Una visita impressa nella memoria

Mauthausen-Gusen: studenti nella “fortezza di pietra” per non dimenticare la storia

Cinquanta studenti – 29 ragazze e 21 ragazzi -, accompagnati dallo storico Gigi Garelli, dell’Istituto storico della Resistenza e della Società contemporanea “Dante Livio Bianco” di Cuneo e da 10 docenti in rappresentanza di otto istituti superiori delle province di Asti, Cuneo, Novara, Torino e Vercelli hanno partecipato, dal 19 al 21 maggio al viaggio studio al campo di concentramento di Mauthausen e al Memoriale di Gusen, in alta AustriaIl viaggio – secondo e penultimo degli appuntamenti finali della 36° edizione del progetto di Storia Contemporanea, promosso dal Consiglio regionale del Piemonte – tramite il proprio Comitato Resistenza e Costituzione –  in collaborazione con l’Ufficio scolastico regionale.

Mauthausen,simbolo dei lager nazisti

Mauthausen rappresenta nell’immaginario collettivo uno deisimboli dei lager nazisti, insieme ad Auschwitz. Il Konzentrationslager (ossia “campo di concentramento”) di Mauthausen, dall’estate del 1940, venne denominato anche Mauthausen-Gusen, nome rimasto tristemente e indelebilmente impresso nella memoria della deportazione. In cima alle verdi colline austriache dell’Oberdonau, a circa 20 chilometri ad est di Linz, quello di Mauthausen era lo Stamm Lager, ovvero il “campo madre” di un gruppo di una quarantina di strutture concentrazionarie, di diverse dimensioni. Di fatto queste erano i satelliti del Lager maggiore, sparsi in buona parte dell’Austria. La sua istituzione risale all’8 agosto 1938, alcuni mesi dopo l’annessione (l’Anschluss) dell’Austria al Terzo Reich della Germania nazista, mentre la sua liberazione, per opera delle truppe alleate dell’11ª Divisione corazzata statunitense, avvenne il 5 maggio 1945. Edificata con il granito della sottostante cava, l’incombente fortezza di pietra ricorda nel suo profilo architettonico uno stile orientaleggiante, tanto che i prigionieri ne ribattezzarono la porta d’accesso principale con il nome di “porta mongola”.

Campo di lavoro e prigionia durante la “grande guerra”

A Mauthausen, già durante la Prima guerra mondiale, l’Impero Austro-ungarico aveva individuato un luogo di internamento e prigionia per quei militari degli eserciti nemici catturati durante i combattimenti sul fronte orientale e meridionale. Anche allora i prigionieri venivano obbligati al lavoro nella cava di granito, utilizzato per la pavimentazione delle strade. Tra il 1914 e il 1918 vi confluirono circa 40mila persone, perlopiù di origine russa, serba e italiana. Di esse almeno novemila vi perirono, tra cui 1.759 nostri connazionali, a causa della fame e degli stenti, anche se il campo di prigionia di allora nulla aveva a che fare con quello che vent’anni dopo venne istituito dai nazisti.

Gli oppositori rinchiusi nella “fortezza di pietra”

La quasi totalità di quanti vennero  rinchiusi a Mauthausen tra il 1938 e il 1945 lo fu per ragioni politiche o razziali: la parte restante era costituita da delinquenti comuni, i cosiddetti “asociali” e gli appartenenti ai popoli zingari. Complessivamente i prigionieri furono circa 200mila di cui 50mila polacchi, 40mila sovietici, 40mila ebrei (perlopiù ungheresi e polacchi), 6.781 italiani e 127 donne.Tra l’agosto 1938 e il luglio 1945 (calcolando anche chi perse la vita dopo la liberazione a causa degli stenti patiti) le morti furono 100mila, praticamente la metà di quanti furono internati tar quelle mura. Un numero pazzesco, al quale vanno aggiunti quanti furono sterminati con il gas, nel vicino castello di Harteim e nella camera a gas del lager, dove veniva usato il mortale Zyklon B a base di acido cianidrico (o acido prussico). Altri ancora furono uccisi con il ricorso aiGaswagen, veicoli sigillati dove i malcapitati erano soffocati dai gas provenienti dai tubi di scappamento.

La cava e i 186 gradini della “scala della morte”

L’orario di lavoro nel lager era di undici ore.La razione di cibo quotidiana non superava le 1.500 calorie (ma spesso era inferiore), corrispondente a meno della metà di quella necessaria. Le conseguenze erano la fame cronica e la malnutrizione, le malattie e, da ultimo, la morte. Nei primi di anni la durata media della vita degli internati raggiungere i quindici mesi poi, con il passare del tempo, diminuì a sei e, nei periodi più duri e drammatici, a tre. La “scala della morte”collegava  con la sottostante cava per l’estrazione del granito.Lungo i centottantasei gradini di questa scala scavata nella roccia della collina,  i deportati erano costretti a salire e scendere più volte al giorno, portando a spalla sacchi pieni di massi. Chi cadeva esausto, travolgeva i compagni di sventura con un terribile effetto-domino. Oppure i prigionieri venivano allineati lungo il bordo del precipizio, definito con nero sarcasmo dalle SS come il “muro dei paracadutisti”, costretti a scegliere se ricevere un colpo di pistola o gettare nel vuoto il compagno al proprio fianco. “La cava era là, con i suoi 186 gradini irregolari, sassosi, scivolosi. Gli attuali visitatori della cava di Mauthausen non possono rendersi conto, poiché in seguito i gradini sono stati rifatti – veri scalini cementati, piatti e regolari – mentre allora erano semplicemente tagliati col piccone nell’argilla e nella roccia, tenuti da tondelli di legno, ineguali in altezza e larghezza”. Così scrisse nel 1974 il giornalista francese Christian Bernadac, figlio di un deportato,  nel suo “I 186 gradini o Tra i morti viventi di Mauthausen”, rendendo l’idea di cosa fosse quel girone infernale.

I tre sottocampi di Gusen

I tre sottocampi intorno al villaggio di Gusen, a poca distanza da Mauthausen, denominati Gusen I, Gusen II, Gusen III, hanno costituito una realtà a sé per l’alto numero di deportati e l’estrema durezza delle condizioni di prigionia e di lavoro. Aperti dal 1939, anche lì uno degli obiettivi era costituito dallo sfruttamento delle vicine cave di granito. Fin da subito il lavoro costituì uno dei mezzi di eliminazione dei prigionieri, in prevalenza polacchi, fra cui molti religiosi, e repubblicani spagnoli deportati dalla Francia.Nel 1941 fu installato il crematorio e si avviarono le eliminazioni sistematiche di malati, inabili, portatori sospetti di malattie contagiose con bagni di acqua gelida, annegamenti di massa, iniezioni al cuore, gassazioni. Nel marzo del 1944 iniziarono i lavori per la costruzione del campo di Gusen II (St. Georgen). I deportati, oltre a costruire il campo, lavorano allo scavo di un sistema di gallerie entro le quali vengono collocati impianti per la produzione di armi e parti di aerei (Steyr-Daimler, Messerschmitt). In dicembre inizia la costruzione di Gusen III, destinato alla produzione di laterizi. A Gusen passarono complessivamente 60mila prigionieri, di cui circa tremila italiani. Almeno la metà vi lasciò la vita. Nel tempo il campo di Gusen I ha subito un’alterazione della sua fisionomia, ospitando ora una complesso di abitazioni residenziali. Non vi è più traccia di recinzioni, baracche o altre strutture. Resta riconoscibile, anche se ora è una villetta abitata, l’edificio dell’ingresso e del comando del campo. Il Memorial – che rimane ad emblema e memoria- è stato realizzato solo grazie alla decisione dell’ANED e di altre organizzazioni di ex deportati – in primo luogo francesi – di acquistare alla fine degli anni ‘50 il lotto di terreno, per salvaguardarlo dalla speculazione edilizia. Il progetto del Memoriale fu realizzato dall’architetto Lodovico Barbiano di Belgiojoso, che a Gusen fu deportato. All’interno della costruzione si trova il forno crematorio originale del campo, oggi di proprietà del governo austriaco.

Una visita impressa nella memoria

La visita a Mauthausen per gli studenti rimarrà tra le esperienze che restano impresse nella memoria. Quando si ha l’occasione di visitare luoghi come questi, ora che i deportati sono quasi del tutto scomparsi,  si diventa a propria volta testimone di una delle pagine più orribili della storia moderna, con l’impegno di non dimenticare ciò che sono stati i campi di sterminio. La deportazione non è stata soltanto una delle forme di omicidio collettivo ma una vera e propria mutilazione che l’Europa ha inflitto su di sé proprio in nome di quelle ideologie tese a cancellare l’altro, il diverso, negando il pluralismo e qualsiasi forma di rispetto e convivenza. Del resto, il compito di contribuire a far sì che non venga dimenticata la storia è il principale obiettivo che ,da più di quarant’anni,  impegna il Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte nei confronti delle nuove generazioni.

 

M.Tr.