Non chiamiamoli più borghi: la scelta di Stupinigi e il PNRR

Riceviamo e pubblichiamo 

Di Filippo Barbera (Università di Torino e Associazione Riabitare l’Italia)
 e Antonio De Rossi (Politecnico di Torino e Associazione Riabitare l’Italia)

Tra le misure del PNRR, il cosiddetto “Bando Borghi” dovrebbe rappresentare – nelle parole del Ministro Franceschini – un’’occasione unica per il rilancio dei borghi e delle bellezze artistiche diffuse nei luoghi meno conosciuti del Paese e ancor di più per trasformare un patrimonio disperso in un patrimonio diffuso.

Patrimonio disperso, luoghi meno conosciuti del paese, rilancio dei “borghi”. L’’Italia è effettivamente ricca di montagne, aree interne e piccoli comuni che soffrono lo spopolamento e la desertificazione sociale ed economica. Sono luoghi ricchi di cultura, patrimonio artistico, beni storico-architettonici. La Regione Piemonte ha scelto di candidare Stupinigi… che dista undici chilometri da Piazza Castello e di cui tutto si può dire ma non che sia un “borgo”. Il problema, però, non è la scelta della Regione, che si è mossa in un quadro di riferimento delineato dal bando del Ministero. Il problema è “nel manico”. Il bando si basa su un’idea vecchia e superata. Un’idea, come molte di quelle del PNRR, nata morta, senza l’ascolto dei territori e dei corpi intermedi. All’insegna del “decidere in fretta”. Un’’idea, nello specifico, lontanissima dai bisogni dei territori marginali, dalle pratiche di nuova economia e dalle esperienze associative che li caratterizzano. Lontana dai bisogni dei Sindaci, dagli esperimenti di valorizzazione delle risorse (anche culturali) che in quei luoghi stanno – da decenni – avvenendo con successo. È un bando ammalato di “metrofilia” e che non contempla la varietà e complessità territoriale di un paese costituito da poche grandi città, pochissime “metropoli”, molte città medie, una miriade di piccoli comuni, frazioni, reti di città, campagne, coste, colline e montagne, per ridurre tutto all’immagine vuota e stereotipata del “borgo”. Da troppi anni la riscoperta del policentrismo territoriale italiano viene veicolata nello spazio pubblico e mediatico da archistar annoiate tramite il concetto di “borgo”. Facile rappresentazione ammalata, appunto, di “metrofilia”, che trae piacere dall’eccitazione per un oggetto percepito come atipico, esotico, diverso, ma al quale in realtà si nega autonomia e libertà. Dai centri delle grande città e agli occhi di una classe dirigente (politica, economica, intellettuale) sempre più urbana per categorie e riferimenti culturali, se non per nascita e capitale sociale, il borgo diventa così il comodo contenitore dove riporre, deformandola, la radicale diversità del patrimonio territoriale italiano. Le conseguenze sono inevitabili. Come già per la cultura, la narrazione del “borgo” fa sì che anche la valorizzazione del territorio sia tale solo se inglobata nella goffa egemonia del “turismo petrolio d’Italia”. Come se i territori del margine non fossero da riabitare anzitutto fin dalla vita quotidiana delle persone, per rinforzarne l’economia di base, i servizi di cittadinanza e la vivibilità quotidiana. Altrimenti, è come se si guardasse alla complessità territoriale del paese attraverso le categorie estetiche delle guide turistiche: il cui risultato è un effetto di spaesamento che porta a finanziare con 20 milioni di euro un borgo a mezz’ora dal centro di Torino.
Ovviamente nessuno pensa che il borgo di Stupinigi, magnifica creazione di Filippo Juvarra, non meriti attenzioni; e da decenni su questo luogo si succedono progetti che però non hanno trovato riscontro. Ma con quei 20 milioni si sarebbero potute fare cose importanti per ricostruire l’abitabilità di territori montani torinesi e piemontesi sempre più infragiliti: progetti innovativi di nuove economie capaci di lavorare sulle risorse dei territori, case del welfare per sperimentare nuove forme di servizi e di socialità. E c’era anche l’alternativa dei forti di Fenestrelle e di Exilles, fortemente sostenuta da Uncem e dai comuni vallivi. Soprattutto, per decidere il luogo, si sarebbe dovuto fare un bando e raccogliere candidature come è avvenuto in molte altre regioni italiane, senza imporre un’unica scelta. Oggi in merito al futuro dei territori montani e delle aree interne si scontrano due visioni: chi pensa che l’unico futuro sia la valorizzazione turistica e culturale, e invece chi crede che senza la costruzione di una reale abitabilità, di nuove economie e forme di società, di innovazione, la valorizzazione serva a poco. I molti casi concreti in atto di rigenerazione sulle montagne piemontesi dimostrano che questa seconda via è possibile e reale.
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