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La società di oggi e il labirinto vertiginoso di Borges

La società  come si presenta oggi, a due anni di distanza dall’inizio della pandemia, richiama alla mente l’immagine di un edificio intricato e complesso, sotto questo aspetto piuttosto simile a quel “labirinto” di cui il noto scrittore argentino Jorge Luis Borges parlava in alcune sue opere.

Un labirinto inteso quale un “edificio costruito per confondere gli uomini”, la cui tortuosità dei percorsi rinvia, in maniera simbolica,  alla stessa insufficienza dello sguardo esclusivamente razionale sul reale, che ne impedisce la comprensione completa. Se l’immagine del labirinto risulta centrale nella poetica di Borges, costituendo un’allegoria della complessità del mondo, la società  odierna, che si è  dovuta confrontare con un percorso di pandemia durato due anni, appare complessa proprio come un labirinto. Le sue componenti, spesso, sono entrate in crisi e in conflittualità nel rapporto di dialogo reciproco, come quello tra i più giovani e gli adulti che, da sempre, rappresenta un aspetto complesso della vita comunitaria. Se la pandemia ha dovuto necessariamente allontanare fisicamente gli esseri umani tra loro, per evitare il contagio, questo allontanamento si è spesso tradotto in un distanziamento anche psicologico e, in diversi casi, in un disinteresse verso il prossimo. A aggravare questo fenomeno sono intervenuti meccanismi inevitabili cui si è  fatto ricorso, quali lo smartworking e la Dad per gli studenti, che ha provocato delle ferite e dei disagi psicologici non da poco tra i componenti più giovani della società. In Borges il labirinto è assurto a simbolo e metafora per esprimere la sua riflessione su alcuni temi universali, quali il tempo, la morte, il dolore, la personalità umana, il suo sdoppiamento e la pazzia, fusi nel sentimento drammatico dell’unicità dell’esperienza individuale e, appunto,  in quel labirinto inestricabile di immaginazione e esperienza, svolti  stilisticamente sulla base di una classicità e di un’eleganza che, in questo scrittore, risultano davvero unici. Il labirinto è  stato il protagonista, infatti, di uno dei racconti più affascinanti di Borges, dal titolo “Il giardino dei sentieri che si  biforcano”, in cui l’antenato del protagonista mostra tutte le possibili conseguenze di un evento temporale, la trama delle infinite varianti temporali e le biforcazione che ne possono scaturire. In fondo non soltanto la società  appare oggi un labirinto, ma forse anche la vita stessa dell’uomo si può  richiamare a questa medesima immagine. Quasi ogni giorno, come in un labirinto,  siamo chiamati, infatti, a scegliere un percorso di fronte a un bivio. Ma, come affermava il filosofo e pensatore Norberto Bobbio, “di fronte al cammino storico dell’umanità, sappiamo che esiste una via d’uscita.  Tutta la storia umana si può  considerare un insieme di tentativi  quasi sempre disperati, di uscire dal labirinto […] Conosciamo  le vie bloccate, le vie già tentate e esaurite, e che non dovremmo avere la tentazione di ripercorrere”. All’uscita del labirinto non si può  sapere se si sarà migliori, ma sicuramente un fatto è certo. Si risulterà  diversi e cambiati.

Mara Martellotta 

Pannunzio Magazine

”Sì vax” e ”no vax”. Le riflessioni di Fusaro

A Torino è nata la ‘’Commissione per il dubbio e la precauzione sul covid-19’’ composta da Giorgio Agamben (filosofo), Gianni Vattimo (filosofo), Carlo Freccero (massmediologo),Ugo Mattei (giurista). Mancava Diego Fusaro che con la sua più recente opera filosofica ( ”Golpe Globale”, capitalismo terapeutico e grande reset, Piemme, 2021, 267 pagg. €17,90) dovrebbe farvi parte ‘de facto’.

Non penso che i no vax abbiano ragione gli uni o torto gli altri e premetto di essere vaccinato. Penso però che abbiamo tutti diritto ad avere una opinione o delle perplessità anche se tutti vaccinati. Perché un conto è il dovere della responsabilità, che va osservato vaccinandosi, un altro e il diritto alla libera espressione dell’opinione critica , che va comunque preservato, fosse anche posto per legge l’obbligo vaccinale. L’ opera del filosofo torinese va in questa direzione e spiega anche il suo rifiuto alla distinzione manichea tra ” si vax ” e ” no vax ”. Diego Fusaro pone molti interrogativi e molti spunti di riflessione al lettore: ”Se non siamo in lockdown cognitivo, dobbiamo chiederci: è lo stato di emergenza ad avere bisogno delle misure di emergenza o le misure di emergenza ad avere bisogno dello stato di emergenza? ”Lo stato di emergenza diventa stato di eccezione, che comprime via via tutti i diritti di libertà (lockdown, dad, smart working ecc) . Se c’è l’emergenza allora diventa legittimo ciò che non  lo sarebbe, se non ci fosse lo stato di emergenza. Il tutto in un alternarsi sempre aggiornato di nuova emergenza terroristica e nuova imposizione di legittimità, contro la incosciente e sconsiderata liceità della massa decerebrata. ”L’ inaccettabile della normalità, diventa l’inevitabile dell’emergenza” diceva l’economista liberale Milton Friedman in tempi non sospetti. Quali diritti e quali libertà, possono essere negoziati all’ infinito senza calpestare i diritti costituzionalmente garantiti? In nome del diritto alla salute tutti gli altri diritti possono all’occorrenza essere silenziati ? Il diritto al lavoro viene silenziato in nome del diritto alla salute. Il diritto alla libertà di culto, è stato silenziato nuovamente in nome del diritto alla salute. L’ articolo 32 della carta costituzionale a tutela del diritto alla salute, può essere stravolto in nome di gerarchie dei diritti che la carta non prevede? L’emergenza sanitaria pone una nuova razionalità politica che è quella dell’ emergenza perpetua, utilizzata in modo strumentale. La monocultura kafkiano-esecutiva, pone la legittimità distopica come profilo di necessità sine tempore.
Si depotenzia in tal modo la democrazia parlamentare, in nome di un minculpop-comintern divenuto nel frattempo un principato democratico, tutto a favore del business di Big Pharma.
” Nella vita non ridere, non piangere, non maledire ma capire” (Baruch Spinoza). Chi ha una opinione su questa catastrofe, se la tenga. È tutto quello che possiede.

Aldo Colonna

Gli ambasciatori d’Europa del Consiglio regionale

Al terzo appuntamento del percorso formativo per le scuole “Ambasciatori del Consiglio regionale” dedicato all’Europa, giovedì 27 gennaio 2022 hanno partecipato 25 studenti del Liceo Valsalice di Torino (con la professoressa Silvia Scaranari) e 30 studenti dell’Istituto superiore Leardi di Casale Monferrato (Al) (con il professor don Gian Paolo Cassano). Rivolta agli allievi del triennio delle scuole superiori, l’iniziativa fa parte dei Percorsi per lo sviluppo delle competenze trasversali e l’orientamento (Pcto) e consente agli studenti di acquisire crediti formativi.

L’incontro è stato organizzato dalla Consulta regionale europea ed è stato introdotto dai saluti istituzionali di Franco Graglia e Michele Mosca, rispettivamente vicepresidente e consigliere segretario del Consiglio regionale del Piemonte. “È importante parlare oggi di cittadinanza attiva in ambito europeo – hanno sottolineato Graglia e Mosca – con particolare attenzione non solo ai diritti ma anche ai doveri dei cittadini europei. La Consulta Europea regionale ha proprio il compito di diffondere gli ideali dell’Europa, soprattutto verso le giovani generazioni”.

Il professor Umberto Morelli, docente di Relazioni internazionali all’Università di Torino, ha svolto un intervento sulla storia e sui valori dell’Unione Europea, parlando del processo storico e del bisogno di pace che hanno portato alla nascita dell’Europa dopo la guerra mondiale.

La Giulia che andava in tandem

“La trappola dei ricordi”

Quant’era bella, la Giulia. Eccola! Piede sinistro a terra, seduta sul sellino posteriore del tandem affidato alla guida dell’amica. Entrambe belle. Giovani. Sorridenti e tutte in ghingheri. Tirate a festa e perfino un po’…civettuole, con quelle zeppe allora di gran moda e che ancora oggi, dopo settant’anni, vanno ch’è un piacere. Bizzarrie del fashion! Del resto, a Cortemaggiore (e credo un po’ ovunque allora e forse anche oggi in certe realtà di paese) s’usava così. Quando queste foto vennero scattate era certamente di domenica. E la domenica, allora, era proprio domenica. Giorno di festa e di grandi rituali “vasche”, su e giù per la via principale del tuo bel paese (bassa piacentina, venti chilometri da Piacenza e altrettanti da Cremona, al confine fra Emilia e Lombardia); era il giorno degli abiti nuovi da sfoggiare con malcelata nonchalance, degli anvein (anolini) in brodo – in cui papà Gigén era solito versare un bel bicchierotto di rosso, di quello buono – e del manzo in tavola, era il giorno della Messa grande nella Collegiata di Santa Maria delle Grazie, dagli interni decorati con pregiate opere pittoriche, fra cui un prezioso “Polittico” del Quattrocento firmato da Filippo Mazzola, padre del più noto Parmigianino. E, terminata la Messa, il via en plein air alla festa attesa per tutta la settimana. Nulla di straordinario. Il ciarliero ritrovarsi nella piazza principale del paese antistante la Collegiata e il Palazzo Municipale, le camminate da guarda un po’ come sono bella e ben vestita sotto i suggestivi e tipicamente emiliani portici, i crocchi vocianti, le risate  e le volute fumanti e dai profumi non propriamente delicati sparsi al vento dai potenti “Toscani” o dalle “Nazionali” o “Popolari” senza filtro ( 2 lire a pacchetto e sicure “spaccapolmoni”) incollati alle labbra degli uomini, in attesa –molti – di varcar la soglia dell’osteria, ad attenderli altra spessa cortina di fumo e le simpatiche “briscolate” e il tipico scudlein (non il primo della giornata) con frizzantini bianchi o rossi assolutamente locali.

Si era negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale. E tu, Giulia, avrai avuto poco più di vent’anni. Da qualche anno eri fidanzata con il tuo Renzo. Vi eravate conosciuti, sempre di domenica, in un ballo a palchetto, credo, a Chiavenna Landi. Lui di Pontenure, tu cortemaggiorese doc o magiustreina, com’erano ironicamente definiti in allora gli abitanti di Cortemaggiore, derisi dai buontemponi d’altri paesi vicini come “quelli che andavano a raccogliere le fragole o magiustar con le scale!”. Di mezzo, la guerra e, per lui, la non facile prigionia in Germania. Ora si vivevano gli anni della ricostruzione. Ricostruzione urbana e ricostruzione di vite. Il passato era alle spalle. Il futuro era ancora tutto possibile. E da giocare. Forse più di oggi. Si vede nei sorrisi di queste foto, pubblicate tempo fa da un giornale locale e affettuosamente inviatemi da Mauro, figlio di tuo fratello Ermanno e l’ultimo dei Verdini oggi a Cortemaggiore. Anche il farsi scattare una foto era allora uno dei riti demenicali in gran voga. Si sognavano le storie da fotoromanzo. E voi fanciulle dal bell’aspetto speravate fors’anche in qualche sporadico ritorno al paese natio di quell’ormai quasi famoso vostro coetaneo Franco Fabrizi (cortemaggiorese del ’16, figlio del barbiere Eugenio e dell’Enrichetta Lippini, cassiera del cinema) che, a Roma, stava rincorrendo le luci del successo cinematografico sotto le ali protettive dei vari Fellini, Antonioni, Germi e altri celebri registi d’allora. E di ogni tempo. Mica da ridere! E che dire poi del fotografo cui si devono queste foto? Davvero bravo e originale. Tal Mainardi. Il nome si legge a stampa sulle foto stesse. Curiosa quella che ti ritrae all’ingresso di un vecchio palazzo, con tre amiche, sotto una “G” scritta in caratteri cubitali. G come Giulia. Effetto sicuramente voluto, non a caso. E in un’altra, che divertente quel piccolo “brighella” (altro simpatico vezzo del Meinardi, quello di inserire sempre bimbe e bimbi nei suoi scatti) che fa capolino e sorride divertito alle spalle del vostro solito quartetto domenicale!

Oggi, quel bimbo dovrebbe avere non meno di un’ottantina d’anni. Chissà? Scatti di una realtà serena, dopo gli orrori della guerra. Di una realtà che nel ’49 si ritrovò addirittura ricca di un giacimento, sia pure modesto, di petrolio che nelle mani del grande Enrico Mattei fece di Cortemaggiore un centro Agip di primo livello nella produzione di benzina raffinata, la celebre “Supercortemaggiore” iconizzata con il logo del “cane a sei zampe”.

E Cortemaggiore balzò agli onori delle cronache. Nazionali. E non solo. Ma tu in quegli anni vivevi già altrove. Eri diventata moglie e mamma. Avevi seguito il tuo Renzo prima a Pontenure e poi a Torino, con il tuo “Nani” che aveva appena terminato la prima elementare. Un’altra vita. Un altro mondo, spesso in salita. Da tenere in piedi giorno dopo giorno. Sempre con quel sorriso timido e riservato. E tanta voglia di cantare. E quegli occhi scuri che diventavano pura luce davanti alla nuova, piccola “Nani”. Anche la mia Elena, fino a quando il tempo non ti ha rubato la memoria, la chiamavi così. Ricordi? Dio mio, quanto mi manchi, Giulia! E quant’eri bella, MAMMA!

Gianni Milani  

Un giorno per ricordare

27 GENNAIO

la storia da raccontare
non l’abbiamo noi vissuta
non c’è memoria perduta
narrate e mostrate al mondo
non esitate un secondo
ma diteci raccontate
alle masse fortunate
che l’uomo non ha mai smesso
di martoriare se stesso
e che senza alcun ricordo
oh triste cupo ricordo
l’inferno potrà tornare
noi dobbiamo ricordare!

Massimiliano Giannocco

La Shoah e il dovere della memoria

Il giorno della Memoria ci ricorda che 77 anni fa si aprirono i cancelli di Auschwitz-Birkenau, rivelando l’orrore del genocidio nazista.

Quel campo di concentramento e sterminio in Polonia è diventato un simbolo
che ci ricorda e insegna ogni giorno di quali orrendi crimini può
essere capace il genere umano quando applica i principi di
discriminazione con fanatismo, odio razziale e violenza. Le
persecuzioni naziste avevano come obiettivo un progetto di società basato su di un
nazionalismo esasperato che si basava sul progetto di un nuovo ordine
dove non trovavano posto la diversità, il dialogo, l’accettazione
dell’altro, immaginando una società di puri ariani senza ebrei,
dissidenti politici, omosessuali, disabili mentali, testimoni di Geova,
zingari come i Rom e i Sinti, le popolazioni slave. Il processo che
aveva portato allo sterminio degli ebrei in Europa e alla nascita del
sistema concentrazionario nazista era iniziato molto tempo prima con le
campagne di stampa, gli episodi e i comportamenti discriminatori e
razzisti, legalizzati da diverse disposizioni normative che resero la
popolazione ebraica facile preda del nazifascismo che fondava i suoi
principi su discriminazione, insofferenza e intolleranza. “Il mondo non
vi crederà mai”, dicevano i carnefici di Hitler ai prigionieri dei
campi di sterminio. Alcune vittime, sopravvissute a quell’esperienza,
sentirono la necessità e trovarono la forza di portare la testimonianza
di quanto accaduto. Tra questi ci fu Primo Levi. Nel capitolo
conclusivo de I Sommersi e i Salvati scrisse che la testimonianza era percepita
“come un dovere, e insieme come un rischio: il rischio di apparire
anacronistici, di non essere ascoltati. Dobbiamo essere ascoltati: al
di sopra delle nostre esperienze individuali siamo stati collettivamente
testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, non previsto da
nessuno. E’ avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa […]
è avvenuto, quindi può accadere di nuovo, questo è il nocciolo di
quanto abbiamo da dire”. Il 5 Giugno 2018 la senatrice a vita Liliana
Segre intervenendo a Palazzo Madama disse: “Si dovrebbe dare idealmente
la parola a quei tanti che, a differenza di me, non sono tornati dai
campi di sterminio, che sono stati uccisi per la sola colpa di essere
nati, che non hanno tomba, che sono cenere nel vento. Salvarli
dall’oblio non significa soltanto onorare un debito storico verso quei
nostri concittadini di allora, ma anche aiutare gli italiani di oggi a
respingere la tentazione dell’indifferenza verso le ingiustizie e le
sofferenze che ci circondano. A non anestetizzare le coscienze, a
essere più vigili, più avvertiti della responsabilità che ciascuno ha
verso gli altri”. L’indifferenza, quella che Gramsci considerava “il
peso morto della storia”, è il grande problema. Ieri come oggi. E il
negazionismo, allora come adesso, è un virus pericolosissimo e
presente. Per fare davvero i conti con la Shoah non può bastare lo
sguardo rivolto al passato. Non basta perché il virus della
discriminazione, dell’odio e della sopraffazione, del razzismo continua
a diffondersi, non è confinato in una dimensione storica ma riguarda in
maniera concreta i comportamenti di molte persone oggi come nel caso
della negazione della pandemia da Covid 19, dei problemi climatici,
delle sofferenze e dei diritti dei popoli migranti. Come ricordò il
compianto David Sassoli al Parlamento Europeo, “per impedire
negazionismi e amnesie bisogna sentire tutti l’impegno per una lucida e
vigile coscienza storica, capace non solo di rendere testimonianza, ma
anche di capire, prevenire e intervenire ogni qualvolta si diffondono i
semi del male assoluto”. E’ il dovere civile delle memoria,
l’intransigente disciplina repubblicana che deve ispirare le azioni
delle istituzioni democratiche, delle realtà che si occupano di storia
e memoria, di associazioni come l’Anpi. Nella prefazione del 1947 a Se
questo è un uomo, Primo Levi scriveva: “A molti, individui o popoli,
può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni
straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo
agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti
saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di
pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa
premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena,
sta il Lager”. Le parole di Primo Levi appaiono quanto mai significative e
attuali di fronte alle situazioni che si riscontrano oggi in Europa e
fanno temere che la memoria del periodo nazifascista e la conoscenza
della storia non rappresentino ancora un vaccino efficace contro questa
infezione latente.
Marco Travaglini

I valori della Giornata della Memoria

Il Coordinamento Nazionale dei Docenti della disciplina dei Diritti Umani in occasione della Giornata della Memoria, che si celebra il 27 gennaio di ogni anno, intende fare una profonda e doverosa riflessione storica per ricordare questa data fortemente simbolica e commemorare tutte le vittime della politica dell’odio nazifascista.

Il 27 gennaio è il giorno in cui il mondo intero ricorda le vittime della Shoah, cioè lo sterminio del popolo ebraico da parte dei nazisti, ma ricorda anche rom, sinti, prigionieri di guerra sovietici, oppositori politici, testimoni di Geova e altri nemici di Hitler.
La giornata commemorativa è stata istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 1° novembre 2005 con la Risoluzione 60/7 e ricorda lo storico momento in cui le truppe sovietiche dell’Armata Rossa abbattevano i cancelli di Auschwitz rivelando al mondo, per la prima volta, l’orrore del genocidio.
In Italia già nel 2000, cinque anni prima della Risoluzione ONU, la legge n. 211 del 20 luglio istituì il 27 gennaio Il Giorno della Memoria, al fine di ricordare la Shoah, ma anche le leggi razziali approvate sotto il fascismo, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, tutti gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte.
La Giornata della Memoria ci insegna ogni anno, attraverso quella che è certamente la pagina più orribile della storia del genere umano, come anche nella vita quotidiana sia importante intervenire in tempo e non girare lo sguardo dall’altra parte quando un uomo o un popolo vengono offesi e discriminati.
La memoria della Shoah ci spinge certamente a interrogarci non solo sulle responsabilità di chi ha compiuto quelle atrocità, ma anche su quelle di chi con il silenzio complice le ha, in qualche modo, favorite perché è rimasto indifferente, perché non ha voluto vedere, perché toccava agli altri.
Fu infatti in questo clima di indifferenza collettiva verso le disumanità perpetrate gradualmente che nel cuore dell’Europa la politica dell’odio razzista e antisemita trascinò l’umanità nel più profondo baratro e la falce della morte del regime totalitario di Adolf Hitler strappò la vita a 6 milioni di ebrei, trascinò negli inferi il diritto, la scienza, la cultura e sporcò per sempre la coscienza di chi vide, seppe, ma tacque.
Ad aggravare il clima già rabbioso e antisemita fu certamente il razzismo scientifico che malefico e inarrestabile costruì false tesi di disuguaglianza genetica contro l’uguaglianza umana e propagandò teorie senza fondamento sull’inferiorità di un popolo che, per tale ragione, fu sterminato dalla scienza prima ancora di essere sterminato dal gas e dai forni crematori.
E tutto questo accadde davanti agli occhi indifferenti di una Europa attraversata da tempo ormai da sentimenti razzisti e antisemiti. Quando poi ogni poro del tessuto sociale fu avvelenato dall’odio e iniziò a produrre i primi germogli malati, tra 1938 e il 1945, il regime nazista ideò, pianificò e condusse il più brutale e incomprensibile genocidio dell’umanità.
Troppe colpe secondo i gerarchi nazisti avevano gli ebrei. Colpe storiche, colpe recenti, colpe inaccettabili.
In una Germania affamata e in ginocchio a causa delle riparazioni di guerra, in questa terra che avrebbe avuto bisogno di un altro tipo di conduzione politica di resurrezione, i nazisti iniziarono a saziarsi unicamente attraverso l’odio dell’uomo contro uomo.
Questa volta fu il diritto ad autorizzare il popolo ad odiare: le Leggi di Norimberga furono la manifestazione più orribile e spietata del Male sulla terra.
La Legislazione antisemita partì dal ghetto, simbolo della segregazione razziale, proseguì con le deportazioni nei centri di sterminio e si concluse con la soluzione finale della questione ebraica: la distruzione di un popolo innocente.
Il Nostro Paese in questi anni non fu immune del male. Tra il 1938 e il 1945 furono emanati provvedimenti legislativi ed amministrativi che resero impossibile la vita degli ebrei.
Come tante volte ha ricordato la senatrice Liliana Segre, il binario 21 della stazione di Milano veniva considerato un treno di sola andata, perché i prigionieri che partivano da questo binario andavano incontro a morte certa, perché Auschwitz, diversamente dal motto posto all’ingresso del lager, ARBEIT MACHT FREI, non rendeva liberi attraverso il lavoro. Ad Auchwitz non c’era posto per la parola libertà.
Auschwitz era il logorìo della carne e dell’anima, era poche gocce d’inchiostro sulla pelle in cambio di una identità perduta per sempre, era il pianto dei bambini rimasti per sempre bambini, era l’urlo di chi uccideva e il silenzio di chi moriva, era un maledettissimo magnete in cui l’uomo seppe catalizzare tutta la sua malvagità.
Auschwitz fu “quell’atomo opaco di male” che trasformava gli uomini in animali selvaggi, denutriti, affamati di cibo e di amore, fu l’umanità dimenticata da Dio, come troppe volte si è detto non trovando nessuna umana giustificazione.
Il CNDDU in occasione della Giornata della Memoria che rappresenta la più grande violazione dei Diritti Umani vuole ribadire a piena voce che non possiamo dimenticare gli uomini che hanno subito la violenza delle Leggi Razziali e che a causa di queste ultime sono state strappate alla vita.
Il CNDDU come sempre, durante le giornate commemorative che spingono a profonde riflessioni sui Diritti Umani negati, violati, dimenticati, rivolge un accorato appello ai colleghi docenti della scuola italiana affinché si facciano portatori di tutti i più nobili valori umani e sensibilizzino gli studenti, attraverso progetti e iniziative, al dialogo interculturale, baluardo indispensabile contro il razzismo quotidiano.
L’iniziativa che proponiamo quest’anno si intitola La farfalla gialla di Terezìn e fa riferimento a un disegno di una bambina ebrea che insieme ad altri 15 mila bambini visse nel campo di concentramento di Theresienstadt (Terezìn), in Cecoslovacchia. Più volte la senatrice Liliana Segre ha ricordato “quella bambina di Terezìn che prima di essere uccisa ha disegnato una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati”.
Chiediamo quindi ai docenti della scuola italiana di far realizzare ai propri studenti farfalle gialle che riportino sulle ali il numero di matricola dei prigionieri ebrei morti o sopravvissuti alla Shoah.
Siate sempre come la farfalla gialla che vola sopra i fili spinati.
Questo ha chiesto e chiede Liliana Segre ai giovani. Quest’anno sentiamo di farci portavoce di questo suo straordinario augurio.
Il 27 gennaio mettiamo una farfalla gialla sulla porta di ogni classe e una farfallina gialla su ogni banco come antidoto al male, come luogo di memorie vive, come simbolo di una scuola che educa al giusto e al bene.
“Coltivare la memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare”.

Prof.ssa Rosa Manco
CNDDU

“La pace bene supremo”

Il Coordinamento interconfessionale del Piemonte “Noi siamo con voi”, dichiara la propria adesione alla giornata mondiale di preghiera per la pace in Ucraina e nel mondo, proclamata da Papa Francesco.

La pace bene supremo, la pace la fratellanza di tutti, la pace che sappia dar tregua alle nostre ansie”

Anche noi del Coordinamento interconfessionale del Piemonte facciamo nostro l’accorato appello di Papa Francesco perché mercoledì 26 gennaio sia una giornata di preghiera per la pace. I venti di guerra che soffiano sempre più impetuosi in Ucraina ci impegnano più che mai ad essere operatori di pace in un mondo che fra mille fuochi di guerra, sta ormai combattendo una sorta di terza guerra mondiale a pezzi.

Oggi più che mai, ni credenti non dobbiamo dimenticare che non c’è disarmo senza coraggio, non c’è soccorso senza gratuità, non c’è perdono senza verità. Questi presupposti costituiscono l’unica via possibile per la pace; dobbiamo testimoniare che la capacità di contrastare il male non sta nei proclami, ma nella preghiera; non nella vendetta, ma nella concordia; non nelle scorciatoie dettate dall’uso della forza, ma nella forza paziente e costruttiva della solidarietà. Perché solo questo è degno dell’uomo.

Giampiero Leo portavoce del Coordinamento interconfessionale “Noi siamo con voi”

Il mondo delle immagini: il ruolo dell’arte nelle scuole torinesi e oltre

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Vado ancora dallo stesso parrucchiere che mi acconciava i capelli a chignon per i saggi di danza quando ero piccola. È una piacevolissima scusa per tornare nei “miei” luoghi, vicino a quel segmento di Lungo Po, perpendicolarmente tagliato da via Gassino. Lascio l’auto là, su quella salitina perennemente ghiacciata, dove tentavo di parcheggiare la pesantissima Dedra di mio padre, prima che mi venisse regalato Bolide I – così io e le mie amiche avevamo battezzato la mia piccola e sfrecciante Opel corsa del ’98. –

Tutte le volte che mi ritrovo a camminare per quelle vie mi guardo attorno, percepisco quel quadrato cittadino come il più bello di Torino e mi ritrovo a desiderare ardentemente di ritornare ad abitare in quei paraggi. Guardo i palazzi non nuovi ma ben tenuti, i marciapiedi sbrecciati, la cartoleria dall’insegna sempre più sbiadita e il dirimpettaio dehor del bar ancora pullulante di caffè. C’è la copisteria dove ho stampato la tesi, a fianco alla quale sono spuntati un Sushi e un Kebap. Gli alberi alti filtrano il riverbero del sole sull’acqua verdastra del fiume e il sentiero non asfaltato sembra una lattea vena del prato brinato. Il tempo di arrivare dal parcheggio al negozio e c’è sempre qualche inaspettato dettaglio adolescenziale che riaffiora: la libreria Luxemburg, dove andavo talvolta a studiare, piazza Borromini e il suo minuscolo mercato, le Cantine Risso, dove si andava con i compagni di classe e, dall’altra parte, andando verso San Mauro, il drago di legno su cui ancora mi piacerebbe arrampicarmi. Non so se ora sarebbe così divertente abitare lì, a due passi dal centro eppure immersi nel verde della precollina, chissà se i ritmi odierni mi permetterebbero di godermi il panorama come facevo allora? Torino è la città di tutti, ma ognuno ha il suo angolino ritagliato, ognuno racconta la nostra città attraverso i propri occhi e i propri vissuti, ciascuno con una cartolina diversa da conservare nell’album dei ricordi. Guardo in giro ed è come se osservassi attraverso una lente magica che distorce la realtà: le immagini che si creano nella mia mente sono impregnate di passato e quella felicità sentita tempo fa mi impedisce di vedere il panorama con oggettivo distacco.

Siamo esseri visivi. Diverse aree della superficie corticale del cervello partecipano al trattamento delle immagini e svolgono un ruolo fondamentale nell’elaborazione del pensiero. Un’immagine è quindi una costruzione del mondo che si definisce nella testa e rappresenta ciò che noi definiamo “reale”. Lungi da me approfondire con taglio scientifico tale argomentazione, vorrei solo sottolinearne la complessità ed evidenziare la centralità che le immagini ricoprono nel nostro presente. Va da sé che il rapporto tra “immagine” e “realtà” è diretto e assai complesso.
Se costruiamo il mondo che ci circonda a partire da percezioni che divengono raffigurazioni, è dunque opportuno prestare attenzione a tali icone: una personale riflessione su cui credo sia giusto soffermarsi, soprattutto in questo preciso periodo storico, in cui si pensa e si vive “per” e “attraverso” le immagini.
Mai come in questo momento le iconografie hanno giocato un ruolo tanto essenziale nella comunicazione e nelle interiezioni. Lo dimostra soprattutto l’ormai più che diffuso uso dei social, considerati determinanti nella quotidianità, così come lo smartphone è un effettivo prolungamento dei nostri arti, mezzi in cui la componente visiva ha una rilevanza senza precedenti.
Siamo nella “società dell’immagine”, definizione in cui la parola “immagine” va intesa nella sua accezione più ampia, non solo in quanto “apparenza”, ma come “linguaggio di comunicazione”, e si pensi alla grafica, all’infografica, all’uso di foto e video. Le icone sono dunque preponderanti nei microblogging come Instagram o Pinterest, ma anche largamente utilizzate sui magazine online istituzionali, caratterizzati appunto dall’utilizzo di strumenti di comunicazione legati all’uso delle infografiche.

Foto e video sono protagonisti indiscussi della comunicazione odierna grazie alla semplicità di accesso a software free e al basso costo degli hardware.
Credo sia anacronistico, nonché ormai inutile, inneggiare ad un’esistenza priva di Facebook, Snapchat o simili, non saremmo più certo in grado di rinunciare al social network, tuttavia mi piace pensare che si tratti di “strumenti”, utensili digitali che a seconda del loro utilizzo possono influire positivamente o meno sulle nostre vite. Mezzi che dobbiamo imparare a gestire e comprendere, così come è necessario apprendere un buon metodo di decodifica delle icone a cui quotidianamente siamo esposti. Data la delicatezza e la multiformità dall’argomento, vorrei ribadire che quanto espresso in questo pezzo riguarda il mio personale punto di vista: da sempre sostengo l’importanza del confronto e della mediazione intellettuale come unica possibilità di convivenza sociale tra individui, tuttavia credo anche sia importante e giusto avere delle opinioni ben salde e saper prendere posizione. Quello che sostengo è che non ci sia un adeguato insegnamento dell’approccio critico alle immagini, non siamo sufficientemente preparati ad osservare e comprendere tutti questi stimoli visivi che costantemente ci colpiscono, non siamo abituati ad osservare, a vedere, guardiamo ma senza capire e senza riflettere. Tuttavia, oggigiorno non è pensabile sensibilizzare i giovani su tali tematiche tralasciando il discorso “social network”.
In una “società dell’immagine” non bastano corsi specifici universitari dedicati allo studio della comunicazione visiva, al contrario sono necessari momenti di approfondimento nei livelli scolastici inferiori, ovviamente adeguati all’utenza, dato che già alla scuola primaria gli scolari sono abituati a “smanettare” con smartphone e tablet.
Ribadisco: sono strumenti che se usati con criterio possono aprire mondi interessanti. Internet è un tripudio di informazioni e curiosità che possono aumentare il nostro bagaglio culturale, si possono reperire informazioni e notizie e rimanere costantemente informati sull’attualità. Attraverso i social è possibile conoscere persone che vivono lontano da noi, a supporto dell’ideale del rispetto e della convivenza in quanto noi tutti siamo cittadini del pianeta Terra. Sono infinite le sfaccettature positive legate ad un corretto e intelligente uso di internet e dei social, ma altrettanto numerosi sono i possibili effetti negativi conseguenti ad un utilizzo scorretto degli stessi, come la perdita della concentrazione, una sfalsata percezione di sé, oppure il cadere vittima di cyberbullismo o addirittura contrarre una vera e propria dipendenza da social.

Militando all’interno della struttura, credo sia compito della scuola sensibilizzare i giovani sulla questione, evidenziando l’importanza di vivere la propria vita in maniera “reale”, distinguendo il virtuale dal concreto e ricordando agli adolescenti – ma non solo – che il social non è in grado di offrire le medesime emozioni e opportunità del mondo vero, fatto di risate e pianti, di litigate e amori e di cose che si toccano, pungono e feriscono, riscaldano e avvolgono. Attraverso un opportuno insegnamento del ruolo del social si passa per forza per una riflessione sulle immagini, primario mezzo di comunicazione, molto più complesso di quel che si crede. In una società non solo delle immagini ma anche dei consumi, il marketing è fortemente condizionato dalla dirompente potenziale viralità dei contenuti diffusi attraverso le immagini. Si parla di “consumismo consapevole”, di “shopping experience” di “brand” e di “influencer”, termini portatori di un nuovo approccio, più cosciente, più “green” – per usare una parola “modaiola” – ma comunque legati ad una modalità impositiva della scelta: sono le immagini che ci dicono come vogliamo essere, con che filtro dobbiamo colorare i ricordi, che cosa vogliamo per il futuro, sono le immagini che ci influenzano continuamente e sono proprio tali immagini che dobbiamo imparare a decodificare, affinché la possibilità di scelta sia ancora qualcosa di concreto e di nostro. Vi devo dire la verità, cari lettori, tutto questo sproloquio è dovuto alle recenti chiacchierate che ho fatto a scuola con gli studenti nell’ultima settimana; a causa del Covid molti colleghi si sono ritrovati costretti a casa, mentre chi, come me, per ora superstite dei contagi ha dovuto saltellare da una classe all’altra per assicurare ore di lezione agli scolari. Come rendere giustizia a queste “ore buche”?ì Io credo che una buona idea sia quella di intrattenere i ragazzi facendoli parlare, chiedendo loro opinioni sugli argomenti più disparati, trattandoli come effettivi cittadini del mondo di domani; inevitabile la domanda di rito: “Qual è la materia che meno vi piace?”. Dopo questa settimana non cadrò più nell’errore, poiché la risposta è stata in prevalenza “Arte”. Non solo – ci tengo a specificarlo- la parte di teoria, ma anche quel che riguarda lo svolgimento pratico. Mi ha stupito come proprio la materia che per eccellenza tratta e studia le immagini, sia percepita come l’ora più “odiata” proprio da chi tra le immagini ci vive. Mi ha inoltre sbigottito ascoltare il tono sicuro di chi sosteneva l’inutilità della disciplina e la conseguente noia provata durante l’ora di lezione.

Al di là dell’ovvia insoddisfazione personale, vorrei provare a dare qualche motivazione per contrastare questo pensiero dilagante. Non mi soffermerei sul ruolo centrare che investe l’arte sul nostro territorio, né sul fatto che l’Italia possieda il maggior numero di siti riconosciuti dall’UNESCO, così come eviterei il discorso sul Rinascimento e quello sul patrimonio artistico costituito da architetture e opere d’arte che il resto del mondo ci invidia. Mi soffermo invece su altri aspetti. Conoscere la storia dell’arte significa essere in grado di interpretare monumenti e opere, e di conseguenza saper comprendere ciò che ci circonda, avere un pensiero critico è il primo passo verso la comprensione della necessità della salvaguardia dei nostri beni artistici; chi non conosce infatti svaluta e disprezza, la non conoscenza supporta lo sviluppo dell’ignoranza da cui scaturiscono odio e paura nei confronti di ciò – o di chi- ci appare diverso e strano. Non mi stancherò mai di sottolineare la fortuna di poter insegnare una materia interdisciplinare come questa: l’arte consente di approfondire e affrontare molte argomentazioni da diversi punti di vista, non solo le materie letterarie, ma anche gli ambiti scientifici. L’arte è disciplina centrale per superare le diversità, poiché le attività manuali permettono di collaborare e sostengono la socializzazione, l’uso della creatività favorisce l’integrazione perché quello a cui si fa ricorso è un linguaggio universale. Negli ultimi tempi anche l’Italia ha approvato la sfaccettatura terapeutica dell’attività artistica, che, attraverso modalità attive, permette di superare barriere comunicative, aiuta a sentirsi capaci di creare e stimola la conoscenza e l’accettazione del proprio Io interiore.

Salvatore Settis, storico dell’arte, sostiene che la storia dell’arte “aiuta a vivere”, e in numerosi articoli sottolinea il ruolo sociale e civile che la materia ricopre; Tommaso Montanari, altro studioso non meno noto, dimostra che lo studio della storia dell’arte allena al senso critico e al libero giudizio; molti neuroscienziati appoggiano la tesi secondo cui l’educazione artistica migliora l’attenzione e le funzioni cognitive. Aggiungerei che l’arte è proprio quella materia che esplica il linguaggio visivo, forma di comunicazione che assolutamente i giovani – oggi più che mai- devono essere in grado di padroneggiare. Lo studio del passato ci costringe a confrontarci con modelli differenti di abitudini e canoni e rammenta che non tutto ciò che sembra “farina del sacco del contemporaneo” sia in realtà una novità. Le immagini sono testimonianza di ciò che è stato, memoria indelebile di una storia che proprio attraverso tale linguaggio arriva a tutti. Saper descrivere e commentare un’opera sviluppa una particolare sensibilità critica assai utile oggi, nel mondo delle immagini, e libera chi sa decodificare i messaggi dal giogo della non scelta voluta dal consumismo. L’arte contemporanea ci sfida a riflettere e a mettere in gioco i principi dettati da una società che ci impone l’omologazione, pungola l’osservatore, lo induce a confrontarsi sulle più disparate tematiche, sul doppio, sull’identità, sull’appartenenza, sull’uguaglianza. Mai come ora l’apprendimento della storia dell’arte è chiamato ad essere svolto attivamente, in prima linea, perché l’arte ci mostra la realtà attraverso la finzione, e sono gli insegnanti che hanno l’arduo compito di aprire le menti e rendere i giovani individui in grado di comprendere il mondo che li circonda.
Ma, prima, bisogna (re)imparare a vedere.

Alessia Cagnotto

Quel 24 gennaio 1979, cosa ci resta di Guido Rossa

Giorni e date che ti entrano nelle carni producendo ferite non guaribili. Ferite che ogni anno continuano a sanguinare. Con dolore e tristezza e rabbia. 24 gennaio 1979 le Br assassinarono Guido Rossa.

Dei brigatisti uccisero un compagno comunista che aveva osato denunciarli. Operaio Italsider, nato a Belluno ma cresciuto a Torino. Trasferitosi a Genova per sposarsi. Tra i più grandi scalatori del tempo. Maestro del Cai. Fu anche para’.Delegato sindacale ed attivista comunista. Uno che non si tirava mai indietro. Non fu lui che sorprese il brigatista Francesco Berardi che nascondeva, all’interno dello stabilimento Italsider, volantini delle Brigate Rosse. Ma fu lui a denunciarlo ed a testimoniare contro.  Un uomo con gli attributi lasciato solo dai suoi stessi compagni di partito e di sindacato. Dopo oltre 40 anni è chiaro ed assodato. Incontro’ la morte perché, o anche perché solo. Nessun servizio d’ordine del pci lo difese. Nessuna pattuglia della polizia staziono’ sotto casa sua. La sua morte mise a nudo i limiti del movimento operaio. Della sinistra ed in particolare del PCI e del sindacato. Fiom in primis e con essa la Flm.
Troppe connivenze  e reticenze. Lo urlo’ il giorno del funerale Luciano Lama. Lo ammise a denti stretti Bruno Trentin. Mesi dopo, a Torino il questionario dove si chiedeva: sei a conoscenza di fatti di terrorismo? Decenni dopo Giancarlo Caselli affermò: oltre 50 di quelle denunce, fatte in forma anonima, furono preziosissime per debellare il fenomeno. Ai funerali pioveva come Dio la mandava. Quell’omicidio e quei funerali segnarono la fine, o perlomeno l’inizio della fine del terrorismo rosso. Al funerale il presidente della repubblica Sandro Pertini stravolto. Per tutta la giornata piovve a dirotto.  Non cambio’ il colore della giornata. D’un blu scuro. Perché era un maledetto giorno da fissarsi nella memoria, nel cuore e nell’anima di ognuno di noi. Davanti a tutti il Consiglio di fabbrica dell Italsider e dopo I Camalli, portuali di Genova. Le loro giacche di pelle con il rampino agganciato. Il rampino gli serviva per lavorare , ma era anche di monito. Come agli inizi degli anni 60 contro il governo Tambroni e il Msi che volevano fare il congresso a Genova medaglia d’oro alla Resistenza. Ieri contro i fascisti, ed ora contro i nuovi fascisti rossi, alias Brigate Rosse. Momenti alti della Storia del nostro paese. Sono passati 43 anni.  24 gennaio 1977 e il 24 gennaio 2022 si comincia a votare per l’elezione del Presidente della Repubblica. Una lunga Storia cominciata il 25 Aprile del 1945. Una Storia che si chiama Democrazia. Ieri come oggi e per sempre. Si spera. Oggi i mille elettori che voteranno hanno un debito morale e politico verso eroi come Giudo Rossa. Era solo un operaio , un sindacalista. Nato a Belluno, era vissuto per tanti anni a Torino. Figlio dell’immigrazione. Operaio a Torino come a Genova dove  si era sposato. Sua moglie l’aveva conosciuta al CAI.  Anche lei alpininista. Non aveva visto direttamente i terroristi che lasciavano nei reparti i volantini Br. Ma li aveva denunciati, aveva testimoniato e dunque era stato determinante per la loro condanna.  Aveva fatto il suo dovere pagando con la vita.  Un prezzo troppo alto… Chissà se verrà ricordato? Credo e spero di sì. Per me, per noi, ogni anno il compito di ricordarlo.

Patrizio Tosetto