immagini che testimoniavano visivamente i ricordi, le memorie. Mia madre era molto bella nella foto che la ritraeva imbracciando un fucile al tiro assegno del luna park. Lo era anche in compagnia di mio padre, una a fianco dell’altro, in piedi, in un prato, in posa ma non rigidi. E le mie prime foto: davanti alla torta con la candelina accesa del primo compleanno, con lo sguardo curioso e un po’ stranito dei bambini; nel prato davanti a casa, a due o tre anni, con la fisarmonica o sul lungolago di Baveno, con in mano una barchetta a vela, in calzoni corti e in testa un cappellino chiaro. Quelle con i nonni, rigorosamente a Natale, a tavola; o con mio fratello, più avanti, quando lui ne aveva tre e io nove. Lui seduto su di un camion di celluloide e io in piedi, con un libro in mano.

I nonni materni

Mia nonna Amalia, la madre di mia mamma, mi voleva un bene dell’anima. Insieme a mia zia Annetta si cavava gli occhi nell’infilare sui ventagli di carta le forcine brunite per capelli della ditta Wulf, racimolando qualche lira che integrava la magra pensione. Ma non mancava mai di darmi le cinquanta o cento lire per comprarmi i fumetti dall’Attilio “Tillio” Zaccheo, titolare dell’edicola davanti alla piazza dell’Imbarcadero. Cosa non avrebbe fatto per quel suo nipote che ero io. Persino votare per il PCI, lei – democristiana fino al midollo – che aveva già accettato per amore e rispetto che sua figlia sposasse mio padre, che comunista lo era già al tempo suo. Ricordo quando apprese che il suo cantante preferito, Sergio Endrigo, era comunista: apriti cielo! Lo cancellò seduta stante dai suoi pensieri, relegandolo nella peggiore delle bolge dantesche. Eppure, come per suo genero, avrebbe fatto uno strappo alla regola per suo nipote, portando la sua scelta d’amore all’estrema conseguenza di mettere la croce sul simbolo della falce e martello impresso sulla scheda elettorale. Non lo poté fare solo perché morì prima ma non ho mai dubitato delle sue parole e dell’impegno che vi era contenuto. Anche mio nonno materno stravedeva per il suo primo nipote. Si chiamava Gerolamo ma per noi era il nonno Mèla. Erano, lui e la nonna, originari di Cesate, un paese a diciotto chilometri dal centro di Milano. A Baveno erano arrivati più tardi, sposandosi e allargando la famiglia con Annetta e Piermaria, mia madre. Mio nonno mi costruiva le tende degli indiani con lenzuola e tappeti e mi raccontava che, durante la prima guerra mondiale, si era addormentato mentre montava la guardia ad una polveriera dalle parti del lago di Misurina, sfinito e un po’ brillo per il cordiale che aveva bevuto a causa del mal di denti. Gli andò bene che nessuno s’accorse, altrimenti finiva al muro, fucilato per tradimento o diserzione. Non vide mai il fronte, per sua fortuna, e quando – tornando a casa, finita la guerra – si trovò ad imbarcarsi a Lovere, sul lago d’Iseo, prese il cappello piumato da bersagliere e lo lanciò in acqua, accompagnando il gesto di ribellione con parole che non mi sembra il caso di riportare ma che sono facilmente intuibili. Aveva una grande speranza, lui, convinto socialista: vedere presidente della Repubblica il “suo” Giuseppe Saragat. Morì poco prima che ciò accadesse e fu la seconda grande delusione, dopo quella che gli procurò mia madre con quella vecchia schedina della Sisal che, dopo averla giocata modificando le sue indicazioni, gli negò la gioia e la fortuna del tredici. Solo i buoni uffici di mia nonna e l’amore filiale gli impedirono di strangolare mia madre.

E i nonni paterni

Della madre di mio padre, la nonna Sofia, ho pochi ricordi, piuttosto nebulosi. Rammento che aveva, in una cassapanca in camera, un vecchio libro illustrato che ho letto e riletto, con la storia di Cappuccetto Rosso. E rammento le parole, terribili e forse dettate inconsapevolmente dalla malattia che la stava spegnendo, che rivolse a mia madre, indicandomi: “Lui ti darà tanti dispiaceri e ti farà soffrire”. Parole che mi sono restate impresse, incancellabili quasi fossero marchiare a fuoco sulla pelle. Con mio nonno Giuseppe, invece, il rapporto fu più intenso ma non facile, anzi piuttosto burrascoso. E’ pur vero che, per aver aizzato inconsapevolmente il mio cane Dick, provocai il suo azzannamento (una decina di punti di sutura in una mano) e che , artefice un mio cugino ben più grande, offrimmo a lui una finta caramella Golia che si rivelò una imitazione consistente in una cacca di capra modificata alla bisogna, ma pur considerando tutto ciò non ho mai capito la sua ostinata predilezione per mio fratello. Era più piccolo? Era più testardo e di carattere deciso? Gli assomigliava di più? Boh, fatto sta che il preferito era lui, e alla grande. Mi madre, per fortuna, prendeva le mie difese, come quella volta che, per sfuggire all’ira – giustificata anche se un poco eccessiva – del nonno, caddi rovinosamente sulle pietre del selciato. Ero uno scempio e mia madre mi curò le ferite alle labbra, ai gomiti e alle ginocchia. Ebbe parole dure di rimprovero verso il “Pepp” che, in realtà, non aveva torto, considerato che gli scherzi ai quali sottoponevo la sua pazienza avevano davvero superato i limiti. Le foglie delle magnolie generalmente grandi, ovali e coriacee, lasciate cadere a punta dall’alto sulla testa del nonno quand’era seduto su di un sasso, dopo che s’era tolto il cappello, facevano davvero male. E la sopportazione dell’uomo, pur avvezzo alle asprezze della Grande Guerra (che aveva fatto per intero, e al fronte) e del conflitto iberico (dove combatté per scelta e non per altrui imposizione a difesa della Repubblica) , non era illimitata come s’incaricò, aiutandosi con il bastone da passeggio, di rammentarmi direi tangibilmente. L’ultimo sgarbo del nonno, suo malgrado, si consumò a Carnevale nel 1967. Morì in quei giorni ed io che avevo una bella divisa blu e un imponente copricapo da austroungarico, non potei mettermi in maschera. Così, un paio d’anni dopo, quel che a me fu negato dal luttuoso evento, fu consentito a mio fratello che utilizzò il travestimento e si fece disegnare, per di più, un bel paio di baffi con il turacciolo di sughero bruciacchiato. Col tempo, poi, ho imparato ad amare mio nonno e anche mia nonna, ricostruendone la memoria nel mio personalissimo immaginario.

Il triangolo

Il triangolo non era una forma geometrica astratta ma un concretissimo prato recintato da un muretto che costituiva, appunto, un triangolo. Separava il viale alberato che dalla fabbrica di scardassi Shelling scendeva fino all’incrocio della passerella e del Circolo dalla via che portava dritto al centro di Oltrefiume. La strada che scendeva dalla Tranquilla si biforcava in quel punto e il triangolo, come un cuneo, stava lì in mezzo. Ci si divertiva un mondo, in quel prato. E nelle tiepide sere d’estate, accompagnati dalle mamme che chiacchieravano tra di loro sedute sul muretto, si trasformava nel nostro parco giochi. Mariolino, con la sua bici senza freni sul manubrio ( usava il piede destro, schiacciando il freno sulla ruota in corsa: pratica azzardata e perigliosa, con il rischio di infilare il piede tra i raggi della ruota in movimento) saggiò la tenuta del muro, schiantandosi come un kamikaze. Il muro tradì solo una superficiale scorticatura, la bici s’accartocciò, Mariolino provò l’ebbrezza del volo e la noia dell’ospedale, immobile, dolorante e ingessato. I primi gelati, come il mitico Mottarello, vennero consumati lì, al triangolo. Era buonissimo con panna ricoperta di cioccolato. Ne ho mangiati diversi, con avidità e sprezzo del pericolo che derivava dall’aver patito la gastroenterite, con le conseguenze all’apparato gastrointestinale che non mi sembra il caso di dettagliare.  Ricordo interminabili partite a calcio, sfide a mosca cieca e a nascondino (nonostante fossero pochi e scontati i nascondigli a disposizione in loco) e le lanterne. Anticipo la domanda, figlia di una legittima curiosità: le lanterne si ottenevano quand’era ormai buio trattenendo solo per pochi attimi le luminosissime lucciole nelle mani serrate a coppa. Si giocava anche con le figurine dei calciatori, sia quelle della Panini che le altre, quelle spesse di cartone che si trovavano nel distributore di chewingum (il “ciuingam”) a palline. Quella delle macchinette distributrici delle gomme americane sferiche e colorate, accompagnate dalle figurine cartonate, era un’idea degli americani e in Italia fece la sua apparizione insieme a me, nel 1957. Il gusto delle cicche era lo stesso e prescindeva dal colore delle stesse , mentre le figurine erano di diverse serie: dai calciatori agli aerei, dai ciclisti alle meraviglie del mondo. Ovviamente quelle a tema sportivo erano le più gettonate in periferia e chi possedeva le altre, non poteva che averle trovate smanettando qualche dispenser a Milano o in qualche altra grande città.

La scuola

Gli anni della scuola sono stati i più belli e sono passati in un battibaleno. Dal primo giorno, con il mio grembiule blu e il fiocco bianco storto (non so come mai, ma era sempre così, e persino nella foto ricordo classica è storto e si vede bene, così come le orecchie a sventola si notano a meraviglia), alle ultime lezioni nell’aula distaccata della vecchia scuola media, sulla statale che attraversa Baveno. Dalla prima cartella di cuoio marrone all’elastico per legare i libri, dal pennino per fare le aste e i rampini in prima elementare (una sofferenza, per me che sapevo scrivere) alle Bic e alle stilografiche con cannuccia.

Un lungo percorso dall’anno in cui usciva il primo album dei Beatles, Valentina Tereshkova era la prima donna lanciata nello spazio, moriva a Dallas John Kennedy e Martin Luther King pronunciava il suo celebre I have a dream fino all’anno in cui a Londra aprirono il primo Hard Rock Café, Greenpace e Medici senza Frontiere iniziarono la loro attività e John Lennon pubblicò Imagine («Immagina non ci siano nazioni [..] niente per cui uccidere e morire e nessuna religione. Immagina che tutti vivano la loro vita in pace»). Lì, racchiusa in otto anni, c’è tutta l’evoluzione storica del paese e quella mia, individuale e scolastica. Comprese le discussioni, in prima elementare, davanti ai cartelloni elettorali al tempo delle votazioni. Ricordo bene quando sostenni che mio papà avrebbe scelto quel simbolo con la bandiera italiana, in un infantile sentimento patriottico, ignorando che si trattava del simbolo del partito Liberale che difficilmente poteva entrare nel cuore del genitore che, pur senza eccessi, era fieramente comunista. Quegli anni passarono veloci. Poi, venne il giorno del grande dispiacere per mia madre (e per mio padre): la rinuncia ad andare alle superiori e la scelta di andare in fabbrica, a lavorare. Ricordo quel primo ottobre del 1971 con la radio che annunciava l’avvio dell’anno scolastico mentre io ero a casa, in attesa di compiere i miei 14 anni ed andare a lavorare alla CAM (Costruzioni Attrezzature Meccaniche) dal signor Viola Valentino, dove prestai poi la mia opera fino al giugno del 1977. Mia madre era affranta, dispiaciuta. Mio padre si dava un tono, ma non era contento neppure lui. Agli insegnanti dopo l’esame di terza media (superato con l’ottimo) avevo raccontato che avrei scelto la scuola più adatta ma che non avevo ancora deciso quale fosse. Una pietosa bugia, onde evitare che accarezzassero l’idea di studiare qualche sistema per indurmi ad un supplemento di riflessione, evitando di abbandonare gli studi per intraprendere la vita dell’operaio metalmeccanico.

La triste estate del 1970

Terminata la scuola, dalla quinta elementare in poi, d’estate m’ingegnavo a fare qualche lavoretto (spolverare le cartoline e mettere in ordine il negozio di un tabaccaio, aiutare un venditore di scarpe al mercato del lunedì) per racimolare qualche mancia che poi mi sarebbe servita per l’acquisto dei testi scolastici. Lo posso dire con un poco di vanto: alle media i miei genitori non hanno dovuto spendere una lira per libri e quaderni perché vi ho provveduto da solo, impegnando i miei risparmi. L’unica estate dove ho avuto qualche difficoltà fu quella del millenovecentosettanta. Mia madre non stette per niente bene. A causa di un forte esaurimento nervoso si rese necessario il suo ricovero temporaneo presso l’ospedale Sant’Antonio Abate di Gallarate. Soffrì molto e non voleva vedere nessuno, tranne me. Così, a poco più di dodici anni e mezzo, mi trovai a fare la spola tra casa e ospedale, tra Baveno e Gallarate, viaggiando in treno. L visite erano consentite nel tardo pomeriggio e il treno del ritorno partiva dal comune varesotto attorno alle 21,30. Con un fumetto da leggere e la mia borsa del cambio dei vestiti, stavo lì nella sala d’aspetto per più di un’ora, attendendo l’accelerato che da Milano andava a Domodossola. Una sera capitò un episodio che mi è rimasto impresso. Un uomo, d’età indefinibile e con un fare untuoso, s’avvicinò e mi fece un sacco di domande: come mi chiamassi, da dove venivo, dove abitavo, perché ero lì, solo, a quell’ora e così via. Io cortesemente risposi per buona educazione ma non mi piaceva quell’insistenza e quando mi chiese di andare a casa sua, non solo declinai decisamente l’invito ma, alzatomi, mi recai davanti alla vetrata dell’ufficio del capostazione che mi parve un luogo più sicuro, in attesa del treno. Da quella volta non mi capitò più di fare incontri di quel genere ma, a scanso d’equivoci, mi sistemai ogni volta davanti all’ufficio, in piena luce, restando in piedi, scomodo ma più sereno. Poi, per fortuna, la mamma guarì e da allora, sarà un caso, ma non mi è più capitato di recarmi a Gallarate.

Piedi gelati nel bosco

Con la legna ci si scaldava cinque volte. Una prima volta quando si tagliava l’albero nel bosco, un’altra quando – tagliato a pezzi – lo si portava a casa; una terza quando – con la sega circolare – veniva sezionato e un’altra quando i ciocchi venivano spezzati in due con l’ascia. Infine, ed era la quinta, quando veniva bruciata nella stufa che avevamo in cucina. Così, da quando avevo sette anni fino ai venticinque, sono andato a far legna nel bosco dietro la casa del vecchio Salvatore dopo aver imboccato il sentiero sopra la via Fraccaroli. Mio padre sceglieva l’albero, legava una corda al tronco arrampicandosi come un gatto più in alto possibile così da poterne indirizzare la direzione di caduta e poi s’iniziava a tagliarlo al piede, con la sega e l’ascia. La motosega arrivò più tardi, sostituendo quella a mano che, in due, si tirava da una parte all’altra. Quando il taglio era profondo, tendendo la corda, si faceva cadere l’albero dalla parte stabilita. Una volta atterrato i tronco veniva sramato e sezionato in pezzi lunghi non più di due metri ( secondo il diametro e il peso) che si portavano a spalla fuori dal bosco. Da lì con un cuneo di ferro piantato nel legno al quale era fissato un anello con una corda, i tronchi – uno alla volta – venivano trascinati giù dal sentiero per quasi un chilometro.

A quel punto, giunti all’altezza della strada, si caricava il tronco in spalla, bilanciando bene il peso e lo si portava così fino a casa, per un altro buon chilometro. Ogni giorno, un paio di viaggi o anche tre. Poi, terminata questa fase che durava settimane e a volte qualche mese, in base al quantitativo e al tempo a disposizione, si passava ai successivi tagli e all’accatastamento prima dell’utilizzo come combustile. Ricordo quel giorno che rischiai il congelamento dei piedi. Era nevicato e la legna tagliata andava portata fuori dal bosco prima che gelasse. Già così, bagnata, era pesantissima da sollevare; figurarsi se il freddo l’avesse chiusa in una morsa di gelo, saldando un tronco all’altro. Per non bagnarmi avevo calzato gli stivali di gomma. Faceva un freddo boia e dopo un po’ iniziai a sentirmi le gambe formicolanti e i piedi doloranti. A un certo punto mio padre s’accorse che in volto ero bianco come un cadavere e che rimanevo lì, in piedi, muovendomi appena. Non avevo nemmeno la forza di lamentarmi. Mi sollevò di peso e mi portò nella casa del Salvatore dove la moglie, una arzilla donnetta calabrese, mi fece sedere in cucina davanti al camino. Mi tolse delicatamente gli stivali e le calze e mi frizionò entrambi i piedi a lungo con della sugna, il grasso del maiale con cui s’ingrassava la superficie degli scarponi. A poco a poco il sangue tornò a circolare regolarmente e io recuperai la sensibilità. Da allora, facendo tesoro dell’esperienza, evitai di infilarmi stivali da pioggia per stare a lungo nella neve.

Il cinema tra Stresa e Arona

Se i primi film sul grande schermo li vidi a Baveno, nella sala cinematografica vicina alla stazione ferroviaria (ricordo, oltre alle parodie di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia una pellicola indimenticabile come il Lawrence d’Arabia con Peter O’Toole), iniziò presto il pendolarismo domenicale verso Stresa ( dove c’erano i cinema Italia e Rosmini) e poi, più lontano, ad Arona ( dove frequentavamo il Roma, Moderno, Lux e San Carlo, dividendoci tra queste sale in ragione del film che veniva proiettato). Il treno aveva ancora i sedili di legno della terza classe, soprattutto il locale del ritorno alla sera che faceva tutte le stazioni (Arona, Meina, Lesa, Belgirate, Stresa, Baveno) con una lentezza esasperante, traballando e cigolando sui binari. Se il film era una pellicola allegra o un soggetto storico, oppure un dramma, nessun problema. Se invece era un giallo (per non parlare degli horror della serie di Dracula con Christopher Lee e Peter Cushing, o lo Psyco di Alfred Hitchcock con l’inquietante Anthony Perkins), i problemi diventavano seri, soprattutto d’inverno, dall’uscita dalla stazione di Baveno fino a casa. Sì, perché la suggestione delle immagini e un poco d’adrenalina che restava in circolo accompagnavano il tragitto tra le ombre degli alberi, il buio e la luce fioca dei lampioni, con qualche brivido. Ricordo quando vidi La dama rossa uccide sette volte. Camminai a centro strada fino su alla Tranquilla e poi, l’ultima parte, a zig e zag tra il giardino di una villa e il casermone della fabbrica dell’Arrivabene, fino alla casa di ringhiera dove abitavo, la feci di corsa con i talloni che toccavano il sedere. Se mi fosse capitato d’impigliarmi il vestito in uno dei tanti fili di ferro che sporgevano dalla recinzione a lato, avrei rischiato di rimanerci secco. Ma raggiunsi sempre, con il cuore in gola, la porta di casa mia, chiudendomi alle spalle le ombre, manifestando un contegno che solo il tremore della fifa rischiava di tradire.

Négar come un scurbàtt

Sul finire degli anni settanta, ad agosto, ero andato al mare, in Calabria. Esattamente a Brancaleone Calabro, dov’era stato mandato al confino nel 1935 Cesare Pavese. Due settimane bellissime sulla costa Jonica , tra il mare e l’Aspromonte, i campi con grandi e succosi pomodori e l’odore intenso dei gelsomini. Il viaggio era piuttosto lungo, occupando più di una giornata e di una notte intera, ma ne valeva la pena. Quando tornai a casa, mi presentai a mia madre négar’me un scurbàtt, nero come un corvo, a causa dell’abbronzatura che per la prima volta in vita mia era davvero notevole. Ci volle del tempo e un certo quantitativo di acqua e sapone per convincerla che si trattava di un naturale colorito della pelle e non dello sporco accumulato durante il viaggio di ritorno. Le piaceva ascoltare e le raccontai per filo e per segno la vacanza, le località visitate ( ero stato anche a Taormina, in Sicilia, attraversando lo stretto di Messina con il ferribotte, il traghetto), degli incontri fatti. Non si stupì della generosità dei calabresi che era davvero notevole, testimoniata dall’affetto e anche dai vasetti d’olive, caciocavallo, soppressata e un vino scuro e spesso. La brava gente si trova dappertutto, così come quella cattiva”, sentenziò. A mia madre piaceva ascoltare ma anche raccontare. Rammento le storielle di quand’eravamo piccoli, io e mio fratello. A volte usava il dialetto lombardo, quello dei suoi genitori. In fondo non era tanto diverso da quello che si parla sul lago Maggiore, da una sponda all’altra. Ricordo le risate che facevamo ascoltando l’episodio del dialogo tra l’ortolano che vendeva noci al mercato e il turista francese che chiedeva informazioni, generando uno spassoso equivoco. Il turista, incuriosito, presa in mano una noce, chiedeva “Comment s’appellent-ils?” (Come si chiamano?), ottenendo come risposta “Se pelen no, se schiscen.” (Non si pelano, si schiacciano.). Non capendo, il francese, con sguardo interrogativo, diceva “Comment?” (Come?). Il fruttivendolo, scuotendo la testa, precisava “Coi man, coi pé, come te voeuret!” (Con le mani, coi piedi, come ti pare!). A quel punto, il turista, alzando le spalle, rispondeva “Je ne comprends pas…” (Non capisco…). Il venditore di noci, spazientito e senza garbo chiudeva il dialogo con un perentorio “Se te voeuret minga comprài, lassa pur stà!” (Se non vuoi comprare, lascia stare!). E noi giù a ridere. Così, tra una storiella e l’altra, qualche scioglilingua (quello del ciabattino, l’ho imparato a memoria, senza fatica, essendo privo di erre: “…Tacum i tach… Mi, tacat i tach a Ti che ti tacat i tach? Tacai ti i tò tach, ti che ti tacat i tach…”. (Attaccami i tacchi… Io, attaccarti i tacchi a te che attacchi i tacchi? Attaccateli tu i tuoi tacchi, tu che attacchi i tacchi!) e molte letture, si passava il tempo.

Quei primi anni sessanta

Siamo cresciuti così, in quei primi anni sessanta. Con la giusta attenzione a libri e quaderni e la voglia di giocare che si ha a quell’età. I nostri erano giochi poveri, dove la fantasia – che non costava nulla – poteva fare la differenza, arricchendoli e rinnovandoli al punto d’apparire sempre nuovi e differenti nonostante fossero spesso gli stessi. I giochi non andavamo quasi mai a comprarli nei negozi. Di soldi ce n’erano pochi e i nostri giochi ce li costruivamo da soli. Avendo legnetti, elastici, un gessetto colorato, un vecchio cerchione arrugginito di bicicletta, un fazzoletto, il cono di cartone di una rocca del filato con un poco d’abilità compariva la lippa, una fionda, il campo tracciato per i quattro cantoni o la pista per i tappi, il gioco del cerchio, ruba bandiera o mosca cieca, una cerbottana. Era meglio essere in banda, in compagnia ma ci si poteva divertire anche da soli. In questo caso occorreva una bella dose d’immaginazione. Ricordo, ad esempio, le lunghe discussioni con la mia immagine riflessa nel vecchio frigorifero Ignis. In testa portavo una bustina militare di mio padre, sulle spalle uno zainetto grigioverde ereditato da chissà chi e tra le mani uno sciòpp da legn, un fucile di legno artigianale. A quell’epoca sottostavo agli ordini del Sergente, la cui immagine rispondeva immediatamente al mio saluto militare, imitando ogni mio gesto nel mettermi sull’attenti davanti alla porta lucida del frigo. Non avendo il dono della parola toccava a me, improvvisandomi ventriloquo, dargli voce immaginando che, come tutti i graduati, l’avesse un po’ roca e un tantino autoritaria. Solo più tardi l’artigianale schioppo fu sostituito con il fucilino ad aria con il tappo di sughero tenuto dallo spago. Un’arma straordinaria, tecnologicamente avanzata per quell’epoca, che faceva risuonare nell’aria il suo minaccioso e secco “plop!”.

Giubbe rosse a cavallo e la bambola Caterina

I più fortunati tra di noi possedevano i bastoncini di legno dello Shangai, gli aerei di carta dei formaggini Galbani, la mucca Carolina o la Susanna tutta-panna gonfiabile che si otteneva con i punti dell’Invernizzi, le palline clic-clac, il gioco dell’Oca o del Monopoli (per i più grandi che cominciavano a capire il senso e il valore del denaro), il traforo, il Meccano o il trenino elettrico della Lima ( i più fortunati della Rivarossi). Alcuni amici possedevano i soldatini della Nardi, belli e colorati, di plastica e con le parti del corpo staccabili: le Giubbe Rosse a cavallo, con le divise fiammanti e quegli strani copricapo, gli antichi romani e i barbari, gli indiani e i cowboy, i nordisti e i sudisti impegnati a combattersi in un’infinita guerra civile con le loro divise blu e grigie. Io, schioppo di legno a parte, non possedevo altro che la mia fantasia.

E un asino rosso di plastica, ricordo dell’infanzia, comprato da mia madre alla festa del santuario mariano del Boden, sulle alture di Ornavasso, che faceva compagnia ad un Calimero di celluloide. Ad esser sinceri c’era stato qualcos’altro: la bambola Caterina. Mi era stata donata da una bambina, vicina di casa e compagna di giochi, e io – pur essendo un maschietto, forse per affetto o per curiosità – le detti da mangiare. Nella piccola bocca aperta della bambola, per qualche settimana, infilai qualche chicco di riso, un poco di minestra, dell’acqua, delle briciole di pane. Caterina non gradì molto le mie cure poiché, di lì a poco, con mio grande stupore e rammarico, iniziò a emanare uno sgradevole odore. Il cibo, fermentandole nel ventre di gomma, la fece marcire. Così, strappandomi qualche lacrima, fu soppressa. Peccato, se quella bimba mi avesse regalato una bambola di quelle magre, quasi anoressiche e dalle labbra strette e chiuse come le Barbie (che di lì a poco, nel 1964, sarebbe sbarcata in Italia direttamente dall’America), forse l’avrei conservata.

La vetrina dell’Alfonsina

Il mondo dei giochi era riflesso dalla vetrina del negozio dell’Alfonsina, nella piazzetta d’Oltrefiume. Guardare attraverso quell’esile barriera di vetro equivaleva ad affacciarsi su di una realtà fantastica. C’era proprio di tutto. E si comprava di tutto. Dal sale ai tabacchi, dalle riviste piene di foto ai quotidiani che sfogliandoli annerivano le dita d’inchiostro, dalle mollette colorate per il bucato ai lumini bianchi e rossi per il cimitero. Ma noi, in prossimità del Natale, eravamo attratti dalle luci colorate, fisse o intermittenti che fossero, capaci di rendere ancora più straordinaria la piccola parata dei giocattoli esposti al centro della vetrina. Nulla a che vedere con quelle più ricche e ben fornite dei negozi di giocattoli di Intra e degli altri paesi più grandi. Già a Baveno, in piazza del municipio, si trovava di meglio. Però, nella vetrina della signora Alfonsina, c’era quel tanto che bastava a farci rimanere lì, con il naso incollato al vetro e la bocca aperta. Spiccavano le racchette da ping-pong dell’Arco Falc rivestite di sughero con le quali potevamo giocare sul tavolo da cucina quand’era sgombro, immaginandone la superficie simile a quella, consumata dal tempo, del verde tennis da tavolo che c’era nella sala dell’oratorio.

C’era poi l’aquilone Air-Jet della Quercetti (la stessa ditta torinese che produceva i chiodini colorati di gomma per comporre le figure dei mosaici): bastava gonfiarlo – come ci aveva fatto vedere Luca, fortunato possessore di una copia – e diventava come una grande supposta bianco-rossa con le alette blu, quasi impossibile da governare perché andava di qua o di là in preda a un delirio anarchico. C’erano i trasferelli, la cera Pongo, gli aerei di balsa con l’elastico che ti dovevi costruire da solo e che stavano in aria quei pochi secondi che passavano tra il lancio e lo schianto al suolo, pistole e fucili di plastica o metallo brunito, dal calcio di legno. M’incuriosiva la pistola di latta nera (che in seguito mi fu regalata): aveva i colpi stesi su dei rotolini di carta rossa che riproducevano lo stesso rumore delle nocciole schiacciate, lasciando nell’aria un odore acre. E ancora: il caleidoscopio, le trottole di legno e quelle di latta ( di tolla..) a pressione, i pentolini e le bambole, i pastelli a cera e il missile Mach-X, quello che si lanciava con l’elastico tenendolo fermo con i piedi e una volta giunto in aria apriva il paracadute. Ero attratto da quel missile ma poi, qualche anno dopo, ne restai deluso: per salire saliva, ma poi – il più delle volte – precipitava (appunto, come un missile..) a terra, schiantandosi al suolo e solo allora, beffardamente, il paracadute rotolava mollemente fuori. Il massimo, per noi maschi (per le bimbe credo fossero i bambolotti della Sebino, con tanto di passeggino o carrozzina) era l’autopista elettrica della Polistil che si vendeva nelle due versioni a circuito ovale e a circuito a forma di otto, con le due o le quattro corsie per le auto in corsa. Si sentiva parlare, a quell’epoca, delle sfide tra le Lotus e le Ferrari e gli eroi delle quattro ruote erano Stirling Moss e Graham Hill, Jimmy Clarck (l’asso della Lotus) e i ferraristi John Surtees, Wolfgang Von Trips e Giancarlo Baghetti che guidavano le rosse monoposto del Cavallino rampante di Maranello. Quell’autopista, che dalle pagine di Topolino era decantata dalla bellissima Paola Pitagora, rappresentava il sogno più bello. Un sogno, con molto rammarico, destinato a rimanere tale.

Il grande Torino e Carlo Dell’Omodarme

Le figurine dei calciatori erano un lusso. La mia famiglia non poteva permettermi questi vizi. Solo mia nonna materna, che mi voleva un bene dell’anima, risparmiando come e quanto poteva, mi dava qualche soldo di mancia che investivo nei fumetti con le avventure di Topolino e Paperino, Tiramolla, Cucciolo e Beppe, il lupo Pugacioff e Cocco Bill, il cowboy che beveva solo camomilla. E, quando si poteva avere un di più, la scelta cadeva su qualche bustina di figurine da dieci lire.

Nulla di paragonabile a quanto avevano alcuni miei amici, ma non mi lamentavo. Nel primo album dei calciatori della Panini che ho visto ogni squadra di serie A era raffigurata con quattordici giocatori e in molti casi si vedeva che le figurine non erano altro che fotografie in bianco e nero colorate a mano. Nelle ultime pagine dell’album (che in copertina raffigurava Nils Liedholm, il forte attaccante svedese del Milan) c’era un’intera sezione dedicata al Grande Torino, la squadra che dominò i campionati dal 1942 al 1949 e che perì il 4 maggio di quell’anno nel disastro aereo di Superga. Il mito, a pochi anni dalla tragedia, era fortissimo.

La formazione la sapevamo anche noi piccoli a memoria, quasi fosse uno scioglilingua: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar , Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. Le figurine rappresentavano le gesta sportive degli eroi del pallone, alimentando i nostri sogni di carta. Nel primo anno delle elementari il Milan di Nereo Rocco si aggiudicò, nello stadio londinese di Wembley, la prima coppa dei Campioni per una squadra italiana. I rossoneri sconfissero il Benefica di Eusebio (che segnò la rete dei lusitani) per 2-1, grazie a una doppietta di José Altafini.

Poi vennero gli anni della grande Inter di Helenio Herrera mentre era una realtà l’amata-odiata Juve di Charles e Sivori. Con le figurine si giocava, componendo squadre immaginarie, vincendole o perdendole a sopra, a lungo, a chi le lanciava più lontano. Ricordo quelle di Dennis Law che giocava nel Torino con Gigi Meroni, la farfalla granata, dei bolognesi Haller, Janich, Ezio Pascutti (che era un po’ pelato), Fogli e Perani, di Enrico Albertosi con la maglia da portiere della Fiorentina, degli juventini Stacchini, Salvadore, Del Sol, Castano e Anzolin, di Amarildo con i colori del Mantova e di Gianni Rivera, prima con i grigi dell’Alessandria e poi con il Milan, per tutta la carriera. Mi piaceva molto Carlo Dell’Omodarme, ala della Spal e della Juve. Non lo vidi mai giocare. Aveva una faccia seria e sofferente, ritratto a busto interno nella sua figurina con la maglia a righe verticali bianco-celesti della squadra di Ferrara. La Spal, appunto. Mi sembrava un calciatore tosto, affidabile. Trasmetteva, in qualche modo, la certezza che avrebbe fatto fino in fondo il suo dovere. Del resto il suo cognome lo garantiva.

Autunno

Al di là del vetro rigato dalla pioggia guardavo verso il bosco che delimitava il prato davanti a casa mia. Ogni inizio d’autunno, da noi spesso accompagnato dai primi freddi e dall’aria umida, metteva tristezza. La pioggia rendeva lucidi i tronchi e i rami gocciolanti degli alberi che salivano, bosco dopo bosco, verso la sommità dei monti. E le foglie, ingiallite anzitempo, s’abbandonavano ai loro piedi, rassegnate e sottomesse. Nell’aria s’avvertiva l’inconfondibile e aspro odore della legna bruciata, e il profumo delle prime castagne fatte arrostire sulle stufe. Quel plumbeo cielo, gonfio di Iivide nuvole, continuava a scrosciare pioggia.

E dentro di noi si scioglieva il grumo d’ansia per la scuola che s’iniziava, lasciando una tenue traccia malinconica. Qualche anno dopo, finiti anzitempo gli studi e iniziato il lavoro in fabbrica a quattordici anni ( ho poi pareggiato i conti con gli studi molti anni dopo) Francesco Guccini nella sua Canzone dei dodici mesi, raccontava così il mese in cui sono nato: “Non so se tutti hanno capito Ottobre , la tua grande bellezza/nei tini grassi come pance piene prepari mosto e ebbrezza. Lungo i miei monti come uccelli tristi fuggono nubi pazze/lungo i miei monti colorati in rame fumano nubi basse”. I miei monti e le mie nubi non erano diverse e, in quali autunni, quando non pioveva, l’aria si riempiva del profumo d’uva fragola che veniva da quei grappoli scuri e maturi sotto il pergolato.

Prima neve

D’inverno, quando cadeva la prima neve, si stava col naso incollato alla finestra ad ammirare il paesaggio che diventava sempre più bianco. Si provava una strana sensazione. I fiocchi cadevano, a falde più o meno larghe, rallentati. La sensazione che si provava era di sospensione e ovattamento, di un abbassamento dei ritmi. Non ci si muoveva più in fretta ma quasi ondeggiando come dei calabroni in volo di fiore in fiore. Si restava lì ad osservare la trasformazione del paesaggio. La magia che la neve riusciva a far nascere in ognuno di noi era tutta speciale, poliedrica, antica. Mi ricordo che da bambino, quando nevicava, giravo su me stesso con la faccia al cielo e la lingua fuori; ogni fiocco che si depositava sulla mia lingua aveva un sapore particolare ed emetteva una sorta di lieve crepitio attutito. Un suono dell’infanzia, un ricordo di attesa felice. Era anche buona, la neve. Fresca, densa. Se ne prendeva una manciata, lontano dal sentiero, dove sembrava più bianca e più pulita. E poi la si lasciava sciogliere in bocca. Aveva anche gusti diversi. Dopo una corsa era una ricompensa per mitigare l’arsura e il sudore ( passandola in fronte e sulle gote arrossate). Con mezzo limone strizzato nel bicchiere colmo di neve, diventava “limonosa”. A quell’età anche le poesie e le storie che ci raccontavano erano istigatrici. La neve era “un manto cremoso, che riposa lieve sui prati, e imbianca ogni posto, facendolo diventare una nuvola”, oppure “farina appena formata, che vola lievemente”. I fiocchi di neve erano dei piccoli cristalli che, brillando al sorgere delle stelle, si trasformavano in “confetti che a mangiarli si sciolgono in bocca”. Già allora mangiare la neve non era però una pratica molto salubre. D’inverno, tra le altre cose, la cucina povera offriva anche una minestra di neve. La preparava mia nonna e, nome a parte, con la neve c’entrava poco o niente. L’ingrediente principale, e spesso unico, erano le cipolle. Se mangiare i fiocchi gelati comportava l’assunzione per via orale di una bella carica di batteri, questa minestrina veloce e pratica era un antidoto naturale, grazie alle tante virtù che la cipolla, seppur cotta, conservava in buona misura. La ricetta era semplice. Si metteva sul fuoco una pentola non troppo grande con circa tre bicchieri d’acqua, coprendola con un coperchio. Tre cipolle venivano tagliate a pezzettoni e poste nell’acqua calda, così che le vitamine non evaporassero durante la cottura. In circa 15-20 minuti le cipolle diventavano cedevoli e morbide e con l’ausilio del frullino a baionetta, quello con la manovella, si trasformavano in una pappa liquida e densa. Aggiustata con poco sale e un filo d’olio, si serviva fumante e bianca come la neve. Tornando alla neve, quella vera, bisogna dire che non è mai stata tutta uguale. Farinosa, soffice, compatta, bagnata, ghiacciata. L’aspetto e la consistenza della neve cambiavano a seconda della località, della stagione, dell’ora del giorno. Più avanti nel tempo, me ne parlò Mario Rigoni Stern. Diceva che “ogni stagione, ogni neve ha il suo nome. Quella che abbiamo nel pieno dell’inverno è la brüskalan. Poi, quando ci avviciniamo verso la primavera, abbiamo la neve del cuculo, la neve della quaglia, la neve dell’allodola, la kuksneea, la bàchtalasneea. Poi abbiamo anche la neve della vacca, appunto la kuasneea. In primavera, quando il sole durante il giorno scioglie la crosta sopra, e camminando non sprofondi, quello è haarnust. Haarnust in longobardo vuol dire corazza. E’ la neve con la corazza, che non sprofondi, e cammini e puoi andare dappertutto, e quando è alta riesci a camminare a livello degli alberi non molto alti, e ti sembra di poter dire, quando non c’è più: ho camminato a quell’altezza, era come essere sospesi nell’aria. Sì, su una nuvola”.

Il camion di latta rosso e blu

Uno dei miei primi giocattoli fu un bell’autocarro con rimorchio di legno che mio padre mi costruì con le sue mani. La forma era grezza, non livellata, decisamente artigianale ma forse per questo ancora più bella. Ero orgoglioso di quel mio camion. Il cassone del rimorchio era capiente e si riempiva bene con la ghiaia e i sassolini. Le ruote, pur non essendo perfettamente circolari, giravano bene, senza impedimenti. Con i pastelli a cera l’avevo colorato di rosso. Un bel rosso carico, intenso. Non del tutto perfetto perché le impurità del legno e la mia scarsa manualità non consentirono una colorazione uniforme ma non era certo un problema. Sul camion volevo caricare anche Dick, il mio cane. Quando mio padre lo portò a casa, fu una sorpresa. L’aveva nascosto sotto la giacca e rimasi sorpreso nel vedere quella testolina bianconera che faceva capolino. Era un batuffolo di bastardino che campò più di vent’anni, crescendomi accanto. Anche lui guardava quel mezzo, curioso ma diffidente. Gli girava attorno, lo annusava. Desideravo che vi salisse sopra ma lui guaiva e scappava. Non c’era verso di convincerlo. A quel tempo le finanze di casa erano piuttosto magre. Mio padre faceva anche due turni consecutivi al lavoro. Partiva all’alba con la bicicletta e pedalava da Oltrefiume fino al confine tra Feriolo e Fondotoce, poco oltre la cascina Garlanda, dove faceva il segantino. Non c’erano stagioni o giornate brutte o belle: piovesse, nevicasse, tirasse vento o si soffocasse per l’afa, gli toccava andare. Il suo lavoro consisteva nel tagliare le lastre di marmo e granito. Era piuttosto duro e rischioso per la salute, con tutta quella polvere che girava e la silicosi sempre in agguato. Mia madre, invece, badava alla casa. S’ingegnava a far quadrare i conti del bilancio familiare. Compito tutt’altro che agevole, al quale dedicava il meglio di sé. Nonostante ciò, io e mio fratello, che era nato da poco, eravamo tenuti come due bijoux. Puliti da capo a piedi, vestiti sobriamente ma con dignità. Educati al rispetto dei genitori, dei nonni e dei vicini. Quell’anno – era il 1964 – a dispetto della buona volontà, il Natale s’annunciava povero di doni. Qualche mandarino, un pugno di spagnolette, forse un torrone e magari una mezza dozzina di caramelle zuccherine. Mia madre era piuttosto rassegnata quando accadde un piccolo miracolo. Stava andando a far la spesa dall’Alfonsina, dove avrebbe fatto scorta di sale grosso e fine, quando per terra, sulla strada, poco prima della villa Sallman, scorse un biglietto da mille lire. Non credo che la vista del volto di Giuseppe Verdi le avesse mai fatto tanto piacere quanto in quell’occasione. Si guardò in giro. Non c’era anima viva. Si chinò rapidamente e arpionò la cartamoneta infilandosela in tasca. Me la sono immaginata, quella scena: rossa in volto, imbarazzata ma pure contenta. Dopo qualche passo, ci raccontò in seguito, si era fermata a guardare quel tesoro e preso coraggio, varcò la soglia del negozio da macellaio del signor Martini per trasformare quell’inaspettata fortuna in un certo numero di fette di lonza di maiale. Dopo il macellaio fu la volta del negozio di alimentari per un etto di formaggio e di prosciutto cotto. Lasciata alle spalle la drogheria, calcolò rapidamente quanto rimaneva delle mille lire e si accorse che erano 280 lire. Quella fu la somma che spese dall’Alfonsina per il sale e per un camioncino di latta rossa e blu. Era, inaspettatamente, il mio regalo di Natale. Quando lo scovai sotto il piccolo abete addobbato con una dozzina scarsa di palline colorate, pensai che Gesù Bambino fosse stato molto generoso. Non me lo aspettavo un camioncino così bello e colorato. Aveva le ruote di gomma, nere e lucenti. Giravano che era un piacere. Sull’abitacolo erano disegnate le porte, una per parte. Il rosso del cassone contrastava con il blu cobalto dell’intera struttura. Era il più bel camion di latta che avessi mai visto. Tanto bello e sfolgorante che a un certo momento non lo vidi più. Era sparito. Mi sembrava d’averlo sognato, anche se ero certo di averlo tenuto tra le mani, girandolo sotto e sopra. Mia madre mi consolò e con la nonna e la zia Annetta ci impegnammo nel gioco dell’Oca. Mi piaceva tanto tirare il dado e seguire il percorso delle caselle che non feci caso al camioncino. Non che fossi stupido, però. Per essere piccolo ero piccolo ma capivo bene che era successo qualcosa che non riuscivo ancora a comprendere. Fuori nevicava che era un piacere e nei giorni successivi mi divertii con i pupazzi e le palle di neve. Senza dimenticare quel regalo che era scomparso. Venne poi la notte della Befana, tra il 5 e il 6 gennaio del 1965. Nella calza appesa vicino al camino, che era sempre spento, trovai due mandarini, delle castagne secche, un cioccolato, un paio di rotolini di liquerizia e…un camioncino di latta rossa e blu. Non ricordo un ritorno tanto gradito quanto quello.

Il quaderno a righe grandi

Copertina di cartone sottile, blu. L’etichetta appiccicata, bianca e rossa, con i bordi frastagliati come quelli delle fotografie di un tempo. Su quel quaderno a righe grandi mia madre ci scriveva ogni cosa. Dalla lista della spesa che andava fatta in uno dei due negozi dove si trovava tutto il necessario – Del Grande o Filippelli – alle impressioni che fissava per non disperdere la memoria di ciò che andava fatto, fino alle ricette. Annotava su quelle pagine anche i libri che leggeva e qualche ricordo. Mia madre, in gioventù, aveva anche recitato al teatro parrocchiale. Bella, spigliata, intelligente, non difettava in personalità e impegno. In quel quaderno raccoglieva le memorie, evitando così che scivolassero via, trattenendo pensieri e note inchiostrate con quella sua bella calligrafia che non si faticava a leggere.

L’Università degli asini di Campino

Mio padre, nato e cresciuto sulle balze della Scèrea, andò a scuola in anticipo di un anno sull’età giusta, in un luogo speciale: le elementari di Campino, piccola frazione di Stresa, in quella che per molti era ed è rimasta “l’Università degli asini”. Gli studenti che la frequentavano non si erano meritati quell’appellativo in ragione delle scarse doti in materia scolastica quanto piuttosto al fatto che a Campino questi generosi e infaticabili quadrupedi erano presenti in gran numero e l’autoironia degli abitanti si estendeva anche alle istituzioni, a partire da quelle aule dove s’imparava a leggere, scrivere e far di conto. La maestra, amica di mia nonna, accettò di buon grado la presenza di quel piccolo intruso e così mio padre, complice quell’anticipo di scuola e la necessità di andar presto a guadagnarsi il pane, la frequentò con profitto. Altri, prima di lui e anche dopo, si “laurearono” nella stessa istituzione: dal Gemélin, che viveva sull’alpeggio che confinava con la Vidabbia, al Cèc che – finiti i lavori nei campi, scesa la sera – amava il profumo della Barbera (e non solo) così che al terzo mezzino vedeva le stelle anche quando il cielo era nuvoloso. All’epoca le donne andavano al torrente portando con loro la brièla, l’asse per lavare i panni. Oppure, al tempo della fienagione, si caricavano in spalla lo scivrön, la gerla, incamminandosi sui lunghissimi e faticosi sentieri di montagna. Gli uomini, in ragione del lavoro svolto, portavano la càula, necessaria per il trasporto della legna, o la mazza se erano dei picasàss, taglia sassi o scalpellini. C’era il cavagnàtt, abile nel confezionare le ceste, intrecciando vimini, bambù o altri legni morbidi, spesso utili per chi lavorava nei magri campi. Alcuni giravano con in spalla la scarsèla da umbrelàtt, la borsa di stoffa dell’ombrellaio, con tutti gli strumenti del mestiere utili a riparare o costruire parasole e parapioggia. Spesso, non avendo quattrini nella bèca, il portamonete, facevano come il Pédrin, che s’ingegnava con la sua fisarmonica a rallegrare le osterie per un soldo o una mezza scigàla, il più a buon mercato tra i sigari. A meno di fare come il vecchio Protaso che, da consumato sacrestano, aiutava Don Gadìa nell’officiare messa, tener pulita con decoro la chiesa di San Grato e suonare le campane per qualsiasi ricorrenza. Gli altri lavoravano nelle fabbriche di Baveno o negli alberghi di Stresa. Era un mondo che, con gli anni, è quasi del tutto sparito. Eppure quella semplicità, quell’appartenenza a una società dove contavano le cose concrete e i valori, ha lasciato dei segni che sarebbe un peccato dimenticare. E i miei genitori, mia madre in primo luogo, non me lo perdonerebbero mai.

Marciano: “I SuOni delle ParOle OnOmatOpee a tre dimensiOni”

Giovedì 7 novembre presso la residenza universitaria CStudio inaugura alle 18.30 la mostra

L’Auditorium del CStudio presso la Piccola Casa della Divina Provvidenza Cottolengo di via Ariosto 9 a Torino ospiterà  la mostra “ I SuOni delle parOle OnOmatOpee a tre dimensiOni” di Antonio Marciano. Verrà inaugurata  il 7 novembre prossimo alle 18.30. L’esposizione, curata da Ermanno Tedeschi, comprende una ventina tra disegni e quadri realizzati con i celebri chiodini pixelart di Quercetti. Si tratterà  di un’occasione, oltre che per vedere l’esposizione,  anche per conoscere uno spazio splendido e nuovissimo nel cuore della città.

“Le opere – racconta il curatore Ermanno Tedeschi- hanno un  carattere educativo e sono incentrate sul segno grafico  e sull’importanza della comunicazione della diversità  e disabilità,  in quanto  l’artista stesso utilizza i chiodini a causa di una malattia che ne limita il movimento,  tanto da essere costretto su una sedia a rotelle. Oltre alle onomatopee Antonio Marciano rappresenta anche i supereroi, protagonisti dei fumetti che, con i loro superpoteri, riescono a superare le avversità  e rispecchiano l’artista, che si sente un po’ supereroe tutti i giorni e ha una duplice identità: quella non comune viene tenuta ben celata sino a quando non si mette in mostra. I chiodini di Quercetti diventano un pennello nelle sue mani e ogni chiodino rappresenta una pennellata di colore. Solo vedendoli accostati gli uni agli altri si ottiene la visione di insieme, un divisionismo estremamente moderno e materico”.

L’intento di Marciano non è  quello di fare un gioco o di legarsi semplicemente all’immaginario infantile.  L’interesse artistico  è  legato alla gestualità  dell’infilare i chiodini, rituale che elogia il lento scorrere del tempo come cura per alleviare la frenesia del quotidiano. Attraverso queste opere Marciano esprime la voglia di essere vivo e di appuntare la realtà e bloccarla sulla tavola con i chiodini.

“Le persone avvicinandosi- spiega l’artista Antonio Marciano – e percorrendo le lunghe linee dei chiodini risentiranno i colori punto a punto  e faranno quei pensieri  brevi e gioiosi come quando spunta un fiore. Vorrei che le mie opere permettessero all’osservatore una piccola fuga spirituale, per non dimenticare l’importanza delle cose che hanno una forza e una bellezza straordinaria pur essendo semplici, temporanee e fugaci “.

Secondo alcuni studi l’utilizzo regolare del gioco dei  chiodini Quercetti rappresenta una formidabile ginnastica motoria per la mano e si è scoperto che attraverso la mano e il chiodino colorato si possono avere ripercussioni benefiche sul cervello avvantaggiando le nostre abilità linguistiche. Questo è lo scopo dei laboratori e workshop che affiancheranno la mostra e coinvolgeranno gli studenti della vicina scuola elementare, gli ospiti dello studentato e la cittadinanza che vorrà partecipare.

Ingresso gratuito prenotazione obbligatoria 

antoniomarciano75@gmail.com

associazione.acribi

a@gmail.com

Mara Martellotta

Quelle vecchie stazioni abbandonate sono un patrimonio. Il piano della Regione

A Palazzo Lascaris, sede del Consiglio Regionale, l’Assessore Regionale al Patrimonio Gian Luca Vignale ha presentato il piano di valorizzazioni dei beni ferroviari dismessi dal Demanio alla Regione, alla presenza dei membri della Prima e Seconda Commissione. L’Assessore ha illustrato le azioni da intraprendere ai Presidenti Roberto Ravello (Prima) e Mauro Fava (Seconda) ed ai rispettivi commissari.

I beni già ferroviari sono stati trasferiti dal Demanio dello Stato, beni che consistono sostanzialmente in due tipologie: i primi di proprietà regionale ma concessi a RFI per necessità ferroviarie e, quindi, di fatto indisponibili al patrimonio, i secondi, invece, beni in disponibilità che constano di stazioni ferroviarie, terreni e altri fabbricati, più materiale vario da poter valorizzare e riqualificare.

A titolo di esempio sulla ferrovia Torino-Ceres, la Regione ha acquisito con la sdemanializzazione le stazioni in disuso di Porta Milano, Stazione Dora e Stazione Madonna di Campagna a Torino, mentre per la tratta Canavesana i locali commerciali e di servizio della stazione di Cuorgnè (TO).

<Si tratta di un consistente patrimonio costituito da importanti beni immobiliari situati lungo le due tratte che si sviluppano a nord di Torino – ha spiegato l’Assessore Vignale alle commissioni  ci sono stazioni ferroviarie, locali commerciali, magazzini, tratti di ferrovia e terreni. La volontà della Regione è di rivitalizzare e riqualificare questi beni per restituirli alla collettività. Molti di questi immobili si prestano a svariati usi e destinazioni. Le loro posizioni sono strategiche, come è il caso di stazione Dora affacciata su piazza Baldissera o Porta Milano le cui potenzialità sono enormi. Dal materiale ferroviario storico contenuto, ma anche per dare nuova linfa a spazi per commercio, co-working, aggregazione e ricettività.

Coinvolgeremo il Comune, le Circoscrizioni, gli enti locali sede di stazione, il terzo settore e soggetti privati per fare di questi luoghi in cui sono transitati milioni di piemontesi luoghi vivi e a servizio del territorio. Questo piano di valorizzazione coinvolgerà presto tutti i comuni attraversati dalle due linee ferroviarie ancora attive.

A favore del piano abbiamo già un milione e ottocentomila euro per una prima attività di valorizzazione riguardante Porta Milano che diventerà il primo intervento con il quale restituire alla collettività un luogo i cui spazi saranno dedicati alla cultura, ad attività associativa e servizi>.

Usa 2024: Ruffino (Az), ultima chiamata per l’Europa prima della deriva

“Il voto americano è l’ultima chiamata per l’Unione europea: o si accelera verso l’integrazione politica, a cominciare dalla difesa, oppure l’Europa va alla deriva, cancellando decenni di paziente costruzione. La vittoria di Trump mette davanti al bivio le forze sovraniste in Europa. Non c’è più spazio né tempo per traccheggiare fra potere di veto e voto unanime. Lo hanno capito prima di tutti Macron e Scholz. L’Italia, Paese fondatore dell’Unione europea, deve decidere se voltare le spalle alla propria storia oppure farsi promotrice, con Parigi e Berlino, di un salto in avanti che renda irreversibile l’Unione. Sono esaurite le vie di mezzo”.
Lo dichiara la deputata di Azione Daniela Ruffino.

DOLCISSIMArte, l’arte dolciaria tra pasticceri nelle vetrine, pasticcini sui tram e gelatieri creativi

Tornano le Dolcissime Ape Car. Per la prima volta aderiscono gallerie d’arte e i grandi brand della moda

Torino, 6 novembre 2024 – Torino si conferma capitale dell’eleganza pasticcera, celebrando l’eccellenza dell’arte dolciaria con la terza edizione di DOLCISSIMArte, la rassegna della pasticcera piemontese, dall’8 al 10 novembre. Un evento che arricchisce l’offerta culturale cittadina tra la vivace settimana dell’arte contemporanea e le ATP Nitto Finals di tennis.

Il comparto della pasticceria presenta numeri interessanti. Nel 2024, su 17mila attività di pasticceria in Italia, circa 1.400 sono in Piemonte e di queste più di 1.000 sono artigianali.

A Torino, quasi 600 pasticcerie artigianali mantengono viva la tradizione pasticcera, affiancate da numerose realtà anche nelle altre province. Alcune vantano oltre 200 anni di storia con gestioni famigliari di sei o sette generazioni, e sono numerose quelle alla terza o quarta generazione. Nei secoli, dietro le vetrine dei laboratori, i pasticceri hanno continuato a impastare e creare dolci sopravvivendo alle guerre, ai cambiamenti storici, alle difficoltà economiche e agli sviluppi sociali, portando sempre un pizzico di gioia anche nei periodi più difficili.

DOLCISSIMArte, ideata da ASCOM Confcommercio EPAT, è sostenuta da Regione Piemonte, Camera di commercio di Torino, DMO Visit Piemonte, Città di Torino, Turismo Torino, Unioncamere Piemonte, FIPE e le Amministrazioni locali.

La rassegna offre tre giorni di eventi aperti al pubblico, omaggiando l’arte pasticcera come simbolo di cultura e innovazione, in un intreccio di sinergie che pongono la pasticceria come un nuovo elemento attrattore per visitatori e turisti. Nei giorni di DOLCISSIMArte si incrociano gusto, arte e commercio in una felice collaborazione per un percorso culturale che non mancherà di affascinare e stupire.

Un ringraziamento speciale va ai partner Puratos Rossetto e Tenuta Roletto, per il loro prezioso sostegno.

Programma completo su dolcissimarte.it

 

 

 

Le iniziative di DOLCISSIMArte 2024

 

L’ELEGANZA PASTICCERA DEL PIEMONTE

L’evento inaugurale di mercoledì 6 novembre al Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, vede oltre 70 pasticceri piemontesi presentare 100 dolci creazioni su un incantevole Tavolo delle Torte, dalle più tradizionali e iconiche alle sperimentazioni più creative. Ogni dolce rappresenta una fetta di storia locale, tramandata da generazioni di pasticceri, e racconta una tradizione che unisce passione e competenza. Oltre a Torino e alla sua provincia, la partecipazione dei pasticceri delle province di Alessandria, Biella, Cuneo e Vercelli rappresenta un omaggio alla varietà e alla ricchezza della tradizione dolciaria piemontese.

PASTICCERI IN VETRINA

Venerdì 8 e sabato 9 novembre i Maestri Pasticceri piemontesi trasformeranno 13 vetrine dei negozi del centro in veri e propri laboratori dolciari con dimostrazioni dal vivo, show pastry e degustazioni per il pubblico. Un’esperienza unica per vivere la pasticceria da vicino e apprezzare la maestria di professionisti che, con passione e dedizione, danno vita ad un’arte dal linguaggio universale.

Il programma di Pasticceri in Vetrina prevede appuntamenti in diversi punti della città. Venerdì pomeriggio a partire dalle 16:00, il pasticcere de Il Dolcino sarà da Secret Garden, abbigliamento in Via Carlo Alberto 30, mentre Il Rugantino accoglierà i visitatori nelle eleganti vetrine di Sinatra Gallerie de Beautè in Piazza San Carlo, seguito da Bonfante nel negozio di articoli per la casa De Carlo in Via Cesare Battisti 5. A fine pomeriggio la storica pasticceria Ghigo è protagonista di uno spettacolare show pastry nella Galleria Marco Polo, in corso Vittorio Emanuele 86, interno cortile, mentre la giovanissima Pasticceria Futura si esibirà nel negozio di abbigliamento Vestil, in piazza Statuto 9.  Sabato mattina tutti in via Po, a partire dalle 11:30 per ammirare e gustare le creazioni della pasticceria Mazza nello store di elettrodomestici Gamer, in via Po 20, e subito dopo da Baronio, in via Po 48, per scoprire la proposta della pasticceria La Baita.

Si prosegue nel pomeriggio di sabato con la Pasticceria Chicchi Sani nelle vetrine della profumeria Cavour 11 DK in via Cavour 11G, mentre la storica Pasticceria Ugetti  di Bardonecchia è protagonista in un’altra prestigiosa profumeria, l’Olfattorio  di piazza Bodoni 4F, e Ghigo torna con una seconda esibizione da De Wan, in piazza San Carlo 132. Peter’s Tea House ospita nel suo affascinante store di Via Mazzini 7G la Pasticceria Raimondo e il negozio di articoli per la casa De Carlo apre le vetrine di via Carlo Alberto 36 alla maestria del pasticcere di Dolcissimo. Chiude la giornata il nuovissimo Fresh Store, abbigliamento urban in Via Barbaroux 5 bis, con la Pasticceria Raspino.

PASTICCINI IN CARROZZA

Sabato 9 e domenica 10 novembre, il tram gourmet accoglierà il pubblico per un dolce viaggio tra le vie di Torino, dove la colazione del mattino e il caffè di dopo pranzo saranno accompagnati dalle creazioni offerte dai pasticceri e dalle storie della città raccontate dalle guide turistiche dell’associazione GIA Ascom.

Si potranno gustare le specialità di famosi pasticceri dalle pasticcerie Sabauda, Molineris, Fabrizio Racca Dessert, Zuccarello, Chicchisani, Re, Dolcissimo e Mazza.

DOLCE GELATO

Anche quest’anno, la manifestazione accoglie anche i Maestri Gelatieri di Ascom Epat, che proporranno un nuovo gusto dedicato a DOLCISSIMArte, a base di marron glacé, per omaggiare i sapori autunnali e la tradizione dolciaria piemontese.

Il percorso Dolce Gelato include Gelato Dok Dell’Agnese in Corso Unione Sovietica 415 e Gelateria Miretti in Corso Matteotti 5, entrambi con una lunga storia di artigianato dolciario. Anche Gelati D’Antan in Via Fabrizi 37/C, La Tosca in Via Cibrario 50, e Moou Moou Gelateria in Via Porpora 55 aderiscono all’iniziativa, insieme a Più Di Un Gelato in Galleria Subalpina 32 e Silvano Gelato d’altri Tempi in Via Nizza 142.

DOLCISSIMA ON THE ROAD

Le simpatiche Ape Car di DOLCISSIMArte, ambasciatrici della manifestazione, faranno tappa nelle più belle piazze del centro città per coinvolgere il pubblico in questo tour di gusto e tradizione.

Per la prima volta le Gallerie d’Arte TAG e i più prestigiosi negozi di brand di moda italiani e internazionali partecipano a DOLCISSIMArte 2024 con eventi dedicati alla degustazione di pasticceria mignon in una bella contaminazione tra sapere e maestria in settori completamente diversi.

Il percorso delle gallerie d’arte include: A Pick Gallery in Via Bernardino Galliari, 15c; Crag – Chiono Reisova Art Gallery in via Parma 66D e via Maria Vittoria 45; Febo e Dafne in Via Vanchiglia 16; Gagliardi e Domke in Via Cervino 16; In Arco in Piazza Vittorio Veneto 3;  Metroquadro in Corso San Maurizio 73F; Roccatre via della Rocca 3b; Simóndi in via della Rocca 29; Weber&Weber via san Tommaso 7.

Cappuccetto Rosso, spettacolo dei “burattini giocattolo” a Casa Gianduja

La celebre fiaba raccontata e interpretata da Marco Grilli e dai suoi “burattini giocattolo” sabato 9 e domenica 10 novembre a CASA GIANDUJA

Cappuccetto Rosso, vieni, vieni qua se ti vede il lupo ti mangerà! “Io non ho paura perché devo andare dalla mia nonnina che mi aspetta già”
Giunta alla casetta, la nonna non c’era, c’era un grosso lupo nero… Arriva un cacciatore, con un gran fucile spara su nel cielo e fa bum, bum, bum! Evviva Cappuccetto, evviva Cappuccetto che dal lupo nero non si fa mangiar!
Spettacolo COMICO per TUTTO IL PUBBLICO.

BIGLIETTI: INTERO € 12.00 / RIDOTTO € 8.00 ( BAMBINI 3-13 ANNI – PENSIONATI – MILITARI )
FORMULA FAMILY: 2 ADULTI + 1 BAMBINO = € 28.00 / 4 PERSONE = € 32.00
PREZZI RIDOTTI PER CRAL E ENTI CONVENZIONATI

Prenotazione consigliata   
prenotazioni@casagianduja.it
www.marionettegrilli.it 

TELEFONO: 011.2453145 / 3387561498

L’Ufficio Postale di San Maurizio Canavese ha riaperto al pubblico

Disponibili nella nuova sede i certificati previdenziali (cedolino della pensione, la certificazione unica e il modello “OBIS M”)

 

Sono terminati nella sede di Via Tesio, 1, infatti, i lavori di ristrutturazione e ammodernamento finalizzati ad accogliere, anche tutti i principali servizi della Pubblica Amministrazione grazie al progetto “Polis – Casa dei Servizi Digitali”, l’iniziativa ideata da Poste Italiane per promuovere la coesione economica, sociale e territoriale nei 7 mila comuni con meno di 15mila abitanti contribuendo al loro rilancio.

Tra gli interventi effettuati il rinnovo dell’impianto di illuminazione, della pavimentazione, lavori di tinteggiatura, nuovi arredi, postazioni ergonomiche e una postazione ribassata per andare incontro alle esigenze della clientela. Oltre ai servizi postali, finanziari, di assicurazione ed energia presso l’ufficio postale di San Maurizio Canavese sono disponibili anche i servizi INPS (il cedolino della pensione, la certificazione unica e il modello “OBIS M” che riassume i dati informativi relativi all’assegno pensionistico).

L’ufficio postale di San Maurizio Canavese è a disposizione dei cittadini con il consueto orario: da lunedì a venerdì dalle ore 8.20 alle ore 13.35 e sabato fino alle 12.35.

Poste Italiane conferma, ancora una volta, non solo la missione al servizio del sistema Paese ma anche il valore della capillarità, elemento fondante del proprio fare impresa, in netta controtendenza con il progressivo abbandono dei territori.

Dopo l’autorizzazione della Commissione Europea a fine ottobre 2022 i lavori di ristrutturazione sono stati avviati in 300 Uffici Postali in tutta Italia ed entro la fine del 2023 saranno complessivamente 1.500 i nuovi uffici Polis.