redazione il torinese

Sapore d’Oriente nel piatto: straccetti speciali di pollo

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Il piatto non necessita di lunghe cotture ma di una profumata marinatura

 

Un ottimo secondo piatto leggero, fresco e veloce, non necessita di lunghe cotture ma di una profumata marinatura che esaltera’ il delicato gusto del pollo abbinato alla croccantezza delle verdure.

Semplice, dal successo garantito.

 

 Ingredienti:

1/2 petto di pollo intero

2 carote

2 zucchine

1 limone

1 spicchio di aglio

1 cucchiaino di zenzero in polvere

1 cucchiaino di semi di cumino

1 cucchiaino di semi di sesamo

olio evo q.b.

sale, pepe q.b.

Lavare le verdure e tagliarle a bastoncini nel senso della lunghezza.Tagliare il petto di pollo a striscioline, metterlo in una terrina, cospargerlo con le verdure, le spezie, l’aglio a fettine, bagnare il tutto con il limone, l’olio, il sale,e il pepe. Mescolare bene e lasciar marinare in frigorifero per almeno due ore. In una piastra in ghisa rovente, cuocere gli straccetti di pollo con le verdure scolate per circa dieci minuti, mescolare con una paletta e bagnare con la marinatura, lasciar sfumare. A cottura ultimata, servire subito.

Paperita Patty

Legro di Orta, dove il cinema è stato “messo al muro”

Dal 1998 è diventata un’interessante meta turistica grazie a dei bellissimi affreschi che ne colorano il centro storico

Legro è una piccola frazione di Orta San Giulio. A differenza del capoluogo, che s’affaccia sul lago che ne porta il nome e sull’omonima isola, Legro è a monte, all’inizio della strada che sale verso Miasino e Ameno, in corrispondenza della stazione ferroviaria. Dal 1998 è diventata un’interessante meta turistica grazie a dei bellissimi affreschi che ne colorano il centro storico.

Con il titolo “Il Cinema messo al muro”, è entrato con buon diritto  a far parte del circuito nazionale dei “paesi dipinti” che ha censito quasi duecento località italiane con i muri delle case affrescati da artisti di fama nazionale o da sconosciuti amanti di questa tecnica pittorica. Unico esempio tra i tanti, Legro propone una straordinaria galleria d’arte a cielo aperto, dedicata ai film che utilizzarono come set i paesi attorno  al lago d’Orta e le località del Piemonte in genere. I “murales” sono 45 e adornano buona parte dei muri della frazione. Passeggiando per le viuzze di Legro  si possono rivivere, attraverso i fotogrammi dipinti, scene di famosi film che videro il Lago d’Orta e il Verbano come cornice: “Il balordo”, “L’amante segreta”, “Una spina nel cuore”, “La voglia di vincere”, “Il piatto piange” e “La stanza del Vescovo”.

Oltre a questi si possono ammirare la “Freccia Azzurra” di Gianni Rodari che il resista Enzo D’Alò ha trasformato in un film d’animazione o  “Addio alle armi” di Charles Vidor , “La spia del lago” o “I racconti del maresciallo”, di Mario Soldati, con Turi Ferro e Nino Buazzelli. Per non parlare poi dell’immagine fiera e indolente della mondina di “Riso Amaro”, con la sua  maglietta attillata e le calze nere a metà coscia, che hanno fatto diventare Silvana Mangano un’icona del cinema italiano. Legro, durante una gita sul lago d’Orta, val bene una visita. Ma la “mappa” dei paesi dipinti in Piemonte, propone altre 21 località che si fregiano di questo titolo.  Tra queste le cuneesi Bagnasco ( la località del “Bal do Sabre”, le danze degli spadonari ), Roccaforte Mondovì e Vernante ( con le immagini di Pinocchio, omaggio al grande disegnatore Attilio Mussino, forse il più grande illustratore delle avventure del burattino di Collodi) e Gavazzana, nell’alessandrino, con le sue poche case lungo il crinale delle prime colline tortonesi.

In ultimo, vale la pena ricordare l’iniziativa unica e certamente irripetibile che ha coinvolto Torre Canavese,  dove tanti artisti dell’ex Unione Sovietica, con lo scopo di far conoscere l’arte e la cultura dell’Europa orientale: ottantotto opere murali russe, oltre ad alcuni pannelli ceramici ed opere di pittori canavesi, hanno abbellito il suo incantevole borgo, raccolto attorno allo storico castello.

Marco Travaglini

 

(foto: Architempore)

“Gesù, perdonami”… Don Siro e il giovane Ardenti

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Il vescovo, l’ultima volta che gli aveva parlato, era stato chiaro. Anzi, potremmo dire chiarissimo. Inequivocabile. “Caro don Siro, lei deve mettere la testa a posto. E’ un parroco stimato dai suoi fedeli che, a quanto mi è stato riferito, non mancano alle funzioni ma…e aveva fatto una lunga pausa, quasi cercasse le parole giuste)..bisogna che non prenda sempre di petto il podestà e chi oggigiorno ha la responsabilità della cosa pubblica. Con i fascisti, piaccia o no, bisogna andar d’accordo. So bene anch’io che sono rozzi, maneschi e non sempre animati delle migliori intenzioni verso il prossimo. Ma noi, caro don Siro, siamo la Chiesa. Non se lo deve scordare. Siamo la Chiesa che guarda e tollera, comprende e non giudica. Si ricordi che solo Iddio può trarre i giudizi. Sono stato chiaro? Adesso vada, su…e si faccia voler bene anche da quei signori in camicia nera“. Era l’ultima, in ordine di tempo, delle lavate di capo che don Siro si era buscato dai suoi superiori.

La Chiesa, pur non condividendo gli atteggiamenti dei fascisti, in particolar modo le bastonature e le somministrazioni di olio di ricino a coloro che venivano individuati come oppositori o, quantomeno, persone non gradite al regime, manteneva un atteggiamento prudente. Don Siro, parroco del paese da vent’anni (ci teneva a precisarlo:“vent’anni,eh.. mi raccomando. Vent’anni e non un ventennio perché la sola parola mi fa uscire dalle grazie e non voglio far peccato mollandovi un bel ceffone”), mal sopportava quei ragazzotti con l’orbace e ancor più gli andavano di traverso quei reduci della grande guerra che si pavoneggiavano imitando la postura del Duce, petto in fuori e gambe larghe. “Andar d’accordo con quelli lì? Madonna mia, come faccio…Sono peggio dei diavoli. Arroganti, presuntuosi e blasfemi. Parlano di Dio e della Patria e poi, alla faccia della carità cristiana, sbattono in gattabuia quelli che non la pensano come loro. Oppure, com’è successo al povero Rossi, gli fan trangugiare un litro e mezzo di olio di ricino. Giù per la gola, a garganella, con l’imbuto. Se non ha tirato fuori le budella nel cesso alla turca nella sua casa di ringhiera, è stato per puro miracolo. E il Luison? E’ un socialista ma è anche una grava persona. Volevano che cantasse Faccetta Nera: si è rifiutato e l’hanno riempito di botte che adesso cammina tutto storto. Ed io dovrei andarci d’accordo? No, cara Madonna: l’è come far peccato!”. Don Siro non era solo una sòca negra, come diceva Geppe. L’abito talare non doveva trarre in inganno. Era sì un uomo di chiesa ma non si poteva dire che non prestasse attenzione e rispetto anche a coloro che la fede l’avevano persa o non l’avevano mai trovata. Soprattutto Don Siro era infastidito dalla violenza dei fascisti. Non sarebbe mai stato in grado di sparare una schioppettata o dar di bastone in testa a qualcuno ma ciò non gli impedì di prendere a calcioni nel sedere l’ultimo rampollo degli Ardenti, famiglia di industriali lombardi che possedevano una gran villa in paese. L’aveva fatto, senza esitazione,  dopo che il diciassettenne eterno avanguardista Furio Ardenti aveva scritto “Noi diciamo che solo Iddio può piegare la volontà fascista. Gli uomini e le cose mai”. Il punto era che quella frase, per il prete, suonava non solo  blasfema ma intollerabile visto che  campeggiava – a caratteri cubitali, tracciati con la vernice nera –  sul muro esterno della canonica. “Gesù, perdonami“, disse mentre sferrava il calcio nelle terga del giovane  fascista. “Perdonami, se faccio peccato ma, credimi, ho le mie buone ragioni“, aggiunse accompagnando le parole con una seconda, vigorosa pedata nel didietro dell’Ardenti, facendogli volar via di botto  il Fez che portava in testa. Il padre del ragazzetto, ma ancor più la madre – una nobildonna secca come un manico di scopa, dal carattere nervoso e suscettibile – andarono su tutte le furie, protestando vivacemente con il Podestà che,a  sua volta, fece le sue rimostranze al Prefetto. Il passaggio successivo era stata la convocazione nel palazzo vescovile, non troppo distanze dalla Basilica sormontata dalla cupola di Santo patrono. Anche questa volta, terminata la lavata di capo, il povero prete si mise in viaggio dal capoluogo al centro più importante del lago con il treno per poi approfittare – da lì al paese – dell’ultima corsa con il  vaporetto, pronto a salpare verso le isole e le località costiere. In cuor suo, Don Siro, si era già quasi dato l’assoluzione.In fondo, quello scatto d’ira era ben giustificato dallo scarso, scarsissimo rispetto che quei signori in divisa scura come la pece portavano alle sue convinzioni religiose e alla pacifica convivenza. “Se proprio devo porgere l’altra guancia – mugugnava tra sé il prete – vorrà dire che, in caso estremo, porgerò anche l’altro piede”. Intrecciò le dita per pregare e sul volto comparve per un attimo un sorriso sornione.

Marco Travaglini

Avete provato le crespelle ai formaggi?

Simbolo della cucina d’Oltralpe, le crespelle hanno origini antichissime, nate come alimento corroborante a base di latte e uova per sfamare i pellegrini francesi giunti a Roma. Oggi, squisite cialde dorate e sottili dal cuore morbido e filante; una ricetta golosa, sempre gradita a tutti. Un primo piatto che fa subito festa.
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Ingredienti
 
100gr. di farina 00
2 uova intere
250ml. di latte intero
25gr. di burro
200gr. di formaggi a piacere
50gr. di grana grattugiato
Un pizzico di sale
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Preparare l’impasto per le crespelle lavorando le uova con la farina e il sale, mescolare bene poi, aggiungere il latte e il burro fuso facendo attenzione che non si formino grumi. Lasciar riposare la pastella per mezz’ora. Preparare le crespelle utilizzando un pentolino. Con l’aiuto di un piccolo mestolo, distribuire la pastella su tutta la supeficie, lasciar cuocere sino a quando i bordi si increspano poi, girare la crespella con una spatola e continuare la cottura per mezzo minuto. Proseguire sino ad esaurimento della pastella. Distribuire su ogni crespella ottenuta i formaggi ridotti a dadini, arrotolare le crespelle e disporle in una pirofila da forno unta di burro. Spolverizzare con abbondante grana e infornare a 180 gradi per 20 minuti poi, per altri 5/10 minuti sotto il grill per la doratura. Servire subito.
 

Paperita Patty

 

Cannelloni della Befana al Castelmagno

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Una teglia di cannelloni di magro dal gusto delicato, ricco ed avvolgente. Assolutamente indimenticabili

Un antico detto afferma “L’Epifania tutte le feste si porta via”… Approfittiamo di questa ottima occasione per festeggiare ancora una volta insieme ai nostri cari offrendo loro un primo piatto della tradizione rivisitato in veste “chic” : una teglia di cannelloni di magro dal gusto delicato, ricco ed avvolgente. Assolutamente indimenticabili.

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Ingredienti per 8 persone:

2 confezioni di sfoglia per lasagna (tipo Rana)

4 porri dolci di Cervere

6 patate

200gr. di formaggio Castelmagno

200gr. di Taleggio

50gr. di grana grattugiato

burro, sale,olio q.b.

Per la besciamella:

800ml di latte intero

50gr.di burro

40gr.di farina

noce moscata, sale q.b.

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Lavare e tagliare i porri a rondelle, stufarli con olio,una noce di burro e sale per 20 minuti circa. Lessare le patate, schiacciarle come per fare un pure’ ed unirle ai porri. Mescolare bene, unire i formaggi a dadini, il grana grattugiato e il sale. Preparare la besciamella  con il latte, il burro, la farina, il sale e la grattata di noce moscata. Preparare i cannelloni stendendo sulla sfoglia (lato piu’ corto) il ripieno ed arrotolare. Procedere sino ad esaurimento degli ingredienti. Ungere la teglia con burro fuso, sistemare i cannelloni e ricoprire con la besciamella, ciuffetti di burro e grana grattugiato. Cuocere in forno a 200 gradi per 30 minuti circa o sino a completa gratinatura. Buon appetito e buon anno a tutti i lettori !

Paperita Patty

 

Cara vecchia Rai: il 3 gennaio 1954 nasceva la Tv

La RAI Radiotelevisione Italiana inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive”. Erano le 11 di mattina del 3 gennaio 1954 quando, con voce cinguettante, Fulvia Colombo – la prima “signorina buonasera”- fece lo storico annuncio

 Di Marco Travaglini

Domenica è sempre domenica. Si sveglia la città con le campane”. Evaristo Sgancia, come è solito fare, entra fischiettando nel bar in Piazza Salera, a Omegna. La melodia è sempre la stessa da cinquant’anni, da quando rimase folgorato davanti alla televisione che trasmetteva Il Musichiere.

Un’aria orecchiabile che al vecchio operaio della Cobianchi è rimasta indelebilmente impressa nella memoria. Più invecchia e più vive di ricordi. E di abitudini che ormai non si scrolla più da dosso. Tra queste, quella di portarsi la sedia da casa quando va a vedere le partire al bar o al Circolo. Come un tempo, quando la gente si radunava davanti ai pochi apparecchi televisivi per vedere Lascia o raddoppia?, Campanile Sera o, appunto, Il Musichiere. Quando poi incrociava Gino Denti, coscritto e compagno di lavoro nel far tondi e laminati al tempo della ferriera, erano scintille. Divisi su tutto, litigavano che era un piacere. Ogni pretesto era buono, dalla passione per la pesca allo sport, dalle donne alla televisione. Anzi, “alla Tv di una volta, non quella robaccia che si vede adesso”.

Parola del Denti che, pur non portandosi appresso la sedia, in quel caso non solo evitava di contraddire l’amico (una rara eccezione) ma lo comprendeva, rammentando i bei tempi andati. Dopo di ché, rimessa in moto la memoria, infuriava la polemica. “ Il Mario sì che era un ganzo. Conduceva il Musichiere alla grande”, asseriva Evaristo con voce possente. “Tutte balle. Il migliore è sempre stato il Mike e già ai tempi si vedeva di che stoffa era fatto”, ribatteva Dino, rosso in viso. La discussione, per quanto fosse concitata, s’incanalava immancabilmente sull’onda dei ricordi. Su un punto concordavano: la superiorità della “tele” degli anni ruggenti, quando iniziarono le trasmissioni del “Programma Nazionale”. “La RAI Radiotelevisione Italiana inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive”. Erano le 11 di mattina del 3 gennaio 1954 quando, con voce cinguettante, Fulvia Colombo – la prima “signorina buonasera”- fece lo storico annuncio.  E alla sera prese  il via la prima puntata ufficiale de“La Domenica Sportiva”, con le immagini della partita Inter-Palermo ( per la cronaca, vinsero i nerazzurri per 4-0 e il campionato li vide poi conquistare il settimo scudetto mentre i rosanero siciliani retrocedettero in serie B). Fin qui, tutto liscio. L’intesa era solida. Ma da lì in poi, apriti cielo: le trasmissioni erano il loro muro di Berlino. Uno per l’altra e l’altro per l’una, ardentemente critici e polemici. Evaristo era un fans de Il Musichiere, un gioco a quiz basato sulle canzoni, condotto da Mario Riva- pseudonimo di Mariuccio Bonavolontà dove  i concorrenti, seduti su di una sedia a dondolo, dovevano ascoltare l’attacco di un brano musicale e, una volta riconosciuto, precipitarsi a suonare una campanella a dieci metri di distanza per avere diritto a dare la propria risposta, accumulando gettoni d’oro per il monte premi finale.

A eseguire i  motivi musicali ci pensava l’orchestra di Gorni Kramer , affiancata da due cantanti: Nuccia Bongiovanni e un giovane alle prime armi, un tal Johnny Dorelli. La trasmissione andò in onda il sabato sera per novanta puntate, dal 7 dicembre 1957 al 7 maggio 1960 e ben presto diventò il contraltare di Lascia o raddoppia? ( per la quale stravedeva Dino Denti ). Lascia o raddoppia? , condotto da Mike Buongiorno, andò in onda a partire dal 26 novembre 1955 ogni sabato sera, alle ore 21,00, fino all’ 11 febbraio 1956 e ogni giovedì sera dal 16 febbraio1956 al 16 luglio 1959. Il primo, e più famoso, programma a quiz della RAI, ipnotizzava i telespettatori, incollandoli davanti allo schermo in bianco e nero. Nel corso della prima serata il concorrente doveva rispondere ad otto domande, nel tempo massimo di trenta secondi per ciascuna. Il montepremi iniziale era di 2.500 lire. Ad ogni risposta esatta il montepremi raddoppiava, ma se sbagliava non c’era pietà: veniva eliminato. Se invece rispondeva esattamente a tutte le otto domande, raggiungendo così la quota di 320.000 lire, aveva diritto a ritornare alla settimana successiva. Al ritorno, il conduttore rivolgeva al concorrente la domanda: Lascia o raddoppia? Se il concorrente “lasciava” intascava la somma vinta fino a quel momento, altrimenti doveva entrare in una cabina, con una cuffia attraverso la quale poteva sentire solo la voce di Mike. Di domanda in domanda, con il tempo scandito da un orologio e da una musica d’archi a far da sottofondo, cresceva la suspence. Rispondeva esattamente? Il montepremi raddoppiava e tornava la settimana successiva. Ma se la risposta era sbagliata il suo montepremi andava in fumo ed era eliminato dal gioco.

A dire il vero non andava via a mani vuote. Le poteva stringere attorno al volante di una Fiat 600 che rappresentava la “consolazione “ ( e buttala via! ). Di raddoppio in raddoppio, la somma che il concorrente poteva vincere era di 5.120.000 lire (al massimo poteva partecipare a cinque puntate consecutive). Se intascava il premio passava alla storia del quiz altrimenti “raddoppiava” la consolazione, portandosi a casa una Fiat 1200. La popolarità della trasmissione fu tale che la RAI, nel 1956, dovette spostarne la programmazione dal sabato al giovedì a seguito delle proteste dei gestori delle sale cinematografiche, che avevano visto assottigliarsi vistosamente i loro incassi proprio nella serata settimanale tradizionalmente più redditizia. Ma le cose non andarono per il verso giusto e il rimedio si rivelò, paradossalmente, peggiore del male, quando la serata del sabato, rimasta libera, fu occupata dal Il Musichiere, a sua volta popolarissimo, tanto da costringere molti cinema, ad installare televisori in sala per non perdere la  clientela. Così capitava che i militari in libera uscita erano costretti a vedere i film a metà, poiché dopo il primo tempo “andava in onda” il quiz televisivo e, ad una certa ora, dovevano per forza ritornarsene in caserma. La concorrenza tra il conduttore italoamericano e il cantante romano si mostrò anche sul versante del “gentil sesso” e dei concorrenti famosi.

A Lascia o raddoppia venne inventata la figura della valletta, dove spopolò Edy Campagnoli, diventando una delle beniamine del grande pubblico (accrebbe la sua popolarità sposando il portiere del Milan e della Nazionale, Lorenzo Buffon ). E qui il ricordo si fa languido: “Ah, la Edy! Che donna. Aveva una grazia ed un’eleganza che oggi se la sognano quelle lì, pronte a far vedere la mercanzia quasi fossero al mercato”, sospirava, sognante, il Denti. Evaristo, per non essere da meno, ricorda che al fianco di Mario Riva di vallette ce n’erano addirittura due, le “Simpatiche“. “ Altro che “letterine”, “figurine”, “plastichine” e balle varie: in quel ruolo si sono avvicendate delle donne bellissime come Carla Gravina e Marilù Tolo”, sottolineava stirandosi i baffetti. E i concorrenti,eh? Al Musichiere le vincite erano più magre e l’unico campione che emerse dall’anonimato, con una vincita di otto milioni di lire circa, fu  un cameriere di Roma, Spartaco D’Itri, che con il premio vinto aprì un’attività in proprio. “ La nostra, caro il mio Gino, era una trasmissione per i proletari”, sottolineava con malizia lo Sgancia. Il quale, di rimando, tesseva le lodi del torinese Gianluigi Mariannini che, in cinque puntate, rispondendo esattamente a domande sulla storia del costume,  mise “ in cascina” la cifra-record di cinque milioni e 120 mila lire (poco più di 60 mila euro attuali).

Stravagante, dai modi eccentrici, con gli occhialini tondi e spessi e la barbetta cavouriana, il filosofo-dandy era stato uno dei più pittoreschi personaggi della Tv di quel periodo. I due amici con il gusto della polemica, prima di comandare un litro di barbera per farsi compagnia ( anzi: “un mezzo a testa, così non litighiamo”), ricordano una famosa puntata del 1959 de Il Musichiere, quando  i due nemici Fausto Coppi e Gino Bartali (annunciati dal roboante “nientepopodimenoché” di Mario Riva) fecero la pace sulle note di “Come pioveva”, trasformata per l’occasione in “Come perdevi”. “Erano come noi, eh Gino. Peccato che io non mi chiamo fausto, altrimenti pensa un po’ che roba: uguali in tutto e in tutto differenti, come cani e gatti”. Evaristo scoppia a ridere . La risata contagia anche Gino. Si alzano, salutano e se ne vanno a casa. Ognuno per la sua strada. Evaristo portando in spalla la sua sedia impagliata.

Paccheri al rustico ragù di coniglio

Il ragu’ di coniglio e’ un sugo rustico, gustoso e profumato perfetto per condire i paccheri. Un’idea fiziosa per riciclare in modo creativo gli avanzi di coniglio arrosto.

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Ingredienti

Avanzi di carne di coniglio arrosto

1 piccola cipolla

1 spicchio di aglio

1 carota

1 gambo di sedano

Polpa di pomodoro q.b.

Olio, sale q.b.

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Spolpare bene gli avanzi di coniglio, sminuzzare la carne con il coltello. In un tegame soffriggere con due cucchiai di olio la cipolla, l’aglio, la carota ed il sedano tritati,  unire la carne di coniglio con l’eventuale sugo avanzato e lasciar cuocere a fuoco basso. Aggiungere la polpa di pomodoro, aggiustare di sale e lasciar cuocere per trenta minuti. Cuocere i paccheri, scolarli al dente e farli insaporire bene nel ragu’ di coniglio. Servire cosparsi di abbondante parmigiano grattugiato.

Paperita Patty

Brasato all’Arneis dell’Epifania

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L’Epifania tutte le feste si porta via…concludiamo cosi’ i  pranzi del periodo natalizio con un secondo di carne ricco e gustoso, di origini antiche, tipico della cucina piemontese, il Brasato. Semplice da preparare, richiede pero’ una marinatura e una cottura lenta e prolungata che conferira’ alla carne una morbidezza ed un gusto insuperabile. Un classico ideale per le occasioni di festa.

 

Ingredienti

 

1kg.di carne di manzo

40gr. di burro

2 cucchiai di olio evo

Sale e pepe

 

Per la marinatura:

1 bottiglia di vino bianco Arneis

1 cipolla

1 costa di sedano

1 carota

1 rametto di rosmarino

2 foglie di alloro

2 chiodi di garofano

2 bacche di ginepro

 

Lavare e ridurre a tocchetti le verdure con i sapori. Mettere la carne in una terrina con le verdure e coprire con il vino bianco. Lasciar riposare in luogo fresco 12 ore. Togliere la carne dalla marinatura, asciugarla bene e farla rosolare da tutti i lati a fuoco vivace nel burro e olio. Aggiungere le verdure scolate dalla marinatura, completare la rosolatura. Abbassare il fuoco, salare e pepare la carne, unire il vino della marinatura e lasciar cuocere coperto per circa tre ore. Per permettere che il sugo si restringa, scoperchiare di tanto in tanto. Terminata la cottura, togliere la carne, frullare il sugo e servire le fette di carne nappate con la salsa. Ideale accompagnato con il pure’ di patate.

 

Paperita Patty

Linea Cadorna, la Maginot italiana

Il sistema di fortificazioni che si  estende dall’Ossola alla Valtellina. Un enorme reticolo di trincee, postazioni di artiglieria, luoghi d’avvistamento, ospedaletti, strutture logistiche e centri di comando, collegate da centinaia di chilometri di strade e mulattiere, realizzato durante il periodo della prima guerra mondiale

Linea Cadorna” è il nome con cui è conosciuto  il sistema di fortificazioni che si  estende dall’Ossola alla Valtellina. Un enorme reticolo di trincee, postazioni di artiglieria, luoghi d’avvistamento, ospedaletti, strutture logistiche e centri di comando, collegate da centinaia di chilometri di strade e mulattiere, realizzato durante il periodo della prima guerra mondiale. Un’opera fortemente voluta dal generale Luigi Cadorna, capo di Stato Maggiore dell’Esercito (originario di Pallanza, sul lago Maggiore), con lo scopo di contrastare una eventuale invasione austro-tedesca proveniente dalla Svizzera.

Lo scoppio della guerra – il 23 luglio del 1914 –  e gli avvenimenti successivi tra cui l’invasione del Belgio neutrale e i cambi di alleanze tra le varie potenze europee, accentuarono i dubbi sulla volontà del governo elvetico di far rispettare la neutralità del proprio territorio. Così, una volta che l’Italia entrò in guerra  contro l’Austria  – il 24 maggio 1915 – , il generale Cadorna, per non incorrere in amare sorprese, ordinò di avviare i lavori difensivi, rendendo esecutivo il progetto di difesa già predisposto. Da quasi mezzo secolo erano stati redatti studi, progettazioni, ricognizioni, indagini geomorfologiche, pianificazioni strategiche, ricerche tecnologiche. E non si era stati con le mani in mano: a partire dal 1911 erano state erette le fortificazioni sul Montorfano, a difesa degli accessi dalla Val d’Ossola e dal Lago Maggiore,  e gli appostamenti per artiglieria sui monti Piambello, Scerré, Martica, Campo dei Fiori, Gino e Sighignola, tra le prealpi varesine e la comasca Val d’Intelvi. Anche la Svizzera, dal canto suo,  intensificò i lavori di fortificazione al confine con l’Italia, realizzando opere di sbarramento a Gordola, Magadino, Monte Ceneri e sui monti di Medaglia, nel canton Ticino. In realtà,tornando alla Linea Cadorna,quest’opera, nella terminologia militare dell’epoca, era definita come ” Frontiera Nord” o, per esteso, “sistema difensivo italiano alla Frontiera Nordverso la Svizzera”. E, ad onor del vero, più che una fortificazione collocata a ridosso della frontiera si tratta di una linea difensiva costruita in località più arretrate rispetto al confine, con lo scopo di presidiare  i punti nevralgici. Un’impresa mastodontica.

 

Basta scorrere, in sintesi,  la consistenza dei lavori eseguiti e delle spese sostenute per la loro realizzazione: “Sistemazione difensiva – Si svolge dalla Val d’Ossola alla Cresta orobica, attraverso le alture a sud del Lago di Lugano e con elementi in Val d’Aosta. Comprende 72 km di trinceramenti, 88 appostamenti per batterie, di cui 11 in caverna, mq 25000 di baraccamenti, 296 km di camionabile e 398 di carrarecce o mulattiere. La spesa complessiva sostenuta, tenuto conto dei 15-20000 operai ( con punte fino a trentamila, nel 1916, Ndr) che in media vi furono adibiti, può calcolarsi in circa 104 milioni”. Le ristrettezze finanziarie indussero ad un utilizzo oculato delle materie prime,recuperate sul territorio. Si aprirono cave di sabbia, venne drenata la ghiaia negli alvei di fiumi e torrenti; si produsse calce rimettendo in funzione vecchie fornaci e furono adottati ingegnosi sistemi di canalizzazione delle acque. Gli scalpellini ricavarono il  pietrame, boscaioli e falegnami il legname da opera, e così via. I requisiti per poter essere arruolati come manodopera, in quegli anni di fame e miseria, consistevano nel possedere la cittadinanza italiana, il passaporto per l’interno e i necessari certificati sanitari. L’età non doveva essere inferiore ai 17 anni e non superiore ai sessanta e, in più, occorreva che i lavoratori fossero muniti di indumenti ed oggetti personali. A dire il vero, in ragione della ridotta disponibilità di manodopera maschile, per i frequenti richiami alle armi, vennero assunti anche ragazzi con meno di 15 anni, addetti a mansioni di manovalanza, di guardiani dei macchinari in dotazione nei cantieri o di addetti alle pulizie delle baracche.  La manodopera femminile, definita con apposito contratto, veniva reclutata nei paesi vicini per consentire alle donne, mentre erano impegnate in un lavoro salariato, di poter badare alla propria famiglia e di occuparsi dei lavori agricoli. Il contratto era diverso a seconda dell’ente reclutante: l’amministrazione militare o le imprese private.

 

Quello militare garantiva l’alloggiamento gratuito, il vitto ( il rancio)  uguale a quello delle truppe, l’assistenza sanitaria gratuita, l’assicurazione contro gli infortuni, un salario stabilito in relazione alla durata del lavoro da compiere, alle condizioni di pericolo e commisurato alla professionalità e al rendimento individuale. Il salario minimo era fissato, in centesimi, da 10 a 20 l’ora per donne e ragazzi; da 30 a 40 l’ora per sterratori, manovali e braccianti; da 40 a 50 per muratori, carpentieri, falegnami, fabbri e minatori; da 60 ad una lira per i capisquadra. L’orario di lavoro era impegnativo e  prevedeva dalle 6 alle 12 ore giornaliere, diurne o notturne, per tutti i giorni della settimana. Delle paventate truppe d’invasione che, come orde fameliche, valicando le Alpi, sarebbero dilagate nella pianura padana, non si vide neppure l’ombra. Così, senza il nemico e senza la necessità di sparare un colpo, con la fine della guerra,  le fortificazioni vennero dismesse. Quelle strutture, negli anni del primo dopoguerra, furono in parte riutilizzate per le esercitazioni militari e , negli anni trenta, inserite in blocco e d’ufficio nell’ambizioso  progetto del “Vallo Alpino”, la linea difensiva che avrebbe dovuto – come una sorta di “grande muraglia” –  rendere inviolabili gli oltre 1800 chilometri di confine dello Stato italiano. Un’impresa titanica, da far tremare le vene ai polsi che, forse proprio perché troppo ardita, in realtà, non giunse mai a compimento. Anche nella seconda guerra mondiale, la Linea Cadorna non conobbe operazioni  belliche, se si escludono i due tratti del Monte San Martino (nel varesotto, tra la Valcuvia e il lago Maggiore) e lungo la Val d’Ossola dove, per brevi periodi , durante la Resistenza, furono utilizzati dalle formazioni partigiane. Infine, come tutte le fortificazioni italiane non smantellate dal Trattato di pace siglato a Parigi nel febbraio 1947, a partire dai primi d’aprile del 1949, anche la “linea di difesa alla frontiera nord” entrò a far parte del Patto Atlantico istituito per fronteggiare il blocco sovietico ai tempi della “guerra fredda”. Volendo stabilire una data in cui ritenere conclusa la storia della Linea Cadorna, almeno dal punto di vista militare, quest’ultima può essere fissata con la caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989.

 

Da allora in poi, le trincee, le fortificazioni e le mulattiere sono state interessate da interventi di restauro conservativo realizzati dagli enti pubblici che hanno permesso di recuperarne gran parte  alla fruizione turistica, lungo gli itinerari segnalati. La “Cadorna” si offre oggi ai visitatori come una  vera e propria “Maginot italiana”,  un gigante inviolato, in grado di presentarsi senza aloni drammatici, come un sito archeologico dove è possibile vedere e studiare reperti che hanno subito l’ingiuria degli uomini e del tempo ma non quella dirompente della guerra. Tralasciando la parte lombarda che si estende fino alla Valtellina e restando in territorio piemontese, sono visitabili diversi percorsi, dal forte di Bara  – sopra Migiandone, nel punto più stretto del fondovalle ossolano –  alle trincee del Montorfano, dalle postazioni in caverna del Monte Morissolo al fitto reticolo di trincee e postazioni di tiro dello Spalavera  ( la sua vetta è uno splendido belvedere sul Lago Maggiore e le grandi Alpi), dalle trincee circolari con i camminamenti e la grande postazione per obici e mortai del Monte Bavarione fino alle linee difensive del Vadà e del monte Carza, per terminare con quelle  della “regina del Verbano”, un monte la cui vetta oltre i duemila metri, viene ostentatamente declinata al femminile dagli alpigiani: “la Zeda”.

Marco Travaglini

Quando i “lusciàt” si trovavano in piazza a Capodanno

La zona collinare situata nelle province del Verbano Cusio Ossola e di Novara, comprende i comuni in costa alla sponda orientale del lago Maggiore,  da Arona a Baveno, e una piccola parte di comuni che si trovano salendo sulle pendici del massiccio del Mottarone. Rimanevano mesi e mesi lontani da casa, risparmiando il risparmiabile per sostenere le famiglie,  ricorrendo il più delle volte – per il cibo e l’alloggio – a soluzioni di fortuna

I “lusciàt”, cioè gli ombrellai ambulanti, hanno sempre fatto un mestiere duro, macinando chilometri su chilometri su strade polverose o in mezzo al fango, lontano da casa, arrangiando il loro magro guadagno riparando ombrelli e parasole. La maggior parte proveniva dal Vergante, la zona collinare situata nelle province del Verbano Cusio Ossola e di Novara, comprende i comuni in costa alla sponda orientale del lago Maggiore,  da Arona a Baveno, e una piccola parte di comuni che si trovano salendo sulle pendici del massiccio del Mottarone. Rimanevano mesi e mesi lontani da casa, risparmiando il risparmiabile per sostenere le famiglie,  ricorrendo il più delle volte – per il cibo e l’alloggio – a soluzioni di fortuna. Spesso non riuscivano a mettere insieme il pranzo con la cena e dormivano dove capitava, appisolandosi, stanchi morti, sotto un cielo stellato nella buona stagione o in qualche fienile, quando tirava vento o scrosciava la pioggia. La loro vita era così, prendere o lasciare. Già da piccoli s’apprendeva  il mestiere, girovagando al seguito degli ombrellai adulti per le pianure piemontesi e lombarde, cercando di sfuggire alla miseria. Giravano come dei nomadi gridando a gran voce “donne, donne.. à ghè l’ ombrelè!”, portando a tracolla la  “barsèla”, la cassetta nella quale erano riposti  tutti i “sápitt” , i ferri del mestiere del lusciàt: dai “ragozz”,le stecche degli ombrelli, a lusùra, flignànza, tacugnànza e tacòn, ramé, cioè forbici,  rocchetti di refe, pezze varie, bastoni di legno. Con quell’armamentario erano in grado di cucire, limare, intagliare il legno, incollare, sagomare stoffe. Se c’era da riparare un ombrello lo accomodavano, racimolando qualche soldo; se invece si trattava di confezionarne uno nuovo, era festa grande. Girovagavano per le vie guardando porte e finestre, in attesa del cenno di chi era disposto ad affidar loro un parapioggia tartassato dai troppi acquazzoni, contorto dal vento o vittima della voracità delle tarme. Ogni lavoro era buono e non si rifiutava mai, mettendosi subito alacremente al lavoro, e in silenzio. Per arrotondare il magro guadagno, spesso accompagnavano il mestiere con la costruzione e la vendita di altri manufatti in legno e in fil di ferro , come gabbie, trappole per topi, insalatiere, setacci. Come da tradizione il giorno di Capodanno, sulla piazza di Carpugnino, si trovavano a parlar d’affari e preparare la nuova annata degli ombrellai. In quell’occasione, le famiglie più povere affidavano i loro figli piccoli agli artigiani ambulanti, nella speranza  che avrebbero imparato un mestiere, sconfiggendo la povertà e l’indigenza. “Al prumm dal lungon a Carpignin, a truà l’ Casér senza an bergnin“, che tradotto equivale a “il primo dell’anno a Carpugnino, a cercar padrone, senza un soldino” , come recita un’epigrafe che fa mostra di sé ancor oggi  nella piazza di Carpugnino. Reclutata così la manodopera  gli ombrellai si mettevano in cammino alla ricerca di quei guadagni che potessero garantir loro un futuro migliore. Bisogna dire che l’apprendista entrava quasi a pieno titolo nella  famiglia dell’ombrellaio che provvedeva a lui in tutto e per tutto. Così, lontano da casa e dai propri cari, si accompagnavano nei lunghi tragitti con i loro canti in quella particolare lingua che si parlava tra lusciàt: il “tarùsc”. Sì, perché tra di loro, per tradizione e abitudine,  comunicavano in quel gergo difficile, quasi del tutto incomprensibile, dalla pronuncia piuttosto secca e dura. Secondo alcune ricerche etimologiche, più che  plausibili, basate sulla presenza di termini derivati dal tedesco nel tarùsc, e pensando a parole come  tarnen (maschera) e tarnung (mascheramento), è intuibile la volontà di crearsi una lingua tutta loro, adatta a  camuffare i loro discorsi. Facilitati dalla stessa provenienza territoriale, cioè dai paesi dell’alto Vergante, gli ombrellai potevano così comunicare con  rapidità e segretezza , scambiandosi notizie e commenti nella certezza di non essere capiti. L’idioma era un misto di dialetto e parole di altre lingue, dallo spagnolo al francese al tedesco, rielaborate con arguzia e duttilità. Così, tanto per fare due esempi, l’avvocato era un “denciòn” ed il cuoco un “brusapignat“. “Al lusciàt caravaita a gria i lusc”, dicevano, riferendosi al fatto che  “L’ombrellaio ambulante ripara gli ombrelli”.  Pensando alla vita comoda, scuotevano la testa sentenziando “la repenta ha biò l’elban in su la frisa” (la gallina ha fatto l’uovo sulla paglia). Era una critica, e guai a contraddirli, perché la “ghéna”, la fame, era tanta e ci si poteva considerare “brisòld” (ricchi) solo quando si riusciva a metter su la prima bottega con un banchetto e l’insegna di due cupole d’ombrello a spicchi bianchi e rossi e la scritta “luscia, el lusciat piòla” che, più o meno, si può tradurre così: piove, l’ombrellaio si prende una sbornia. Infatti, quando il cielo diventava scuro, la terra cambiava odore e l’acqua iniziava a scrosciare , fosse temporale estivo o pioggia autunnale, si brindava alla fortuna perché con la pioggia si lavorava di più. Quando veniva chiesta all’ombrellaio quale fosse la ragione di quel nome così strano, veniva raccontata anche la leggenda che individuava nel Tarùsc uno gnomo scontroso e permaloso che viveva  alle pendici del Mottarone e sulla Motta Rossa.  Poco incline a tollerare i forestieri ,si teneva ben nascosto nei boschi. Era lui che, in un tempo remoto, aveva insegnato agli uomini come costruire gli ombrelli, oltre a  trasmetter loro la sua lingua. Alto circa mezzo metro, dal pelo rosso ( come la sue scarpe), con un copricapo a forma di tricorno, era sempre vestito di verde. Combinare piccoli dispetti era uno dei suoi passatempi. Ma c’era un rimedio infallibile, qualora si era presi di mira da un Tarùsc: rovesciare sul pavimento alla sera un sacchetto di riso o di segale. Essendo lo gnomo un tipo  ordinato e pignolo, era costretto a passare l’intera nottata  a raccogliere granello per granello quanto versato. Ai Tarùsc  piacevano i rospi ma non è dato a sapere il perché. Oltre alle storie e alle leggende, quando tornavano a casa, raccontavano le avventure della loro vita randagia. E manifestavano un certo orgoglio  per quel lavoro dove la fatica e i sacrifici erano ricompensati dalla passione per un mestiere che richiedeva non solo molta abilità ma anche una buona dose di creatività. Soprattutto quando l’ombrello andava costruito nuovo di zecca e s’usavano le sagome per tagliare le stoffe. Qui la differenza di censo balzava all’occhio immediatamente: i benestanti e i nobili  sceglievano la seta, per gli altri tutt’al più c’era il cotone.  Molti di questi ombrelli fanno mostra di se nel museo a loro dedicati, a Gignese. Questo museo è l’unico al mondo dedicato al tema dell’ombrello e del parasole e vi sono conservati oltre mille pezzi fra ombrelli, parasole e impugnature di varie fogge e materiali. Nelle sale espositive sono ospitati pezzi curiosi e di notevole valore storico-culturale: dall’ombrello della regina Margherita di Savoia a quello appartenuto a Giuseppe Mazzini, tra i tanti. Gli esemplari nelle vetrine sono di rara fattura e squisitamente lavorati. Nel settore dedicato alla vita degli ombrellai si possono vedere le foto dei “pionieri” di quest’attività, i loro rudimentali attrezzi recuperati dalle antiche botteghe e quelli che li accompagnavano per le strade d’Italia e del mondo. Un itinerario storico, ricco di immagini e di testimonianze di un lavoro antico che gli ombrellai nati nel Vergante hanno saputo far conoscere e apprezzare un po’ ovunque. Non molto distante, a Massino Visconti, nel centro del paese, si può ammirare il monumento dedicato agli ombrellai. Realizzato nel 1972 dallo scultore Luigi Canuto, è stato eretto a ricordo dei molti “lusciàt” che, dalla fine del Settecento fino al primo Novecento, praticarono questo mestiere.

Marco Travaglini