CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 635

Oggi al cinema

LE TRAME DEI FILM NELLE SALE DI TORINO

A cura di Elio Rabbione

 

L’albero dei frutti selvatici – Drammatico. Regia di Nuri Bilge Ceylan, con Dogu Demirkol e Murat Cemcir. Presentato in concorso a Cannes lo scorso maggio, è la storia di Sinan, giovane appena laureato con velleità di scrittore, di ritorno nel suo villaggio natale in Anatolia, ad un passo dalle rovine di Troia. Il ritorno significa rincontrare una ragazza che ha amato un tempo e che sta per sposarsi, e soprattutto riavvicinarsi ad un padre, un passato di insegnante e una grande passione verso la letteratura ed un presente vittima del gioco e delle scommesse, carico di debiti. Attorno a queste principali presenze, la descrizione dei tormenti della Turchia di oggi, attraverso le sue donne, gli uomini di potere, gli intellettuali, i poliziotti che caricano gli studenti, gli imam dinanzi a una realtà che non riescono a controllare, i giovani che non hanno speranze, i vecchi che coltivano forse qualche sogno. Durata 188 minuti. (Romano sala 3)

 

L’apparizione – Drammatico. Regia di Xavier Giannoli, con Vincent Lindon e Galatea Bellugi. Jacques è un fotoreporter di guerra che il Vaticano chiama a collaborare con una commissione d’inchiesta al fine di far luce sulla verità che nel sud della Francia coinvolge una giovane ragazza, Anna, quando essa afferma di esser stata testimone dell’apparizione della Vergine. Addentrandosi in un mondo della Chiesa sempre più sconcertata e qui giustamente scettica di fronte ad un atto miracoloso che inevitabilmente cerca di sfruttare quanto è il versante pubblicitario, dove convergono i gadget e i religiosi in cerca di proselitismo, Jacques resta nella convinzione del suo pensiero laico pur confrontandosi con la dolcezza e l’innocenza della ragazza, non dimenticando l’idea del dubbio. A complicare ulteriormente la vicenda è il fatto che anche il fotoreporter, già distrutto dalla sua permanenza in Medio Oriente, venga coinvolto in modo personale in questa storia divisa tra cielo e terra. Durata 144 minuti. (Eliseo Rosso, Romano sala 2)

 

A star is born – Commedia (con musiche). Regia di Bradley Cooper, con Lady Gaga e Bradley Cooper. Grande successo veneziano, osanna dei fotografi sul red carpet, quarta edizione di una storia che ha quasi attraversato un secolo, dal 1937, immortalando sullo schermo di volta in volta Janet Gaynor, Judy Garland e James Mason, certo i più bravi!, Barbra Streisand e Kris Kristofferson. Dal mondo del teatro la vicenda è stata attualizzata e portata in quello della musica, una giovane cantante è portata al successo da un cantante/Pigmalione ormai avviato sul viale del tramonto, alcolizzato, innamorato di lei. Una bella sfida per Cooper per la prima volta dietro la macchina da presa, ma il successo decretato dalle varie uscite in Europa come negli States sta ad affermare che forse la scommessa è vinta. Le canzoni del film da ascoltare e ammirare. Durata 135 minuti. (Ambrosio sala 1, Massaua, Eliseo Grande, F.lli Marx sala Groucho anche V.O., Ideal, Lux sala 2, Reposi, The Space, Uci anche V.O.)

 

Blakkklansman – Azione. Regia di Spike Lee, con John David Washington e Adam Driver. Gran Premio della Giuria a Cannes lo scorso maggio, una storia vera dal protagonista Ron Stallworth nel libro “Black Klansman”. Come costui, poliziotto afroamericano, all’inizio degli anni Settanta riuscì a stabilire un contatto con il Ku Klux Klan, mantenne i contatti con il gruppo telefonicamente e inviò un agente della narcotici, ebreo, a infiltrarsi tra le file degli incappucciati. Lee compone il film non rifacendosi soltanto alla realtà ma integra con filmati d’epoca veri o ricostruiti, chiama il vecchio Harry Belafonte a raccontare di violenze del passato, traccia parellelismi con il presente terminando con i fatti di Charlottesville dello scorso anno, ad un raduno di suprematisti bianchi, alle parole di Trump. Durata 128 minuti. (Ambrosio sala 2, Eliseo Rosso, Uci)

 

La casa dei libri – Drammatico. Regia di Isabelle Coixet, con Emily Mortimer e Bill Nighy. Nella provincia inglese degli anni Cinquanta, una giovane vedova di guerra, Florence, decide di aprire una libreria (come la Binoche apriva la sua profumatissima pasticceria in “Chocolat”) ma qualcuno è contrario, per nulla desideroso di avere sotto casa chi voglia spingere alla lettura. Dovrà usare ogni mezzo per dare vita alla sua iniziativa. Durata 103 minuti. (Classico, Due Giardini sala Ombrerosse)

 

Il complicato mondo di Nathalie – Drammatico. Regia di David e Stephane Foenkinos, con Karin Viard, Anne Dorval e Dara Tombroff. Bella cinquantenne in crisi, insegnante da poco divorziata, madre in preda all’ansia, affogata nella gelosia più sfrenata: tutto il mondo che la circonda è visto come minimo con gran sospetto. La giovane collega contro cui mettersi in campo professionale, l’ex marito contro cui accanirsi, la figlia da guardare come se ad ogni momento le volesse portar via l’uomo di cui s’è appena innamorata. Un ritrattino al fulmicotone per il quale c’è chi ha azzardato un fondo di misogenia, da considerare con attenzione. Ovvero non tirare mai troppo la corda. Durata 103 minuti. (Due Giardini sala Nirvana, Massimo sala 1 anche V.O.)

 

Girl – Drammatico. Regia di Lukas Dhont, con Victor Polster. Opera prima premiata a Cannes, ispirato a una storia vera. Il quindicenne Victor sogna di entrare a far parte dell’accademia di danza di Anversa ma il suo desiderio più grande è quello di affermare fisicamente e non soltanto quella ragazza – Lara – che egli sente in se stesso. L’appoggio completo del padre, le cure ormonali, le prove alla sbarra, in sala, davanti allo specchio, che portano ad avanzare sulle altre, le sofferenze e la crescita del corpo che non ama, le ossessioni. Durata 105 minuti. (Romano sala 3)

 

Gli incredibili 2 – Animazione. Regia di Brad Bird. La famiglia di supereroi, accresciuta del piccolo Jack Jack, ha aspettato 14 anni per riapparire sugli schermi ma ha fatto letteralmente il botto se soltanto si pensa agli incassi da capogiro raccolti nei soli States. Sarà il disegno o la storia pronta a dare una bella spolverata agli ideali americani, sarà il mestiere collaudato del medesimo sceneggiatore/regista, la puntata numero 2 ha incrociato un largo pubblico e gli effetti benefici si dovrebbero risentire anche qui da noi. Questa volta è mamma Helen a salire in solitaria agli onori della cronaca, chiamata a imprese piuttosto ardue che dovrebbero rivalutare i veri valori dei supereroi caduti per qualche guaio commesso in disgrazia. Per cui papà Bob è obbligato a restarsene in casa, a badare ai primi batticuori dell’adolescente Violet, ai primi exploit di Jack Jack che subito rivela poteri inaspettati: ma il cattivo di turno ricomporrà la famiglia nuovamente pronta a nuove avventure. Durata 118 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 3, Reposi, The Space, Uci)

 

Johnny English colpisce ancora – Comico. Regia di David Kerr, con Rowan Atkinson e Olga Kurylenko. La faccia di Mr Bean prestata allo spionaggio supertecnologico e insidioso. Ovvero un attacco informatico mette davanti agli occhi di tutti l’identità di tutti gli agenti britannici, fatta eccezione per il nome del nostro protagonista. Che è richiamato dalla pensione e rimesso in campo per ritrovare l’identità dell’hacker che ha svelato al mondo quella montagna di segreti. Durata 88 minuti. (Massaua, GreenwichVillage sala 1, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

Opera senza autore – Drammatico. Regia di Florian Henckel von Donnersmarck, con Tom Schilling, Paula Beer e Sebastian Kock. L’autore del mai troppo lodato La vita degli altri, premio Oscar, come del capitomboloso The tourist girato in Italia, tra i canali di Venezia, complici dell’insuccesso Depp e Jolie, guarda oggi al Novecento tedesco, a tre diverse epoche della storia della Germania, raccontate attraverso gli occhi e la vita di un artista (l’ispirazione è la biografia di Gerhard Richter), della sua crescita prima sotto il nazismo e sotto il comunismo poi, della scoperta delle avanguardie, del suo amore appassionato per Elisabeth, del suo rapporto con il suocero, l’ambiguo professor Seeband che, disapprovando la scelta della figlia, cerca di porre fine alla relazione tra Kurt e la ragazza. Quello che nessuno sa è che le loro vite sono già legate da un terribile crimine commesso da Seeband decenni prima. Durata 188 minuti. (Massimo sala 2)

 

Quasi nemici – Commedia. Regia di Yvan Attal, con Daniel Auteuil e Camélia Jordana. Neïla Salah è cresciuta a Créteil, nella multietnica banlieu parigina, e sogna di diventare avvocato. Iscrittasi alla prestigiosa università di Panthéon-Assas nella capitale francese, sin dal primo giorno si scontra con Pierre Mazard, professore celebre per i suoi modi bruschi, le sue provocazioni e il suo atteggiamento prevenuto nei confronti delle minoranze etniche. La proprio Mazard, per evitare il licenziamento all’indomani di uno scandalo legato a questi suoi comportamenti, si ritroverà ad aiutare Neïla a prepararsi per l’imminente concorso di eloquenza. Cinico ed esigente, il professore potrebbe rivelare di essere proprio il mentore di cui la ragazza ha bisogno, tuttavia entrambi dovranno prima riuscire a superare i propri pregiudizi. Durata 95 minuti. ((Nazionale sala 1, Uci)                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              Ricchi di fantasia – Commedia. Regia di Francesco Miccichè, con Sergio Castellitto e Sabrina Ferilli. Sergio è un carpentiere romano, Sabrina una cantante dal passato glorioso, una coppia di amanti che non ce la fa a lasciare i rispettivi compagni. Lui è sempre stato prodigo di scherzi ai compagni di lavoro e quelli decidono un giorno di rendergli il favore: facendogli credere con l’inganno di aver vinto con un biglietto della lotteria un premio da 3 milioni di euro. Convinto della vincita, l’uomo decide di cambiare vita, portandosi pure dietro mamma, figli e parentela varia: fino a che non scopre dello scherzo. Si dirigeranno tutti verso i trulli della Puglia. Durata 102 minuti. (Uci)

 

Sulla mia pelle – Drammatico. Regia di Alessio Cremonini, con Alessandro Borghi, Jasmine Trinca, Max Tortora e Milvia Marigliano. Una tragedia dell’Italia recente, la tragedia della morte di Stefano Cucchi a soli 31 anni in un carcere italiano. L’arresto, il susseguirsi dei giorni di prigionia, il passato e il presente, il grande coinvolgimento della famiglia, soprattutto della sorella Ilaria. La prova di Borghi che si è ricreato appieno nel fisico (perdendo 18 chili) e nel calvario del ragazzo, come nella sua psicologia, la stagione dei premi cinematografici dovrà guardarlo con un occhio di riguardo. Da vedere per discutere. Durata 100 minuti. (Ambrosio sala 3)

 

The Nun – Horror. Regia di Corin Hardy, con Demian Bichir e Taissa Farmiga. Altro successo inaspettato negli Stati Uniti questo film girato completamente in Romania, dove è ambientata la vicenda di un gruppo di suore, alla ricerca all’interno di un convento di una reliquia che dovrebbe portare serenità in un luogo dove sembrano al contrario governare forze malefiche. Dopo il suicidio di una monaca, il Vaticano invia là padre Burke e la novizia Irene. Dovranno combattere il Male con ogni loro forza. Durata 93 minuti. (The Space, Uci)

 

The Predator – Azione. Regia di Shane Black, con Boyd Holbrook. Ne avevamo già fatta la conoscenza nel 1987, quando doveva vedersela con il coraggio e la forza di Arnold Schwarzenegger: oggi il mercenario McKenna assiste alla cattura di un Predator, dopo la caduta di un’astronave, ed è arrestato perché non parli mentre l’alieno viene rinchiuso in laboratorio per essere analizzato. Gli fanno buona compagnia sei militari dal passato ricco di azioni traumatizzanti: insieme dovranno anche difendere un ragazzino affetto da autismo dalle grinfie del mostro, oltre – inutile dirlo – salvare la terra dall’ennesimo attacco degli alieni, tema estremamente caro al cinema del filone. Durata 101 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

Tutti in piedi – Commedia. Regia di Franck Dubosc, con Alexandra Lamy e Franck Dubosc. Jocelyn, uomo d’affari successo ma bugiardo e seduttore che vive sulle bugie, per un equivoco è creduto disabile dalla bionda Julie. Perché, per una immediata conquista, non procedere proprio in quell’equivoco? Le cose peggiorano quando Julie presenta a Jocelyn la sorella, costretta su di una sedia a rotelle in seguito a un incidente stradale. Durata 107 minuti. (F.lli Marx sala Harpo, Reposi, Uci)

 

The wife – Vivere nell’ombra – Regia di Björn Runge, con Glenn Close e Jonathan Price. La storia di una donna e di una moglie, quarant’anni trascorsi a sacrificare il proprio talento e i propri sogni, lasciando che suo marito, l’affascinante e carismatico Joe, si impadronisca della paternità delle sue opere. Joan assiste, per amore alla sfavillante e glOriosa carriera dell’uomo, sopportando menzogne e tradimenti. Ma alla notizia dell’assegnazione del più grande riconoscimento per uno scrittore – il premio Nobel per la letteratura – la donna decide finalmente di dire basta e di riprendersi tutto quello che le spetta. Durata 100 minuti. (Eliseo Blu, Romano sala 1, Uci)

 

Un affare di famiglia – Drammatico. Regia di Kore’eda Hirokazu. Palma d’oro a Cannes lo scorso maggio. Nella Tokio di oggi, una famiglia (ma la considereremo così fino alla fine?) sbarca il lunario facendo quotidiane visite ai supermercati: per rubare. Ruba il padre che si porta appresso il figlio (?), torna a casa da una moglie che ha accanto una ragazza che potrebbe essere la sorella minore e una vecchia dolcissima che tutti chiamano nonna. Sentimenti, aiuti reciproci, l’arte di arrangiarsi, il coraggio di tentare a vivere insieme. Finché un giorno il capofamiglia porta a casa togliendola al freddo e alla solitudine una ragazzina, abbandonata da una madre forse violenta che non si cura di lei. Il mattino si dovrebbe riconsegnarla, ma nessuno è d’accordo: la nuova presenza farà scattare nuovi meccanismi mentre un incidente imprevisto porta definitivamente alla luce segreti nascosti che mettono alla prova i legami che uniscono i vari componenti. Durata 121 minuti. (F.lli Marx sala Chico, Nazionale sala 2)

 

Un nemico che ti vuole bene – Drammatico. Regia di Denis Rabaglia, con Diego Abatantuono e Antonio Folletto. In una notte di pioggia, il professor Enzo Stefanelli salva la vita a un giovane ferito da un’arma da fuoco. In cambio questi, un killer di professione, gli promette di trovare e uccidere un suo nemico, chiunque egli sia. Anche se il professore insiste nell’affermare di non avere un nemico, il giovane si mette a cercarne uno, creando il caos nella vita di Stefanelli. Dapprima scettico, è l’occasione per l’uomo di aprire gli occhi sulla sua vita e sulle persone che lo circondano. Durata 97 minuti. (Uci)

 

Una storia senza nome – Drammatico. Regia di Roberto Andò, con Micaela Ramazzotti, Alessandro Gassmann, Renato Carpentieri e Laura Morante. Valeria, giovane segretaria di un produttore cinematografico, scrive in incognito per uno sceneggiatore di successo. Un giorno la ragazza riceve da uno sconosciuto, un poliziotto in pensione, la storia di un probabile film. Ma quel plot è pericoloso, la “storia senza nome” racconta infatti il misterioso furto, avvenuto a Palermo nell’ottobre del 1969, di un celebre quadro di Caravaggio, “La natività”. Da quel momento, la sceneggiatrice si ritroverà immersa in un meccanismo implacabile e rocambolesco. Una storia che avesse al centro quel furto avrebbe dovuto avere un’impalcatura più legata all’inchiesta: al contrario ne è stata ricostruita una sceneggiatura che sa troppo “di cinema”, di volutamente aggrovigliata, di un inverosimile che a tratti, tanto per alleggerire, scivola tranquilla sul lato della commedia se non del ridicolo (certi momenti dovuti a Gassmann, certi dialoghi tra Morante e Ramazzotti), sino ai momenti finali che addirittura coinvolgono il film nel film. La macchia maggiore dell’impianto è la prova opaca della protagonista femminile, altre volte lodatissima, la non credibilità del viso e del corpo, la sua unica espressione con o senza rossetto, la sua paura che risulta fredda e non sinceramente dovuta alla spirale di inganni e di violenza che si chiude intorno a lei. Durata 110 minuti. (Ambrosio sala 3)

 

Venom – Fantasy. Regia di Ruben Fleischer, con Tom Hardy, Riz Ahmed e Michelle Williams. Ancora un prodotto ricavato dai fumetti targati Marvel. Un fior di giornalista, dedito a investigazioni e articoli, mentre indaga sulle malefatte di uno scienziato pazzo, tutto sprazzi e illegalità, viene contaminato da un alieno che si introduce nel suo corpo e ne diventa il doppio. Se ne ricava simpaticamente un misto di bene e di male, di dottor Jeckill e Mr Hyde, con due personaggi che intimamente chiacchierano e discutono tra loro, con l’unica e insomma definitiva aspirazione verso quella giustizia che protegga tutti. Tenersi già pronti per un sequel. Durata 103 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 1, Reposi, The Space anche in 3D, Uci anche V.O.)

Luigi Corteggi il mitico “Cortez” del fumetto

Considerato il massimo copertinista del mondo, diplomato all’Accademia di Brera, dopo gli inizi all’ Editrice Universo e alla Corno per cui ha curato la grafica e le testate di Kriminal, Satanik, Eureka, Alan Ford, oltre a testate della Marvel Comics, realizzò centinaia di copertine dei personaggi di Bunker, Gesebel e Alan Ford

 

Durante l’apertura del corso di Storia dell’Arte 2018/19 all’Università della terza età di Casale Monferrato la coordinatrice e docente Giuliana Romano Bussola ha voluto dedicare un ricordo a Luigi Corteggi, a cui era legata da amicizia fraterna, che negli anni precedenti ha tenuto interessanti lezioni molto seguite.La recente scomparsa, il 26 luglio, ci ha privati dell’apporto di un grande personaggio che, oltre a far conoscere la storia del fumetto, ormai considerato degno di far parte dell’arte vera e propria, ne ha dato contemporaneamente esempio pratico disegnando alcuni personaggi entrati nell’immaginario collettivo che ha donato generosamente all’Unitre. Considerato il massimo copertinista del mondo, diplomato all’Accademia di Brera, dopo gli inizi all’ Editrice Universo e alla Corno per cui ha curato la grafica e le testate di Kriminal, Satanik, Eureka, Alan Ford, oltre a testate della Marvel Comics, realizzò centinaia di copertine dei personaggi di Bunker, Gesebel e Alan Ford.Passato nel 1975 alla Sergio Bonelli ne divenne apprezzato art director progettando, tra i tanti, i loghi per Nathan Never, Mister No, Dylan Dog.La versatilità, l’acume, l’intelligente ironia che ne accompagnavano il talento, si attivarono anche nella pittura di impronta metafisica e surreale, tanto da essere definito ”pittore prestato al fumetto”. La simpatia irresistibile con cui riusciva a comunicare l’hanno fatto apprezzare dai discenti, docenti e segretarie che ricordandolo con affetto lo rimpiangono. Alcuni anni fa, quasi presentimento, pubblicò il libro autobiografico “Per non dimenticare”, sulla propria vita e percorso artistico, con la modestia dei grandi quale egli era, non in commercio poichè riservato agli amici ma che, se rintracciato è utile per comprendere l’umanità e la generosità che lo contraddistinguevano.

Aquile nere: volti e storie

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Calcio, fotografia, integrazione. Tre ingredienti che si fondono e diventano arte grazie al progetto, finanziato tra gli altri dalla Juventus, di una giovane studentessa dell’Accademia Albertina, Federica Schifano, che si è aggiudicata il finanziamento proponendo di narrare le vicende dei richiedenti asilo africani, attraverso il loro cammino di preparazione a Balùn Mundial, il mondiale alternativo, da diversi anni organizzato durante l’estate torinese, che mette in competizione rappresentative nazionali dei vari Paesi di provenienza degli immigrati nella nostra città, oppure squadre miste che, come nel caso delle Aquile Nere raccontate da Federica Schifano, offrano un’opportunità di svago ed interazione per i rifugiati e richiedenti asilo ospiti di varie strutture cittadine. Il lavoro di sei mesi, da gennaio fino a giugno scorsi, si è condensato in una mostra fotografica che ha avuto già tre diverse esposizioni (l’ultima, venerdì 5 ottobre scorso, presso il circolo dei Giovani Democratici di Via Ormea 6) e pure una citazione, con tanto di foto d’autore, su un numero della Stampa di agosto. L’idea della giovane artista, le cui armi sono la macchina fotografia, la pazienza e la fantasia, trascende naturalmente il gioco del calcio, anche se in questo si riassumono con il suo significato più alto di gioco di squadra, di momento di fatica, di difficoltà da superare anche materiali, visti i campetti spelacchiati e spesso infangati che Federica ha documentato immortalando istanti davvero d’effetto.

 

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Si parla sempre di allenamento nelle sue fotografie, mai di partite o di vittorie, così come non si parla di sconfitte: si racconta cioè del dietro le quinte rispetto al momento di gioco tout-court, nel quale si sogna, ci si prepara, si lavora inseguendo il proprio sogno e la propria ambizione, si costruisce, tramite l’amicizia e la complicità lo spirito di squadra, si supera il timore per un avversario notoriamente più forte; un’analogia con la vita di attesa dei vari ragazzi coinvolti, ancora sospesa e chissà per quanto ancora, senza la possibilità di ottenere la vittoria dell’integrazione, del poter vivere in Italia o riprendere il loro viaggio verso la destinazione finale e ricominciare finalmente, lontano da guerre o povertà, ricongiunti magari ai propri cari, la partita dell’esistenza. La mostra fa un passo in più, non è un documentario asimmetrico, in cui il reporter esterno fotografa, magari interagisce, fotografando uno per uno i suoi protagonisti, raccogliendo storie e strappando un’espressione ai loro volti, talvolta di gioia, talvolta di nascosta malinconia, ma è avulso dalla vita dei suoi soggetti. Al contrario, ad un certo punto, Federica fa un gesto semplicissimo, mette loro in mano una Polaroid (scoprendo che qualcuno di loro ha più di un’infarinatura di fotografia e condivide la stessa passione) e li invita a raccontare le loro vite, a farsi ritratti, immortalarsi in scene di vita e di gioco, talvolta sbilenche e mal impostate, talvolta naturali, talvolta coinvolgenti e toccanti; le mille storie si mescolano alle foto ricordo che portano con sé, con i volti di famiglie, bambini, mogli e case lontane, chissà quante volte tenute in mano, consumate, portate con sé come la cosa più cara che si ha: il ricordo.

Andrea Rubiola

 

 

Mario Lattes dall’informale al figurativo

FINO AL 27 OTTOBRE (TORINO) E ALL’1 DICEMBRE (MONFORTE)

E’ ben vero. A immergersi nel mondo di Mario Lattes (Torino, 1923 – Torino, 2001), quello espresso attraverso le sue opere pittoriche – ma anche attraverso i suoi romanzi e i numerosi racconti pubblicati fra il 1959 e il 1985 – non se ne esce mai a cuor leggero

In questo aveva proprio ragione il poeta e critico d’arte Libero de Libero quando, in relazione all’immaginario del pittore scriveva: “…certo, non è un luogo solare, e la traversata non è per sentieri docili né le soste avvengono lungo pianori sorridenti o in celestiali poggi. Ma le creazioni dell’arte non imbandiscono colazioni alle allegre scampagnate…”. E quelle di Lattes lo fanno ancor meno – assai meno- di tante altre. Uomo “solitario e complesso”, pur se dotato di un sottile ed amaro senso dell’umorismo e sicuramente fra le figure più eclettiche e di maggior spicco nel panorama artistico-culturale torinese del secondo dopoguerra (fu editore, scrittore e artista di frenetica e multiforme attività), a lui la Fondazione Bottari Lattes – presieduta da Adolfo Ivaldi e nata nel 2009 per volontà della moglie Caterina Bottari Lattes, proprio per mantenerne viva la memoria – dedica oggi due mostre illuminanti e ben curate: la prima, a Torino, nelle sale dello Spazio Don Chisciotte (in via Della Rocca, 37/b) fino al 27 ottobre e la seconda a Monforte d’Alba, nella sede della stessa Fondazione (in via Marconi, 16) fino al primo dicembre. Unico il titolo: “Mario Lattes dall’informale al figurativo”. Le rassegne assemblano infatti una sessantina di opere (molte inedite e mai esposte prima; a Monforte quelle di più grande formato, a Torino i lavori di minori dimensioni ) che cavalcano mezzo secolo di attività pittorica dagli anni Cinquanta ai Novanta, documentando i diversi modi espressivi e i numerosi interessi del pittore. Dalla breve parentesi informale a quel periodo “liberamente” figurativo, che Lattes manterrà nel corso degli anni, sia pure con valenze del tutto personali fortemente attratte da grafie espressioniste, graffianti e materiche, non meno che da suggestioni visionarie e fantastiche, tali da evocarne plausibili assonanze con l’opera onirica di Odilon Redon o del “pittore delle maschere” James Ensor. Al centro della narrazione, soggetto intorno a cui ruota nella sua complessità tutto il meccanismo espressivo, c’è sempre l’inquietudine e l’oscuro malessere del vivere quotidiano, quell’“epico senso dell’inconcludenza umana” in cui si riflettono memorie che sono atomi infiniti di dolore e, insieme, la consapevolezza della propria frammentata “identità ebraica”. Ma anche l’istinto e l’urlo di ribellione alla semplicistica volgarità delle mode, alle vie facili e al così fan tutti. Dagli oli agli acquerelli alle tempere fino alle tecniche miste ai collages e ai frottages (come anche nelle sue molteplici opere letterarie, patrimonio strettamente legato al mestiere pittorico), Lattes diffida sempre dei sentieri tracciati e se, in parte e a volte, ne porta addosso i segni di una sottile comprensibile fascinazione, non per questo scantona da un’inesauribile versatilità creativa che esercita in totale e liberatoria anarchia di mezzi e di pensiero. “Lattes è sempre là – annotava acutamente Marco Vallora – dove non te lo attendi, anche tecnicamente”. Tanto che, per carpirne a fondo il messaggio, occorre sempre indugiare prima di varcare la soglia – questo l’invito dello stesso pittore – e poi inoltrarsi “oltre lo specchio” senza però mai attendersi rassicurazioni né illusorie consolazioni.

Gianni Milani

“Mario Lattes dall’informale al figurativo”

Spazio Don Chisciotte, via Della Rocca 37/b, Torino; tel. 011/1977.1755

Orari: mart. – sab. 10,30/12,30 e 15/19 – Fino al 27 ottobre

Fondazione Bottari Lattes, via Marconi 16, Monforte d’Alba (Cn); tel. 0173/799282

Orari: lun. ven. 10/12 e14,30/17; sab. 10/12 e 15,30/18,30

Fino all’1 dicembre

www.fondazionebottarilattes.it

 

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Nelle foto

– “Senza titolo”, in mostra a Torino
-“Nudo di donna che dipinge”, 1989, in mostra a Monforte
– “Specchio”, 1969, in mostra a Torino
– “Senza titolo”, in mostra a Monforte
– “Cassettone”, 1966, in mostra a Monforte

Bocca di Rosa

Il sesso deve essere innaffiato di lacrime, di risate, di parole, di promesse, di scenate, di gelosia, di tutte le spezie della paura, di viaggi all’estero, di facce nuove, di romanzi, di racconti, di sogni, di fantasia, di musica, di danza, di oppio, di vino. Il sesso è l’arte di controllare la mancanza di controllo” La canzone di oggi è Bocca di Rosa e racconta la vicenda di una forestiera, soprannominata Bocca di Rosa, che, arrivata in treno “nel paesino di Sant’Ilario”, con il suo comportamento focoso e libertino («c’è chi l’amore lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione, Bocca di Rosa né l’uno né l’altro, lei lo faceva per passione»), ne sconvolge la quiete. Nel giro di poco tempo la donna, naturalmente, viene presa di mira dalle donne del paese, le quali, non tollerando la condotta della nuova arrivata (e il fatto che i loro mariti preferiscano tradirle per stare con Bocca di Rosa) si rivolgono al commissario di polizia, che manda «quattro gendarmi, con i pennacchi e con le armi» che condurranno Bocca di Rosa alla stazione di polizia e successivamente alla stazione ferroviaria, dove sarà accompagnata sul treno per essere allontanata per sempre dal paesino. Alla forzata partenza di Bocca di Rosa assistono commossi tutti gli uomini del borgo, i quali intendono «salutare chi per un poco portò l’amore nel paese». La notizia della presenza di un personaggio del genere però si diffonde velocemente di bocca in bocca, tant’è che, alla stazione, successiva la donna viene accolta in modo trionfale e addirittura voluta dal parroco accanto a sé nella processione. Siamo nel mondo del cantautorato raffinato del 1967. Pare che ad ispirare la canzone, ed il suo il personaggio di pura invenzione, sarebbe stata la famosa canzone di Georges Brassens “Brave Margot”. L’ipotesi sarebbe avvalorata dalla presenza, nel testo della canzone, di alcune similitudini e riferimenti presenti nel brano del cantautore francese. Due ipotesi minori collegano la canzone anche alla frequentazione, per pura curiosità sociale, che De Andrè faceva dei quartieri della prostituzione della Genova degradata. Da qui, come si cita in un articolo, De Andrè potrebbe aver tratto qualche ispirazione da figure di prostitute del tempo, come quella di una tale Marilyn, una transessuale, oppure quella di una certa Liliana Tassio, una prostituta che avrebbe frequentato l’artista nota come Maritza, una ragazza istriana che diventerà una delle protagoniste del romanzo Un destino ridicolo. Ma Bocca di Rosa, per me, non era un pericolo, non ci riesco a vederla cosi. Io penso che il vero pericolo fossero le “cagnette” alle quali lei sottraeva l’osso…perchè non erano in grado di tenerselo quell’osso.Credo che la differenza tra l’amore e il sesso sia che il sesso allevia le tensioni e l’amore le provoca. Il brano, magistrale, è stato rivisto da molti nel corso degli anni…ve ne propongo una che mi piace anche se non cosi quanto l’originale!!!!

https://www.youtube.com/watch?v=Q-pGJ9VxrHk

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Chiara De Carlo

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Chiara vi segnala i prossimi eventi …mancare sarebbe un sacrilegio!

Fondazione Cosso in festa per il decennale

DOMENICA 14 OTTOBRE

L’appuntamento è per domenica 14 ottobre, dalle 10 alle 18, al Castello di Miradolo, in via Cardonata 2, a San Secondo di Pinerolo (Torino). Sarà una giornata a porte aperte per festeggiare con gli amici e i visitatori i 10 anni dalla nascita della Fondazione Cosso, che nel suggestivo Castello di origini settecentesche ha la propria sede. A quanti vorranno prender parte ai festeggiamenti sarà offerto il biglietto d’ingresso al Parco storico con la possibilità di partecipare ad attività didattiche per grandi e piccini, realizzate in collaborazione con la Cooperativa Theatrum Sabaudiae Torino. Appuntamento clou della giornata, alle 16,30 con il taglio della torta e il brindisi benaugurale di buon compleanno. Degustazioni di tè in collaborazione con The Tea di Claudia Carità e dolci dell’Antica Pasticceria Castino di Pinerolo arricchiranno e rallegreranno il pomeriggio. Dieci anni fa: era l’11 ottobre del 2008 quando veniva costituita la Fondazione Cosso. Alla guida, la presidente Maria Luisa Cosso (ex-imprenditrice di successo, Cavaliere del Lavoro dal ’98 e “una vita di sfide fra filantropia, fabbrica e politica”) e la figlia, vice-presidente, Paola Eynard, laurea in Scienze Politiche e oggi affermata operatrice culturale. A celebrare l’avvio dell’attività e di un percorso che nel tempo ha significato grande lavoro e impegno e passione, fu allora l’inaugurazione nelle sale dell’acquisito Castello di Miradolo di una significativa mostra dedicata a Lorenzo Delleani, fra i grandi paesaggisti dell’Ottocento piemontese, e ai suoi allievi, fra cui Sofia di Bricherasio, ultima proprietaria del Castello e ultima erede della nota famiglia piemontese. “Prendeva avvio in questo modo – ricorda Maria Luisa Cosso – un progetto legato alla storia del luogo e alla valorizzazione del territorio, in una cornice simbolo della ricchezza storico-artistica e paesaggistica del pinerolese”. E “proprio al recupero – aggiunge Paola Eynard – del Castello di Miradolo e del suo Parco storico, profondamente offesi e segnati dal degrado e dall’abbandono, la nostra Fondazione ha inteso dedicarsi in questi dieci anni, con l’obiettivo di aprire le porte di una dimora privata alla collettività, confermandola nel tempo come polo culturale e di ricerca nel campo delle arti e della natura”. Con una particolare attenzione ai giovani, alle scuole e alle famiglie “per costruire insieme una società più inclusiva ed attenta alle differenze, alla fragilità e alla bellezza”.

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Per info e partecipazione alla giornata di domenica 14 ottobre: tel. 0121/502761 o prenotazioni@fondazionecosso.it

 

g.m.

E’ in arrivo “Ogr Award”

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Artissima, in collaborazione con la Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, presenta la seconda edizione dell’OGR Award, destinato quest’anno alla nuova sezione Sound, dedicata alle indagini sonore contemporanee e allestita presso le OGR – Officine Grandi Riparazioni di Torino con cui la fiera ha curato il percorso.  Il vincitore sarà selezionato da una giuria composta da Anna Colin, curatrice associata di Lafayette Anticipations di Paris e co-direttrice dell’Open School East di Margate, Lorenzo Giusti, direttore del GAMEC di Bergamo e da Judith Waldmann, curatrice e responsabile monitoraggio della Kasseler Kunstverein di Kassel. L’opera vincitrice sarà acquisita dalla Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT e destinata alle OGR – Officine Grandi Riparazioni, centro di arti visive e performative in grado di far convivere la ricerca artistica, performativa e musicale, unendo le idee e i valori della creatività con gli strumenti e i linguaggi delle più avanzate tecnologie digitali. Sound, novità dell’edizione 2018, è la prima sezione di Artissima che si terrà al di fuori degli spazi istituzionali della fiera e presenterà sedici progetti monografici, selezionati da due curatori internazionali Yann Chateigné Tytelman, curatore e critico d’arte a Berlino e professore associato di storia e teoria dell’arte di HEAD a Ginevra e da Nicola Ricciardi, direttore artistico delle OGR – Officine Grandi Riparazioni di Torino.

Sound nasce in risposta alla recente attenzione rivolta al suono da parte di artisti di diverse generazioni, per mettere in discussione le logiche dell’arte visiva. Il suono è usato per trasformare lo spazio e la sua percezione, per riattivare ricordi, per liberare l’immaginazione ed è oggi protagonista di numerose ricerche in ambiti eterogenei proprio per la sua capacità di evocare e svelare una realtà intangibile, sempre mutevole. Il premio OGR Award riconferma il ruolo di Artissima come catalizzatore di energie creative, attivatore di sinergie tra le diverse realtà culturali del territorio, con l’obiettivo di rafforzare la rete di collaborazioni tra gli attori culturali della città di Torino.                                      

SOUND – Gli artisti e le gallerie

Daniel Gustav Cramer, Vera Cortês Lisbon – Christina Kubisch + Roberto Pugliese, Mazzoli Berlin, Modena – Ugo La Pietra, Studio Dabbeni Lugano – Charlemagne Palestine, Levy.Delval Brussels – Susan Philipsz, Ellen De Bruijne Amsterdam – Lili Reynaud-Dewar, Emanuel Layr Vienna, Roma – James Richards, Isabella Bortolozzi Berlin – Anri Sala, Alfonso Artiaco Napoli – Tomás Saraceno, Pinksummer Genova – Michele Spanghero, Alberta Pane Paris, Venezia + Mazzoli Berlin, Modena – Charles Stankievech, Unique Multiples Toronto – Void, Massimodeluca Mestre-Venezia – Tris Vonna-Michell, Francisco Fino Lisbon – Franz Erhard Walther, Jocelyn Wolff Paris – Marzio Zorio, Raffaella De Chirico Torino

 

Il concept architettonico della sezione Sound è a cura dello studio architettonico Vudafieri Saverino Partners; lo space design è a cura di Driade e il sound design a cura di XO Next Office

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La seconda edizione del premio della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT ad Artissima per la nuova sezione Sound

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SOUND | 1 novembre 2018

c/o OGR – Officine Grandi Riparazioni

Anteprima stampa Sound

Inaugurazione Sound

Premiazione OGR Award

 

 

ore 17.00 (su invito)

ore 19.00-21.00 (su invito)

ore 19.00-21.00 (su invito)

Il Salone nel salotto buono

Apro un elegante Adelphi a metà prezzo (e già questa è una tentazione) e l’aforisma di Cioran colpisce come una stilettata: “Niente si può dire di niente. Per questo non ci può essere limite al numero di libri”.

Tipico incontro da Portici di Carta: frugare tra le bancarelle, trovare un titolo a lungo cercato, scoprire qualcosa che non ci si aspettava, convincersi con un improvviso innamoramento – perché in fondo, questo è il rapporto che ogni buon lettore ha con i suoi libri – di non poter fare a meno proprio di quel testo, oppure, in un completo ribaltamento di prospettive, arrivare con l’idea fissa di trovare quel libro, quell’autore, magari completare una serie, una saga, addentrarsi ancor di più nelle pagine che una volta ci hanno colpito e fallire nella lunga caccia, tornando però a casa con chissà quanti altri trofei letterari da impilare, ripulire, sistemare soddisfatti, quasi dimenticando che in realtà quel testo – maledizione! – ancora manca alla vostra libreria, e chissà quali nuovi mondi e nuove ricerche vi apriranno i nuovi amici che avete accolto negli scaffali della vostra abitazione.Portici di Carta è una molteplicità di esperienze, un bouquet, e dico bouquet con l’accezione che la parola ha nel linguaggio del sommelier o del profumiere, perché davvero si tratta di un’esperienza assieme intellettuale e sensoriale, fisica e metafisica, un viaggio che si dipana in pieno centro, da Porta Nuova a Piazza Castello, su entrambi i lati di via Roma, attorno al Caval ‘d Brons, a piazza Carlo Felice.Qualche tempo fa, pareva addirittura che qualche ombra incombesse sul futuro dell’iniziativa, la quale non si conclude certo con la vendita di libri usati, ma si estende con iniziative culturali, letture e attività rispetto alle quali ciò che in queste righe si narra è, paradossalmente, solo una piccola parte.

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Portici di Carta è la controparte del primo autunno al Salone del Libro, è un’altra testimonianza del rapporto stretto e sempre di successo tra la città e i suoi libri, l’uno concentrato nel Lingotto, regolamentato dai biglietti, documentato su scala nazionale; l’altro è libero, attraversa il salotto buono di Torino, si guadagna al massimo la citazione al tiggì regionale, accompagna turisti, visitatori, passanti lasciando loro lo spazio di andare dove devono andare sussurrando appena “vieni a dare un’occhiata, non ti deluderò”; c’è l’elegante e sabaudo anziano signore con cappotto beige che discute di antiquariato e bibliofilia, ci sono padre e figlio che frugano tra i fumetti e non si capisce chi dei due si diverta di più, probabilmente il babbo, ma capita anche che, all’improvviso, il gruppetto di ragazzi o la coppietta intenta alla passeggiata mattutina scarti improvvisamente dal suo cartesiano recarsi in un luogo preciso ed all’ora precisa, per dare un’occhiata (” ma sì, non compro niente” oppure ” vediamo, tanto per vedere, se c’è qualcosa di interessante; anzi, adesso che mi viene in mente, chissà se ha…”) e ritrovarsi improvvisamente avvinti dalla ricerca, dallo scartabellare avanti e indietro, sotto le pile di libri disordinate oppure, con due delicate dita, togliendo il libro dalla fila nel quale è stato ordinatamente infilato e controllato con occhio vigile dal libraio poco distante.Al Salone del Libro si va perché si va, è scopo esso stesso; è un evento pop, ci va l’appassionato, il lettore medio, il lettore sporadico, ci si va per comprare, per affari o per conferenze di ogni genere, per l’autografo o per poter dire di esserci stati; di Portici di Carta, se non te ne ricordi o non ne sei appassionato, è probabile che te ne dimentichi, al massimo ti viene in mente passandoci: ah già, c’è Portici di Carta, è una manifestazione intimamente torinese, un po’ vintage, amante dell’understatement.

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È in tono minore, ci sono editori, librai, robivecchi, si comincia con l’usato, l’antico, il consunto e l’antiquario, poi, nel primo tratto di via Roma, avanti piazza CLN, comincia la transizione verso il nuovo, oltre ci sono le librerie e gli espositori di qualche casa editrice locale; per quanto mi riguarda, dirò della magia del primo tratto, fino più o meno all’incrocio con via Cavour, perché è lì, al confine dove le bancarelle più di tutte simili ai boquinistes parigini si interrompono che la magia di Portici di Carta si esaurisce ed anche perché è lì- quasi sempre dopo aver percorso in almeno tre ore il primissimo tratto – che mi fermo, attraverso la strada e riprendo ad andare verso la stazione dalla parte opposta: le gambe cominciano a fare male e anche le finanze cominciano a scarseggiare, meglio passare dall’altro lato prima che sia troppo tardi. Inevitabilmente, il primo vantaggio di Portici di Carta è il notevole risparmio economico che quest’iniziativa garantisce all’acquirente, tanto più se questi è il tipico lettore forte, che saccheggia le librerie, non ha una particolare propensione all’estetica del libro, lui vuole, per prima cosa e su tutto, leggere, conoscere, vivere mille vite, ignora altri vizi e seduzioni ma in cuor suo sa che sì, se c’è una ragione per violare il settimo comandamento, i libri sono la Ragione per eccellenza, forse perché i libri sono una forma di fame e qualcuno ha cantato che non è peccato il rubare quando si ha fame.A questo genere di persona i costi della carta stampata sono ben noti, costi legati al grande dilemma aperto dalla necessità di pagare come dovuto chi lavora per la conoscenza e il bisogno, da parte di chi cerca la conoscenza, di potervi accedere a prezzi ragionevoli, dilemma non troppo diverso dal complicato dibattito che in rete si protrae tra open source e diritto d’autore.

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Portici di Carta è una buona soluzione: si possono spendere cifre relativamente alte -anzi, considerato che semel in anno… – ma con un prezzo medio per libro decisamente appetibile: da diversi anni, alla fine dei conti spendo per una ventina di libri circa 3,50 euro a volume; contemporaneamente, si accede a una quantità di testi variegata tanto in argomento, quanto in età e diffusione, si può fare il colpaccio acquistando un libro usato da pochi anni o risparmiare notevolmente acquistando testi di una quarantina e più di anni fa. Ce n’è per tutti i palati, edizioni eleganti ed altre decisamente scarse, libri in ottimo stato e libri che lo sono un po’ meno, ma d’altra parte, se l’occasione è unica, si può anche accettare un testo che esibisce fieramente le ferite del tempo. Occorre anche un po’ di pazienza, è vero, accettare di frugare in mezzo a tanti testi di dubbio valore, la fanno da padrone devozionali, santoni, chiromanti, esoteristi, erotismi di dubbia raffinatezza per non parlare dell’onnipresente letteratura sul fascismo (per non parlare di ninnoli, oggettistica ed altro materiale tra il nostalgico e il kitsch che qua e là si vede) e il nazismo, non sempre di alto valore storico, e gli ibridi un po’ inquietanti di erotismo esoterico o esoterismo nazista, ma, se si riesce ad attraversare questo strato ingombrante e superficiale – che deve però avere mercato, visto che altrimenti tali testi non sarebbero continuamente riproposti sulle bancarelle – praticamente in ogni bancarella troverete qualcosa che varrebbe la pena comprare, che soppeserete, confronterete, abbandonerete magari per ritornarvi alla fine del giro oppure ritroverete a un prezzo più o meno conveniente qualche stallo più avanti.Si diceva di Portici di Carta come esperienza: il consiglio è di andare a Portici di Carta come si va al mercato, oppure considerarlo un semplice diversivo alla passeggiata; specialmente se si è lettori appassionati, conviene organizzarsi, scarpe comode, zaini o trolley capienti, magari amici con i quali chiacchierare, scherzare, contendersi i testi furiosamente, scambiarsi consigli e passare tempo in compagnia.

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Portici di Carta è la quintessenza della flânerie letteraria, e dunque occorre atteggiarsi a flâneur, passarci ore, andando pian piano senza saltare nulla, godersi l’umidità triste di questo principio di autunno ormai irreversibilmente diretto verso il freddo, senza più la settembrina illusione estiva, il profumo di libri, di vecchio, di sigaro dei librai, sostando per arrivare finalmente faccia a faccia con i volumi, i veri protagonisti. Ognuno di essi, proprio perché usato, ha una storia, ha una vita che lo accompagna che incrocia la vostra e non attende nient’altro che diventarvi compagno fedele, ha trasceso la sua dimensione di oggetto e pure quella un po’ ingombrante, capace di intimorire, di severo custode della conoscenza: ce n’è per tutti i gusti, da una ricca messe di fumetti, di ogni genere e spesso pronti a farvi ritrovare quel numero che vi mancava, ai romanzi fino a ricchissima e interessante saggistica, molto spesso non più ripubblicata. Si può scherzare su certi titoli bizzarri, ci si può commuovere per qualche istante pensoso di fronte a una raccolta di libri raffinata, varia e interessante, evidentemente appartenuta alla stessa persona i cui parenti, alla sua dipartita, hanno deciso un nuovo destino per quei testi letti, amati, appuntati, un destino che può essere incarnato dal passante che li incrocerà e si deciderà a metter mano al portafoglio riportandoli al caldo di una casa e all’amore di un lettore; si può sfogliare un testo che pure non si comprerà, senza timore, per la curiosità di vedere quello che contiene; si potrà pensare a quale Jorge da Burgos abbia scritto il minaccioso cartello che invita a non bagnarsi i polpastrelli per sfogliare libri vecchi e preziosi, e non importa che il divieto sia dovuto al pericolo di guastarli con macchie antiestetiche; si potrà viaggiare nel tempo tenendo tra le mani fotografie, cartoline, oggetti da collezione o testi antiquati che pure, sicuramente, avrebbero tanto da raccontarci e rivelarci, si potrà acquistare un testo meravigliandosi della sua perfezione, del suo essere intonso dopo quarant’anni o, al contrario, incuriosirsi propri per quella dedica o quelle fitte note che un altro testo contiene; si potrà restare a lungo indecisi sul da farsi, se comprare o meno, sapendo che certi treni, per i libri come nella vita, passano una volta sola, oppure agire d’istinto, sapendo che bisogna avere quel libro, come mi è capitato trovandomi improvvisamente tra le mani una copia de “Il ponte di San Luis Rey” tornato di attualità dopo i recenti fatti di Genova e consigliato da Montanelli ad ogni giornalista, oppure acquistare senza sapere bene perché il libro che probabilmente traguarderete a lungo, abbandonato su qualche scaffale, senza ricordare il motivo preciso per il quale abbiate deciso di farlo diventare vostro compagno di strada, per poi ricordarsi che ogni libro usato è prima di tutto un incontro, e di ogni incontro porta con sé le dimensioni della scoperta e della curiosità, dell’amicizia non necessariamente istantanea, il colpo di fulmine o l’inaspettato e l’altro. Ogni anno, ad un certo punto, la passeggiata arriva alla fine, più di questo non si compra non solo perché il budget si è esaurito, ma perché sì è soddisfatti, più di così quest’anno la manifestazione non poteva dare al lettore, che può felicemente ingrandire l’infinita lista di libri che lo attendono, pronto a svicolare all’eterna domanda del povero di spirito, se li leggerà mai tutti, attendendo l’anno prossimo per quel mattino di ottobre in cui avrà di nuovo da camminare a lungo per la sua bella Torino godendo di queste semplici bancarelle dove i libri si mescolano al tempo e alla vita, ricordandoci perché da così tanti millenni siamo incapaci di fare a meno della lettura e della parola scritta.

Andrea Rubiola

(foto: il Torinese)

 

 

L’ansia di raccontare indebolisce l’affresco della Germania, tra nazismo e DDR

Pianeta Cinema a cura di Elio Rabbione

A Florian Henckel von Donnersmarck – per parte di madre discendente da quel generale von Blücher che con Wellington sconfisse Napoleone a Waterloo – è tornata la voglia di raccontarci (dopo l’intermezzo affatto felice di The Tourist) della sua Germania, della sua Storia travagliata nel Novecento, del catastrofico bombardamento su Dresda, del passato ingombrante, del nazismo e della DDR, di quanti si siano riciclati da un regime all’altro, conducendo la storia di Opera senza autore (il film più gettonato dal pubblico presente all’ultima Mostra di Venezia ma snobbato dalla giuria di Guillermo del Toro) attraverso la colonna portante dello sguardo, come nel precedente Le vite degli altri, vincitore dell’Oscar nel 2007, era l’udito a guidare la vicenda delle intercettazioni e l’attenzione del pubblico. A quello stile altamente e sofisticatamente drammatico, calibrato, attraversato da significative suggestioni, il regista preferisce oggi operare attraverso il drammone, il romanzone popolare umanamente sfacciato, gli scossoni delle tragedie familiari, gli intrecci più o meno inaspettati, i buoni e i cattivi a fosche tinte espresse al centro di un manicheismo puro e leggermente urticante, le sbandierate emozioni, dandoci – in una ricostruzione pur rispettosa delle diverse epoche – 188’ di cinema che soprattutto ben oltre la prima metà giocano a infilare fatti e le troppe particolarità che non evitano di certo il ripetitivo, lo sbandieramento di un percorso che ti aspetti di trovare in un prodotto televisivo. Ammettiamolo, inizi a guardare l’orologio abbastanza in là, ma alla fin fine i tempi diventano lunghi e in parecchie occasioni angoli di noiosaggine. S’invocano le cesoie di rito: e in primo luogo, se ti mettessi a fare una graduatoria, è chiaro che la robustezza, la sincerità, il racconto forte e asciutto delle Vite la vincerebbero di gran lunga sull’avventura dell’artista Kurt Barnert. Che vive i suoi primi anni sotto il nazismo, protetto e istruito da una giovane zia libera di pensiero ma altrettanto instabile mentalmente, pronta a fargli conoscere la bellezza dell’arte come quella che altri definiscono “degenerata” e lui disposto con i suoi grandi occhi a farsi rapire dalle opere di Grosz, di Klee o di Kandinski. In un regime che sceglie la purezza della razza e manda i figli al macello, riportando morti e feriti, non c’è posto per la giovane donna in case di cura o in ospedali, e verrà con altre disgraziate gasata. Nella sua autobiografia, Elia Kazan scrisse: “Negli individui dotati di doni misteriosi, ho notato che spesso, nella loro vita, avevano subito, presto, una ferita e ciò li ha spinti a impegnarsi di più o li ha resi ipersensibili; il talento, il genio, è la crosta sulla ferita, è lì per proteggere un’area debole, un’apertura verso la morte”. A Donnersmarck la metafora è piaciuta, Kurt – presa a prestito la vita dell’artista Gerhard Richter – ha alle spalle quella ferita e su quella ferita e nel suo superamento costruisce la propria maturità. Nel nuovo regime sovietico, dove la pittura è al servizio del popolo, dove s’inneggia al lavoro e alla solidarietà ma dove pure il genio è guardato con sospetto, una sorta di pericolo per l’ordine prefisso, vive la sua storia d’amore con Ellie e il rapporto con il suocero, il famosissimo e ambiguo professor Seeband, dal passato che nasconde più di un segreto, pronto a disapprovare con ogni mezzo quell’unione. Conosceranno insieme l’Ovest e le nuove avanguardie: è il momento convincente del film, allorché Kurt, attraverso i ricordi legati al passato, individua e stabilisce una propria strada, salda nella realtà ma altresì guardata attraverso la lente sfocata della memoria. Componendo le proprie tele, in un silenzio che si affida unicamente alle immagini, Kurt e l’intero film abbandonano quel fastidioso didascalismo che attraversa l’intera vicenda, Donnersmarck rinuncia a voler raccontare a tutti i costi, con estrema insistenza, lascia che le immagini, in una storia pensata “per” e “attraverso” la pittura, parlino da sole.

 

Salvate il liceo classico, ultimo baluardo contro la deriva

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di Pier Franco Quaglieni

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Che il governo giallo-verde si occupi di cultura e di scuola diventa di per sé un motivo di grave ansia e di notevole preoccupazione. Non hanno le basi per affrontare questi temi, come non hanno le basi per affrontare i temi dell’economia e della politica estera, come appare sempre più evidente
Un ministro dell’istruzione ex professore di educazione fisica è già di per sè un biglietto da visita certo non molto qualificante, anche se il precedente della ministra Fedeli costituisce una vetta difficilmente raggiungibile.  Ma la Fedeli almeno, da quanto si sa,  non ha cercato di cimentarsi su temi a lei del tutto sconosciuti come quelli relativi al liceo classico, un tema parimenti estraneo al ministro in carica che, però ,intende occuparsi dell’argomento ,promuovendo  una serie di sei seminari ,il primo dei quali si è tenuto a Torino il 4 ottobre al liceo d’Azeglio.  Il fine di questi incontri  non è tanto raccogliere idee, un intento di per sé sempre lodevole, quando quello di iniziare a parlare in concreto della modifica del curriculo scolastico  del liceo classico. Constata la diminuzione del numero degli allievi iscritti al liceo classico ( tutti gli ordini di scuola hanno subito , in verità , un calo dovuto alla decrescita demografica), i Soloni ministeriali di viale Trastevere vorrebbero “aggiornare” i programmi scolastici del liceo classico, inserendo  più elementi scientifici e linguistici stranieri con l’inevitabile riduzione delle materie qualificanti che sono il Latino , il Greco, la Storia dell’Arte, per non parlare della Filosofia e della Storia.  Vorrebbero insegnare il Latino e il Greco (sic) in modo più moderno. Era già un progetto che il ministro Gelmini aveva avviato, danneggiando il liceo classico a vantaggio di altri tipi di scuola.

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Il quotidiano “Repubblica” dà incredibilmente  una mano al ministro -ginnasta e scrive testualmente : ”Solo una revisione  coraggiosa del percorso e del modo di insegnare quelle che gli studenti percepiscono come lingue “morte” potrà invertire la tendenza”. Cosa significhi la “revisione coraggiosa” non ci è concesso sapere.  Sulle cosiddette lingue morte ci sarebbe molto da dire. Basterebbe rileggere Concetto Marchesi e lo stesso Augusto Monti per rendersi conto della demagogia che si è fatta attorno agli studi classici che i comunisti definivano tout -court classisti, ma che uomini di sinistra come Marchesi e Monti appunto  difesero a viso aperto.  Gli studia humanitatis aprono la mente, non hanno un’utilità pratica come l’estimo per i geometri. Solo i grossolani pensano che una scuola debba insegnare solo nozioni pratiche e immediate come una scuola guida.  Aver studiato o non aver studiato le lingue classiche continua a fare una differenza anche nell’epoca di internet. Anzi, soprattutto in epoca di internet. Ritorna oggi , non a caso, la vecchia, logora polemica, ammantata da pretesti pedagogici  solo apparentemente nuovi. La verità è una sola. Vogliono smantellare il liceo classico, quello che crea spirito critico e consente anche giudizi politici autonomi, non legati all’”uno uguale uno”.

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Aver letto Cicerone e Seneca, Virgilio e Tacito, Omero, Tucidide  e i tragici greci  fa la differenza.   Umberto Eco parlava dei Babbei di internet e della loro stupidità . E aveva ragione.   Certo i padani o i grillini non sono in grado di capire discorsi che appaiono loro  astrusi e fuori dalla  portata intellettuale di gente che non ha studiato ed esibisce la propria ignoranza come una virtù’.  In un Paese alla deriva in cui il valore della cultura è disprezzato, un ultimo baluardo volto a formare giovani titolari del proprio cervello, verrà abbattuto con l’intesa di tutti i demagoghi e di tutti gli ignoranti che purtroppo sono la diventati la maggioranza. Un arco di  consensi che metterà insieme la sinistra e i nuovi governanti.  Un liceo classico con qualche residua  nozione di latino e greco può anche chiudere i battenti: non avrebbe più nessun significato culturale ,sarebbe  un segno dell’imbarbarimento dei tempi che viviamo.  Un nuovo Medio Evo molto prossimo in cui saremo destinati a precipitare, ci attende inesorabilmente . Ciò che non è riuscito a fare ,cinquant’anni fa, il ’68, riusciranno a farlo i nuovi governanti che, andando ben a vedere , sono proprio i figli o i nipoti dell’ignoranza che generò la contestazione studentesca e il facilismo che ne derivò e che promosse “oves et boves “che, tradotto, significa pecore e buoi, cioè tutti, animali compresi.    

 

 

scrivere a quaglieni@gmail.com