redazione il torinese

Avete provato le crespelle ai formaggi?

Simbolo della cucina d’Oltralpe, le crespelle hanno origini antichissime, nate come alimento corroborante a base di latte e uova per sfamare i pellegrini francesi giunti a Roma. Oggi, squisite cialde dorate e sottili dal cuore morbido e filante; una ricetta golosa, sempre gradita a tutti. Un primo piatto che fa subito festa.
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Ingredienti
 
100gr. di farina 00
2 uova intere
250ml. di latte intero
25gr. di burro
200gr. di formaggi a piacere
50gr. di grana grattugiato
Un pizzico di sale
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Preparare l’impasto per le crespelle lavorando le uova con la farina e il sale, mescolare bene poi, aggiungere il latte e il burro fuso facendo attenzione che non si formino grumi. Lasciar riposare la pastella per mezz’ora. Preparare le crespelle utilizzando un pentolino. Con l’aiuto di un piccolo mestolo, distribuire la pastella su tutta la supeficie, lasciar cuocere sino a quando i bordi si increspano poi, girare la crespella con una spatola e continuare la cottura per mezzo minuto. Proseguire sino ad esaurimento della pastella. Distribuire su ogni crespella ottenuta i formaggi ridotti a dadini, arrotolare le crespelle e disporle in una pirofila da forno unta di burro. Spolverizzare con abbondante grana e infornare a 180 gradi per 20 minuti poi, per altri 5/10 minuti sotto il grill per la doratura. Servire subito.
 

Paperita Patty

 

Fusilli con pesto di fiori di zucca e salmone

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Un primo piatto delizioso, dal tono raffinato e squisitamente delicato. Una magia di colori e sapori. 
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Ingredienti 

320gr. di pasta tipo fusilli 
8 fiori di zucca 
20gr. di pinoli 
50gr. di salmone affumicato 
1 piccolo scalogno 
Sale, pepe, timo, olio evo q.b. 
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Pulire delicatamente i fiori di zucca, eliminare il pistillo interno e tagliare a listarelle. In una larga padella soffriggere con poco olio lo scalogno affettato, aggiungere i fiori di zucca, il sale e il pepe. Cuocere per pochi minuti poi frullare con i pinoli, poco olio, ed un pizzico di sale. Nella stessa padella far saltare per pochi minuti il salmone affumicato precedentemente sminuzzato. Cuocere la pasta al dente, scolarla, saltarla in padella con il pesto ed il salmone, mantecare con un mestolino di acqua di cottura e aromatizzare con un pizzico di timo. Servire subito. 

Paperita Patty 

Sapore di mare: gratin di pesce in conchiglia

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Una preparazione dedicata ad un momento di festa che soddisfera’ anche i palati piu’ raffinati

Eccovi una proposta deliziosa a  base di pesce per  un antipasto originale e d’effetto. Una ricetta delicata, un’armonia di sapori resi ancora piu’ invitanti dalla presentazione in conchiglie di capesante, una preparazione dedicata ad un momento di festa che soddisfera’ anche i palati piu’ raffinati.

 

Ingredienti per 8 persone:

300gr. di filetto di nasello

300gr. di salmone fresco

10 code di gaberoni

250gr. di besciamella

100gr. di parmigiano grattugiato

100gr. di emmenthal

Sale, pepe, prezzemolo q.b.

Cuocere a vapore il nasello, il salmone e le code di gambero, lasciar raffreddare. In una ciotola sminuzzare il pesce, salare, pepare, aggiungere tre cucchiai di parmigiano, l’emmental tagliato a cubetti, il prezzemolo tritato e la besciamella. Mescolare con cura, riempire con il composto ottenuto i gusci delle capesante, cospargere di parmigiano e infornare a 200 gradi per 10 minuti poi lasciar gratinare sotto il grill sino a completa doratura. Servire la conchiglia calda su un letto di insalatina.

 

Paperita Patty

Sapore d’Oriente nel piatto: straccetti speciali di pollo

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Il piatto non necessita di lunghe cotture ma di una profumata marinatura

 

Un ottimo secondo piatto leggero, fresco e veloce, non necessita di lunghe cotture ma di una profumata marinatura che esaltera’ il delicato gusto del pollo abbinato alla croccantezza delle verdure.

Semplice, dal successo garantito.

 

 Ingredienti:

1/2 petto di pollo intero

2 carote

2 zucchine

1 limone

1 spicchio di aglio

1 cucchiaino di zenzero in polvere

1 cucchiaino di semi di cumino

1 cucchiaino di semi di sesamo

olio evo q.b.

sale, pepe q.b.

Lavare le verdure e tagliarle a bastoncini nel senso della lunghezza.Tagliare il petto di pollo a striscioline, metterlo in una terrina, cospargerlo con le verdure, le spezie, l’aglio a fettine, bagnare il tutto con il limone, l’olio, il sale,e il pepe. Mescolare bene e lasciar marinare in frigorifero per almeno due ore. In una piastra in ghisa rovente, cuocere gli straccetti di pollo con le verdure scolate per circa dieci minuti, mescolare con una paletta e bagnare con la marinatura, lasciar sfumare. A cottura ultimata, servire subito.

Paperita Patty

Delicato e saporito il risotto gamberi e zucchine: un classico

Il riso italiano, altamente nutritivo, digeribile e versatile si presta ad innumerevoli preparazioni

 

Il riso italiano ,“re dei cereali”, e’ tra i migliori al mondo, e’ espressione di cultura e tradizione delle specifiche zone di produzione. Altamente nutritivo, digeribile e versatile si presta ad innumerevoli preparazioni. La ricetta della settimana e’ un primo classico, semplice, che unisce sapori di terra e di mare che si esaltano a vicenda in un dolce e perfetto connubio. Uno degli abbinamenti piu’ amati.

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Ingredienti per 4 persone:

 

350gr.di riso per risotti

200gr,di piccole zucchine fresche

15 gamberi freschi

1 piccolo porro

1 scalogno o 1 piccola cipolla

1 bicchiere di vino bianco secco

1 litro di fumetto di pesce

1 carota, 1 gambo di sedano,1/2 cipolla, un rametto di finocchietto selvatico (per il fumetto)

burro/olio q.b.

prezzemolo tritato q.b.

sale q.b.

Sgusciare i gamberi (avendo cura di tenere da parte le teste e i gusci), eliminare il filetto nero, lavare velocemente. Preparare il fumetto di pesce, portare a bollore l’acqua con gli scarti dei gamberi,cipolla, carota, sedano e poco sale, filtrare.

Tritare lo scalogno. Lavare e tagliare le zucchine a rondelle sottili. Scaldare l’olio/burro in una larga padella, rosolare lo scalogno e il porro tagliato a rondelle, aggiungere il riso e farlo tostare a fuoco vivace finche’ i chicchi diventano traslucidi. Bagnare con il vino bianco, lasciar evaporare. Aggiungere poco alla volta il fumetto di pesce bollente. A meta’ cottura unire le zucchine e poi aggiungere i gamberi. Aggiustare di sale.Togliere dal fuoco, completare con il prezzemolo, mantecare con una noce di burro, lasciare riposare per due minuti e servire.

 

Paperita Patty

Giacomo e la briscola chiamata

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Quando il cielo lacrimava e sul lago soffiava quell’arietta fresca che intirizziva, la passeggiata sul lungolago verso la Villa Branca finiva immancabilmente davanti alla porta dell’amico Giacomo dove ci attendevano le sfida a briscola e tresette

 

Giacomo Verdi, detto “balengo” perché amava spingere la sua barca a remi tra le onde del lago in tempesta, infischiandosene dei rischi, da un bel po’ di tempo era costretto a stare in casa. Un brutta sciatalgia e i reumatismi rimediati  nel far la spola tra le due sponde del lago e le isole, gli impedivano di stare troppo in piedi. E allora, con la scusa di andarlo a trovare, ingaggiavamo delle tremende sfide all’ultima mano. “ Ah, amici miei, sapeste che rottura di balle dover star qui recluso. Per uno come me che non trovava mai terraferma e che fin da piccolo stava con la faccia contro vento, star qui costretto tra seggiola e divano, tra poltrona e letto, è proprio una gran brutta cosa. Quelle volte che non sento il cambio del tempo e riesco a metter il naso fuori dall’uscio, è una tal festa che non mi potete credere. Guardate, è come se fosse un Natale o una Pasqua fuori stagione. Ah, è talmente bello che mi sento un re”. Ogni volta, prima di tirar fuori il mazzo delle carte dal cassetto, Giacomo –  quasi stesse sgranando un rosario – ci faceva partecipi delle sue lamentele. Ma bastavano due o tre smazzate per sparigliare tutto e come d’incanto si dimenticava di acciacchi e malanni. Faceva smorfie, imprecava, sbatteva le carte sul tavolo. Non nascondeva l’ira o la gioia, a seconda di come gli “giravano” le carte, ma era un’altra persona. Amava quei giochi, vantandosi di essere un grande esperto. A volte ci teneva delle vere e proprie lezioni. “ Vedete, il mazzo con cui stiamo giocando è composto da 40 carte di 4 diversi semi. Ma c’è una grande varietà stilistica nel disegno. In alcune regioni sono diffuse le carte di stile italiano o spagnolo, con i semi di bastoni, coppe, denari e spade e con le figure del fante, del cavallo e del re. In altre si usano le carte con i semi francesi .Sono cuori, quadri, fiori e picche, con le figure del fante, della donna e del re.Ecco, sono proprio queste che stiamo usando per la nostra partita”. Parlava come un libro stampato, in un italiano corretto e persino raffinato. “Fate attenzione a queste.Sono carte bergamasche, tipicamente nordiche.Hanno caratteristiche in comune con le figure dei tarocchi lombardi. L’asso di coppe si ispira alle insegne della famiglia Sforza”. Era capace di andar avanti così per un bel po’ se non cambiavamo discorso. E allora ci raccontava delle sue avventure, partendo sempre da quella volta che aveva portato sull’isolino una contessa ( omettendo di dire chi fosse, precisando “sapete,io sono una persona discreta e non mi piace far nomi” ) che per tutto il tragitto continuò a fargli l’occhiolino. Immaginando una qualche complicità e una sorta d’invito, appena toccato terra, tentò di abbracciarla e baciarla, guadagnandosi una sberla tremenda. “Madonna, che botta mi ha dato! Cinque dita cinque, in faccia, secche come un chiodo. Ero diventato rosso come un tumatis, un pomodoro, restando lì a bocca aperta, come un baccalà”. “ Ah, cari miei, se beccavo quel maledetto Luigino dell’Osteria dei Quattro Cantoni lo facevo nero come il carbone”. Quella storia l’aveva raccontata un infinità di volte ma, per non contraddirlo, ci fingevamo interessati e lo incalzavamo con le solite domande (“Come mai,Giacomo? Cosa c’entrava Luigino?”). E lui s’infervorava. “Cosa c’entrava, quella carogna? Cosa c’entrava? C’entrava che se l’avevo tra le mani gli davo un bel ripassoLo pettinavo per bene quel mascalzone. Mi aveva assicurato che la contessa era una che ci stava, che gli piacevano i barcaioli. Mi disse che se gli fossi piaciuto mi avrebbe fatto l’occhiolino. E me l’aveva fatto, porco boia; altro che se me l’aveva fatto. Ma era per via di un tic nervoso. Altro che starci. Sembrava una iena. E quel saltafossi lo sapeva, capite? Lo sapeva e mi ha tirato uno scherzo”. Sbollita la rabbia per quella brutta figura che ormai faceva parte dei ricordi, ricominciava a giocare, picchiando le carte sul tavolo come se quello fosse la testa pelata di Luigino. Giacomo abitava in una casa che dava su via Domo. Dalla parrocchiale , dove c’è Largo Locatelli, si scendeva verso l’abitazione per una viuzza stretta, tortuosa, lastricata a boccette che finiva nella piazzetta. Lì, al numero 12, in una casa piuttosto bassa, coperta da un tetto di piode, stava il Verdi. Quasi in faccia alla cappelletta che ,si diceva, fosse stata eretta come ex-voto per la liberazione dalla peste. Sotto l’arco s’intravedevano ancora gli affreschi raffiguranti la Madonna con il Bambino e ben due coppie di santi : Giuseppe e Defendente, da una parte;Gervaso e Protaso, dall’altra. Era lì che la povera Marietta posava il cero nei giorni in cui suo marito, quel matto di Giacomo, metteva la barca in acqua incurante del “maggiore” che spazzava le onde, gonfiando minacciosamente il lago. Ora che Marietta era  passata a miglior vita era Giacomo – ormai prigioniero a terra per via dei malanni – a dare qualche soldo a Cecilio, il sacrestano, perché non si perdesse quell’abitudine che – diceva, sospirando – “ in fondo, mi ha sempre portato bene”. Ecco, le giornate più uggiose le passavamo in casa di Giacomo, in uno dei rioni più antichi di Baveno.Lì c’è ,ancora adesso, la “Casa Morandi”, un edificio settecentesco di quattro piani, con scale esterne e ballatoi. È forse l’angolo più apprezzato dai pittori e dai fotografi di tutta la cittadina. Sono in tanti, in Italia e all’estero, a tenere sulle pareti del salotto un acquerello, una china o più semplicemente una foto incorniciata della casa Morandi. Segno inequivocabile che da lì è passata un sacco di gente ,portando con sé la storia, quella vera, quella che si legge sui libri. E magari incrociando le carte con Giacomo.

Marco Travaglini

Vecchio Piemonte: pesche ripiene all’antica

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Un antico dessert estivo tipico del Piemonte, tutto da gustare. Una preparazione semplice e genuina realizzata con pesche dolci e mature, farcite da un goloso ripieno a base di cioccolato fondente e amaretti, un abbinamento davvero delizioso e irresistibile.

Ingredienti:

6 pesche mature a pasta bianca

80 gr. di amaretti

60 gr.di cioccolato fondente

2 tuorli

30 gr. di zucchero a velo

Poco burro

Lavare ed asciugare le pesche. Tagliarle a meta’ ed eliminare il nocciolo. Scavare un poco la polpa e metterla in una terrina. Preparare il ripieno mescolando la polpa delle pesche tritata con il cioccolato grattugiato e gli amaretti sbriciolati, unire parte dello zucchero a velo e i due tuorli. Disporre le mezze pesche in una pirofila da forno, precedentemente imburrata, riempirle con il ripieno di amaretti ed un fiocchetto di burro. Cuocere in forno a 190 gradi per circa 30 minuti. Servire a piacere tiepide o fredde cosparse di zucchero a velo.

Paperita Patty

Linea Cadorna, la Maginot italiana

Il sistema di fortificazioni che si  estende dall’Ossola alla Valtellina. Un enorme reticolo di trincee, postazioni di artiglieria, luoghi d’avvistamento, ospedaletti, strutture logistiche e centri di comando, collegate da centinaia di chilometri di strade e mulattiere, realizzato durante il periodo della prima guerra mondiale

Linea Cadorna” è il nome con cui è conosciuto  il sistema di fortificazioni che si  estende dall’Ossola alla Valtellina. Un enorme reticolo di trincee, postazioni di artiglieria, luoghi d’avvistamento, ospedaletti, strutture logistiche e centri di comando, collegate da centinaia di chilometri di strade e mulattiere, realizzato durante il periodo della prima guerra mondiale. Un’opera fortemente voluta dal generale Luigi Cadorna, capo di Stato Maggiore dell’Esercito (originario di Pallanza, sul lago Maggiore), con lo scopo di contrastare una eventuale invasione austro-tedesca proveniente dalla Svizzera.

Lo scoppio della guerra – il 23 luglio del 1914 –  e gli avvenimenti successivi tra cui l’invasione del Belgio neutrale e i cambi di alleanze tra le varie potenze europee, accentuarono i dubbi sulla volontà del governo elvetico di far rispettare la neutralità del proprio territorio. Così, una volta che l’Italia entrò in guerra  contro l’Austria  – il 24 maggio 1915 – , il generale Cadorna, per non incorrere in amare sorprese, ordinò di avviare i lavori difensivi, rendendo esecutivo il progetto di difesa già predisposto. Da quasi mezzo secolo erano stati redatti studi, progettazioni, ricognizioni, indagini geomorfologiche, pianificazioni strategiche, ricerche tecnologiche. E non si era stati con le mani in mano: a partire dal 1911 erano state erette le fortificazioni sul Montorfano, a difesa degli accessi dalla Val d’Ossola e dal Lago Maggiore,  e gli appostamenti per artiglieria sui monti Piambello, Scerré, Martica, Campo dei Fiori, Gino e Sighignola, tra le prealpi varesine e la comasca Val d’Intelvi. Anche la Svizzera, dal canto suo,  intensificò i lavori di fortificazione al confine con l’Italia, realizzando opere di sbarramento a Gordola, Magadino, Monte Ceneri e sui monti di Medaglia, nel canton Ticino. In realtà,tornando alla Linea Cadorna,quest’opera, nella terminologia militare dell’epoca, era definita come ” Frontiera Nord” o, per esteso, “sistema difensivo italiano alla Frontiera Nordverso la Svizzera”. E, ad onor del vero, più che una fortificazione collocata a ridosso della frontiera si tratta di una linea difensiva costruita in località più arretrate rispetto al confine, con lo scopo di presidiare  i punti nevralgici. Un’impresa mastodontica.

 

Basta scorrere, in sintesi,  la consistenza dei lavori eseguiti e delle spese sostenute per la loro realizzazione: “Sistemazione difensiva – Si svolge dalla Val d’Ossola alla Cresta orobica, attraverso le alture a sud del Lago di Lugano e con elementi in Val d’Aosta. Comprende 72 km di trinceramenti, 88 appostamenti per batterie, di cui 11 in caverna, mq 25000 di baraccamenti, 296 km di camionabile e 398 di carrarecce o mulattiere. La spesa complessiva sostenuta, tenuto conto dei 15-20000 operai ( con punte fino a trentamila, nel 1916, Ndr) che in media vi furono adibiti, può calcolarsi in circa 104 milioni”. Le ristrettezze finanziarie indussero ad un utilizzo oculato delle materie prime,recuperate sul territorio. Si aprirono cave di sabbia, venne drenata la ghiaia negli alvei di fiumi e torrenti; si produsse calce rimettendo in funzione vecchie fornaci e furono adottati ingegnosi sistemi di canalizzazione delle acque. Gli scalpellini ricavarono il  pietrame, boscaioli e falegnami il legname da opera, e così via. I requisiti per poter essere arruolati come manodopera, in quegli anni di fame e miseria, consistevano nel possedere la cittadinanza italiana, il passaporto per l’interno e i necessari certificati sanitari. L’età non doveva essere inferiore ai 17 anni e non superiore ai sessanta e, in più, occorreva che i lavoratori fossero muniti di indumenti ed oggetti personali. A dire il vero, in ragione della ridotta disponibilità di manodopera maschile, per i frequenti richiami alle armi, vennero assunti anche ragazzi con meno di 15 anni, addetti a mansioni di manovalanza, di guardiani dei macchinari in dotazione nei cantieri o di addetti alle pulizie delle baracche.  La manodopera femminile, definita con apposito contratto, veniva reclutata nei paesi vicini per consentire alle donne, mentre erano impegnate in un lavoro salariato, di poter badare alla propria famiglia e di occuparsi dei lavori agricoli. Il contratto era diverso a seconda dell’ente reclutante: l’amministrazione militare o le imprese private.

 

Quello militare garantiva l’alloggiamento gratuito, il vitto ( il rancio)  uguale a quello delle truppe, l’assistenza sanitaria gratuita, l’assicurazione contro gli infortuni, un salario stabilito in relazione alla durata del lavoro da compiere, alle condizioni di pericolo e commisurato alla professionalità e al rendimento individuale. Il salario minimo era fissato, in centesimi, da 10 a 20 l’ora per donne e ragazzi; da 30 a 40 l’ora per sterratori, manovali e braccianti; da 40 a 50 per muratori, carpentieri, falegnami, fabbri e minatori; da 60 ad una lira per i capisquadra. L’orario di lavoro era impegnativo e  prevedeva dalle 6 alle 12 ore giornaliere, diurne o notturne, per tutti i giorni della settimana. Delle paventate truppe d’invasione che, come orde fameliche, valicando le Alpi, sarebbero dilagate nella pianura padana, non si vide neppure l’ombra. Così, senza il nemico e senza la necessità di sparare un colpo, con la fine della guerra,  le fortificazioni vennero dismesse. Quelle strutture, negli anni del primo dopoguerra, furono in parte riutilizzate per le esercitazioni militari e , negli anni trenta, inserite in blocco e d’ufficio nell’ambizioso  progetto del “Vallo Alpino”, la linea difensiva che avrebbe dovuto – come una sorta di “grande muraglia” –  rendere inviolabili gli oltre 1800 chilometri di confine dello Stato italiano. Un’impresa titanica, da far tremare le vene ai polsi che, forse proprio perché troppo ardita, in realtà, non giunse mai a compimento. Anche nella seconda guerra mondiale, la Linea Cadorna non conobbe operazioni  belliche, se si escludono i due tratti del Monte San Martino (nel varesotto, tra la Valcuvia e il lago Maggiore) e lungo la Val d’Ossola dove, per brevi periodi , durante la Resistenza, furono utilizzati dalle formazioni partigiane. Infine, come tutte le fortificazioni italiane non smantellate dal Trattato di pace siglato a Parigi nel febbraio 1947, a partire dai primi d’aprile del 1949, anche la “linea di difesa alla frontiera nord” entrò a far parte del Patto Atlantico istituito per fronteggiare il blocco sovietico ai tempi della “guerra fredda”. Volendo stabilire una data in cui ritenere conclusa la storia della Linea Cadorna, almeno dal punto di vista militare, quest’ultima può essere fissata con la caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989.

 

Da allora in poi, le trincee, le fortificazioni e le mulattiere sono state interessate da interventi di restauro conservativo realizzati dagli enti pubblici che hanno permesso di recuperarne gran parte  alla fruizione turistica, lungo gli itinerari segnalati. La “Cadorna” si offre oggi ai visitatori come una  vera e propria “Maginot italiana”,  un gigante inviolato, in grado di presentarsi senza aloni drammatici, come un sito archeologico dove è possibile vedere e studiare reperti che hanno subito l’ingiuria degli uomini e del tempo ma non quella dirompente della guerra. Tralasciando la parte lombarda che si estende fino alla Valtellina e restando in territorio piemontese, sono visitabili diversi percorsi, dal forte di Bara  – sopra Migiandone, nel punto più stretto del fondovalle ossolano –  alle trincee del Montorfano, dalle postazioni in caverna del Monte Morissolo al fitto reticolo di trincee e postazioni di tiro dello Spalavera  ( la sua vetta è uno splendido belvedere sul Lago Maggiore e le grandi Alpi), dalle trincee circolari con i camminamenti e la grande postazione per obici e mortai del Monte Bavarione fino alle linee difensive del Vadà e del monte Carza, per terminare con quelle  della “regina del Verbano”, un monte la cui vetta oltre i duemila metri, viene ostentatamente declinata al femminile dagli alpigiani: “la Zeda”.

Marco Travaglini

Scaloppine di vitello al limone

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Un secondo piatto di carne amato da tutti, da preparare a pranzo o a cena anche all’ultimo momento. Le scaloppine al limone si preparano con  pochi ingredienti, semplicemente tenere e sottili fettine di vitello avvolte da una fresca e agrumata salsa cremosa e vellutata. Davvero stuzzicanti ed irresistibili.

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Ingredienti

 

6 fettine di carne divitello

1 limone

1 noce di burro

1 rametto di rosmarino

1 spicchio di aglio intero

Poca farina bianca

Mezzo bicchiere di vino bianco secco

Sale, pepe q.b.

Appiattire le fette di carne con il batticarne, incidere i bordi delle fettine per non farle arricciare. Passare le fettine nella farina bianca facendola aderire bene. In una larga padella far spumeggiare il burro con il rosmarino e l’aglio, mettere le fettine e lasciarle rosolare da entrambi i lati, sfumare con il vino bianco, lasciar evaporare, abbassare la fiamma e lasciar cuocere per alcuni minuti. Aromatizzare con il succo di limone e la buccia grattugiata, lasciare insaporire per due minuti poi salare e pepare. Filtrare la salsa per renderla piu’ vellutata e servire subito.

Paperita Patty

Pietro Micca, nel bronzo la storia di un eroe popolare

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Nel 1863, dopo un primo e vano tentativo di fusione della statua, il fonditore francese Pietro Couturier portò a termine l’incarico assegnatogli; il Consiglio Comunale scelse quindi di innalzare la statua poco lontano dal luogo stesso dove un secolo e mezzo prima era successo il fatto, cioè di fronte al Mastio della Cittadella il quale, in onore dell’evento, venne opportunamente restaurato a carico del Ministero della Guerra

Il monumento è collocato all’angolo tra via Cernaia e corso Galileo Ferraris, nel giardino dedicato ad Andrea Guglielminetti. La statua ritrae Pietro Micca, posto sulla sommità di un alto basamento modanato, in posizione eretta con la divisa degli artiglieri presumibilmente nell’atto fiero e consapevole che precede lo scoppio delle polveri. Infatti, mentre nella mano destra tiene la miccia, la sinistra è serrata a pugno quasi a voler enfatizzare, unitamente alla tensione della leggera torsione, il momento decisivo che precede l’innesco delle polveri (in riferimento all’episodio eroico che lo rese celebre).

 

Pietro Micca nacque a Sagliano il 6 marzo 1677 da una famiglia dalle origini modeste. Arruolato come soldato-minatore nell’esercito del Ducato di Savoia, è storicamente ricordato per l’episodio di eroismo durante il quale perse la vita al fine di permettere alla città di Torino di resistere all’assedio del 1706, durante la guerra di successione spagnola.La tradizione narra che la notte tra il 29 ed il 30 agosto 1706 (e cioè durante il pieno assedio di Torino da pare dell’esercito francese) alcune forze nemiche entrarono in una delle gallerie sotterranee della Cittadella, uccidendo le sentinelle e cercando di sfondare una delle porte che conducevano all’interno. Pietro Micca, che era conosciuto con il soprannome di passepartout, decise (una volta capito che lui ed il suo commilitone non avrebbero resistito per molto) di far scoppiare della polvere da sparo allo scopo di provocare il crollo della galleria e non consentire il passaggio alle truppe nemiche. Non potendo utilizzare una miccia lunga perché avrebbe impiegato troppo tempo per far esplodere le polveri, Micca decise di impiegare una miccia corta, conscio del rischio che avrebbe corso. Fece allontanare il suo compagno con una frase che sarebbe diventata storica “Alzati, che sei più lungo d’una giornata senza pane” e senza esitare diede fuoco alle polveri.

Morì travolto dall’esplosione mentre cercava di mettersi in salvo correndo lungo la scala che portava al cunicolo sottostante; era il 30 agosto del 1706.Il gesto eroico del minatore-soldato sarà riconosciuto in seguito durante tutto il Risorgimento come autentico simbolo di patriottismo popolare, sino ad essere ricordato ai giorni nostri.L’idea di celebrare con un monumento l’eroe popolare, nacque già nel 1837 dal Re Carlo Alberto alla morte dell’ultimo discendente maschile del soldato ‘salvatore’ della Città. Modellato dallo scultore Giuseppe Bogliani, il busto di Pietro Micca (rigorosamente in bronzo) ritraeva l’eroe con il capo coronato di gramigna con accanto una Minerva-guerriera seduta con una corona di quercia. Il monumento però non sembrava rispondere completamente al concetto di popolare riconoscenza con cui si sarebbe voluto ricordare Pietro Micca e così venne per così dire abbandonato all’interno dell’ Arsenale di Torino. Dopo circa vent’anni, nel 1857, da parte di uno scultore dell’Accademia Albertina di Belle Arti, Giuseppe Cassano, venne ripresa l’idea di ritrarre Pietro Micca.

Il Consiglio comunale, in seduta del 29 maggio 1858, approvò l’iniziativa ed il Re Vittorio Emanuele II espresse il desiderio che la statua del Micca venisse realizzata in bronzo ed eseguita nelle fonderie dell’Arsenale. In momenti differenti il Parlamento stanziò per il monumento L. 15.000 con le quali vennero pagate le sole spese di fusione; unitamente la sottoscrizione pubblica stanziò L. 2.200 (appena utili al rimborso dello scultore Cassano), L. 7.700 a Pietro Giani per la realizzazione del piedistallo e L. 2.000 per la posa in opera, arrivando così ad un costo totale di L. 26.900.

Nel 1863, dopo un primo e vano tentativo di fusione della statua, il fonditore francese Pietro Couturier portò a termine l’incarico assegnatogli; il Consiglio Comunale scelse quindi di innalzare la statua poco lontano dal luogo stesso dove un secolo e mezzo prima era successo il fatto, cioè di fronte al Mastio della Cittadella il quale, in onore dell’evento, venne opportunamente restaurato a carico del Ministero della Guerra. La sera del 4 giugno 1864 venne finalmente inaugurato il monumento ad onorare il gesto eroico del soldato-minatore di Sagliano.L’importanza dell’impresa di Pietro Micca è celebrata anche nel Museo che porta il suo nome, luogo dove è esposto il monumento a Pietro Micca del Bogliani del 1836.

 

Ed anche per questa volta la nostra “passeggiata con il naso all’insù” termina qui. Ci rivediamo per il prossimo appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere.

 

Simona Pili Stella