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Onorificenze e real-politique

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Il maresciallo jugoslavo Tito responsabile dell’infoibamento di circa 15 mila italiani del confine orientale e di un vera e propria pulizia etnica in Istria, Venezia Giulia e Dalmazia venne insignito della gran Croce al merito della Repubblica italiana

E venne anche gratificato della Legion d’onore francese. E‘ una consuetudine diplomatica lo scambio reciproco di onorificenze tra capi degli Stati in visita all’estero. C’è chi in Italia in varie occasioni ha chiesto l’annullamento di quel riconoscimento a Tito. Io non mi unii mai a quella richiesta che rivela la non conoscenza delle consuetudini diplomatiche. Sulla Legion d’onore a Tito nessuno ebbe mai da eccepire. Adesso per il conferimento della legion d’onore al presidente egiziano il cav. Corrrado Augias e altri intendono restituire a Macron la Legion d’onore per non essere equiparati al presidente egiziano che, tra l’altro, ha firmato con Macron importanti accordi commerciali, come già accadde per l’Italia in tempi recenti.  Giusto protestare per il giovane Regeni, se le stesse anime candide si fossero scadalizzate per Tito e per tanti capi di stato che ebbbero onorificenze da paesi democratici, pur essendo sistematici violatori dei diritti umani più elementari. L’ex comunista Augias è  il tipico esempio di chi protesta a senso unico. Ad esempio, non ebbe mai una parola per lo scienziato Sacharov imprigionato dai sovietici. Eppure, avendo 85 anni, quelle vicende liberticide in Unione Sovietica, le ha vissute, mantenendo il più assoluto e conformistico silenzio verso l’Unione Sovietica. Il Cav. Augias fu anche deputato europeo dell’ex partito comunista.  Qualche diritto in più a protestare ha la Bonino che però non restituisce la Legione che ebbe quando era ministro degli Esteri e sa cosa sia la real- politique. Il caso Regeni e’ vergognoso, ma cosa si dovrebbe dire di chi sta armeggiando vigliaccamente per privare della medaglia d’oro al valor civile alla memoria conferita da Ciampi alla studentessa infoibata Norma Cossetto, come sta succedendo a Reggio Emilia? Non si fa politica con le legion d’onori, ma semmai con la diplomazia ; quella italiana ha al vertice di Maio che dimentica i pescatori rinchiusi nelle prigioni libiche da mesi e ha fatto molto poco per Regieni. Sarebbe comunque interessante sapere che meriti abbia Augias per aver ottenuto la legion d’onore e non l’ordine di Lenin che sarebbe stato assai più meritato, anche se il giornalista è stato corrispondente della Rai da Parigi.

La sanità malata e le responsabilità della politica

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / In due recenti articoli relativi alla pandemia e al come è stata affrontata in Italia e nelle diverse regioni non ho esitato a scrivere di ghigliottine e di tintinnar di manette 

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Già da subito, in marzo, denunciammo l’improvvisazione manifestata  in modo strabiliante  che ha portato a circa trentamila morti. Allora però tutti portavano come scusante la assoluta novità del virus e il fatto che in altre nazioni esso fosse stato affrontano in modo peggiore. Ma ieri sera la trasmissione televisiva “Non è l’Arena“ che non amo per i suoi toni populistici, ci ha rivelato una verità sconvolgente: il ministero italiano  della Salute era privo di un piano pandemico, rimasto fermo al 2006. L’unico ministro serio è stato Girolamo Sirchia che affrontò il problema. Dopo di lui ministri, sottosegretari, direttori generali si sono scordati di un adempimento che un Paese civile non può ignorare per la bellezza di 14 anni. Ecco una delle cause della debacle italiana che oggi ha il primato di morti in Europa. Così si spiega la mancanza di mascherine considerate “inutili” per almeno un mese perché ne eravamo sprovvisti. Così’ si spiega la mancanza di camici idonei per medici e infermieri e la scarsità di ossigeno. La Sanità italiana è stata mandata allo sbaraglio nel silenzio generale di politici e giornali. Certo esiste anche  un’altra  colpa vistosa  grave: l’aver smantellato la sanità pubblica a vantaggio di quella privata. Questa causa inchioda alle proprie  responsabilità governi e regioni ed è una colpa storica di cui qualcuno dovrà rendere conto a destra ma anche a sinistra. Ma l’aver appreso ieri sera che in Italia non esisteva un piano aggiornato per affrontare le pandemie aggrava ulteriormente la posizione di politici e alti dirigenti. Questo fatto mette anche  in luce come le opposizioni siano state incapaci e inutili, limitandosi a sollevare polveroni inutili e in certi casi dannosi, andando in piazza senza mascherine. Quando si scriverà la storia di questo maledetto 2020 nessuno potrà ignorare un fatto  gravissimo che ci da’ il quadro esatto di una classe dirigente formata prevalentemente  da inetti. Ancora di più oggi invoco il tintinnare delle manette oltre alle dimissioni immediate dei colpevoli. Una verità così sconvolgente non si può insabbiare: sarebbe anche un ulteriore affronto alle migliaia e migliaia di morti a cui va resa in qualche modo  giustizia.
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Ciampi il Presidente che rispettò il senso della storia

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni nel centenario della nascita  del Presidente Ciampi (Livorno, 1920 – Roma, 2016)

Malgrado Carlo Azeglio Ciampi fosse da tempo ammalato, la sua scomparsa ha suscitato una forte emozione in tanti italiani. È un fatto raro per un personaggio che fu anche uomo politico e fece scelte ancor oggi contestate.

Fu Presidente della Repubblica dal 1999 al 2006. Una delle presidenze sicuramente più rispettate e senza ombra di macchia, che suscitò un ideale confronto col settennato di Luigi Einaudi, anche lui governatore della Banca d’Italia. Nella sua presidenza giocarono un ruolo da protagonista il segretario generale del Quirinale Gaetano Gifuni, e il consigliere per le relazioni esterne Arrigo Levi. Gifuni, uomo di alta caratura politica e diplomatica, fu sicuramente determinante in molte scelte di Ciampi.

Scelse come senatori a vita l’imprenditore Sergio Pininfarina, il poeta Mario Luzi, la scienziata Premio Nobel Rita Levi Montalcini. Meno convincente fu, per la verità, il laticlavio concesso ad Emilio Colombo, democristiano di lungo corso.

Torino fu per lui un motivo di forte attrazione per il suo passato risorgimentale e giustamente Nerio Nesi gli conferì a Santena il premio “Cavour”. Aveva anche dei legami famigliari con il Piemonte perché la mamma di Ciampi, Maria Masino, apparteneva ad una famiglia cuneese. Andò a far visita a Cuneo con grande entusiasmo e gli fecero incredibilmente anche visitare una mostra su Giolitti non ancora inaugurata. Girò per tutte le province italiane per sentire il polso della situazione e per testimoniare la presenza dello Stato in tutte le realtà.

Nel 2001, nel suo viaggio in Piemonte, rese omaggio alle tombe di Cavour a Santena e di Einaudi a Dogliani. Andò a trovare nelle loro abitazioni Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone, per poi recarsi a rendere omaggio alla statua di Vittorio Emanuele II e a visitare il Museo Nazionale del Risorgimento e la Scuola di Applicazione d’Arma dell’Esercito. Nella sua visita dedicò anche attenzione alla Fondazione Einaudi. Un percorso paradigmatico della presidenza Ciampi.

Accettò di presiedere il comitato per i 150 anni dell’Unità d’Italia, ma dovette lasciare l’incarico per le peggiorate condizioni di salute e per la scarsa collaborazione delle forze politiche, alcune delle quali volevano attuare l’austerità solo a spese del Comitato. Fu sostituito da Giuliano Amato con esiti non sempre felici perché le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia furono in tono decisamente minore.

Sicuramente la presenza di Ciampi avrebbe garantito delle condizioni diverse, anche se va ricordato che ci fu chi mise addirittura in dubbio se dovesse essere giornata festiva il 17 marzo, giorno in cui venne proclamato, a palazzo Carignano, il Regno d’Italia.

Ebbe un grande amico, l’avvocato Paolo Emilio Ferreri, Presidente del Consiglio di reggenza della sede torinese della Banca d’Italia, da  lui nominato Cavaliere di Gran Croce, la massima onorificenza della Repubblica, come Sandro Pertini fece per Emilio Bachi

Con l’avv. Ferreri e il notaio Antonio Maria Maroccofui tra i soci fondatori dell’Associazione dei Cavalieri di Gran Croce creata a Torino e poi “trasferita” a Roma, come tante altre realtà nate sotto la Mole.

Uno dei miei collaboratori al Centro “Pannunzio”, Carlo Guerrieri, mazziniano livornese trapiantato a Torino, era stato allievo al liceo classico di Livorno del giovane prof. Ciampi, che si era laureato alla Normale di Pisa in Lettere, sostenendo l’esame di ammissione con Giovanni Gentile, per poi laurearsi successivamente in Giurisprudenza.

Guerrieri mi parlò spesso del giovane docente, molto timido e del suo entusiasmo per la letteratura italiana e per i valori risorgimentali in anni in cui essi erano totalmente dimenticati, se non aspramente criticati, in modo particolare a Livorno.

Quando andai ai funerali di Guerrieri a Livorno, mi resi conto, tenendo un breve discorso in chiesa, del clima di faziosità esistente.

Successivamente Ciampi scelse di entrare in Banca d’Italia e di proseguire una carriera che lo portò ad esserne Governatore.

Credo che non ci sia ancora la serenità per scrivere con un qualche distacco di Ciampi Ministro dell’economia e Presidente del Consiglio: le vicende dell’euro sono ancora così oggetto di aspra polemica che diventa impossibile porsi in una dimensione storica. Ci vorranno anni per dare un giudizio sereno di un periodo fra i più travagliati della storia italiana. È necessario invocare un’opportuna sospensione di giudizio su una cronaca che non è ancora storia perché appartiene ad un ciclo non concluso. Va detto però che l’idea di Europa che ebbe Ciampi è molto diversa da quella prevalente a Berlino e a Parigi nel 2016. 

Su Ciampi Presidente della Repubblica non ci sono dubbi, invece.

Egli rappresentò la dignità dell’Italia durante un’epoca in cui il debordante inquilino di palazzo Chigi era nel pieno della sua vitalità politica.

E seppe riconciliare gli italiani con la loro storia.

Le visite a Solferino e San Martino vollero sottolineare, in anni in cui il leghismo sbeffeggiava il Risorgimento e l’Unità d’Italia, che cosa significassero quelle pagine sanguinose e dimenticate di storia.

Il suo viaggio a Cefalonia ricordò in modo emblematico il comportamento dell’Esercito dopo l’8 settembre 1943, rendendo omaggio ai Caduti della Divisione Acqui. La vulgata del “tutti a casa” di Alberto Sordi venne finalmente superata non tanto ad opera degli storici, ma del Presidente della Repubblica.

Da quel momento fu più facile parlare del contributo dei militari alla Guerra di Liberazione. L’8 settembre con lui non segnò la “morte della Patria”, come ritenne Ernesto Galli della Loggia, ma la sua rinascita. 

Ciampi non si fermò al ricordo della Resistenza, in modo non settario, come guerra patriottica, ma “sdoganò” un tema assai più difficile: El Alamein, dove nel grande sacrario, costruito da Paolo Caccia Dominioni, riposano 5200 soldati italiani a «cui mancò la fortuna, non il valore», per dirla con la parole di una lapide dedicata al 7° Bersaglieri.

El Alamein fu il campo di battaglia dove si immolò la Divisione paracadutisti “Folgore”: un nome da non pronunciare in Italia, per tanti decenni, pena la condanna ad essere considerati fascisti.

Ciampi stesso, dopo l’8 settembre 1943, superando infinite difficoltà, raggiunse il governo legittimo a Bari e si arruolò nel rinato esercito italiano.

Egli ripristinò la verità storica e riconobbe il valore dei combattenti della guerra perduta che nei deserti africani e nelle steppe russe seppero tenere alto il nome del soldato italiano, malgrado le difficoltà di ogni tipo e il fatto di rendersi conto, come il maggiore Enrico Martini Mauri e molti altri protagonisti della Resistenza, di combattere in una guerra sbagliata.

L’aver insignito della medaglia d’oro al valor civile Norma Cossetto, giovane studentessa istriana violentata, torturata e gettata nella foiba di villa Surani ed aver contribuito a far decollare il Giorno del ricordo il 10 febbraio è un altro dei suoi meriti.

Dopo di lui il ricordo di questo giorno è stato via via disatteso da scuole e istituzioni. Io scrissi a Gifunisegnalando Norma Cossetto e quasi subito il Presidente si interessò del suo caso drammatico. E fu Ciampi a volermi oratore ufficiale al primo Giorno del ricordo.

Anche il fatto di aver insignito della medaglia d’oro Fabrizio Quattrocchi, rapito e ucciso in Iraq, è da sottolineare. La sua ultima frase prima di morire «Adesso vi faccio vedere io come muore un italiano» venne colta nel modo giusto dal Presidente, mentre altri imbastirono astiose e insulse polemiche su Quattrocchi.

Oriana Fallaci venne insignita dal Presidente della medaglia d’oro dei benemeriti della cultura della Repubblica italiana. Anche in questo caso un atteggiamento controcorrente che l’ha distinto in modo positivo perché erano gli anni in cui era stata aizzata, contro la scrittrice italiana più conosciuta nel mondo, una campagna d’ odio. E fu sempre Ciampi a non concedere la grazia al mandante dell’omicidio Calabresi Adriano Sofri, malgrado le insistenti campagne di stampa e i pressanti appelli a suo favore. Era favorevole anche Pannella che arrivò ad attaccare il Presidente. Tanti anni dopo il leader radicale convenne con me che la battaglia a favore di Sofri era almeno discutibile.

Ciampi ha cambiato verso alla storia italiana: i tricolori sono tornati ad essere presenti in tutte le cerimonie e nelle scuole, l’Inno di Mameli è finalmente stato suonato non più solo all’inizio delle partite di calcio. Il 2 giugno  2001 organizzai un concerto della fanfara dei bersaglieri di Asti – una delle più importanti in Italia – il primo concerto per la ripristinata festa della Repubblica voluta da Ciampi. Fu un grande successo di pubblico che sventolò centinaia di bandierine tricolori in piazza CLN a Torino. Il Presidente inviò un messaggio esprimendo «apprezzamento per il valore storico e civile dell’iniziativa».

Il percorso del recupero del senso della storia è lungo e difficile e sicuramente i governi della destra paradossalmente hanno impedito che esso progredisse. Il tentativo di equiparare i “ragazzi di Salò” agli altri combattenti ha ostacolato il processo iniziato da Ciampi, che dimostrò  quella virtù civile che veniva da lontano e che l’Italia aveva perduto totalmente.

Il suo è stato un esempio solo in parte seguito anche dal Presidente Napolitano, ma lo spirito e la storia dei due uomini erano molto diversi. Così come non si può non evidenziare la diversità sostanziale tra Ciampi e Scalfaro. Ciampi non dimenticò mai di essere stato eletto dal voto unanime delle Camere e si sentì sempre Presidente di tutti.

Su Ciampi politico, ripeto, si può discutere – riconoscendo a priori che fu un galantuomo – senza riuscire a trovare una sintesi storica, ma a CiampiPresidente appare impossibile non rendere omaggio.

Il Centro “Pannunzio” gli dedicò gli “Annali” 2006. Nell’editoriale scrissi tra l’altro: «Il Centro “Pannunzio” ha visto in Lei in questi sette anni la viva vox constitutionis, il supremo custode dei valori più alti della Nazione e della democrazia, rinate a nuova vita dopo la guerra e la fine della dittatura, un esempio eccezionale di dedizione alla Patria che è ormai entrato nella storia d’Italia».

Ciampi disse una volta che dai Gesuiti aveva imparato l’amore del prossimo, dalla Scuola Normale di Pisa e in particolare dal filosofo laico Guido Calogero, il rispetto degli altri.

Qui sta il senso profondo del suo settennato che è stato caratterizzato dal rispetto del senso della storia e della verità che non è mai una sola.

Un Natale diverso

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Che questo Natale sia diverso da tutti i Natali che abbiamo vissuto in precedenza, credo sia un dato di fatto incontrovertibile, come credo siano incontrovertibili le responsabilità delle restrizioni che dobbiamo subire:

un’estate senza controlli e senza responsabilità e una improvvida riapertura delle scuole senza sicurezza e senza trasporti adeguati ci hanno portati a vivere le angosce di questi giorni che stanno colpendo sempre più persone. I sacrifici del Natale oggi ci sono imposti per vivere una Quaresima più serena.  Un paradosso degni dei tempi.
Quindi non rimpiango i Natali del passato fatti di intimità domestica e di gioie condivise. Quei Natali avevano qualcosa di forzato e di artefatto che ci voleva ad ogni costo più buoni o addirittura felici. Quest’anno è stata anche sacrificata la parte religiosa con l’eliminazione della Messa di mezzanotte, forse pensando che chi partecipava quella funzione avrebbe potuto finire la serata trasgredendo in discoteca.

Il Natale come festa religiosa in effetti è stata dimezzata da decine d’anni. Il Natale consumista rischia anche lui di finire perché la povertà e l’incertezza economica appaiono più tangibili del passato. Sarà un Natale che farà ricordare ai più vecchi i Natali di guerra quando la morte era all’ordine del giorno. Ma quanto è accaduto al presepe del Duomo di Torino supera ogni immaginazione.  La Madonna e San Giuseppe appaiono con la mascherina anti COVID per impedirci anche solo un attimo di uscire dall’incubo in cui viviamo immersi.  E’ una cosa che non ha nessun senso e non ha nessuna spiegazione plausibile.

Il 24 dicembre , ovviamente e rigorosamente alle ore 21 , forse anche il Bambin Gesù verrà esposto nella mangiatoia con la mascherina d’ordinanza. Un modo bislacco di intendere il presepe decontestualizzandolo dalla tradizione di cui non potete privarci.  Attendiamoci altre sciocchezze. Magari una farmacia potrebbe fare l’albero con le mascherine, in linea con i tempi. Magari si potrebbero anche offrire in vendita dei pacchi natalizi di mascherine decorate per l’occasione. Le hanno fatte con il tricolore e i simboli dei partiti, non ci sarebbe da stupirsi che la fantasia malata possa portare anche a queste estrosità macabre.
Vietateci tutto, ma consentiteci almeno di pensare ad un presepe non contaminato dal
COVID.

Se quest’estate troppi cretini avessero usato più mascherine non ci troveremmo in questa situazione che, se non fosse tragica,  ci farebbe persino sorridere.  O forse hanno messo le mascherine al presepe per poterci strappare un sorriso, constatando la stupidità collettiva a cui siamo giunti. Diversamente anche solo un sorriso sarebbe davvero impossibile.

Se il Salone del libro diventa “comunale”

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni    Il Salone internazionale del libro “Vita nova” aperto ieri a Torino rivela tutte le difficoltà create dal Covid e si rivela un’impresa di cortissimo respiro culturale

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Quando venne scelto Nicola La Gioia a dirigere il Salone ,si capì subito che quella scelta, così dettata da motivazioni prevalentemente  politiche ,non avrebbe potuto portare a buoni risultati  e infatti il Salone  si impantanò subito nelle polemichette sull’editore del libro di Salvini a cui venne negato lo spazio espositivo che aveva regolarmente acquistato.
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Ma che adesso La Gioia voglia farci passare per Salone internazionale del libro venti lezioni da alcuni teatri italiani e promozioni librarie in 34 librerie torinesi  con un po’ di bonus da dieci euro riservati a studenti piemontesi  (malgrado le scuole chiuse), appare un’ azione  leggermente sfrontata e priva di significato e di respiro editoriale. Utilizzare il Salone internazionale per dare un po’ di soccorso a 34 librerie torinesi in difficoltà’ ci sembra una scelta assai discutibile  che riporta il Salone, che raramente fu davvero internazionale, ad ambito comunale, come le tante iniziative simili che si tengono in Italia per promuovere il libro. Era una cosa da non fare perché non consona con le tradizioni del Salone la cui caratteristica era il pluralismo e il fervore di iniziative promosse da grandi  e piccoli editori. Non basta mettere in un programma Saviano e Sgarbi per garantire la pluralità delle voci, così come  non bastano 34 librerie  torinesi per dare l’idea anche remota  di quello che era il Salone in passato. E’ un Salone fatto con i fichi secchi per fare un favore a 34 librai che  ci auguriamo possano trarne  un qualche auspicabile e legittimo  profitto in tempi difficili.
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Un appoggio appunto forse utile per sostenere questi librai in affanno, ma non certo per sostenere  la cultura intesa in modo adeguato. In ogni caso  un progetto di difficile realizzazione, considerato il divieto di assembramento anche nei negozi. Nessuno può pretendere grandi cose da  una Torino divenuta zona arancione, ma nessuno sentiva la necessità di una edizione così ridotta da far apparire il Salone un’iniziativa totalmente  priva del suo spirito originario. Il libraio Pezzana che fu il vero ideatore del Salone, non avrebbe mai pensato ad una cosa del genere perché il libraio Pezzana, ideando il Salone, seppe andar oltre gli interessi delle librerie torinesi. Cercando sul sito del Salone  non appare  inoltre un programma concreto e non capisce cosa accadrà nelle 34 librerie che hanno aderito al progetto a cui auguriamo la massima fortuna anche se non contribuisce certo a riaffermare il nome di  Torino come città del libro che la fine miserevole della UTET Grandi  opere ha definitivamente cancellato. Appare emblematico dell’ importanza di questo Salone “ internazionale“ il fatto che il settimanale “Torinosette“  gli dedichi  un articolo a quattro colonnine, il doppio dello spazio riservato ad un  piccolo convegno da remoto su Vittorio Emanuele II i cui relatori sono così noti da non essere neppure nominati.
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L’ultima spiaggia: salvare la pelle

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni L’ennesimo, pletorico Dpcm che stabilisce nuove norme ulteriormentente restrittive per le festività di Natale e ‘ stato presentato in Tv dal presidente del Consiglio in un giorno che si e’ chiuso con quasi un migliaio di morti per il COVID, un record mai raggiunto neppure a marzo

Conte fino a pochi giorni fa parlava di duri sacrifici imposti agli Italiani per garantire loro un Natale diverso che oggi ha smentito con norme restrittive che rivelano il totale fallimento della politica di governo e regioni nel fronteggiare la pandemia. Un pasticcio tutto italiano dove le regioni hanno contribuito a complicare le cose, rendendole irresolvibili e in cui il Governo si è rivelato un gruppo formato di velleitari improvvisatori.

Lasciamo perdere le norme e i divieti che daranno un ulteriore colpo mortale alla nostra economia. Il problema, prescindendo dal disastro economico,  e è che il virus non è stato fermato. Tante chiacchiere e tanti sacrifici senza raggiungere l’obiettivo.
Conte dovrebbe almeno concedere un dono agli italiani per Natale: dare le dimissioni insieme a Speranza e a questo sempre più inquietante commissario di nome Arcuri che ha già fallito per i banchi di scuola.

Con quasi mille morti al giorno c’è una sola conclusione da trarre:  hanno fallito e devono andarsene a casa. Questo è un principio democratico elementare che dovrebbe prevalere su ogni altra considerazione.Natale o non Natale, stiamo arrivando alla disperazione,  siamo prigionieri di una situazione che può
sfociare in una tragedia collettiva e individuale mai vista e neppure immaginata. Gli Italiani hanno
perso la speranza di vivere o almeno di sopravvivere.

Hanno davanti se ‘ la catastrofe e chi dovrebbe essere, per il suo ruolo super partes arbitro a tutela del popolo sovrano, sembra putroppo non essersi reso conto di nulla. Non è il problema di tener aperto o chiuso a pranzo un ristorante il 25 dicembre , qui il problema è riuscire a tutelare l’incolumità delle persone. Quasi mille morti in un giorno indicano un disastro di gravissime dimensioni, una vera ecatombe. E nel frattempo si delinea l’ipotesi sempre più vicina di una patrimoniale che rapinerà i risparmi degli
Italiani.

Se Bertinotti voleva far piangere i ricchi, Conte vuol far piangere tutti. Il Governo giallo – rosso si è rivelato il peggiore di tutti i governi possibili e nel momento dell’emergenza ha rivelato tutta la sua inadeguatezza. Ci sono colpe di cui dovranno rendere conto a Dio e alla storia. Ma in un paese democratico non bisogna attendere quei giudizi , bisogna procedere subito.  È in gioco la nostra pelle. Non possiamo più attendere. Ne va della nostra vita. L’angoscia sta montando senza possibilità di autocontrollo in tantissimi italiani. Questa è la vera tragedia, non il divieto di vedere i nonni a Natale o di fare il cenone a Capodanno.

Ricordare Norma Cossetto significa onorare le vittime di violenza

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / La commissione toponomastica della città di Reggio Emilia ha  bloccato  la delibera del Consiglio Comunale che prevedeva   una targa in ricordo di Norma Cossetto, Medaglia d’oro al Valor Civile, simbolo del martirio degli istriani infoibati ad opera dei partigiani di Tito

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Norma Cossetto era una giovane studentessa universitaria a Padova, allieva di Concetto Marchesi. Venne prelevata da casa, seviziata e stuprata con violenza bestiale  inaudita e poi ammazzata  e gettata in una foiba. La Commissione di Reggio Emilia afferma che mancano prove storiche certe della sua fine e giunge a mettere perfino in discussione il conferimento della Medaglia d’oro  da parte del Presidente della Repubblica Ciampi. E’ una forma di arroganza negazionista intollerabile  che oltraggia la figura della giovane studentessa istriana che  dopo le vicende belliche ottenne  la laurea honoris causa alla memoria su proposta del prof. Marchesi , deputato comunista ed insigne studioso. Il riconoscimento della giorno del ricordo, il 10 febbraio, sembrava aver posto fine alle discussioni di parte sulle foibe e sull’esodo Giuliano – Istriano – Dalmata . Solo una minoranza di vetero- comunisti votò  contro l’istituzione del giorno del ricordo  in Parlamento. In realtà tuttavia il 10 febbraio – malgrado la legge istitutiva – non viene ricordato in molte città e in tantissime scuole, violando la legge. Ma nessuno, finora, era giunto a mettere in discussione la morte tremenda a cui fu condannata Norma Cossetto, colpevole di avere un padre fascista. Eccepire addirittura sulla Medaglia d’oro è un’offesa alla verità storica oltre che alle comunità di esuli  esistenti, in primis all’ Associazione Dalmazia Venezia – Giulia. Mi sento particolarmente anche colpito  sul piano personale da questo vile negazionismo che solleva dei dubbi senza portare prove di sorta, se non discorsi di mera natura ideologica. Fui infatti  io a scrivere a Ciampi, segnalando il caso  della studentessa Norma Cossetto  e fu il Segretario Generale del Quirinale Gifuni ad avviare la pratica che ebbe  iter regolare e trasparente, come impone il conferimento di una medaglia d’Oro.   Ciampi ebbe il merito storico di aver riportato la verità storica sulle foibe e sull’esodo che Gianni Oliva aveva per primo evidenziato nei suoi libri. Rimettere in discussione in modo strumentale certe verità significa un arretramento barbaro della nostra  coscienza civile. Le memorie non sono mai condivise, ma i fatti storici non possono essere ridiscussi in base ad un revisionismo becero e arrogante. Norma Cossetto é un’eroina nazionale, una vittima che va onorata come vanno onorate tutte le vittime della violenza, di tutte le forme di violenza. E’ una giovane donna vittima della violenza sulle donne che oggi giustamente è oggetto di particolare attenzione.
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Arturo Diaconale liberale duro e puro

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni        Arturo Diaconale, con la sua coerenza liberale, ha dimostrato cosa significhi credere in una Idea politica senza mai manifestare ambizioni personali . E’ mancato a 75 anni dopo una lunga malattia. In novembre avrebbe dovuto, insieme ad altri amici, presentare il mio ultimo libro su Pannunzio a Roma su invito di Enrico Morbelli, ma la pandemia ci ha impedito di rivederci.

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Un Paese che non ha saputo dare un seggio parlamentare ad Arturo Diaconale è un Paese indegno. Una cosa simile a quella accaduta al prof. Vittorio Mathieu , non eletto nel Polo della libertà .Due volte candidato, venne bocciato perché i collegi a lui assegnati era già perduti in partenza.  Con tutti gli sprovveduti ed i voltagabbana nominati deputati e senatori da Berlusconi , balza ancora più forte il trattamento iniquo riservato al giornalista Diaconale che tenne viva la testata liberale per eccellenza “ L’ Opinione”su cui ho scritto volentieri in passato .Tanto su “Il Giornale” mi venivano rifiutati articoli dalla responsabile della cultura Caterina Soffici ( che non aveva nulla della cultura liberale che avrebbe dovuto esprimere ), tanto ho avuto ospitalità dall’” Opinione”. Negli ultimi tempi mi è capitato che” Il Giornale”, per bocca di Alessandro Gnocchi, sia giunto a chiedermi un articolo per poi non pubblicarlo. Così va il mondo, liberale solo in apparenza, ma  in effetti profondamente illiberale nella realtà delle cose. Diaconale ,che veniva dal” Giornale” di Montanelli, era uomo di tutt’altra pasta umana e professionale. Lo nominarono presidente del Parco Nazionale d’Abruzzo e poi per due anni nel consiglio della Rai dove condusse molti anni prima  la trasmissione “Ad armi pari “ che durò pochissimo, forse perché troppo libera ed obiettiva . Io quando penso a lui penso anche a Pia Luisa Bianco, una affascinante  giornalista di alto livello, relegata a Bruxelles. Un altro esempio di incapacità a valorizzare il meglio, premiando i mediocri.

Il giornalismo italiano perde un grande professionista , i liberali perdono uno dei loro  più coerenti leader, la politica un suo protagonista autentico ,duro e puro ,  anche se scandalosamente  privato del seggio parlamentare che gli sarebbe spettato di diritto. Se il partito di Berlusconi si è afflosciato, una delle cause è quella di non aver dato spazio a gente preparata come Diaconale, preferendogli la prima “fanciulla” di passaggio. Il giornale “L’Opinione” e’ uscito per tanti anni e continua ad uscire on line, dimostrando l’ indipendenza ed il coraggio del suo direttore, uno dei pochi uomini che abbiano sentito e vissuto il liberalismo con sincerità e dedizione rispetto ai tanti che in passato si sono detti liberali, senza neppure  sapere cosa significasse quella parola ,rifiutando  anche solo la frequenza di   un corsetto  al Cepu in materia di liberalismo di cui continuano ad essere digiuni.

Insieme al giornalista Enrico Morbelli, che con le sue “Scuole di liberalismo“ ha formato in tutta Italia  tanti giovani  al liberalismo, alcuni dei quali diventati famosi come Nicola Porro, Diaconale ha testimoniato il suo liberalismo  inteso come scelta di  vita, pur mantenendo il distacco critico proprio dell’intellettuale libero. Per dirla con Benedetto Croce, le sue opere oggi  parlano per lui e chiunque volesse tracciare la storia travagliatissima dei liberali dopo la fine traumatica della Prima Repubblica e la svendita  del Partito liberale per ottenere la riconferma in Parlamento di certi personaggi minori, non potrà fare a meno di scrivere di Diaconale, un uomo davvero fuori ordinanza. Un liberale ottocentesco, nato per nostra fortuna  nel secolo sbagliato.

Ho un solo grande rammarico, quello di non avere più intensamente collaborato con lui.

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Più senso di responsabilità per non ricadere nell’emergenza

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

La prima giornata arancione a Torino ha rivelato l’immaturità e l’insensatezza di troppi che hanno invaso il centro, creando vistosi assembramenti. Anche la signora Appendino era a passeggio con la figlia in via Garibaldi.

Di una situazione del tutto fuori controllo si è reso conto persino l’assessore regionale alla Salute Icardi, quello che ad ottobre andò’ in viaggio di nozze.

IAnche a me avrebbe fatto piacere fare una passeggiata in via Roma e iniziare con gli acquisti di Natale a cui certo non voglio rinunciare . Ma il senso di responsabilità in questi drammatici momenti, per nulla superati, lo sconsigliava. Ci sarà tempo per farlo prima di Natale con tutta calma.
Ma qui si ripropone in modo lampante il problema dei controlli che non ci sono stati o non hanno funzionato. Ricadere nell’emergenza assoluta e’ facilissimo. L’esordio della domenica ci offre un pessimo segnale. Troppi hanno già dimenticato ciò che è accaduto nel corso dell’estate.

Prefettura, Questura e Comune debbono mettere in atto un’azione preventiva e repressiva perché non si ripeta ciò che è accaduto domenica e che può portare ad un aumento dei contagi.
Se consideriamo l’esilarante protesta della ragazzina dodicenne che vuole tornare assolutamente a scuola senza considerare la mancanza di sicurezza e la inadeguatezza dei trasporti, abbiamo un quadro complessivo di evidente irresponsabilità . Sulla dodicenne hanno imbastito una speculazione politica contro Cirio che ha avuto il buon senso di non riaprire le scuole.

Anche se la didattica a distanza non soddisfa ,non possiamo dimenticare che la seconda ondata è proprio coincisa con l’apertura scriteriata delle scuole senza trasporti adeguati di cui non si parla neppure più . La nuova Greta torinese della riapertura ad ogni costo meriterebbe una strigliata da parte dei genitori e non la pubblicazione sui giornali delle sue immature proteste che rivelano ovviamente la non conoscenza dei problemi.

Da oggi occorre più fermezza nelle Autorità e soprattutto più responsabilità nei cittadini . Ieri non è stata una domenica arancione, ma una domenica nera che non fa onore ai torinesi.

Cinquant’anni fa la legge sul divorzio

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni      Il 1° dicembre 1970, cinquant’anni fa, il Parlamento italiano votò la legge sul divorzio chiamata anche “Fortuna –  Baslini“ dal nome dei deputati che stesero il testo. Loris Fortuna era un socialista riformista, mentre Antonio Baslini era un liberale malagodiano. Fu cosa difficile introdurre in Italia una legge sullo scioglimento del matrimonio perché  i vari tentativi fatti negli anni successivi all’ Unità d’Italia  vennero bloccati sul nascere dalla forte opposizione della Chiesa cattolica e di forze cattoliche e conservatrici

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Il Governo Zanardelli ai primi del ‘900 fu promotore di un disegno di legge che venne battuto in Parlamento da 400 voti contrari. Giolitti di fatto bloccò ogni tentativo divorzista perché  la sua politica, volta a trovare l’appoggio dei cattolici, e il patto Gentiloni in particolare, impedirono di procedere su quella strada, malgrado lo statista di Dronero fosse laicissimo. L’ Italia aveva conosciuto il divorzio solo durante la dominazione napoleonica. Il fascismo, che firmò il Concordato con la Chiesa cattolica, mise il divorzio in soffitta. Solo con la ripresa della democrazia il deputato socialista  Luigi Sansone tentò di riaprire il discorso in Parlamento con una legge relativa al “piccolo divorzio“ che naufragò miseramente. Il deputato Loris Fortuna riprese le fila  di quella battaglia e dopo varie vicende  si giunse all’approvazione di cinquant’anni fa. Ad essere decisiva fu la battaglia ingaggiata fuori dal Parlamento dalla LID ( Lega Italiana per il Divorzio), dal partito radicale e soprattutto da Marco Pannella. Fu una battaglia fondata sul confronto civile di opinioni e sulla considerazione difficilmente contestabile che uno Stato laico non possa considerare il matrimonio un sacramento indissolubile, ma un contratto. Ernesto Rossi disse allora che non si poteva andare in Paradiso accompagnati dai Carabinieri, evidenziando che una scelta religiosa non può essere imposta da una legge dello Stato. Certo ad ingarbugliare la materia fu il matrimonio concordatario celebrato, con effetti civili, in chiesa. Lo stesso Papa Paolo VI si schierò contro la legge sul divorzio, vedendola come un “vulnus” al Concordato. Il partito comunista, per quanto impegnato in linea di principio per il divorzio, fu molto esitante perché anche lui interessato a stabilire un buon rapporto con i cattolici, come già  dimostrò il voto all’articolo 7 della Costituzione che inseriva in essa in Patti Lateranensi. Non fu facilissimo spiegare che non si trattava di una riforma “borghese, ma che già allora  riguardava mezzo milione di coppie “ irregolari “ conviventi. La legge Fortuna –  Baslini era una legge austera e severa che nulla aveva a che vedere con certi divorzi all’americana. Se al Senato passò per pochi voti con la mediazione del cattolico liberale Giovanni Leone e con il voto del senatore a vita Eugenio Montale, fu perché essa era una legge seria e meditata.
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Io giovanissimo partecipai a quella battaglia (come poi negli anni successivi a quella del referendum per impedirne l’abrogazione) insieme a Zanone  Magnani Noya, Segre  accusato come avvocato di volersi accaparrare futuri clienti), Pannella e il coraggioso magistrato Mario Berutti. Con Pannella e Zanone allora nacque un’amicizia destinata a durare tutta la vita. Furono giorni entusiasmanti di volantinaggio e di comizi appassionati, anche se io scelsi fin da allora il confronto pacato delle posizioni laiche  con il mondo cattolico, una scelta che portò ad un grande risultato al referendum del 1974: la nascita dei cattolici del No con gli amici Passerin d’Entréves e Traniello. A Torino va anche ricordato, tra gli altri, Francesco Proietti Ricci che fu il segretario della LID e seppe operare con moderazione ed equilibrio nel rispetto delle convinzioni cattoliche , pur in un confronto dialettico appassionato. Proietti Ricci si diceva cattolico e affermava che non avrebbe mai fatto uso della legge sul divorzio che non era un obbligo ma una scelta di libertà. Vincemmo e andammo a festeggiare con una grande cena  con Mario Berutti che divenne anche lui mio grande amico. Il Presidente Saragat firmò subito la legge che però non ebbe immediata attuazione a causa della lentezza degli Organi giudiziari nel creare le apposite sezioni a cui rivolgersi per il divorzio. Era stabilito un termine minimo di 5 anni tra separazione e divorzio , poi ridotto a tre. Non sarebbe onesto se non riconoscessi che quella legge giusta e necessaria ebbe anche come conseguenza quella di matrimoni affrontati più alla leggera e culminati spesso nel divorzio. Era il tema che stava a cuore ai giuristi cattolici preoccupati degli effetti  sulla tenuta delle famiglie. Non ci furono però  gli sconvolgimenti intravisti e molti cattolici fecero ricorso al divorzio, persino chi lo aveva combattuto come il missino Giorgio Almirante e tanti altri.
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Poi negli anni Duemila si volle un divorzio all’americana, molto facile e immediato che addirittura si può ottenere attraverso gli uffici anagrafici . E’ stata una scelta che non ho condiviso perché era giusto un periodo di ripensamento e di tregua dopo un naufragio matrimoniale. Il matrimonio è una cosa seria. Chi non si sente di accedervi può convivere o scegliere l’unione civile che non riguarda solo i gay. Lo scioglimento del matrimonio così come è oggi finisce di provocare delle inevitabili conseguenze sulle famiglie. Lo scardinamento di ogni vita morale – anche laica – ha creato delle situazioni di sfaldamento sociale oltre che famigliare. Uomini rigorosi ed austeri come Croce e Salvemini che condussero laicamente vite esemplari, non sarebbero d’accordo con l’attuale legge perché  esistono diverse moralità laiche con delle regole precise, come ci ha insegnato Bobbio. Essere laici non significa essere libertini , come pensava Scalfari prima dell’incontro con Papa Francesco. Il mondo attuale, creato ed incoraggiato  da certi programmi TV a dir poco “disinvolti”, è devastato e a sua volta  devastante . Sicuramente non è laico, ma profano, anzi fa pensare in piccolo a Sodoma e Gomorra. Il <<s’ei piace, il lice >>, di cui scrisse l’animo tormentato del Tasso, non può trovare nelle feste più o meno eleganti  il suo volgare ed avvilente corrispettiv , che troppo spesso sfocia nel dramma e nella tragedia . Il clima di trasgressione attuale è cosa totalmente diversa dal modo di interpretare laicamente e seriamente la vita di chi cinquant’anni fa volle il divorzio. Basta rileggere il resto di quella legge per comprendere qual era lo spirito che mosse Fortuna e Baslini : fu in anteprima un lib – lab ,rafforzato da Pannella. Un qualcosa che sarebbe piaciuto anche a Mario Pannunzio.
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