redazione il torinese

De Amicis, il monumento grazie a un amico

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I monumenti di Torino    Ecco un nuovo appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere. Quest’oggi vorremmo parlarvi del monumento dedicato a Edmondo De Amicis, conosciuto da tutti per essere l’autore del libro Cuore

Situata in piazza Carlo Felice, all’interno dei Giardini Sambuy, l’opera è formata da due elementi su un’ampia piattaforma con scalini. In primo piano si erge la statua della “Seminatrice di buone parole”, rappresentata dalla “bella figura di una popolana dal largo gesto che diffonde la semente”(cit.), mentre sullo sfondo è situato un muro a esedra (incavo semi-circolare), decorato da un fitto altorilievo nel quale sono raffigurate scena di vita quotidiana, narranti episodi di “amor figliale, amor materno, amicizia, studio, amor di patria, carità e lavoro”(cit.). Sul piedistallo della statua è invece scolpito un medaglione con il profilo di Edmondo De Amicis.

 

Edmondo De Amicis nacque ad Oneglia il 21 ottobre 1846 da una famiglia benestante di origine genevose. Nel 1848 la sua famiglia si trasferì in Piemonte, dapprima a Cuneo e poi a Torino, dove Edmondo frequentò il liceo. All’età di 16 anni entrò al Collegio Militare Candellero di Torino, ma fu subito trasferito all’Accademia militare di Modena dove divenne ufficiale sottotenente. Nel 1866 partecipò alla battaglia di Custoza ma, l’anno dopo, decise di abbandonare l’esercito per dedicarsi alla carriera di giornalista. Divenne quindi giornalista militare e trasferitosi a Firenze, assunse la direzione della rivista “L’ Italia Militare”. Nel 1868, all’età di 22 anni, venne assunto dal giornale “la Nazione” di Firenze, dove continuò come inviato militare assistendo così, nel 1870, alla presa di Roma.

Dal 1879 (ma più permanentemente dal 1885) De Amicis si stabilì a Torino, andando ad abitare presso il palazzo Perini, davanti alla vecchia stazione ferroviaria di Porta Susa; qui (ispirato forse dalla vita scolastica dei suoi figli Ugo e Furio), terminò quella che fu considerata la sua più grande opera. Il 17 ottobre 1886 (primo giorno di scuola di quell’anno), venne infatti pubblicato Cuore, una raccolta di episodi ambientati tra dei compagni di una classe elementare di Torino, provenienti da regioni diverse, costruito come finzione letteraria di un diario di un ipotetico ragazzo: l’io narrante Enrico Bottini.

Il romanzo (nato come libro per ragazzi), ebbe subito un grande successo e venne molto apprezzato sia per il suo carattere educativo-pedagogico, sia perché ricco di spunti morali riguardanti i miti affettivi e patriottici del Risorgimento italiano. Il libro Cuore fece conoscere Edmondo De Amicis in tutto il mondo e lo suggellò autore attento alle problematiche della borghesia, del popolo e dell’educazione. Alcuni avvenimenti spiacevoli della sua vita, come ad esempio la morte suicida del figlio maggiore Furio (nel 1898 si sparò al Parco del Valentino), lo portarono ad abbandonare definitivamente la città sabauda. In seguito scrisse numerosi racconti nel corso dei suoi viaggi in Spagna, Francia, Inghilterra, Olanda, Costantinopoli e Marocco. Morì a Bordighera l’11 marzo del 1908 a causa di una improvvisa emorragia celebrale. Su iniziativa della Gazzetta del Popolo, per onorare la memoria di Edmondo De Amicis ad un anno dalla sua scomparsa, un Comitato propose di erigere un monumento a lui dedicato, che ne onorasse la memoria e ne esaltasse le “doti di educatore e autore immortale”(cit.) del libro Cuore.

L’esecuzione dell’opera venne affidata direttamente (non si proclamò nessun concorso) allo scultore e disegnatore Edoardo Rubino, caro amico di De Amicis, che si propose di realizzare il monumento a titolo gratuito come suo personale contributo. Ad un anno di distanza dall’iniziativa, nel 1910, Rubino presentò il bozzetto del progetto che trovò il consenso e l’approvazione di tutti. Il monumento venne terminato già nel 1914, ma la posa in opera con l’ufficiale inaugurazione, avvenne una decina di anni più tardi a causa di alcune questioni riguardanti la scelta del luogo. Su richiesta della commissione, l’inaugurazione avvenne il 21 ottobre 1923, volutamente dopo l’apertura delle scuole, in modo che “gli potesse essere intorno come aureola gloriosa l’affetto di centinaia di bimbi” (cit.).

Simona Pili Stella

I “chiodini” intelligenti della Quercetti

Ovviamente i giochi si sono evoluti, ma quel che conta e che fa la differenza è che l’impronta è la stessa data dal fondatore 67 anni fa. Giochi tradizionali, manuali, intelligenti

 

Caro Alessandro, i “plonini” hanno compiuto sessantacinque anni. Sette in più del tuo papà, più del doppio dei tuoi. Ma sono sempre quelli, di plastica colorata, che infilavi nei buchi per disegnare figure”. Così scriverei a mio figlio, in una ipotetica lettera, ricordando il tempo in cui giocava con i chiodini della Quercetti. Sì, erano quelli i “plonini” ( i bimbi tendono a reinventarsi i nomi; anche Snoopy era diventato “Stuyng” e i Puffi si erano ritrovati come d’incanto ad essere dei “fuppi” ) che nel 1950 uscirono dalla fabbrica torinese di Corso Vigevano,25. Esattamente 67 anni fa, Alessandro Quercetti, diede vita a uno fra gli esempi più longevi dell’industria del giocattolo in Italia. E, nonostante il paese sia cambiato dall’inizio del secondo dopoguerra e almeno tre generazioni di italiani hanno giocato con quei chiodini di plastica, sembra che per la “Quercetti & C.” il tempo si sia fermato. Certo, la fabbrica è più grande, moderna e tecnologica, ma il nome sulla porta è sempre lo stesso ed a  guidarla è sempre la stessa famiglia: Andrea, Alberto e Stefano Quercetti, i figli di Alessandro. L’azienda torinese rappresenta uno degli esempi più longevi dell’industria del giocattolo in Italia, un comparto che, nella maggior parte dei casi, ha dovuto arrendersi allo strapotere dei produttori asiatici.

Ovviamente i giochi si sono evoluti, ma quel che conta e che fa la differenza è che l’impronta è la stessa data dal fondatore. Giochi tradizionali, manuali, intelligenti. E il “pezzo forte” dell’azienda è sempre lui, il mitico “Chiodino“, intuizione straordinaria che ha reso il marchio “Quercetti” e i suoi giochi riconoscibili in tutto il mondo. La gamma dei giochi nel tempo è decuplicata, e sono cambiati materiali e tecnologie produttive: ai chiodini, si sono aggiunti biglie, costruzioni, aerei, magneti. Ma ogni pezzo viene realizzato ancora oggi in Italia, nello stabilimento di Torino, dove la Quercetti  può vantare di essere una delle pochissime realtà con un controllo diretto dell’intera filiera produttiva. Tutto il lavoro, a partire dalla progettazione del giocattolo fino al confezionamento del prodotto finito è interamente realizzato in Corso Vigevano. L’intero ciclo di produzione, dall’idea al prototipo, dallo sviluppo del prodotto alla costruzione degli  stampi, dallo stampaggio al confezionamento fino alla spedizione è svolto in Italia, sviluppando un indotto sul territorio. Così, nel tempo, la Quercetti  ha mantenuto la sua identità e non è mai scesa a compromessi. Perché per fare giocattoli, per essere in grado di offrire ai bambini una ricca gamma di esperienze, per realizzare un prodotto che non si limiti ad attrarre ma che stimoli l’intelligenza dei bambini. Rispettandola e coltivandola nel tempo, chiodino dopo chiodino.

Marco Travaglini

Il Tubolario, dissacrante gioco di parole degli anni ’80

Sul finire degli anni Settanta, con la legge 833 del 1978, venne istituito il servizio sanitario nazionale. In seguito a quella che, a buon diritto, è ricordata come la vera e grande riforma sanitaria italiana, cominciarono a circolare una marea di piani sanitari regionali e locali infarciti di frasi ripetitive, roboanti e, come capita spesso, incomprensibili ai più.

Due professori, dotati di uno spiccato senso dell’ironia, ribellandosi a quest’alluvione di parole e di  frasi inutili, inventarono il GAPS, acronimo che stava per “Generatore Automatico Piani Sanitari”.Il professor Marco Marchi dell’Istituto di Biostatistica ed Epidemiologia dell’Università di Pisa e il prof. Piero Morosini, direttore di laboratorio dell’Istituto Superiore di Sanità, grazie alla notizia della loro “invenzione” si guadagnarono la prima pagina del Corriere della Sera.

La Tecnogiocattoli Sebino, ditta bresciana famosa per aver prodotto il famoso bambolotto “Cicciobello ( e anche i suoi  fratelli multietnici: Cicciobello Angelo nero e Cicciobello Ciao-Fiù-Lin, dai tratti somatici tipicamente orientali) li contattò all’inizio degli anni ’80 per sviluppare l’idea e dar vita al Tubolario, riadattando le frasi del Gaps, sostituendo i termini ed i riferimenti  squisitamente sanitari con la finalità di poterlo proporre in un linguaggio più “politichese”. La confezione che  venne messa in vendita (su licenza dei due inventori) consisteva in una scatola contenente tre tubi con riferimento ad altrettanti temi : il linguaggio politico-sindacale, le frasi d’amore e un gergo sportivo (in particolare riferito al mondo del calcio). Di quei “tubolari” ne furono vendute migliaia di copie. In seguito, anche per problemi legati alla corresponsione dei diritti d’autore ( che furono negati a Marchi e Morosini per l’uso collaterale del tubo quale contenitore di cioccolatini) il rapporto con la fabbrica di giocattoli di Cologne si concluse senza lo sviluppo di altre versioni del gioco, com’era nelle intenzioni originarie. Durò poco la storia, ironica e dissacrante, del “Tubolario”, gioco intelligente che prendeva di mira l’abitudine assai diffusa ad esprimersi per frasi fatte, luoghi comuni, ed altre forme più o meno omologate di discorso che caratterizzano il linguaggio specialistico di politici, giornalisti ed altri personaggi che, spesso, gicano con le parole per comunicare senza dire niente che possa comprometterli.

Un esempio? Ecco una frase del “Tubolario”: “L’indicazione della base/ persegue/ il ribaltamento della logica preesistente/in una visione organica e ricondotta a unità /evidenziando ed esplicitando /in termini di efficacia e di efficienza / l’adozione di una metodologia differenziata”. Non male, vero? Eccone un’altra: “Il nuovo soggetto sociale/ presuppone/ un organico collegamento interdisciplinare/con criteri non dirigistici/fattualizzando e concretizzando/nei tempi brevi, anzi brevissimi/un indispensabile salto di qualità”. Le frasi,organizzate sotto forma di un discorso dall’apparenza logica, di fatto non esprimono un bel niente, ma danno la sensazione di volerlo fare. Il “Tubolario”, realizzato con l’uso di una settantina di brevi periodi stampati su sette cilindri rotanti, consentiva, a chi avesse deciso di utilizzarlo, di improvvisare un numero imprecisato di frasi ad effetto, senza mai dire niente di concreto. Nonostante ormai sia un oggetto di culto, sentendo alcuni dei protagonisti dei talk show televisivi (termine di lingua inglese che significa, tanto per essere pignoli, “spettacolo di conversazione o programma di parole”), parrebbe che non sia stato relegato nel baule dei ricordi ma venga tutt’ora usato con disinvoltura.

Marco Travaglini

Delicato e saporito il risotto gamberi e zucchine: un classico

Il riso italiano, altamente nutritivo, digeribile e versatile si presta ad innumerevoli preparazioni

 

Il riso italiano ,“re dei cereali”, e’ tra i migliori al mondo, e’ espressione di cultura e tradizione delle specifiche zone di produzione. Altamente nutritivo, digeribile e versatile si presta ad innumerevoli preparazioni. La ricetta della settimana e’ un primo classico, semplice, che unisce sapori di terra e di mare che si esaltano a vicenda in un dolce e perfetto connubio. Uno degli abbinamenti piu’ amati.

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Ingredienti per 4 persone:

 

350gr.di riso per risotti

200gr,di piccole zucchine fresche

15 gamberi freschi

1 piccolo porro

1 scalogno o 1 piccola cipolla

1 bicchiere di vino bianco secco

1 litro di fumetto di pesce

1 carota, 1 gambo di sedano,1/2 cipolla, un rametto di finocchietto selvatico (per il fumetto)

burro/olio q.b.

prezzemolo tritato q.b.

sale q.b.

Sgusciare i gamberi (avendo cura di tenere da parte le teste e i gusci), eliminare il filetto nero, lavare velocemente. Preparare il fumetto di pesce, portare a bollore l’acqua con gli scarti dei gamberi,cipolla, carota, sedano e poco sale, filtrare.

Tritare lo scalogno. Lavare e tagliare le zucchine a rondelle sottili. Scaldare l’olio/burro in una larga padella, rosolare lo scalogno e il porro tagliato a rondelle, aggiungere il riso e farlo tostare a fuoco vivace finche’ i chicchi diventano traslucidi. Bagnare con il vino bianco, lasciar evaporare. Aggiungere poco alla volta il fumetto di pesce bollente. A meta’ cottura unire le zucchine e poi aggiungere i gamberi. Aggiustare di sale.Togliere dal fuoco, completare con il prezzemolo, mantecare con una noce di burro, lasciare riposare per due minuti e servire.

 

Paperita Patty

L’imbarazzante presentazione…

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File di lampadine illuminavano la festa. I tavoli e le panche di legno, per l’occasione, erano stati rimessi a nuovo da Bepi Venier. Ripuliti, passati meticolosamente con la spessa carta vetrata e tonificati con una mano abbondante di essenza di trementina e poi di coppale, una resina dura, traslucida, delicata d’odore

La scelta del colore, un bel marrone carico, non era stata dettata da ragioni estetiche ma dalla necessità: erano le uniche due latte di vernice che Aquilino Bonello era riuscito a recuperare gratis da un suo vecchio cliente. Dunque, di necessità si fece virtù. La cucina, protetta da una struttura in tubi Innocenti, era stata montata su di un pavimento in mattonelle di ceramica posato da Teresio che in gioventù si era distinto come onesto artigiano piastrellista. Mariuccia era stata nominata, con il consenso di tutti, comandante in capo per le operazioni di cucina. Insieme a due amiche, Luisella e Adelaide, e a tre aiutanti a far da garzoni aveva predisposto un piano di battaglia adeguato. “Mettere insieme pranzo e cena per un oltre un centinaio di commensali per volta non è semplice”, ripeté per giorni, facendosi pregare. Maria era fatta così. Le piaceva fare la preziosa ma era solo scena; in fondo era ben contenta di farsi in due per la buona riuscita della prima festa dei pescatori del lago di Viverone, al campo sportivo di Azeglio. Lo specchio d’acqua dolce era il terzo lago più grande del Piemonte, situato tra l’estrema parte nord-orientale del Canavese e  e l’estrema parte meridionale del Biellese. E quella festa era davvero molto importante. Così come il contributo di Maria. La sua era una presenza indispensabile. Senza i suoi consigli e, quando capitava, senza il suo tocco, non ci sarebbero state quelle cene a base di pescato del lago che ogni mese venivano organizzate all’Osteria del Coregone Dorato. Nell’occasione aveva deciso di chiudere per tre giorni il locale, trasferendosi alla festa. Gran cuoca, dal cuore generoso e senza un’ombra di avarizia, non vedeva l’ora di poter raccontare a tutti i segreti della sua cucina. Immaginiamo che possa apparire come una stranezza, visto e considerato che i cuochi, di norma, sono gelosissimi dei loro segreti. Ma la nostra Maria  era convintissima di un fatto: a fare la differenza non erano solo ingredienti e tecniche ma il tocco, lamano. E su quello non temeva confronti. Un esempio, così a caso? La scorsa settimana, mentre si parlava del più e del meno, ci disse a bruciapelo: “Volete sapere come si fa la pastella per la frittura delle alborelle?” Non abbiamo fatto in tempo ad aprir bocca  che stava già declinando la ricetta. “Dovete versare in una terrina duecentocinquanta grammi di farina. Ci aggiungete due cucchiai di olio extra-vergine di oliva  e un pizzico di sale fino. Versate a poco a poco un bicchiere di birra chiara. Fatelo molto lentamente, sbattendo man mano con una forchetta, così evitate che si formino grumi. Con una quantità d’acqua sufficiente, a occhio, si ottiene una bella crema. Sapete montare gli albumi a neve? Bene. Ce ne vogliono sei. Quando sono pronti, li aggiungete alla pastella, mescolando ben bene dal basso verso l’alto. A questo punto non vi rimane che passarci i pescetti prima di tuffarli nell’olio bollente”. Tirò il fiato solo al termine della lezione,servendoci un gran piattone di quelle prelibatezze poichè Maria, mentre parlava, cucinava.

Gli architravi della nostra organizzazione, oltre a lei, erano Duilio e Giurgin. Per la scelta del vino occorreva un intenditore. Chi meglio di Jacopo di Piverone poteva vantare competenza e passione? Marcato stretto, evitando che si perdesse via in troppi assaggi, indicò nel vino da tavola di un produttore di Carema il migliore in assoluto. “Questo va bene per tutti i palati, anche per quelli più esigenti”, sentenziò, accompagnando le parole con un sonoro schiocco della lingua. Occorreva però una padella bella grande, larga quanto le braccia di Goffredo. Ma a questa aveva pensato Tomboli, che di nome faceva Mariano, operaio in un’impresa artigiana. L’aveva costruita un po’ per volta, sfruttando la pausa del pasto di mezzogiorno. Svuotata con quattro avide cucchiaiate la minestra della schiscèta, si metteva al lavoro. Batteva la lastra, ripiegando il metallo per ottenere un bordo abbastanza alto da non far schizzare fuori l’olio. Il fondo era doppio, robusto. Sul manico, saldato alla padella, aveva applicato un’impugnatura di legno, fissata con quattro viti. Per friggere i pesci in quantità era una cannonata. Se quella di Camogli rimaneva la padella per la frittura di pesce più grande d’Italia, quella di Mariano è la più capiente e robusta del lago di Viverone. Oreste si è fatto avanti per averne una uguale ma Mariano non aveva sentito ragioni. “Paganini non ripete. Non è questione di soldi o di tempo. E’ che una volta fatta una padella così, con tutta la passione che ci ho buttato dentro, non credo di poterne fare una uguale. Per non far brutta figura, rinuncio”. Così, tra mega padelle e tanta buona volontà, la festa di Azeglio si aprì con un successo da non credere: tanti, tantissimi in coda per le razioni di frittura dorata, sfrigolante nell’olio d’oliva. Gli amanti del pesce non avevano che l’imbarazzo della scelta, degustando alborelle, trote, salmerini, tinche, carpe, persici, lucci e soprattutto gli immancabili coregoni impanati e fritti, marinati in carpione, proposti in umido con le verdure e il bagnetto. Come tutte le associazioni che si rispettino, anche la Società Pesca Libera Lago Viverone – dall’impronunciabile e scivoloso acronimo SPLLV – aderiva ad un organismo che di tutela e rappresentanza come la Fips, la federazione della pesca sportiva. Così, nell’intenzione di fare le cose per bene, venne invitato il delegato provinciale, un tal Giampiero Nuvoloni di Chivasso, per un saluto.

Il delegato, un omone di oltre cento chili, dal colorito rubizzo e con una imponente zazzera di capelli sale e pepe, si presentò puntuale. Gli avventori riempivano i tavoli e in gran numero stavano già onorando la cucina di Maria. Lui, guardandosi attorno compiaciuto, si avviò verso il microfono con Giurgin , al quale era stata affibbiato l’incarico di cerimoniere. Schiarita la voce con un colpo di tosse, accingendosi a presentare il dirigente della Fips, Giurgin iniziò a sudar freddo. Si era scordato il nome di quest’omone che, alle sue spalle, pareva incombesse su di lui, basso e mingherlino, con tutta la sua mole. Un vuoto di memoria improvviso e imbarazzante. Come diavolo si chiamava? Nugoletti, Nivolini, Nuvolazzi? Oddio, che guaio. Che fare, a quel punto? Non aveva alternative. Decise di stare sul generico e quindi, con tutte le buone intenzioni, provò a dribblare la difficoltà del momento, pronunciando poche ma decise parole: “Amici, cittadini, pescatori. E’ un onore ospitarvi e un privilegio dare la parola al.. mio didietro”. Le risate, soffocate a malapena, si sprecarono. Il Nuvoloni, che si trovava alle  spalle del povero Giurgin, si ritrovò in mano il microfono. Rosso in volto e schiumante di rabbia, lo avvicinò alla bocca quasi volesse morderlo o mangiarlo. L’altoparlante gracchiava di brutto e questo non aiutò la comprensione. Chi poté udire le parole dell’iracondo delegato Fips giurò in seguito che non fu un discorso particolarmente memorabile. Comunque, dopo meno di cinque minuti, il signor Giampiero, scuro in volto come il lago durante una tempesta, restituì il microfono e se ne andò, incavolato nero, senza guardare in faccia nessuno. Giurgin, affranto, piagnucolava: “Non l’ho fatto apposta. Ero in pallone e mi è venuta fuori così”. La sensazione che tutti ebbero era che, per un bel po’, difficilmente si sarebbe ancora visto da quelle parti il Nuvoloni e, molto probabilmente, anche gli altri della Fips. La festa azegliese, comunque, finì in gloria e allegria, consolando Giurgin con un allegro e chiassoso “prosit”!

Marco Travaglini

E la Lippa roteava nell’aria

Mai capitato di sentirvi dire, in varie forme dialettali, “…ma vai a giocare a lippa ! “, che era poi – spesso – un modo come un altro per esprimere una scarsa considerazione nei mezzi e nelle qualità del prossimo ?

Riordinando i ricordi dei giochi d’infanzia, da “praticare” all’aperto, nei prati ( dove non c’erano vetri da rompere e, di conseguenza, non c’erano nemmeno botte da prendere..), un posto di tutti rispetto va assegnato – per simpatia e particolarità – alla “Lippa”. Mai capitato di sentirvi dire, in varie forme dialettali, “..ma vai a giocare a lippa ! “, che era poi – spesso – un modo come un altro per esprimere una scarsa considerazione nei mezzi e nelle qualità del prossimo ? Un modo, a dire il vero, piuttosto improprio ed ingeneroso vista la discreta abilità che era richiesta ai praticanti della “lippa”, vera antesignana – secondo alcuni – del baseball. Ma, tralasciando l’aspetto storico sul quale ritorneremo dopo, vediamo in che cosa consiste il gioco. Si comincia dagli attrezzi, che sono due: il bastone e la “lippa” vera e propria, entrambi di legno, non di rado ricavati da un manico di scopa o, in mancanza, da qualsiasi ramo purché diritto ( era molto diffuso l’uso del nocciolo, flessibile, sinuoso e robusto ). La “lippa”, di solito lunga una spanna e mezza, aveva due punte che permettevano – colpendone una con il bastone – di alzarla e batterla al volo per “tirarla” il più lontano possibile. E la “lippa”, roteando nell’aria, tesseva la fitta trama del gioco. Il bastone – lungo più o meno un metro – aveva due funzioni: da una parte quella, già detta, di “battere” la lippa e dall’altra quella di fungere da unità di misura nella determinazione dei punti. Il gioco era aperto a tutti, da due ragazzi in su, e ci si accordava innanzitutto sulla scelta del campo, sulla direzione del tiro e sul numero dei punti necessari a vincere la partita.

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Prima di dare il via alla sfida bisognava “segnare” la base, cioè un cerchio di circa 150 centimetri di diametro, da tracciare “grattando” il terreno con il bastone, muovendosi su se stessi in senso rotatorio come in una sorta di “compasso vivente”. Sorteggiato l’ordine di battuta dei giocatori, la “lippa” poteva cominciare, ovviamente rispettando le regole che non erano poche.Vediamole, nella successione dei “gesti”. Il battitore si poneva dentro la base con lippa e bastone in mano, gli avversari si disponevano ad una distanza – ritenuta dagli stessi “giusta” – per poter valutare direzione e lunghezza del tiro. Il battitore, che disponeva di un solo tiro, chiedeva l’apertura del gioco pronunciando una parola convenzionale ( da noi diceva “lippa” ) e gli altri gli esprimevano il loro consenso rispondendo con un’altra parola ( nel caso che ricordo era “dàgla”, cioè dagliela.. intendendo la bastonata ), ma potevano anche rispondere diversamente, per ingannare il battitore e – secondo le regole – eliminarlo qualora questo avesse iniziato ugualmente il gioco. Tuttavia il battitore, a scanso di spiacevoli sorprese, sventava le insidie mettendosi al riparo con la formula liberatoria ed universale del ” Tutto vale! “. Sgombrato il gioco da preliminari e trabocchetti, avveniva il lancio della “lippa” che, colpendola a mezz’aria, si voleva mandare il più lontano possibile dalla base. Se sbagliava il tiro lo si dichiarava “cotto” e doveva lasciare il passo a chi seguiva. Se il tiro era valido, gli avversari tentavano di acchiappare al volo la “lippa” e se l’operazione aveva successo il battitore era “cotto”. Nel caso che la presa al volo falliva bisognava recuperare la “lippa” dal punto di caduta e rispedirla al battitore che doveva , a sua volta, ribatterla al volo e mandarla il più lontano possibile per “difendere” la base e poter avere ancora in mano gioco e battuta. Scontato che, se non riusciva, la cosa si faceva più complessa: se la “lippa” cadeva entro il perimetro della base o entro la misura di un bastone dalla medesima, il battitore era “cotto”; se cadeva oltre queste misure il battitore aveva diritto a tentare tre tiri alzando e battendo al volo la “lippa” dal punto in cui era caduta. I punti venivano calcolati in modo piuttosto singolare. Se il battitore andava a segno, proponeva lui stesso un numero di punti equivalente ( a sua valutazione ) a tante misure di bastone quante ne intercorrevano tra la base ed il punto di caduta della “lippa”. Gli avversari accettavano la proposta ? I punti venivano assegnati.

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Gli avversari però potevano fare una controproposta ( ovviamente inferiore.. ) : se il battitore l’accettava quella diventava legge, se la rifiutava si arrivava alla misurazione. Se la distanza risultava più vicina a quella proposta dal battitore i punti che aveva richiesto venivano raddoppiati, se viceversa era più giusta la controproposta il battitore restava con un palmo di naso e all’asciutto. Un bel regolamento, vero? In realtà il gioco della “lippa” offriva tre varianti: quella soltanto “battuta”, in cui si cercava di far arrivare la “lippa” in un certo punto o alla massima distanza – con delle gare molto semplici in cui ognuno giocava per se – , la versione della “lippa” in cui un giocatore la tirava e l’altro doveva afferrarla al volo ed infine la “lippa” tirata, afferrata e rilanciata, la più complessa ed anche la più bella, che abbiamo prima descritto. Ed è lei, per tornare al punto di partenza, la probabile antenata del baseball. Il gioco più famoso d’America – che in origine venne chiamato Town-ball, successivamente New York Game e dal 1839 con l’attuale Baseball – deriva dal Cricket portato in America ( come il Bowling… ) dai coloni inglesi. E se il “nobile Cricket ” discendesse dalla popolare “lippa”? Il cerchio sarebbe chiuso. E tutto torna, com’è successo per il Baseball. Dall’Europa si trasferì in America dove si rifece un nome per poi tornare nella terra d’origine. In Italia l’americano Max Ott ( forse una modifica anglofona di Massimo Ottino.. ), nel 1919, a Torino, organizzò la prima squadra italiana di Baseball. Una prova della “capacità migratoria” della lippa ? Di quella lippa che in Italia aveva molti nomi a seconda delle regioni ( dall’Aré Brusé fiorentino alla Bricca canavesana ) ed una comune radice antica ? Non saprei rispondere. So però che mentre mister Ott organizzava il Baseball tricolore con più o meno le stesse regole della “lippa”, i nostri bisnonni ed i nostri nonni ( allora ragazzini ) almeno qualche volta provavano la battuta al volo. E non è detto che non riuscissero a fare anche un bel po’ di punti.

Marco Travaglini

 

Il verde che purifica

Non solo belle e decorative, ma anche utili e protettive. Le piante sono una risorsa magnifica per la salvaguardia della nostra salute, sono in grado di catturare infatti alcune sostanze dannose per il nostro organismo, eliminare cattivi odori, come quello delle sigarette, mantenendo l’aria di casa salubre. La loro funzione ornamentale, come le notevoli proprietà balsamiche   che aromatizzano i nostri ambienti, fanno di questi organismi vegetali dei fedeli compagni che ricambiano cure e attenzioni con apprezzabili cortesie che favoriscono la salute. Anche la Nasa si è interessata a questo tema confermando la capacità di alcune piante di eliminare fino al 73% delle sostanze tossiche presenti nell’aria. Ogni pianta svolge un compito specifico nella sua azione depurativa per esempio l’Azalea, pianta dai meravigliosi colori originaria del Giappone e della Cina, filtra la formaldeide. L’Edera, il vivace rampicante verde, assorbe l’odore lasciato da pitture e inchiostri, ma anche il benzene contenuto nei detersivi. Inoltre è una pianta che arreda moltissimo soprattutto se si ha spazio per farla crescere ed espandere sulle pareti. L’Anthurium, dalle foglie a forma di cuore e fiori colorati e bianchi, può rimuovere una importante dose di ammoniaca ma anche di toluene (impiegato per il trattamento di vernici e colle) e xilene (solvente per gomme e cuoio). Il Ficus Benjamin, molto utilizzato negli appartamenti ma anche negli uffici oltre che per la sua piacevolezza anche per la sua facilità nella cura, è tra i migliori agenti nella rimozione degli allergeni provocati dalla presenza di mobili e tappeti. L’Aloe Vera, pianta africana facilissima da coltivare: poca acqua e tanta luce, è in grado di eliminare ben il 60% del benzene contenuto in vari prodotti in uso quotidianamente come i detergenti chimici. Non dimentichiamo inoltre le sue proprietà medicinali, è infatti un antinfiammatorio, un cicatrizzante, un idratante ma anche un antibatterico e gastro protettivo. Il Falangio, molto resistente e indicato per chi non ha propriamente il pollice verde, filtra anche l’ossido di carbonio oltre al benzene e alla formaldeide. La Palma di Bamboo, piccola e graziosa pianta che produce piccoli fiori e frutti, è molto utile per combattere le esalazioni di trielina, un pericoloso agente cancerogeno spesso usato nei prodotti sintetici per il lavaggio a secco e nei solventi. Infine la Dracaena, conosciuta come il Tronchetto della Felicità, oltre a filtrare l’aria dalle sostanze nocive già citate, è abile a ridurre l’ansia, la tristezza e lo stress. E’ molto utile anche contro il mal di testa e il bruciore agli occhi e grazie alla sua capacità di assorbire anidride carbonica mentre emette ossigeno ha effetti positivi sulla concentrazione e sulla produttività.

Maria La Barbera

 

Petto di pollo al limone: semplice e gustoso

Una ricetta appetitosa, sorprendentemente profumata che vi stupirà per la sua leggerezza, morbidezza e bontà

 

La carne di pollo apprezzata per le sue propreita’ nutritive e’ adatta a tutta la famiglia. Pochi semplici ingredienti per una ricetta appetitosa, sorprendentemente gustosa e profumata che vi stupira’ per la sua leggerezza, morbidezza e bonta’.

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Ingredienti:

1 Petto di pollo intero

1 bicchiere di vino bianco secco

1 limone non trattato

1 spicchio di aglio

Olio,sale,pepe, rosmarino q.b.

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In una pentola scaldare l’olio con l’aglio e il rametto di rosmarino. Rosolare a fuoco vivace il petto di pollo, salare, pepare e sfumare con il vino bianco, abbassare la fiamma, lasciare insaporire e cuocere coperto per circa un quarto d’ora. Lavare il limone e con un rigalimoni o un coltellino affilato, prelevare stiscioline di scorza sottilissime da aggiungere al pollo poi, aggiungere tutto il succo filtrato del limone. Lasciar cuocere lentamente per circa mezz’ora aggiungendo, se necessario, un mestolino di acqua calda. Lasciar consumare la salsa, affettare la carne e servire caldo.

Paperita Patty

Calamari, speciali in tutte le stagioni

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Gusto e colore per questa deliziosa insalata di pesce.

Delicata e leggera è adatta come antipasto o come secondo, speciale in estate ma ottima da servire durante tutto l’anno, anche tiepida. 

Ingredienti 

2 Calamari freschi 
1 patata 
1 carota 
Pomodori Pachino q.b. 
1 limone 
Olio evo, sale, pepe, prezzemolo q.b. 

Lavare e pulire i calamari, cuocerli per alcuni minuti in acqua salata (fino a quando risultano teneri, dipende dalle dimensioni). Lasciar intiepidire e tagliare a pezzi. 
Cuocere a vapore la patata e la carota, lasciar raffreddare e tagliare a pezzi. Lavare i pomodorini e tagliarli a metà. In una terrina unire tutti gli ingredienti, condire con olio evo, succo e buccia grattugiata di limone, sale, pepe e prezzemolo tritato. Servire tiepido o freddo. 

Paperita Patty 

La triste e sfortunata vita di Emilio Salgari

L’incontro con Emilio Salgari, il papà di Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e del Corsaro Nero avvenne tanto tempo fa. E fu un amore improvviso, intenso. I primo due libri furono “I misteri della Jungla Nera” e “Le Tigri di Mompracem”, nelle edizioni che la torinese Viglongo pubblicò negli anni ’60.

 

Vennero letteralmente divorati. Toccò poi all’intero ciclo dei pirati della Malesia e a quelli dei pirati delle Antille, dei Corsari delle Bermude e delle avventure nel Far West. Mi recavo in corriera da Baveno a Intra, da una sponda all’altra del golfo Borromeo del lago Maggiore, dove – alla fornitissima libreria “Alberti” – era possibile acquistare i romanzi usciti dalla sua inesauribile e fantasiosa penna. Salgari, nato a Verona nell’agosto del 1862, esordì come scrittore di racconti d’appendice che uscivano su giornali  a episodi di poche pagine, pubblicati in genere la domenica ma, nonostante un certo successo,visse un’inquieta e tribolata esistenza. A sedici anni si iscrisse all’Istituto nautico di Venezia, senza però terminare gli studi.

 

Tornato a  Verona intraprese l’attività di giornalista, dimostrando una notevole capacità d’immaginazione. Infatti, più che viaggiare per mari e terre lontane, fece viaggiare al sua sconfinata fantasia, documentandosi puntigliosamente su paesi, usi e costumi. Scrisse moltissimo, più di 80 romanzi e circa 150 racconti, spesso pubblicati prima a puntate su riviste e poi in volume. I suoi personaggi sono diventati leggendari: Sandokan, Lady Marianna Guillon ovvero la Perla di Labuan, Yanez de Gomera, Tremal-Naik, il Corsaro Nero e sua figlia Jolanda, Testa di Pietra e molti altri. Nel 1900, dopo aver soggiornato alcuni anni nel Canavese ( tra Ivrea, Cuorgnè e Alpette) e poi a Genova, si trasferì definitivamente a Torino dove cambiò spesso alloggio, abitando nelle vie Morosini e  Superga, in piazza San Martino ( l’attuale piazza XVIII Dicembre, davanti a Porta Susa, nello stesso palazzo all’angolo nord dove De Amicis scrisse il libro “Cuore“), in via Guastalla e infine in Corso Casale dove, al civico 205 una targa commemorativa ricorda quella che è stata l’ultima dimora del più grande scrittore italiano di romanzi d’avventura. Schiacciato dai debiti contratti per pagare le cure della moglie, affetta da una terribile malattia mentale, con quattro figli a carico, si tolse la vita con un rasoio nei boschi della collina torinese.

 

Era il 25 aprile 1911. Ai suoi editori dell’epoca, che stentavano a pagargli i diritti, lasciò questo biglietto: “A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna“. Ai quattro figli scrisse: “Sono ormai un vinto. La malattia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni di miei ammiratori che per tanti anni ho divertito e istruito provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di lire 600… Mantenetevi buoni e onesti e pensate, appena potrete, ad aiutare vostra madre. Vi bacia tutti col cuore sanguinante il vostro disgraziato padre“. I suoi funerali passarono quasi inosservati perché in quei giorni Torino era impegnata con l’imminente festa del 50° Anniversario dell’Unità d’Italia. La sua salma fu successivamente traslata nel famedio del cimitero monumentale di Verona. Un tragico e amaro epilogo per l’uomo che, grazie alle sue avventure, fece sognare tante generazioni di ragazzi.

Marco Travaglini