Il film di produzione spagnola che s’è portato a casa cinque premi Goya, gli Oscar di Madrid – miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura, miglior attore protagonista e non protagonista -, non tradisce chi lo vede, voglio dire non gioca in maniera ricattatoria con i sentimenti, con le scene madri e con gli effettacci strappalacrime ad ogni costo
Pianeta Cinema / di Elio Rabbione
Tomàs lascia moglie e figli in Canada per andare a Madrid a trovare l’amico di sempre, Julian, separato dalla moglie, attore dai grossi successi sulla scena, un figlio che studia ad Amsterdam ed un cane, Truman, un bullmastiff ciondolante, massiccio e taciturno, che tuttavia con un solo sguardo lancia lunghissime chiacchierate al suo padrone. Julian è (anche) malato di un tumore al polmone, è arrivato alle ultime settimane di vita, ha deciso di chiudere possibilmente in bellezza la partita rifiutando cure e chemio e quant’altro. Amen, è fatta. Sarà quell’improvvisata, quell’arrivo inaspettato ad accompagnarlo nelle ultime passeggiate, nelle ultime bevute, nel riallacciare quei rapporti che da troppo tempo si sono persi per strada, nel prendere (soprattutto, “io nella vita ho due figli, mio figlio e Truman”) quella grama decisione d’affidare a qualcuno il suo cane, per sempre. Truman di Cesc Gay, il film di produzione spagnola che s’è portato a casa cinque premi Goya, gli Oscar di Madrid – miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura, miglior attore protagonista e non protagonista -, non tradisce chi lo vede, voglio dire non gioca in maniera ricattatoria con i sentimenti, con le scene madri e con gli effettacci strappalacrime ad ogni costo. Grazie ad una regia molto in punta di piedi, vola molto più alto, trattiene i gesti e le parole, se si deve piangere si va a piangere in un angolo, non si addentra in paroloni che trattino la pena del trapasso o le sorprese dell’al di là, gioca in modo pulito con l’amicizia tutta maschile che arriva da lontano e che si riconsolida in un attimo, e con la morte, guarda con un velato, sommesso ottimismo ad un futuro che riserverà un’unica amara certezza. Realisticamente, adopera la malinconia e la consapevolezza del domani con una buona dose di tranquilla allegria, o meglio scena dopo scena il dolore si stempera quasi con piacere con il sorriso di un attimo, con una delle battute che i due si portano dietro da anni e oggi si rimpallano.
Quattro giorni di soggiorno madrileno che sono attraversati dalle rese dei conti, si diceva (c’è anche il tempo per un volo velocissimo ad Amsterdam, un incontro tra padre e figlio, l’incontro con la ragazza di questi, un passaggio in un bar e un abbraccio densissimo, dove tutto è silenzio), dall’ultima chiacchierata con il proprietario del teatro, pronto tra troppe parole di rammarico a trovare un sostituto, o con l’amico cui un tempo ha fregato la moglie (“ero un seduttore, io”) o con il rappresentante di pompe funebri un po’ sulle spine a ragguagliare quello strano cliente intorno ai prodotti della casa.
Truman, complice una perfetta sceneggiatura che sa calibrare tra parole e silenzi e scene intessute con rarissima partecipazione e maestria una vicenda “semplice” e fuori di ogni norma al tempo stesso, aveva la necessità di trovare i tempi meticolosamente giusti e Gay ha saputo darglieli con grandissima attenzione; e soprattutto di una coppia d’attori che umanamente facessero propri Tomàs e Julian. Il primo è Javier Càmara, di area almodovariana (Parla con lei, La mala educaciòn), gioca Tomàs in uno splendido sottotono, il compagno alla fine dei giorni è Ricardo Darìn (Il segreto dei suoi occhi di José Campanella, Oscar nel 2010 come miglior film straniero), un Julian che vuole ancora respirare nella più completa libertà. Davvero insuperabili.