CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 635

Mattinate FAI d’Inverno

Visite esclusive per le scuole  a cura degli Apprendisti Ciceroni del FAI


IN PIEMONTE

 

Tornano per il settimo anno consecutivo le Mattinate FAI d’Inverno, il grande evento nazionale del FAI – Fondo Ambiente Italiano pensato per il mondo della scuola e in particolare dedicato alle classi iscritte al FAI, nel cui ambito gli studenti sono chiamati a mettersi in gioco in prima persona per scoprire le loro città da protagonistiDa lunedì 26 novembre a sabato 1 dicembre 2018 gli allievi delle scuole sono infatti invitati a conoscere il patrimonio storico e artistico del loro territorio accompagnati dagli Apprendisti Ciceroni, giovani studenti appositamente preparati dai volontari FAI che operano in un dialogo continuo con i loro docenti. Indossati i panni di narratori d’eccezione, gli Apprendisti Ciceroni racconteranno alle classi in visita il valore di questi beni e le storie che custodiscono. Grazie alle Delegazioni FAI attive su tutto il territorio nazionale saranno aperti più di 170 meravigliosi tesori poco conosciuti e spesso chiusi al pubblico in oltre 100 città d’Italia. Gli studenti avranno così l’occasione di partecipare a visite condotte da loro coetanei e di vivere un’insolita esperienza di “educazione tra pari”. Chiese, aree archeologiche, centri storici, palazzi cittadini e delle istituzioni, ville, raccolte museali, scuole storiche, biblioteche, castelli, monasteri, teatri, orti botanici accoglieranno gli studenti per avvicinarli alla storia e alla cultura del loro territorio e per coinvolgerli in un processo di assunzione di responsabilità nei confronti dei beni che esso custodisce. In particolare, poiché quest’anno il FAI dedica particolare attenzione al tema dell’acqua, con la campagna #salvalacqua, fanno parte dei beni visitabili anche terme romane, acquedotti, fontane, riserve naturali e itinerari che si sviluppano lungo incantevoli corsi d’acqua. L’evento, giunto alla sua settima edizione, è dedicato alle Classi Amiche FAI che, sottoscrivendo l’iscrizione, condividono gli obiettivi della Fondazione e contribuiscono alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio di arte e natura del nostro Paese.

La nuova vita di un padre, tra il lavoro e i fragili rapporti della famiglia

Una regione e una città imprecisate della Francia, una casa assai semplice, un padre, Olivier, che riempie le giornate del proprio lavoro di capo reparto e di sindacalista in una fabbrica di stoccaggio, i problemi da affrontare di fronte ad un’inflessibile responsabile del personale, la necessità di “obbedire” ai piccoli riti familiari, i minuti rubati alle coccole verso i due figli piccoli

La moglie, Laura, affronta ogni giorno la vita da sola: e un giorno, inspiegabilmente, inaspettatamente, sparisce. Adesso tocca a Olivier occuparsi dei due ragazzini che male s’abituano a quella scomparsa, la più piccola si chiude in un serrato mutismo, a poco servono le presenze di una psicologa o di un amico poliziotto per le indagini, della nonna o della giovane zia che può essere una più facile sostituzione, arrivano ad andarsene di casa per andarla a cercare. Mentre Olivier deve continuare a combattere in fabbrica, dove chi per l’età non è ritenuto più in grado di mantenere i ritmi viene licenziato e si taglia i polsi, dove chi resta incinta non si vede rinnovato il contratto. E non si mandano via soltanto gli operai, anche in alto chi non segue appieno il corso dell’azienda deve scegliere altre strade. È un ritratto ben calato nell’oggi quello che Guillaume Senez (già al TFF nel 2015, vincitore con Keeper del Premio della Giuria) propone con Nos batailles, sua opera seconda. Il mondo del lavoro (nella Francia odierna dei fratelli Dardenne) ma soprattutto la lenta distruzione, di cui non ci si accorge, che i ritmi frenetici possono portare all’interno di un nucleo familiare (anche Wildlife di Paul Dano, visto nei giorni scorsi, analizza la tematica), il rubare spazio agli altri. Senez descrive con esattezza la vita di fabbrica, anche nella composizione delle immagini, ma soprattutto mette in campo con straordinaria naturalezza i fragili rapporti della famiglia e le ripercussioni di un abbandono, ricavando dal protagonista Romain Duris come dai bambini una verità quotidiana di azioni, di sentimenti, di parole. Tutto è credibile nella naturalezza di ogni scena. Raccontava, presentando il film, che all’origine delle sue storie vi è un preciso lavoro di scrittura ma che quella sceneggiatura così limata in ogni particolare venga scavalcata, lui non abbia l’abitudine di darla agli attori, prima si prova, ci si confronta, si costruiscono i dialoghi sul set, giorno per giorno; come raccontava quanto questa storia sia legata alla sua vita, al momento in cui la madre dei suoi figli abbia deciso di lasciarlo e lui sia stato costretto a inventarsi una nuova vita. Nos batailles uscirà sugli schermi italiani nell’aprile del prossimo anno, non perdetelo. Con The White Crow Ralph Fiennes (candidato all’Oscar nel ’94 per il suo Amon Goeth in Schindler’s list) passa ancora una volta dietro la macchina da presa. Con la sceneggiatura di David Hare, basata sulla biografia di Julie Kavanagh, in un lungo elenco di flashback perfettamente ad incastro (dovuti alla maestria del montatore Barney Pilling e sottolineati dal colore per gli anni Sessanta e da un gioco monocromatico ogniqualvolta la vicenda s’avvicina all’infanzia del protagonista), allinea fin dalla nascita – su un vagone della Transiberiana, nei pressi di Irkutsk, nel ’38, tra contadini e giocatori e ubriachi – la vita di Rudolf Nureyev, forse il più grande ballerino del Novecento, il suo desiderio di conoscenza (la musica, La zattera di Géricault al Louvre), il suo desiderio di affermazione, la sua arte, i suoi successi, gli eccessi e gli amori, la sessualità, focalizzando la tournée a Parigi nel 1961 quando, con l’aiuto di alcuni amici del mondo occidentale, riuscì a sfuggire alle autorità sovietiche e ad ottenere lo stato di rifugiato politico. Fiennes sa raccontare con estrema fluidità, tra passi di danza e serate al Crazy Horse, tra piccoli sentimenti ed erotismo, approfondisce l’uomo e l’artista, ne scava il carattere, ne mostra la grandezza e del tutto le asprezze: affidando il ruolo al ballerino Oleg Ivenko, nuovo per lo schermo. Che è il punto di debolezza del film, forse troppo lontano da quell’artista che le cronache ci avevano descritto, timidamente sprezzante, privo di quella sensualità che caratterizzava “il corvo bianco”, un viso piuttosto da ragazzo semplice della porta accanto (per noi insopportabile la somiglianza con il Gianni Morandi nazionale, cinematograficamente fuorviante) che volteggia da dio ma che nei tratti ha poco a che fare con la stella della danza.

 

Elio Rabbione

 

Due immagini di “Nos batailes” di Guillaume Senez, protagonista Romain Duris; Oleg Ivenko come Nureyev in “The white crow” di Ralph Fiennes.

Giovani attori dietro la macchina da presa, tra la tragedia della guerra e le disillusioni della vita

Sotto lo sguardo sorridente di Rita Heyworth, nella gran visibilità delle ciocche verdeblu da quest’anno sulla capigliatura rossoarancio della Emanuela Martini, con la benedizione della madrina Lucia Mascino, s’è inaugurata allora la 36ma edizione del Torino Film Festival

Le prime immagini sono quelle di The Front Runner di Jason Reitman, fluidamente ma altresì corposamente tratto dal libro All the Truth is out: the Week Politics Went Tabloid di Matt Bai, qui anche in veste di sceneggiatore, coadiuvato da Jay Carson. Non è soltanto il resoconto della parabola tutta in discesa di Gary Hart, senatore democratico dalle molte chances nella corsa alla Casa Bianca, alle Presidenziali dell’’88, ma pizzicato tra un discorso e l’altro in una relazione nata sul campo, fuori da un matrimonio costruito e lasciato intendere sui migliori principi, che gli avrebbe fatto perdere consensi e voti, riponendolo in un misero cono d’ombra da cui per anni non sarebbe riemerso: è soprattutto il ritratto, al di là della colpevolezza della scappatella, di certa carta stampata – per l’occasione, del Miami Herald che accese le micce -, di una informazione che dimentica tesi e propositi e volontà elettorali per scavare sempre più a fondo nella polvere del gossip, per farsi spettacolarizzazione, per assumere i contorni della più spoglia competizione sportiva. La storia si costruisce con dialoghi serrati, con le scene concitate che tendono alla distruzione dell’avversario, con le riunioni in redazione, con le tante piccole figure delineate con intelligenza e spirito, soprattutto il ritratto dolente e combattivo allo stesso tempo della signora Hart, interpretata da Vera Farmiga. In questo grande baraccone che sta dalla parte opposta del lavoro metodico di Tutti gli uomini del Presidente, notevole è la figura del candidato vista attraverso gli occhi di Hugh Jackman, estremamente solido, combattivo, consapevole.

Di tono minore, con una realizzazione e un tecnicismo che denunciano i difetti delle opere prime, il primo film passato in concorso, 53 Wars della polacca Ewa Bukowska, attrice di successo nel proprio paese per film e serie televisive, passata oggi dietro la macchina da presa. Basandosi su una storia vera, analizza la vicenda di una coppia, lei scrittrice a seguire dalle brevi, interrotte telefonate o dai reportage televisivi la vita di lui, cronista dai terreni di guerra, si chiamino Afganistan o Cecenia. Al centro una donna obbligata a morire giorno dopo giorno, nell’attesa di un ritorno o di quello squillo di telefono a comunicargli un decesso. È una morte temuta, forse a tratti immaginata, alla fine desiderata, sempre in un’attesa che giorno dopo giorno procura il vuoto intorno e quel vuoto inizia a inserirsi nel corpo, nei ricordi, nel cervello. In una pericolosa indecisione tra immaginazione e realtà. Nell’agguato continuo di quella sindrome post traumatica da stress che riempie le giornate di chi è tornato ma tortura altresì chi è rimasto a casa in attesa. Pur nella brevità della storia, la giovane regista fa compiere un percorso di dolore ad un intenso personaggio che ha i tratti sempre più sofferti e allucinati di Magdalena Poplawska, ma lo tratteggia al tempo stesso senza approfondire, per schegge e immagini a volte confuse, per inquadrature sghembe che reclamano l’affermazione dell’autrice ma che si risolvono soltanto per infastidire e creare anche il vuoto nell’ispirazione. I dialoghi centellinati, i visi e gli insiemi non a fuoco, il passato e il presente mescolati, il richiamo ad un’esplosione che coinvolge tutto e tutti, non aiutano affatto la linearità del racconto.

Al contrario, convince appieno Paul Dano, attore trentaquattrenne – lo abbiamo visto in Little Miss Sunshine, come figlio di Daniel Day-Lewis nel Petroliere, come attore deluso dalla professione e dal mondo hollywoodiano in Youth del nostro Sorrentino – con Wildlife, sua opera prima scritta con la collaborazione della compagna Zoe Kazan, nipote del mitico Elia. Il Montana dei primissimi anni Novanta, un piccolo paese tra mandrie e paesaggi sconfinati, una famiglia del più tranquillo ordinario, un padre (Jake Gyllenhaal) che lavora nel vicino circolo del golf, una madre casalinga (un’eccezionale Carey Mulligan) ed un ragazzo di quattordici anni, scuola pallone e partite con papà, i suoi occhi grandi a guardare il mondo che gli gira intorno. Una perfezione destinata a guastarsi. Lasciato a casa dal lavoro e troppo orgoglioso per riaccettarlo quando i responsabili ammettono l’errore di valutazione, il padre se ne va in montagna a spegnere i fuochi che sono divampati (Incendi è il titolo del romanzo di Richard Ford: e si capirà ben presto che quel fuoco che lambisce le foreste non è il solo a esplodere, quegli incendi colpiscono anche le persone e la vita), accettando anche la paga di un dollaro l’ora, mentre il ragazzo comincia a impegnarsi in uno studio fotografico e mamma a far da istruttrice in una piscina, entrambi a cercare di arrotondare con qualche quattrino in più. Mamma sogna una vita più felice e un vecchio signore con attività in proprio e casa quasi da sogno potrebbe fare al caso suo: ma il pompiere torna e prima o poi bisognerà fare i conti anche lui. È la summa delle disillusioni, la necessità di guardare al domani con occhio diverso, umanamente in via di distruzione: e quella fotografia entro cui il ragazzo tenta di ricompattare la propria famiglia, non lascia certo benevoli spiragli aperti, gli sguardi ormai spenti lasciano intendere quanto il disfacimento sia ormai totale. Lo stile di Dano affonda con piena maturità nel tranquillo andamento di un racconto che nasconde tragedie, lo sguardo che sorvola l’America rurale, affronta le ribellioni e il coraggio e distrugge il sogno americano. Ben raccontando, nell’interno del nido ormai definitivamente a pezzi come all’esterno, i suoi personaggi e le loro azioni, seguendoli da vicino, con la macchina da presa incollata addosso, a cominciare da Joe, il timido ragazzino, impersonato da Ed Oxenbould, muto testimone, un nome sui cui ci sarà da tenere gli occhi ben aperti.

Se vogliamo, in questo finale del primo sabato di festival, fare un salto nella sezione “Festa mobile”, diciamo di Pretenders di James Franco, che certo non può essere presente perché, ci avverte Emanuela Martini, “lavora molto”. E siamo felici per lui. Resta peraltro il fatto che tutto il divertimento, intelligente, causticamente ricostruttivo di un’operazione e di un’epoca, che ci aveva procurato lo scorso anno The disaster artist, ovvero la lavorazione del film che mai sia stato affatto ad opera di due amici e collaboratori (sullo schermo la coppia di fratelli Franco), con il film presentato quest’anno qui in prima mondiale se ne è andato un po’ in pappa. Lui lei e l’altro, un triangolo amoroso, da amour fou, tra uno scrittore/regista, un’attrice e un regista, un incontro all’insegna del cinema che dopo aver promesso citazioni per i cinefili si perde tra le lenzuola di questo o di quello, con un erotismo che per un attimo scombussola ma che poi rimette le cose a posto. Un incontro che si porta appresso amicizia e passioni, scambi repentini e scritture, fughe e inseguimenti, sentimenti e l’Aids che ti porta via (siamo a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta), un incontro che batte le strade americane e vola in Europa per parlarci di Nouvelle Vague con Godard e Anna Karina, di Truffaut e di Jules et Jim, con lei che corre sul ponte abbigliata come Jeanne Moreau, di Dreamers e dell’Ultimo tango e della Schneider che non parlò più con Bertolucci. Poi la storia sceglie di “chiacchierare” dell’ambiente del cinema e lo fa in maniera confusa, con psicologie stagnanti e personaggi alla fine non ben scolpiti, ripetitivi.

 

Elio Rabbione

 

 

 

Nelle foto: “The Front Runner” di Jason Reitman che ha inaugurato il TFF; “53 Wars” di Ewa Bukowska (polonia); Carey Mulligan e Jake Gyllanhaal in “Wildlife” di Paul Dano; gli interpreti di “Pretenders” con la regia di James Franco.

 

La strada del Fiammingo

Crea, con il suo Sacro Monte ed il Santuario, da secoli è un punto di riferimento per le genti non solo della Valcerrina (alla quale appartiene) come pure del Monferrato ma anche di un’area geografica molto più vasta
Non va dimenticato, infatti, il ruolo che ebbero alcune municipalità in passato, come ad esempio quelle di Vercelli o di Alessandria per il finanziamento nella fase di edificazione delle cappelle. E tra coloro che contribuirono alla nascita del Sacro Monte ci furono due fratelli giunti, sia pure in momenti diversi, dalla Fiandra, Jean e Nicolas de Wespin, detti Tabaguet, italianizzati Tabacchetti. A loro è dedicato il libro ‘La strada del Fiammingo. Dal Brabante al Monferrato: i Tabacchetti di Fiandra’, edito dal Centro Studi Piemontesi, lavoro di Graziella Riviera. L’avventura ha una data ed un luogo di inizio: Dinant-sur-Meuse, 8 luglio 1587. Orfano e privo di mezzi, armato solo di talento e di tenacia, Jean de Wespin, detto Tabaguet lascia a vent’anni il Brabante per venire in Italia, attraverso le Alpi. Questo è l’inizio di una lunga avventura che lo porterà (realmente) dalla Mosa al Po, al Monferrato ed alla Valsesia, sino a Crea e Varallo. Più tardi lo raggiungerà il fratello minore Nicolas. E Jean si rivelerà come uno dei più significativi artisti piemontesi, dovendo però affrontare le insidie di un difficile passaggio tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento. I due fratelli protagonisti, conosciuti in Italia come Giovanni e Nicola Tabacchetti, attraversano le guerre di Fiandra e di Monferrato, vivono assedi, epidemie, conflitti religiosi. Nel loro percorso – a cavallo tra realtà ed immaginazione, descritte comunque sempre con dovizia di particolari e forte verosimiglianza storica – incontrato Margot, regina di Navarra, sfiorano la visita a Varallo di Carlo Emanuele I, duca di Savoia, con l’Infanta Catalina Micaela e il viaggio nuziale sul Po della loro figlia Margherita, sposa di Francesco Gonzaga di Mantova, matrimonio da cui deriveranno le mire e le aspirazioni dei Duchi sul Monferrato che coroneranno con la sua annessione un secolo dopo, nel 1708, dopo la morte di Ferdinando Carlo, ultimo Gonzaga, e l’ufficializzazione con il Trattato di Utrecht del 1713 che, ponendo fine alla guerra di successione al trono di Spagna, portò ai Savoia la corona regia.
I due Tabacchetti, poi, firmano contratti con Priori e Canonici, si immergono nella vita quotidiana di cantieri e mercati. In parallelo c’è una figura femminile, la piccola Theodora Caccia, figlia del pittore Guglielmo Caccia detto ‘Il Moncalvo’, futura monaca – pittrice lei stessa con il nome di Orsola e sensibile interprete della fede sul territorio. A lei tra l’altro, l’autrice ha dedicato un ampio ultimo capitolo del libro. Sullo sfondo ci sono i Sacri Monti, ma anche il Monferrato nel non facile periodo che attraversava con tanti riferimenti a Crea, Salabue, Moncalvo, Casale (diventato poi ‘quel maledetto Casale’ di manzoniana memoria nelle immortali pagine dei Promessi Sposi). Il testo è arricchito dalle tavole genealogiche dei Tabacchetti e dei Savoia, da una cronologia ragionata che compara le vicende storiche della famiglia Tabacchetti e del periodo storico e da una ricca bibliografica che è spunto per ulteriori approfondimenti.L’autrice, Graziella Riviera, torinese di origini monferrine, ha lavorato alla Rai come autrice e regista realizzando programmi televisivi e radiofonici, come i telefilm ‘Lunedì dell’Angelo’, ‘Un sogno a Colonia’, gli sceneggiati ‘Guido Gozzano’ e ‘La Signora dei Misteri’ su Carolina Invernizio ed il pluriennale programma in diretta ‘Colloqui’ per Radiodue.
MASSIMO IARETTI

 

Reflections & Distortions

Al Gaggenau Hub di Milano va in mostra il “caos postmoderno” dell’artista polacca Maria Wasilewska

Sculture ardimentose. E concettualmente pretenziose. In acciaio e legno. Alle spalle una grande artigianale manualità, “nobilitata” da un intuito artistico che segna la strada verso opere di indubbia armonia e calibrata creatività. Sono sei le sculture inedite site-specific portate in mostra da Maria Wasilewska, che vive a Cracovia ed é fra le artiste polacche più note sulla scena dell’arte contemporanea internazionale, al Gaggenau Hub di corso Magenta, a Milano. L’esposizione, organizzata in occasione del centenario dell’indipendenza della Polonia (1918-

20018), e che per questo gode del patrocinio e del supporto del Consolato generale della Repubblica Polacca, è curata da Sabino Maria Frassà e chiude (dopo le rassegne dedicate a Francesca Piovesan, a Franco Mazzucchelli e a Ivan Barlafante) il ciclo artistico “On Reflection”, promosso dal brand di design Gaggenau e dal progetto non profit Cramum, che dal 2012 sostiene eventi e iniziative artistico-culturali in Italia e all’estero, con particolare attenzione al lavoro e alla creatività degli artisti più giovani. Sotto il titolo di “Reflections & Distorsions” – titolo che la dice tutta sugli effetti compositivi e sul significato concettuale delle opere – la personale meneghina della Wasilewska completa un lungo e ambizioso progetto avviato proprio a Milano nel 2014 attraverso la mostra “Distortions” tenuta da “Amy D Arte Spazio”, galleria che rappresenta l’artista in Italia. Allora ed oggi, l’artista si “arrovella” e si cimenta con esiti estetici assolutamente avvincenti intorno al tema fil rouge della “distorsione nel riflesso”. Noi tutti “viviamo in un caos postmoderno”, sostiene Maria Wasilewska, e l’arte non può far altro che rappresentare “le ‘distorsioni’ e la deformità della realtà in cui viviamo e che si nasconde dietro un ordine di facciata”. “Maggiore è la presenza di ‘distorsioni’ mediante movimenti, riflessi e altre inferenze, maggiore – secondo l’artista – sarà la possibilità che ci distacchiamo dall’ossessione di interpretare e razionalizzare la realtà e tutto ciò che ci circonda”. Ecco allora i “mostri informi” che osserviamo nel riflesso delle sue sculture. In merito alle quali, scrive il curatore della mostra Frassà: “Le opere – apparentemente algide e perfette – ricercano la deformità nel riflesso come unico modo di rappresentare noi e la realtà. Lo spettatore si trova così di fronte all’opera perso, deforme e moltiplicato…uno, nessuno e centomila”. L’opera tramanda bellezza, perfezione creativa. Suggestioni poetiche. Senza mai regalare scontate risposte. Non può. E non è questo il suo compito. Ci ricorda solo, e ancora una volta, che “l’unica certezza che l’uomo contemporaneo può avere è il ‘so di non sapere’ o addirittura il ‘so di non poter sapere’”.

Gianni Milani

 

“Reflections & Distorsions”

Gaggenau DesignElementi Hub, corso Magenta 2, Milano, tel. 02/29015250

Dal 15 novembre 2018 al 13 gennaio 2019

Orari: solo su appuntamento, 10/18,30

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Nelle foto:

– Sculture “Senza titolo” (dal ciclo “Reflections & Distortions”), legno e acciaio, 2018
– Maria Wasilewska al lavoro

Sanremo, il torinese Bentivoglio tra gli autori del brano di Einar Ortiz

Ha scritto per il cantante italocubano ‘Centomila volte’ insieme a Tony Maiello e Kikko Palmosi

Già disponibile in ascolto sulla piattaforma Raiplay e in uscita per Sony Music in tutti gli stores digitali dal 26 novembre ‘Centomila volte’, brano interpretato da Einar Ortiz, cantante italocubano tra i finalisti dell’Edizione 2018 di ‘Amici’ di Maria De Filippi (con Carmen Ferreri, Biondo e il vincitore Irama), segna il debutto come autore nel mondo discografico di Ivan Bentivoglio. Ventidue anni, torinese, residente a Moncalieri ove ha un proprio studio di registrazione, già ex leader dei Vànima (con cui ha pubblicato anche un paio di inediti in una prestigiosa raccolta distribuita dalla major Universal Music Italia, e partecipato in passato alle selezioni di ‘Sanremo Rock’) ha firmato l’inedito con cui Einar si giocherà l’accesso al Festival di febbraio, e che l’artista proporrà durante le due prime serate di ‘Sanremo Giovani’, in diretta su Raiuno dal Teatro del Casinò di Sanremo con la doppia conduzione dell’inedita coppia formata da Pippo Baudo e Fabio Rovazzi. “Sono davvero felice di poter collaborare con firme di prestigio del livello di Tony Maiello e Kikko Palmosi, che tanti successi hanno regalato ad artisti di primo piano quali Alessandra Amoroso, Benjii & Fede, Modà, Laura Pausini, Francesco Renga, Giorgia e Marco Mengoni“, esordisce soddisfatto Bentivoglio. Che aggiunge: “Auguro a Einar tutto il successo che merita, con la speranza di ritrovarlo in gara anche fra i protagonisti del Festival di Sanremo 2019, accanto ai big che verranno scelti da Claudio Baglioni“. Ivan Bentivoglio, fra l’altro anche stimato polistrumentista e arrangiatore, proprio in questi giorni ha siglato un’altra importante collaborazione con il paroliere torinese Gae Capitano (vive a Nichelino), già vincitore del ‘Premio Lunezia’ e fra i gli hitmaker di Fabi-Silvestri-Gazzè e di Ilaria Porceddu, fra le stelle di ‘X Factor’ delle passate edizioni.

 

Lo storico negozio Dosio compie 170 anni

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170 anni di vita, ecco il traguardo dell’antica corniceria Dosio,  un compleanno festeggiato nello storico negozio di via XX Settembre 43. La ditta torinese ebbe tra i suoi clienti personalità, artisti, nobili  e anche casa Savoia. Nel negozio passarono Einaudi e Louis Armstrong. Un annullo filatelico a cura di Poste Italiane celebrerà l’evento. Dosio venne fondata nel 1848, come negozio di vetri, specchi, campane di vetro, cornici. Poi, all’inizio del Novecento si commerciavano anche lampadari e appliques. Dagli Anni ’30, oltre alle cornici come attività prevalente, la ditta si occupò anche di stampe antiche.

In un film il dramma delle foibe

di Pier Franco Quaglieni

 

E’ in proiezione al cinema Lux di Torino il film “Red Land – Rosso Istria” dedicato alla tragedia delle popolazioni italiane di Istria, Dalmazia ,Fiume infoibate dai partigiani comunisti di Tito tra il 1943 e il 1945

Il film focalizza la figura della giovane studentessa istriana Norma Cossetto violentata selvaggiamente e gettata in una foiba dai titini. Norma Cossetto,su mia proposta, venne insignita dal Presidente Ciampi della medaglia d’oro al Valor Civile dopo che venne riconosciuto il Giorno del ricordo del 10 febbraio. Prima Norma Cossetto veniva ignorata dai più, come mi scrisse sua sorella che abitava a Novara ed aveva apprezzato un mio articolo sulla giovane laureanda in Lettere  a Padova con Concetto Marchesi  che, pur deputato comunista, la propose per la laurea honoris causa post mortem. E’ un film drammatico e molto coinvolgente che dovrebbe essere proiettato nelle scuole perché ricostruisce una pagina cruciale di storia italiana ancora troppo dimenticata.  Appare vergognoso che in Piemonte il film sia proiettato, oltre che a Torino, solo ad Alba. In  Liguria solo a  La Spezia. Un segno grave di oblio per una verità storica che i faziosi di ieri e g li ignoranti di oggi continuano a trascurare, se non disconoscere totalmente.

 

scrivere a quaglieni@gmail.com

 

 

 TFF: il volto della Hayworth, la musica di Pupi Avati

La 36ma edizione del Torino Film Festival dal 23 novembre al 1° dicembre

 

Avrà il volto di Rita Hayworth il 36° Torino Film Festival che prenderà il via il 23 novembre prossimo, un’immagine tratta da Non sei mai stata così bella, il suo secondo film interpretato con Fred Astaire, diretto nel 1942 da William A. Seiter, un omaggio nel centenario della nascita. “Rita più che Gilda, la ballerina vitale e agilissima che danzò con Fred Astaire e con Gene Kelly, più che la sirena sinuosa e pericolosa, simbolo della dark lady nell’immaginario collettivo -, dichiara Emanuela Martini, direttore artistico del TFF. “La ragazza che sapeva essere una commediante più che l’icona sexy la cui foto fu appiccicata sula bomba sganciata sull’Atollo Bikini. Senza dimenticare Gilda, è soprattutto a questa Rita che il Torino Film Festival rende omaggio nell’anno del centenario della sua nascita”. Altra notizia proveniente dal festival – di cui sapremo i titoli delle varie sezioni martedì 13 – è che sarà The Front Runner di Jason Reitman (autore tra l’altro di Juno e di Tra le nuvole con George Clooney, e figlio d’arte, il padre Ivan decretò negli anni Ottanta il successo di Ghostbusters) a inaugurarlo, interpreti Hugh Jackman, Vera Formiga, Alfred Molina e J.K. Simmons. Il regista presenterà al pubblico questo suo nuovo film che ha tratto dal libro All the Truth is out: The Week Politics Went Tabloid del giornalista e scrittore americano Matt Bai e che racconta la vicenda che nel 1988 vide protagonista il senatore statunitense Gary Hart. Esponente del Partito Democratico, senatore ed ex governatore del Colorado, candidato per la seconda volta alla presidenza, mentre era in piena campagna elettorale, uomo di successo che aveva le carte in regola per rovesciare i due mandati repubblicani di Reagan, Hart si vide cancellata ogni possibilità di vittoria quando sulle prime pagine dei giornali comparvero articoli sulla sua presunta relazione extraconiugale con la modella Donna Rice Hughes. Scovati dal “Miami Herald”, furono sufficienti un paio di fotografie scattate sul ponte di uno yacht per metter fine alle ambizioni del senatore. E del partito. Il film uscirà da noi in sala il 21 febbraio del prossimo anno.

 

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E ancora: il ruolo di guest director è affidato quest’anno a Pupi Avati, che proporrà una sezione intitolata Unfogettables, ovvero cinque titoli che mescolano cinema e musica, due grandi passioni che da sempre hanno caratterizzato il regista nel mondo dello spettacolo. Che cosa ha scelto Avati? Nei giorni del festival sarà a Torino per presentare The Glenn Miller Story di Anthony Mann (1954), The Benny Goodman Story (“Il re del jazz”, 1956) di Valentine Davies, Bird di Clint Eastwood (1988), Thirty Two Short Films About Glenn Gould (“32 piccoli film su Glenn Gould”, 1993) di François Girard e Bix di Pupi Avati del 1991. “Quando Emanuela Martini, conoscendo le mie passioni, mi ha invitato a Torino come Guest Director, chiedendomi qualche titolo di film che sintetizzasse quello straordinario insieme che è per me cinema e musica, ho vissuto gioia e titubanza”, confessa Avati. È stato obbligato a dimenticare parecchi titoli che benissimo avrebbero calzato a “quello straordinario insieme”, primi fra tutti Round Midnight di Tavernier intorno a Lester Young e Cotton Club di Coppola, ma certo non ha potuto non mettere con forza nell’elenco lo “struggente” Bird dedicato a Charlie Parker e inoltre “mi occorreva un musicista che non appartenesse né a un tempo né a una moda, un musicista che fosse la sintesi di tutti i tempi e di tutte le mode”. Il Glenn Gould gi Girard lo ha magnificamente accontentato. Aggiunge Martini: “Mi è parso che, nella minisezione del Guest Director, mancasse un tassello importante. Perciò ho scelto, tra i numerosi film e le miniserie che Pupi Avati ha realizzato nel suo connubbio ideale tra cinema e musica, la sua toccante ricostruzione del leggendario e oscuro cornettista Leon Bix Beiderbecke, storia di una vita americana “perduta”, colta dal nostro autore con piena adesione a quella musica e a quel mito”. In ultimo, stanno iniziano ad arrivare le prime anticipazioni di questa 36ma edizione del TFF. Tra i titoli italiani I nomi del signor Sulcic di Elisabetta Sgarbi (una storia di passato e di presente, una umanità di confine , dove una ricercatrice dell’università ferrarese si reca a Trieste per trovare notizie su una donna seppellita nel cimitero ebraico), Ovunque proteggimi diretto da Bonifacio Angius e Ragazzi di stadio, quarant’anni dopo firmato da Daniele Segre, che torna a raccontare il mondo degli ultrà. Nell’ambito di “Festa mobile” si inseriranno Can you ever forgive me? di Marielle Heller, ispirato alla memorie della scrittrice Lee Israel, e Colette di Wash Westmoreland, interpretato da Keira Knightley, una scrittrice e una donna rivoluzionaria del secolo scorso, il suo matrimonio e le sue relazioni, il teatro e la letteratura e la moda, le provocazioni e gli scandali, il tutto visto attraverso una accurata ricostruzione della Belle Epoque (in uscita sugli schermi il 6 dicembre). In “After hours” s’inizia a leggere il titolo dell’ultimo film di Nicolas Cage, Mandy, diretto da Panos Cosmatos, dove la serenità di una coppia isolata nei boschi è spezzata da una setta dedita all’occulto.

 

Elio Rabbione

 

Le immagini:

Il manifesto del Torino Film Festival

Una scena di “The Front Runner” con Hugh Jackman, che inaugurerà il festival

Pupi Avati che ricoprirà il ruolo di “Guest Director”

Keira Knightley interprete di “Colette”

Di domenica: al castello Gamba le opere non viste…

Domenica 25 novembre, domenica 30 dicembre e domenica 27 gennaio aprono gli straordinari depositi d’arte

Chatillon Località Cret-de-Breil (Aosta)

Teatro dell’ultimo concerto in Italia di Bob Dylan (18 giugno 2008, 4mila gli spettatori radunati nel grande parco) e affascinante dimora del primo Novecento, il Castello Gamba di Châtillon (Aosta), dal 2012 Museo di Arte Moderna e Contemporanea nonché sede della Pinacoteca regionale, aprirà i battenti dei suoi depositi, ricchi di opere d’arte ancora in attesa di collocazione, ai visitatori che vorranno scoprire le meraviglie lì custodite.   

L’appuntamento è per la prossima domenica 25 novembre e, a seguire, per domenica 30 dicembre e domenica 27 gennaio 2019. Il tutto, sempre a partire dalle ore 15, per tre domeniche. E“Di domenica: le opere non viste”, è infatti il titolo del progetto messo in piedi dall’Assessorato Istruzione e Cultura della Regione Autonoma Valle d’Aosta che eccezionalmente aprirà le porte dei depositi del Castello, la cui collezione permanente si compone oggi di circa 150 opere d’arte contemporanea, già di proprietà regionale e ricollocate all’interno di tredici sale espositive.Nelle domeniche prestabilite, il pubblico potrà in via straordinaria ammirare – visite guidate, della durata di un’ora e mezza, al costo di 5 Euro – le opere che ancora non hanno trovato una definitiva sistemazione nell’esposizione permanente del Museo, ma che fanno comunque parte della preziosa collezione permanente di proprietà della Regione. Da segnalare, fra queste, un paesaggio dell’inglese “pittore della luce” William Turner (romantico precursore dell’impressionismo), sculture di Martini e Giò Pomodoro, dipinti di Casorati, De Pisis, Carrà, Guttuso, fino ad arrivare ai capolavori, frutto delle più “sfrenate” sperimentazioni artistiche, a firma dei vari Schifano, Baruchello, Rama e MainolfiLa visita si snoderà attraverso tre tematiche principali, corrispondenti ai diversi nuclei di opere che costituiscono oggi le collezioni del Castello Gamba: i paesaggi valdostani, le opere d’arte della seconda metà del XX secolo, la graficaDei paesaggi valdostani e delle opere d’arte contemporanea, già presenti nel percorso espositivo, si propongono approfondimenti di autori e soggetti, mentre un percorso totalmente inedito sarà costruito sulla riscoperta delle opere grafiche che finora non hanno trovato spazio nel polo museale del Castello. Durante la visita, all’accurata spiegazione su autori e opere, si accompagnerà un’attenta riflessione sulla valorizzazione del patrimonio artistico. Il più delle volte relegati alla mera funzione di magazzino, i depositi dei musei meritano infatti una piena rivalutazione anche in tal senso, in quanto luoghi ricchi di fascino, non privi di un loro particolare mistero e di imprevedibili suggestioni. Consigliabile la prenotazione: tel. 0166/563252 o www.castellogamba.vda.it

g.m.