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Pace e conflitti, il duro lavoro della diplomazia. Nostra intervista a Staffan De Mistura

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Conosce bene Torino essendo stato uno dei fondatori della Cittadella delle Nazioni Unite lungo le sponde del grande fiume. Nel 2006 l’ambasciatore Staffan De Mistura divenne direttore dello Staff College del campus dell’Onu, incarico che mantenne per quasi due anni quando dal Palazzo di Vetro di New York lo chiamò il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e lo nominò suo inviato speciale in Iraq. Nel frattempo il Campus torinese dell’Onu è cresciuto ed è diventato uno dei più importanti centri di formazione per dirigenti delle Nazioni Unite.

Ospite in collegamento on line al Sermig di Torino l’ambasciatore italo-svedese Staffan De Mistura ha risposto alle domande di un gruppo di giovani dell’Arsenale della Pace sul tema della pace e del dialogo tra le nazioni. Diplomatico di lungo corso e mediatore dell’Onu nelle zone più calde e martoriate del pianeta, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Siria al Sudan, la missione della sua vita è stata quella di cercare formule per negoziare ed evitare nuovi conflitti. Si è seduto al tavolo delle trattative con dittatori, miliziani armati fino ai denti, capi tribali, tagliagole e jihadisti estremisti. Ha battuto ripetutamente i pugni sul tavolo del negoziato, finché è riuscito a convincere i belligeranti a sospendere almeno temporaneamente le ostilità e ad aprire quei fondamentali “corridoi” per consentire ai profughi di fuggire prima dell’assalto finale. Nella sua carriera ci sono successi, sconfitte e delusioni.
Ambasciatore De Mistura, lei ha lavorato per decenni per le Nazioni Unite battendosi per imporre la pace nelle zone di guerra ma quale è stato il metodo, il segreto per ricomporre i conflitti?
R C’è una serie molto lunga di tecniche negoziali, una di queste consiste nell’ascoltare bene l’altra parte senza rispondere, senza dare subito la propria opinione, e poi osservare i gesti degli altri, gli sguardi, cercare di capire cosa c’è dietro tutto ciò, quali sono i veri obiettivi dei leader politici, dei capi delle milizie o dei guerriglieri che hai di fronte, che siedono al tavolo negoziale. Cercare di trovare i punti di minimo comune denominatore e poi, vedere se c’è lo spiraglio per una possibile intesa senza toccare subito il nocciolo vero della questione che può essere territoriale, economico o anche solo psicologico.
Con la presenza di tanti attori, locali e internazionali, nel teatro mediorientale il lavoro dei diplomatici è oggi più complesso, a volte quasi impossibile.
R – Sì, proprio così, dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine dell’Urss siamo entrati in un sistema multicentrico con tante nazioni che, bene o male, perseguono le proprie agende, non solo Stati Uniti e Russia come accadeva in passato ma anche Cina, India, Iran, Turchia, Arabia Saudita e così via. Tutto ciò ha complicato enormemente anche il nostro lavoro di mediatori internazionali, tanto è vero che oggi in Siria ben undici Paesi sono coinvolti nella guerra e cinque eserciti sostengono i governativi o si battono contro il regime di Bashar al Assad e contro i miliziani jihadisti. Un episodio mi ha colpito molto alcuni anni fa: un gruppo di donne siriane mi ha consegnato due enormi libri neri con i nomi di oltre 300.000 siriani morti durante la guerra. In quel momento ho capito la dimensione della tragedia della Siria con i suoi numeri smisurati.
E allora come si fa a negoziare nelle situazioni più complicate, a trattare con feroci jihadisti o signori della guerra con le mani sporche di sangue? Cosa significa il dialogo per lei?
R – Anche nei momenti più difficili, anche quando il dialogo sembrava impossibile tra le parti il mio obiettivo è sempre stato quello di ridurre la sofferenza dei civili, della popolazione insistendo con fermezza per raggiungere una tregua e aprire “corridoi umanitari”. Questo è stato il mio sforzo che ha prodotto in certi contesti una riduzione della violenza complicando la vita a chi pensava di poter vincere la guerra distruggendo tutto.
La visita in Iraq di Papa Francesco ha avuto un impatto molto profondo nella popolazione, sia cristiana che musulmana.
R – Conosco bene l’Iraq, ci ho vissuto per lavoro prima, durante e dopo Saddam Hussein, e so quanto quel Paese è sempre stato un mosaico di etnie e di civiltà. Il vero problema è quello di trovare un modus vivendi tra le etnie principali, sunniti, sciiti e curdi mentre i cristiani, che rappresentano un’antichissima comunità locale, devono continuare ad essere parte integrante di un Paese in cui hanno sempre vissuto.
Vede segni di speranza in quella regione?
R – Il Medio Oriente sta attraversando un periodo non facile. Secondo me c’è bisogno di una pace di Vestfalia tra sciiti e sunniti, cioè di quel trattato che nel Seicento in Europa mise fine alle lunghe e sanguinose guerre di religione tra cristiani, e, al tempo stesso, considero necessario avviare un dialogo, seppure oggi molto difficile, tra l’Iran e l’Arabia Saudita. So che è un sogno ma cambierebbe molte cose in Medio Oriente.
La corsa al riarmo continua e sembra impossibile arrestarla…
R – Immaginare un mondo senza armi mi sembra molto difficile oggi e non c’è nessuna giustificazione per continuare a produrre armi sempre più micidiali per poi usarle anche contro i civili come è avvenuto in Siria, in Libia e in Yemen. Invece di fabbricare nuove armi sarebbe meglio combattere la povertà e costruire scuole e ospedali. Ricordate le mine? Erano dovunque e ci sono ancora ma la mobilitazione internazionale contro il mercato di questi ordigni ha fatto nascere un grande movimento di protesta che ha messo in serio imbarazzo molti produttori di bombe e mine e questo ci fa ben sperare. Si toglie una mina e nello stesso buco si pianta un albero: questo fu fatto da noi alla frontiera tra il Libano e Israele.
La pandemia, come cambia i rapporti tra gli Stati?
R – Il virus, questo piccolo e crudele nemico, tocca tutti, le nazioni più potenti e quelle più deboli, le economie più forti e quelle più fragili. Questo significa che le grandi sfide dell’umanità non possono essere risolte da una sola nazione, ma è necessario il multilateralismo. Si deve operare insieme per affrontare i grandi temi della povertà, la fame, il clima, le disuguaglianze e la stessa pandemia. Solo lavorando insieme si potranno vincere queste sfide.
Filippo Re

La Polizia consegna al Sermig capi di abbigliamento sequestrati

Nei mesi scorsi, personale del Comm.to Dora Vanchiglia, nell’ambito di un servizio straordinario di controllo del territorio effettuato unitamente a pattuglie del Reparto Prevenzione Crimine, ha proceduto alla perquisizione di un garage/magazzino sito in corso Regina Margherita, in uso a un cittadino marocchino di 39 anni, frequentatore del Balon, nei confronti del quale pendevano forti sospetti in merito allo smercio di merce contraffatta ed al rifornimento di connazionali dediti a tale commercio illegale.

All’atto della perquisizione, gli agenti si sono ritrovati di fronte a un ricchissimo deposito di materiale contraffatto, comprendente giubbotti, tute, scarpe di vari marchi alla moda. Inoltre, nei locali erano presenti tre macchine da cucire, con relative bobine di filo in cotone di vari colori,  utilizzate per apporre sui capi i marchi delle varie griffes, seguendo meticolosamente i modelli autentici in possesso. Complessivamente, gli agenti hanno rinvenuto e sequestrato 54 giubbotti, 296 paia di scarpe, 39 cinture, 34 maglie, 9 camicie, 7 pochette, alcuni pantaloni e accessori alla moda. I capi si distinguevano per la manifattura accurata e la presenza di certificati di garanzia.

Gli investigatori ritengono che il materiale rinvenuto fosse destinato al mercato di Piazza della Repubblica nonché ad alcuni mercati rionali.

In merito, il cittadino marocchino è stato denunciato in stato di libertà per ricettazione e  commercio di prodotti con marchi contraffatti.

Lo scorso venerdì mattina, il materiale sequestrato e poi confiscato con l’autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria,  è stato consegnato, privo dei marchi falsi delle varie griffes, alla direzione del Sermig per la distribuzione a famiglie bisognose.