Un vero e proprio tornado in Piemonte. È durato alcune decine di secondi il fenomeno atmosferico mercoledì nel Novarese, a Landiona. Per fortuna nessun danno. Un video, dal quale è stata tratta l’immagine è stato postato sulle pagine Facebook “Meteo Novara e provincia” e di Andrea Vuolo meteorologo.
In base a quanto rilevato dal sito di ricerche genealogiche wikitree, che cita come fonti i dati anagrafici del governo USA, il nonno del Papa, Jean Lanti Prevost, sarebbe nato a Torino nel 1876 e deceduto nel 1960 a Cook, in Illinois. Si sarebbe sposato con Suzanne Louise Marie Fabre, di origini italo-svizzere, prima di emigrare negli Stati Uniti, stabilendosi a Chicago, dove nel 1920 nacque il padre di Robert Prevost, Luis Marius. Bisogna anche però precisare che, nelle biografie diffuse in queste ore, le origini del nuovo vescovo di Roma vengono descritte in modo generico come franco-italiane e, al momento, non risultano riscontri certi negli archivi anagrafici italiani.
All’Alfieri, repliche sino a domenica 18 maggio
Uno spettacolo a teatro come un vecchio film, compresi righe e filamenti volanti sulla pellicola, il carattere un po’ démodé delle scritte: con tanto di titoli di testa a elencare cast, costumi e scenografie, musiche, regia e produzione, quanti fecero l’impresa e quant’altro ancora. Come ai vecchi tempi, tutto a scorrere oggi sulla quarta parete del palcoscenico dell’Alfieri, per la prima nazionale – una delle tante promesse, quella dei debutti importanti, che Fabrizio di Fiore sta mantenendo nel corso delle sue nuove stagioni teatrali torinesi – di “Cantando sotto la pioggia” (repliche sino al 18), in un mese di maggio che vede quasi il termine del calendario. Un omaggio dovuto, “un sogno che si avvera nei confronti di un testo a cui ho pensato da sempre, da quando ho iniziato a fare il mestiere che faccio”, ricordava ieri sera Luciano Cannito, regista, al termine dello spettacolo con applausi davvero trionfali da parte di un pubblico certo di aver incrociato una brillante serata; e poi la eccellente ricostruzione di un clima, che continua a vivere in un’epoca ben precisa ma che allo stesso tempo ha tutti i mezzi per irrobustirsi di vita propria – con tanto di citazioni, dall’orologio di Harold Lloyd di “Preferisco l’ascensore” alle gambe più belle (e costose) del mondo, quelle di una smagliante Cyd Charisse proprio in coppia con Kelly -, di musiche e canzoni, di coreografie catturate da quelle immagini, di pericolante recitazione e di torte in faccia, di dispetti e rivalse tra primedonne, di un divertimento insomma che riempie appieno le tre ore circa dello spettacolo. Se il titolo è una pietra miliare del teatro musicale, e lo è certamente con un ristretto gruppo di non ti stanchi mai, diceva ancora Cannito in un’intervista a La Stampa, ecco che il regista si fa apprezzare per quella rinuncia alle forzature, per quegli ammodernamenti evitati, per il “rispetto” di quel “sacro che c’è dentro” anche se niente vieta di togliere “un po’ di polvere che si è depositata nel tempo”, pronta a lasciare spazio a una più calcata e pungente ironia.
Con un bel ritmo, che potrà ancora crescere con l’avanzare delle repliche, lo spettacolo guarda gioiosamente al film del ’52 diretto da Stanley Donen e Gene Kelly, quest’ultimo come ognuno sa nel ruolo anche del protagonista Don Lockwood, l’epoca della vicenda è il tramonto del cinema muto, quando immagini in bianco e nero rendevano attori anche approssimativi costretti a costruire facce di circostanza, a strabuzzare occhi fuor di misura, ad atteggiarsi in movenze a dir poco ridicole. Il teatro, quello era l’autentico mondo della recitazione, ma non era pane per tutti. Non per quelle attricette di poco conto che non avrebbero mai potuto prestare la loro voce stridula alle tavole di un palcoscenico, le riprese erano lì a salvarle senza che il pubblico, già allora ai bordi del red carpet, si ponesse tante domande. È quanto succede alla acclamata quanto vanesia, vanitosissima, Lina Lamont, che fa coppia con Don in mediocri film di cappa e spada: senonché quel mondo di non più sopportabile cartapesta, dopo disastrosi tentativi di adattamento, pare scoppiare quando il 6ottobre 1927 “Il cantante di jazz” con Al Jolson appare sugli schermi a inaugurare il cinema sonoro – una rivoluzione, come quella che a Hollywood fu dodici anni dopo con la risata della Garbo per “Ninotchka” – e quelle voci sgraziate avrebbero avuto vita breve. All’orizzonte di “Cantando” appare Kathy Selden, viso notato dal produttore che vede lontano, bella presenza e voce da sogno, semplicità e pochi grilli per la testa, che con l’aiuto di Don, nuovo compagno di lavoro e di vita, e dell’impareggiabile funambolico Cosmo penserà a smascherarla e a metterla in ridicolo, con buona pace di una improbabile carriera.
Legatissimo e mai un attimo che accusi sghembature o rallentamenti che siano lì a intaccarne il ritmo, smagliante, divertente, il vecchio libretto di Betty Comden e Adolph Green rispolverato a dovere secondo la promessa registica, le canzoni di Nacho Herb Brown e Arthur Freed (dal “Mago di Oz” giù giù sino a “Gigi” una delle più belle firme di Hollywood), qui con la traduzione di Cannito e di Laura Caligani, a tornare sempre piacevolmente in mente, le scene di Italo Grassi e soprattutto i costumi di Silvia Califano (un cognome che è una garanzia), che spazia con le sue invenzioni da “Sherazade” a Shakespeare per il festival veronese, dall’Aterballetto al “Lago dei cigni” per il Roma City Ballet Company, non ultimo il disegno luci curato da ValerioTiberi, ogni apporto rende “Cantando” un’occasione da non perdere. Metteteci ancora un corpo di ballo di quindici elementi, di quelli che si cercano e si trovano da chi ha parecchio fiuto alle spalle, che all’occorrenza canta e recita, metteteci degli attori in gran forma e avrete la sembianza esatta del successo o del successone. Senza se e senza ma. Lorenzo Grilli, cresciuto nel teatro di Proietti e nel cinema di Roberta Torre, è un valido Don che sfugge con padronanza alle incertezze del debutto e si irrobustisce, passo dopo passo, mattatore assoluto, davvero efficace, nel momento “in the rain” sotto scrosci non indifferenti d’acqua con voce e salti e zompi invidiabili sui lampioni di scena. Martina Stella e Flora Canto, su due diversissimi versanti, sono due belle attrici, che convincono, un ritrattino tutto sale e pepe di ocaggine agguerrita nel non voler cedere lo spazio che s’è guadagnato la prima, anche capace di mettere in secondo piano, con lodevole convinzione, una vera bellezza; grintosa “my fair lady” del palcoscenico la seconda, pienamente disponibile ad un percorso di tutto rispetto. Folletto della serata, autentico artista, versatile, pronto a mettere in scena per quanti non lo conoscono, autentica scoperta, e a ribadire per i molti altri una insolita bravura che ha preso forma negli anni, e nelle tante tappe, nella danza (tap, modern e acrobatica), nel musical e nelle arti circensi, Vittorio Schiavone, che passa attraverso il Teatro alla Scala e guarda a Michael Jackson: il suo Cosmo, per certi tratti, in coppia con il protagonista o negli assolo, ha tutta la magia dell’inafferrabile, del campione che non hai ancora incrociato, dell’uomo di palcoscenico abituato a sgusciare, a lanciare piccoli e grandi guizzi e a colpire a segno, del nome che per il futuro non potrà di certo sfuggirti e che dovrai essere tu a dover tenere d’occhio.
Elio Rabbione
Le immagini di “Cantando sotto la pioggia, regia di Luciano Cannito, sono di Valerio Polverari.
Torino DOC: i vini bianchi che seducono
Freschi, leggeri, da vitigni rari e locali, impregnati di territorio
La vendemmia 2024 ha visto l’arrivo di tre nuove tipologie della Doc Pinerolese. Oltre al Nebbiolo, la denominazione torinese si arricchisce di due vini bianchi: Bian Ver e Malvasia.
Per celebrare questo importante traguardo e per valorizzare i vini e le eccellenze del territorio torinese, la Camera di commercio di Torino promuove lunedì 12 maggio a Palazzo Birago, l’evento “Torino DOC: i vini bianchi che seducono” per raccontare l’incontro tra Pinerolese Bian Ver e Malvasia e gli altri bianchi delle aree vitivinicole torinesi.
La giornata è ospitata nelle prestigiose sale al Piano Nobile di Palazzo Birago, sede istituzionale della Camera di commercio di Torino, e si articola in più momenti dedicati a comunicatori, operatori Ho.Re.Ca. e grande pubblico.
I vini bianchi saranno i protagonisti assoluti con i vitigni Bian Ver, Malvasia (Moscata e di Candia aromatica), Erbaluce, Baratuciat, ma nello spazio dell’Enoteca saranno proposti anche alcuni rossi quali il Carema Doc, fascinoso Nebbiolo di montagna, e varie declinazioni della Freisa di Chieri Doc.
Si inizia alle ore 10.00, in Sala Giunta, con un convegno sulla vinificazione dei vitigni bianchi nel Torinese nonché sull’iter di ottenimento delle nuove tipologie della Doc Pinerolese. Previsti interventi a cura dei professori Vincenzo Gerbi e Stefano Raimondi, dell’enologo Gianfranco Cordero e del presidente della Fondazione Malva Arnaldi, Danilo Breusa, moderati da Alessandro Felis.
Prenotazione gratuita al seguente link:
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Alle 12.30 prevista una masterclass dedicata ad operatori e giornalisti per approfondire le neonate tipologie della Doc Pinerolese; a seguire la degustazione libera dove i vini bianchi saranno i protagonisti assoluti con i vitigni Bian Ver, Malvasia, Erbaluce, Baratuciat.
Segue una tavola rotonda con rappresentanti delle organizzazioni di assaggiatori e sommelier (AIS, FISAR e ONAV) e mondo della ristorazione, in particolare gli operatori del circuito Mangébin.
Per giornalisti e operatori professionali la masterclass con degustazione e il tasting around sono gratuiti, prenotando al seguente link:
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La selezione enologica Torino DOC, con 45 cantine e 128 vini premiati, è realizzata dalla Camera di commercio di Torino e dal suo Laboratorio Chimico in collaborazione con l’Enoteca Regionale dei Vini della Provincia di Torino. Non è una semplice guida a vini, ma un progetto che prevede azioni di marketing territoriale che uniscono cultura, tradizioni e produzioni vitivinicole.
L’evento Torino DOC: i vini bianchi che seducono è organizzato da Camera di commercio di Torino ed Enoteca Regionale dei Vini della Provincia di Torino con il supporto del Salone del vino di Torino, in collaborazione con Consorzio per la Tutela e la Valorizzazione dei Vini Docg di Caluso e Doc di Carema e Canavese, Consorzio di Tutela e Valorizzazione Freisa di Chieri e Collina Torinese Doc, Consorzio di Tutela e Valorizzazione Valsusa Doc e Consorzio di Tutela e Valorizzazione Pinerolese Doc.
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Inaugurazione venerdì 9 maggio 2025
Ore 18.30 Bookshop Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Via Modane 16 – Torino
Dodici mesi di festeggiamenti che culminano con un ricco programma al XXXVII Salone Internazionale del Libro (15- 9 maggio) tra feste, presentazioni, incontri e la Premiazione della XX edizione.
L’anniversario è un’occasione per celebrare le oltre 10.000 autrici che hanno partecipato con i loro racconti e le loro fotografie. Nasce così la mostra fotografica Radici in movimento. Sguardi di donne non più straniere (10-18 maggio 2025) con l’esposizione di tutte le immagini delle vincitrici per ricordare la collaborazione con la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, che accompagna da 15 anni il progetto con il Premio Speciale dedicato alla fotografia.
Ideato nel 2005 da Daniela Finocchi, il Concorso Lingua Madre è un progetto permanente della Regione Piemonte e del Salone Internazionale del Libro di Torino, diretto a tutte le donne migranti, alle loro figlie e a tutte coloro che si riconoscono in appartenenze multiple, con anche una sezione per le donne italiane che, pur non avendo origini straniere, vogliano raccontare l’incontro con l’Altra. Un luogo autentico di espressione e riconoscimento; un’occasione di relazione, conoscenza, rappresentanza.
20 antologie, 15 mostre fotografiche, 30 volumi di approfondimento curati dal Gruppo di Studio, 1 rivista telematica, oltre 2.000 presentazioni in tutta Italia, 30 convegni, più di 50 laboratori e progetti scolastici, 8 borse di studio attivate, 5 programmi video originali, 5 spettacoli teatrali tratti dai racconti, 1 podcast su Spotify, 1 webserie su Prime Video. Tutto questo è il Concorso Lingua Madre, nato per ascoltare la voce di coloro a cui spesso non viene offerta questa opportunità, ma hanno molto da dire: in quanto donne e in quanto migranti.
PREMIO LETTERARIO E FOTOGRAFICO
Al Concorso si possono inviare racconti e/o fotografie e si può partecipare a qualsiasi età e in qualsiasi condizione, da sole, in coppia o in gruppo, se necessario con l’aiuto di un’altra donna nello spirito della valorizzazione dell’intreccio culturale che è prima di tutto intreccio relazionale. I premi sono in denaro. Tutti i racconti selezionati sono raccolti nelle antologie Lingua Madre. Racconti di donne non più straniere in Italia (Edizioni Seb27), mentre le immagini sono esposte ogni anno in una mostra a cura di Filippo Maggia della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Sono partner del Concorso con premi speciali: Slow Food – Terra Madre, Torino Film Festival, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Il Concorso opera sotto gli auspici del Centro per il libro e la lettura e si avvale del patrocinio di: Ministero della Cultura, We-Women for Expo, Rappresentanza in Italia della Commissione Europea, Fondazione Pubblicità Progresso. Ha ricevuto nel 2015 il Premio Targa del Presidente della Repubblica, mentre nel 2024 Daniela Finocchi è stata nominata Cavaliere dell’Ordine “Al merito della Repubblica Italiana” per l’attività svolta con il progetto.
EVENTI, INCONTRI, PRESENTAZIONI
Oltre 100 eventi in presenza e online su tutto il territorio nazionale ogni anno con laboratori, convegni, partecipazioni a festival, mostre e spettacoli teatrali tratti dai racconti. Un progetto in divenire, che ha saputo evolversi e aggiornarsi costantemente, come testimonia il sottotitolo diventato Racconti di donne non più straniere. Molte anche le collaborazioni a riviste letterarie, oltre a quella propria del Concorso. Infatti, dal 2023 il sito www.concorsolinguamadre.it è diventato una testata giornalistica online: un vero e proprio progetto editoriale che unisce articoli, rubriche tematiche, un podcast e una sezione audioracconti.
ATTIVITÀ DI RICERCA
Le testimonianze delle autrici raccolte in questi vent’anni mostrano con chiarezza la necessità imprescindibile di uno sguardo sessuato alle migrazioni contemporanee: perché le donne ne sono protagoniste e anche migrando cambiano il mondo. Per questo l’attività di ricerca, condotta anche in collaborazione con le università, in Italia e all’estero, costituisce un altro aspetto fondamentale del progetto. Il Gruppo di Studio, composto da docenti di diverse nazionalità, indaga e approfondisce i temi connessi alla letteratura e alla migrazione femminile e realizza convegni, pubblicazioni, saggi, come il più recente volume dedicato alla risoluzione dei confitti, Pagine di pace. Pensieri, scritti, pratiche di donne (Iacobelli), che sarà presentato quest’anno al Salone del Libro.
Primo incontro di “Giornaliste. Raccontare e fotografare il mondo” al Circolo dei lettori
Al Circolo dei lettori è ripartito il ciclo “Giornaliste. Raccontare e fotografare il mondo”, ideato da Annalisa Camilli. Un omaggio alle voci femminili del giornalismo – del presente e del passato – che sanno e hanno saputo raccontare il proprio tempo attraverso parole e immagini, da davanti o dietro un obiettivo. Un viaggio tra testimonianze dirette, documenti d’archivio e memorie personali, per restituire frammenti di mondo e offrire nuovi sguardi sulla realtà.
Nel primo incontro di mercoledì 7 maggio Stefania Battistini, inviata speciale del TG1 in dialogo con Serena Danna, vicedirettrice di Open, ci hanno aiutato a capire come si spiegano i conflitti e il mondo che cambia così velocemente, in un periodo storico in cui si fa fatica a rincorrere le guerre.
Il mestiere dell’inviato di guerra
Durante uno degli episodi più delicati del conflitto in Ucraina Stefania Battistini si è trovata nuovamente sul campo, testimone diretta di un momento che segnava un cambio di strategia da parte di Kyiv. Era agosto del 2024, quando le forze ucraine tentarono per la prima volta in due anni e mezzo un’incursione oltre il confine russo, con l’obiettivo dichiarato non di conquistare dei territori, ma di guadagnare una posizione di forza in vista di eventuali negoziati di pace.
“Gli ucraini non hanno mai detto: invadiamo la Russia per prenderci un pezzo di territorio. Hanno puntato a un obiettivo strategico, la centrale nucleare di Kursk, per cercare di ottenere indietro città come Zaporižžja,” ha spiegato Battistini. Il suo lavoro, come sottolinea, è stato quello di ogni cronista: verificare con i propri occhi, essere presente e raccontare.
La giornalista ha ribadito come, nel mestiere del reportage di guerra, sia fondamentale trovare un equilibrio tra l’emozione, inevitabile di fronte al dolore e alla morte, e la lucidità analitica. “C’è chi lavora dal desk, chi corre sul posto. Ma alla fine il punto d’incontro dentro una redazione nasce proprio da questa osmosi tra chi analizza e chi vive sul campo.”
Un esempio emblematico di quanto sia complesso e delicato il ruolo del giornalista nei teatri di guerra si è verificato durante la liberazione della città di Kherson, nel sud dell’Ucraina. Le immagini di cittadini in festa che sventolavano la bandiera ucraina, hanno smontato la narrazione russa secondo cui gli ucraini avrebbero accolto con favore l’occupazione. Tuttavia, le autorità ucraine decisero di limitare l’accesso alla stampa internazionale in quel momento cruciale, bloccando anche giornalisti accreditati, a differenza di colleghi della BBC e della CNN che riuscirono comunque a entrare, pur con grande rischio. per la prima volta i cittadini che erano finiti sotto occupazione potevano raccontare delle cose e sarebbe stato un momento di propaganda fortissimo, che però gli ucraini non si sono voluti giocare.
Secondo Battistini, la decisione di Kyiv fu dettata dalla paura di eventuali incidenti ai danni dei giornalisti occidentali e dalle conseguenze diplomatiche che ne sarebbero potute derivare. “Temono che un morto tra i reporter possa essere visto come una strumentalizzazione a fini di propaganda. C’è una grande attenzione verso la sicurezza degli inviati, un’attenzione che raramente si vede in altri conflitti,” ha affermato.
Il mestiere del giornalista di guerra, specie per chi lavora per la televisione, impone una certa vicinanza alla scena. “Un fotografo deve vedere con i propri occhi, un reporter della carta stampata può anche rimanere un po’ più distante, ma chi lavora per la TV deve poter mostrare.” E raccontare la guerra in Ucraina è vero che puoi farlo dalle città perché è un conflitto che non risparmia i centri abitati, dove vengono colpite scuole, case e ospedali, con i civili che pagano il prezzo più alto.
Ma qualche volta bisogna anche uscire dalle aree urbane per documentare ciò che accade lungo le linee di contatto tra gli eserciti, dove l’accesso è strettamente controllato. “Il primo posto di blocco puoi raggiungerlo da solo, ma per avvicinarti davvero al fronte servono i mezzi militari. A volte sono semplici jeep verdi, che non garantiscono alcuna protezione reale.” E ogni volta che un giornalista viene portato su quei percorsi, aggiunge Battistini, c’è il rischio concreto di diventare un bersaglio.
Una realtà dura, che trova conferma anche in altri teatri di guerra come Gaza: “Il giornalista non è protetto dalla Convenzione di Ginevra. E gli ucraini, questa responsabilità, se la sentono tutta.”
Il giornalista come bersaglio
Dal confronto tra Serena Danna e Stefania Battistini emerge con forza un problema cruciale del nostro tempo: il progressivo screditamento dei giornalisti, in particolare di chi lavora sul campo in contesti di conflitto. Quello che un tempo era considerato un mestiere di testimonianza e servizio pubblico, oggi viene spesso messo in discussione, attaccato, persino ridicolizzato.
Serena Danna sottolinea un trend globale: i giornalisti non sono più visti semplicemente come osservatori, ma sempre più spesso come pedine di propaganda o, peggio ancora, come nemici da smascherare. In un clima di crescente sfiducia, ogni narrazione che non si allinea alle aspettative di una parte viene accusata di parzialità o manipolazione, come nel caso degli attacchi ricevuti da alcuni inviati italiani o americani. Danna parla di un vero e proprio “rogo pubblico” che colpisce il singolo cronista, trasformando l’informazione in campo di battaglia.
Dal canto suo Stefania Battistini racconta quanto questi ultimi tre anni siano stati i più difficili per chi, come lei, lavora nei teatri di guerra. Non solo per il pericolo fisico, ma per il dubbio sistematico che grava sul loro lavoro. Il cuore del problema è che viene costantemente messo in discussione non solo ciò che si racconta, ma il principio stesso della realtà osservata. Anche di fronte a un cadavere, anche con prove documentate, c’è chi nega, chi insinua, chi distorce la realtà.
Battistini rivendica con fermezza la verità dell’esperienza diretta. Ha sempre descritto con lucidità le città ucraine sotto assedio, i civili colpiti durante la fuga, esattamente come i colleghi stranieri provenienti da tutto il mondo, che hanno documentato le stesse cose. Eppure, di fronte a questa coralità di testimonianze, la contro-narrazione negazionista o complottista – spesso formulata da chi è lontano dal fronte– diventa strumento di delegittimazione. E spesso a screditare la fonte sono proprio altri giornalisti che seguono le notizie dal divano di casa.
Ed è proprio qui che si apre la frattura più pericolosa della nostra epoca: la trasformazione della verità in opinione, del giornalista in bersaglio. In un clima di “post-verità”, la realtà non è più ciò che accade, ma ciò che conviene pensare. E il giornalista, anziché essere ponte tra fatti e cittadini, diventa figura scomoda, da smentire o zittire.
Nel proseguire il dialogo, Serena Danna solleva una domanda cruciale: perché chiunque oggi si sente legittimato a mettere in discussione la testimonianza di un giornalista che lavora sul campo? Dai profili anonimi dei social media a colleghi che osservano i conflitti dal divano di casa, il lavoro dei cronisti viene costantemente sottoposto a un giudizio superficiale, spesso strumentale.
Stefania Battistini risponde sottolineando una frattura sistemica nel mondo dell’informazione. Le testate giornalistiche tradizionali, come quelle del servizio pubblico o quelle considerate “mainstream”, sono vincolate da regole stringenti: ogni errore ha conseguenze legali e reputazionali, ogni querela può trasformarsi in una sentenza che pesa anche sul piano economico. La credibilità va difesa con rigore, perché la responsabilità di chi raggiunge milioni di spettatori è enorme.
Al contrario, alcuni spazi televisivi – in particolare i talk show – non sono testate giornalistiche e non sono tenuti a rispettare gli stessi standard. Battistini critica apertamente l’abitudine di invitare ospiti che, consapevolmente, distorcono la verità o negano fatti storici documentati. La responsabilità editoriale si dissolve in nome dello spettacolo e del “pluralismo”, ma il risultato è una continua erosione del confine tra informazione e opinione.
Preoccupa, dice la giornalista, la sovrapposizione tra certe narrazioni di analisti italiani e quelle dei media russi: quando i messaggi coincidono, a distanza di pochi giorni, diventa lecito chiedersi se ci sia solo ingenuità o una deliberata regia del racconto. Continuare a ospitare chi mente, su fatti presenti e passati, è una scelta editoriale che chiede spiegazioni.
In un’epoca di disinformazione diffusa, il rischio è che il giornalismo venga delegittimato non per ciò che dice, ma per ciò che rappresenta: una voce scomoda, un testimone in più. E difendere la sua integrità significa difendere la possibilità di comprendere il mondo.
L’esperienza più paurosa per Battistini
Durante l’incontro con il pubblico, qualcuno ha chiesto a Stefania Battistini quale sia stata la volta in cui ha avuto più paura. La giornalista, con semplicità, ha risposto: “Non sono una persona paurosa”. Eppure, un episodio le è rimasto dentro.
È accaduto quando i droni, utilizzati per documentare il fronte, hanno iniziato a essere dotati di granate. Da quel momento, per motivi di sicurezza, i movimenti si facevano solo di notte. Gli appuntamenti erano fissati per mezzanotte, con l’obiettivo di raggiungere le zone di combattimento sotto la copertura del buio.
Quella notte, la Battistini era sola, senza operatore, i militari l’accompagnano in un territorio aperto e gelido, una pianura spoglia. Le vecchie trincee sono state sostituite da “tane del coniglio”, piccoli rifugi interrati dove si pilotano i droni. Ma la prima tana è già occupata, bisogna raggiungerne un’altra, a piedi. Intorno, solo luci lontane: “Quelli lì sono i russi, quelli lì pure, e anche lì”, le dicono. L’ansia inizia a sovrastarla. Nella nuova tana si entra in quattro, ma c’è posto solo per tre. Un militare resta fuori al freddo. Dentro, si accende una candela, ognuno con la testa china sul proprio schermo. La tensione è palpabile. Lei guarda Twitter, scorre notizie per distrarsi e poi, all’improvviso, si addormenta per lo stress. “Mi sono addormentata per la fatica di gestire l’attesa, lo stress. Ad un certo punto il cervello si spegne, un po’ per darti una via di fuga.”
“Mai più una tana del coniglio”, dice oggi. Ma da quell’esperienza ha capito cosa significa davvero la guerra vissuta da vicino: giovani che fino a ieri lavoravano all’università o nella tecnologia e oggi, obbligati, si ritrovano in prima linea a combattere e sopravvivere.
Una testimonianza cruda, che scava nella carne viva del mestiere e nella verità del conflitto.
Come nasce una vocazione
Un’altra domanda arriva dal pubblico, questa volta da una giovane universitaria: “Come ha iniziato a fare la giornalista?”
Stefania Battistini sorride. Racconta che sì, il giornalismo è sempre stato un sogno. Ma il suo ingresso nella RAI è stato anche un colpo di fortuna supportato dall’ostinazione ostinazione. È successo quando venne aperto un nuovo canale sul digitale terrestre. “Sono entrata così, quasi per caso. Ma poi è iniziata la lunga trafila del precariato. Dieci anni di contratti a tempo: tre mesi, poi due, poi un altro breve rientro. Il “club dei precari”, lo chiama con ironia. “Un girone infernale: precario uno, precario due… e uno solo assunto.” Ma grazie anche al lavoro sindacale e a un cambio di approccio interno, la regola dell’anzianità è stata finalmente rispettata. E così, dopo dieci anni, è arrivato il contratto stabile.”
La carriera è proseguita con la cronaca nera, poi quella locale “lì ho imparato tanto, mi sono formata.” Ma la passione per gli esteri era sempre lì, viva: “durante le ferie andavo in Siria. Un classico per noi giornalisti: investiamo tutto quello che guadagniamo per inseguire ciò che ci muove davvero.”
Poi, un po’ di fortuna, un po’ di contingenze e il coraggio di offrire la propria disponibilità nei momenti in cui nessuno voleva partire. Così è cominciato il suo viaggio da inviata per raccontare il mondo da vicino e da dentro.
Per i prossimi appuntamenti di “Giornaliste. Raccontare e fotografare il mondo” consultare il programma al seguente link https://torino.circololettori.it/giornaliste2025/
GIULIANA PRESTIPINO
“Facciamo fatica a comprendere le motivazioni che hanno indotto la Procura Generale a rinunciare all’impugnazione presentata da un altro Ufficio che per anni si è occupato di approfondire, sotto un profilo tecnico e giuridico, la tematica del grave inquinamento che affligge la nostra Città” commenta l’avvocato Marino Careglio, tra i difensori del Comitato Torino Respira.
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
Smog, Comitato Torino Respira: “la normativa italiana non permette di individuare chiaramente le responsabilità per la morte prematura e le malattie di migliaia di cittadine e cittadini a causa dell’inquinamento atmosferico. C’è una tendenza di parte della magistratura di proteggere i “colletti bianchi” e di perseguire chi cerca di proteggere l’ambiente”.
Processo Smog. La decisione del Procuratore Generale di rinunciare all’appello presentato dalla Procura della Repubblica, a firma delle figure apicali di questo Ufficio – rappresentate dal Procuratore della Repubblica e dal Procuratore Aggiunto, oltre che dal Pubblico Ministero -, impedisce alla Corte di Appello di Torino di effettuare una nuova valutazione della vicenda.
L’atto di appello della Procura della Repubblica, a cui era stata allegata una memoria tecnico-giuridica del Comitato Torino Respira, era molto ben motivato e sussistevano tutti i presupposti affinché fosse accolto, in modo da consentire che l’ipotesi di accusa venisse sottoposta al vaglio del dibattimento.
“Facciamo fatica a comprendere le motivazioni che hanno indotto la Procura Generale a rinunciare all’impugnazione presentata da un altro Ufficio che per anni si è occupato di approfondire, sotto un profilo tecnico e giuridico, la tematica del grave inquinamento che affligge la nostra Città” commenta l’avvocato Marino Careglio, tra i difensori del Comitato Torino Respira.
Nel frattempo la Commissione Europea ha messo in mora lo Stato italiano per la mancata esecuzione della sentenza di condanna pronunciata dalla Corte di Giustizia Europea del 10 novembre 2020 per il “superamento sistematico e continuato dei valori applicabili alle microparticelle (PM10) in determinate zone e agglomerati italiani”, tra cui quello di Torino.
“Questo esito conferma dal mio punto di vista due cose. La prima è che la normativa italiana non permette di individuare chiaramente le responsabilità degli amministratori pubblici per la morte prematura e le malattie di migliaia di cittadine e cittadini a causa dell’inquinamento atmosferico. La seconda è la tendenza di parte della magistratura di sminuire il rilievo dei reati anche gravi commessi dai “colletti bianchi” e di perseguire invece con tenacia chi cerca di proteggere l’ambiente. Faremo una riflessione sui prossimi passi, perché, paradossalmente, questa decisione apre altre possibilità di azione legale anche a livello europeo”, commenta Roberto Mezzalama, presidente del Comitato Torino Respira.
L’impegno del Comitato Torino Respira, inoltre, non si ferma qui, perché l’inquinamento dell’aria è ancora un problema sanitario, sociale e ambientale per la nostra città.
Il Comitato continuerà a studiare e portare avanti altre azioni legali, come il sostegno alla causa di Chiara, e azioni per sensibilizzare la popolazione e per chiedere a chi ha responsabilità in materia di qualità dell’aria di agire per la tutela della salute delle persone.
Proprio la prossima settimana, martedì 13 maggio, inizierà il ciclo di incontri di divulgazione sull’inquinamento “Aria pulita: conoscere, misurare, agire” e per cinque settimane insieme ad esperte ed esperti si approfondiranno cause, analisi dei dati, aspetti legali, effetti sulla salute e sociali, ma anche proposte, campagne di monitoraggio civico e azioni per contribuire a rendere l’aria che respiriamo migliore.
Nell’ambito del Salone del Libro OFF, domenica 18 maggio alle ore 17 il suo ultimo romanzo edito da Mondadori
Il libro “Penultime parole”(Mondadori, 2025) di Cristò Chiapparino verrà presentato in unica sede domenica 18 maggio alle ore 17 presso la Libreria Belgravia di via Vicoforte 14, a Torino, nell’ambito degli eventi del Salone del Libro OFF. L’incontro sarà moderato dal poeta Gian Giacomo Della Porta.
A margine del libro, abbiamo incontrato il suo autore, che ci ha svelato alcuni aspetti della sua esperienza professionale e umana.
“Ho fatto il libraio per più di vent’anni ma, da circa un anno, ho deciso di concentrarmi maggiormente su tutto ciò che riguarda più direttamente la scrittura – ha dichiarato Cristò- Quindi, principalmente, leggo, scrivo e cerco di portare l’esperienza maturata in questi anni di pubblicazioni in corsi di lettura e scrittura, due attività per me indivisibili, per ragazzi e per adulti”.
“In me è presente anche l’amore per la musica, che nasce contemporaneamente a quello per la scrittura – continua Cristò – La composizione musicale e la letteratura sono due linguaggi diversi che sicuramente possono influenzarsi a vicenda, persino compenetrarsi, ma che tengo in qualche modo separati. Non è un caso, forse, se tendo a scrivere musica senza parole, non canzoni, ma brani strumentali. Sin da bambino ho amato molto la lettura e iniziato i miei primi esperimenti di scrittura con brevi racconti. Poi, crescendo, è arrivata la consapevolezza che per scrivere cose belle come quelle che amavo leggere, sarebbero stati necessari studio e metodo. È stato, quindi, nel periodo degli ultimi anni di liceo che ho iniziato a fare sul serio”.
“Penso che ogni scrittore abbia due temi principali, gli stessi per tutti: l’amore e la morte – sostiene Cristò – Credo sinceramente che qualsiasi romanzo, poesia, pagina di diario o lista della spesa, in fondo, sia un tentativo di risolvere questi due temi. Non ho ancora trovato un testo che smentisca questa mia convinzione”.
“La mia ultima fatica letteraria, ‘Penultime parole’, edito da Mondadori, parte principalmente da una riflessione personale sul cosiddetto rapporto tra uomo e natura. Credo che in realtà questo rapporto non esista se non sottoforma di rapporto di appartenenza: l’essere umano è una delle specie animali che popolano il pianeta e pertanto fa parte della natura. Parlare di un rapporto, invece, implicherebbe una supposta superiorità dataci dall’uso che facciamo del linguaggio. In ‘Penultime parole’ ho provato a smontare l’illusione di questa di differenza”.
“Quest’anno vengo al Salone del Libro OFF, presso la Libreria Belgravia di Torino, a presentare il libro in un’unica data – conclude l’autore – Frequento il Salone del Libro regolarmente da più di vent’anni. Ne ho visto tutte le trasformazioni e ho imparato a conoscerne i riti. Ormai per me è un appuntamento imperdibile anche solo per il fatto che mi consente di incontrare molti amici sparsi per l’Italia e che amano le stesse cose che amo io”.
Mara Martellotta
Il dipartimento di Architettura e Design dell’Ateneo torinese ha progettato l’installazione all’ingresso del padiglione centrale ai Giardini della Biennale, in collaborazione con Barabasi Lab e Center for Design di Northeastern University di Boston, con il sostegno Fondazione Compagnia di San Paolo, Camera di Commercio di Torino, Reply e Secap Spa.
La Biennale di Venezia, che si tiene dal 10 maggio al 23 novembre 2025, è un luogo fondamentale per la cultura architettonica, una piattaforma per il dibattito, la critica e la visibilità a livello globale. Cosa c’è dietro le quinte di un evento così complesso ? Le dinamiche curatoriali, l’articolazione del processo curativo che ne determinano i risultati spesso sfuggono alle narrazioni internazionali.
Attraverso un approccio interdisciplinare che unisce network sciences, information design, data visualisation e etnografia dell’architettura, il progetto speciale “Constructing la Biennale” racconta il processo tramite il quale si è giunti alla prossima Biennale di Architettura “Intelligens. Natural. Artificial. Collective” curata da Carlo Ratti, allievo dell’Ateneo torinese. Il progetto aiuta il visitatore a comprendere meglio la complessità di eventi di questa portata: partendo dai dati raccolti e elaborati sulla storia della Biennale, l’installazione approfondisce il processo curatoriale come impresa collaborativa. Seguendo il lavoro del team curatoriale, e utilizzando sia big data sia strumenti etnografici, cattura la complessità che sta dietro la costruzione di una Biennale. Una cordata tutta torinese sostiene il progetto, che ha visto anche il contributo dei Department of Network and Data Science della Central European University. L’installazione “Constructing la Biennale” è collocata nel luogo più significativo e visibile della manifestazione, la facciata del padiglione centrale ai Giardini: l’edificio, attualmente in restauro, è stato mascherato con una “controfacciata” che accoglie i visitatori con una nuvola di punti larga 30 metri a tracciare la storia della Biennale Architettura (1974 – 2023). I nodi rappresentano progettisti e collaboratori, aggregati ai loro progetti in forma di collettivo. Tramite i colori si ottiene una vivida rappresentazione del modo in cui le idee riaffiorano nel tempo, e costruiscono una narrazione sul progetto di architettura contemporaneo.
A partire da questa ricerca condotta sull’evoluzione storica della Biennale Architettura e la sua intricata ecologia, i dati dell’edizione attuale, per esempio il numero degli architetti partecipanti, le dimensioni e la provenienza del team, i progetti e i loro temi sono stati elaborati in cluster di dati, mappe e diagrammi. Un’altra parete di 23 metri offre infatti una visualizzazione critica della mostra di quest’anno, intitolata “Intelligens. Natural. Artificial. Collective”. Il ventaglio delle proposte e dei progetti selezionati approfonditi dal punto di vista etnografico: il team curatoriale e i tanti altri attori che stanno contribuendo a questa edizione sono stati intervistati, seguiti e filmati. Il risultato è una inedita rappresentazione di una rete complessa di persone, opere e temi che si sono coagulati, stratificati e dissipati nel tempo.
“La presenza del Politecnico di Torino alla Biennale di Venezia testimonia la grande attenzione dell’Ateneo al tema delle costruzioni e dell’innovazione tecnologica nell’ambito di questo settore, fondamentale per fornire risposte complete alle sfide poste alla transizione ecologica ed energetica e dalla sostenibilità – commenta il Prorettore del Politecnico Elena Baralis – il nostro Ateneo ha coordinato quattro contributi che convergono nell’installazione della Biennale, quello della Network Science, con il Barabasi Lab di Boston, quello dell’Information Design, della Northeastern University, quello Etnografico di Albena Yaneva, e infine, la progettazione architettonica curata dai progettisti stessi del Dipartimento di Architettura e Design, un gruppo d’eccellenza dal punto di vista accademico, che utilizza metodi quantitativi tecnologici basati su big data e reti, e qualitativi umanistici propri della etnografia dell’architettura”.
“Se nelle scorse Biennali era la figura del curatore ad attirare l’attenzione – ha dichiarato Michele Bonino, Direttore del Dipartimento Architettura e Design e curatore del progetto – questa volta si dichiara esplicitamente la presenza di una macchina complessa, composta da oltre due mila persone, tra chi partecipa, chi cura, chi costruisce e chi promuove. Questa intelligenza collettiva viene rappresentata il più fedelmente possibile dalla nostra installazione”.
La presenza alla Biennale sarà un’occasione di visibilità non solo per l’Ateneo, ma anche per la Città di Torino e la sua tradizione nel settore dell’architettura e delle costruzioni. In questo anno che vede per la prima volta un architetto torinese, Carlo Ratti, come curatore della mostra (dal 2000, quando fu curatore della mostra l’architetto Massimiliano Fuksas).
“Grazie al Politecnico e a Carlo Ratti, primo curatore torinese dell’evento, ci sarà molta Torino in occasione della prossima Biennale – afferma Guido Bolatto, Segretario Generale della Camera di Commercio di Torino – attraverso un’installazione del progetto speciale ‘Constructing la Biennale’: un portale di grande visibilità all’ingresso della mostra, che metterà in luce le nostre eccellenze di progettazione, design e ricerca scientifica, raccontando il dietro le quinte di un evento così complesso e il valore delle persone che ci lavorano”.
Gian Giacomo Della Porta
Il tasso di fecondità in Piemonte è inferiore alla media nazionale di 1,14 figli per donna. Lo rileva il rapporto “Le Equilibriste, la maternità in Italia” curato da Save the Children, giunto alla decima edizione. Contiene un “Indice delle madri” per ogni regione, frutto della collaborazione scientifica con l’Istituto nazionale di statistica (Istat) e di un’analisi di 7 dimensioni: demografia, lavoro, rappresentanza, salute, servizi, soddisfazione soggettiva e violenza. In tutto 14 indicatori del sistema statistico nazionale.