ARTE- Pagina 5

“Cortile in Festa”: dove l’arte incontra la magia del tempo sospeso

UN CORTILE, UNA COMUNITÀ ARTISTICA, UNA CITTÀ CHE RISCOPRE IL SENSO DELL’INCONTRO.

OGGI, A TORINO, L’ARTE NON SI GUARDA: SI VIVE.

Intervista a Sabrina Rocca: l’arte che apre porte, spazi, coscienze

Piazza Fontanesi 8B, Torino – 9 luglio 2025, ore 18.00–21.00

 

Oggi a Torino, un antica corte si trasforma in un arcipelago creativo. È qui che Sabrina Rocca, pittrice e ideatrice di “Cortile in Festa” insieme ad altri artisti, artigiani, architetti e performer, ci invitano a vivereun’esperienza immersiva fuori dal tempo e dentro il cuore dell’arte. Un luogo speciale che, in qualche modo, ha segnato la storia dell’arte, anche dell’”arte povera”.

Sabrina, da cosa nasce “Cortile in Festa”?

Da un’esigenza semplice e potente: far uscire l’arte dai luoghi istituzionali per riportarla alla sua natura più viva e condivisa, far “esplodere” il suo potere generativo. Quando, circa un anno fa, sono entrata per la prima volta in quello che qualcuno ha definito “il cortile delle meraviglie”, è stato amore a prima vista. Un luogo magico, dove si respira il fare di altri tempi: artisti e artigiani che lavorano, creano, si contaminano, si aiutano. Un cortile autentico, senza retorica, ma pieno di sostanza.

È qui che ho desiderato e poi creato il mio atelier, in questo microcosmo di creatività: pittori, scultori, fotografi, artigiani… linguaggi creativi che si intrecciano, che si fondono tra loro. È un luogo sospeso nel tempo, in cui si respira la libertà di creare. Ho pensato: perché non aprirlo alla città, consentire anche agli amici del quartiere e della città tutta di sperimentarne la magia?

Chi varcherà il portone di Piazza Fontanesi cosa troverà?

Un’esperienza immersiva, autentica. Gli studi si aprono, si respira l’odore delle tele, dell’argilla, si ascoltano i racconti degli artisti. Ma c’è anche musica dal vivo, installazioni animate, workshop, teatro. È un’osmosi di linguaggi e sensibilità. Un invito a rallentare, osservare, lasciarsi permeare dalla bellezza. E poi scopri che qui Salvo ha avuto lo studio per quasi tutta la vita, che Penone ha fatto apprendistato con Lorenzoni — scalpellino, scultore e restauratore — , che Mertz faceva realizzare i suoi neon proprio in uno di questi laboratori e che entrare nello studio di Santo è come attraversare un pezzo di storia viva.

E poi c’è la Dora, che scorre lì accanto e amplifica l’energia speciale di questo luogo.

Hai parlato spesso della bellezza come “atto sociale”. Cosa intendi esattamente?

L’arte deve aprirsi al mondo, espandere la sua energia costruttiva, che genera consapevolezza, cura, connessione. E di più: deve custodire saperi, tecniche antiche che rischiano di disperdersi, coltivare attenzione. Questo evento è anche un atto di “resistenza gentile”: creare comunità attorno all’arte, celebrare la bellezza come forma di armonia e impatto culturale.

Un consiglio a chi vorrà esserci?

Venite con occhi curiosi e mente aperta. Camminate piano. Osservate e perdetevi nei dettagli. Fermatevi a parlare con gli artisti, dialogate con loro e le loro opere.

Non solo un evento, ma una porta aperta verso un’altrove.

“Cortile in Festa” è la sospensione dell’ordinario: una soglia tra intimità creativa e spazio urbano.

Qui l’arte non intrattiene, ma rivela.

Non si consuma, ma si condivide.

Una comunità che non si rappresenta ma dischiude un modo diverso di pensare il tempo: lento, relazionale, necessario.

Un’occasione rara da non perdere.

Ghëddo, il progetto innovativo che promuove l’arte a Torino

/

Ghëddo, associazione culturale no profit guidata da Olga Cantini, Barbara Ruperti, Marta Saccani, Rachele Fassari e Davide Nicastro, nata nel 2021 insieme a TO.BE, l’open call arrivata oggi alla sua quarta edizione, è un progetto finalizzato all’organizzazione di progetti culturali che valorizzino e promuovano la giovane arte emergente, creando una rete dinamica tra artistə e spazi artistici del territorio torinese, come gallerie, spazi indipendenti, fondazioni e istituzioni.

“Come gruppo, al biennio di Comunicazione, temevamo di non avere tutti gli strumenti necessari per il nostro futuro lavorativo nel mondo dell’arte, sia noi come curatorə e comunicatorə, sia per lə giovani artistə – racconta il team di Ghëddo – É dalla necessità di colmare il vuoto che percepivamo, quello tra la formazione e l’effettivo lavoro nel mondo dell’arte che nasce Ghëddo, ma soprattutto il suo progetto di lancio TO.BE che permette allə artistə di esporre in gallerie e spazi del territorio di Torino. Concepiamo l’arte come strumento comunicativo, e al contempo come messaggio in grado di mettere in moto azioni e di generare valori nuovi all’interno di una comunità. Il nostro progetto mira a creare una rete dinamica con artistə e spazi indipendenti del territorio, favorendo esperienze di cooperazione e di scambio tra artistə e realtà cittadine al fine di costruire un legame solidale e generare delle dinamiche di scambio umano, etico, artistico coerenti con il tema dell’accessibilità, attraverso eventi gratuiti ed equi (parità di genere)”.

Ghëddo è guidato da cinque persone che operano in maniera orizzontale, condividendo responsabilità e decisioni. Olga Cantini si occupa di una parte della comunicazione, in particolar modo dei social media, dei rapporti con i partner e i media partner e dell’ideazione dei progetti e la loro messa in pratica. Rachele Fassari, tesoriera dell’associazione, si occupa della gestione economica e dei rapporti con lə collaboratorə esternə, si impegna a gestire i fondi. Barbara Ruperti cura la linea artistica e curatoriale, si occupa dell’ideazione dei progetti, della scrittura dei contenuti critici e delle relazioni con i partner culturali. Marta Saccani si occupa dell’ideazione, coordinamento e gestione dei progetti, gestisce i rapporti con lə artistə, collaboratorə e amicə di Ghëddo. Davide Nicastro è una figura jolly e trasversale, dall’ideazione dei progetti al reperimento di materiali utili.

“Oggi in Italia assistiamo a un panorama artistico estremamente frammentato, ma anche fertile, dove convivono pratiche tradizionali e sperimentazioni ibride – spiega il team di Ghëddo – Il panorama degli spazi indipendenti, dei collettivi e artist-run space è vitale e in fermento, ma spesso manca un riconoscimento istituzionale o una vera continuità progettuale. In questo contesto, molte realtà faticano a creare progettualità sostenibili e accessibili, non solo per lə artistə, ma anche per la sperimentazione artistica e curatoriale tout court. Spesso mancano gli spazi, le risorse economiche, ma anche i contesti relazionali in cui pratiche artistiche, riflessioni critiche e coinvolgimento attivo possano coesistere fuori dalle logiche di sistema. Ghëddo e le altre realtà come la nostra nascono in risposta a questo vuoto. La nostra proposta si colloca in una zona di confine tra spazio espositivo, laboratorio di pensiero e piattaforma di cura delle relazioni. Intendiamo l’arte non solo come produzione di oggetti o di mostre, ma come occasione di incontro, di interrogazione, di ricerca aperta e condivisa. Più che mancare in senso assoluto, realtà come la nostra rispondono a un bisogno diffuso ma ancora inascoltato. Quello di spazi che non siano solo contenitori, ma contesti dove attivare e riflettere su diverse qualità del fare. In un ecosistema artistico frequentemente orientato alla produzione, alla competizione e alla visibilità, riteniamo essenziale preservare luoghi di sperimentazione viva, in cui l’arte possa entrare in dialogo con la città, con le istituzioni e con le gallerie, mantenendo intatta la propria radicalità e accogliendo la complessità che caratterizza il panorama”.

“Per quanto riguarda la nostra open call TO.BE – continua il team di Ghëddo – selezioniamo lə artistə sulla base dei criteri del nostro bando: originalità dell’opera, efficacia espressiva, capacità innovativa nel campo delle arti visive. Lavoriamo con qualsiasi disciplina: scultura, installazione, sound art, performance, video, fotografia, pittura, grafica, arte multimediale o testuale. Quando collaboriamo con lə artistə nel progetto TO.BE, il nostro impegno non si esaurisce con la fine del programma: cerchiamo di dare continuità al dialogo e al supporto, creando occasioni future di collaborazione e valorizzazione delle loro ricerche. Per portare qualche esempio: l’artista torinese Silvia Basano, che negli ultimi due anni ha preso parte a due mostre collettive all’interno del progetto TO.BE (nel 2023 con Kissinkemmer e nel 2024 in Questo il mondo non lo saprà), a gennaio è stata coinvolta per partecipare alla prima edizione del nostro programma di residenza. In occasione della restituzione del progetto che Silvia Basano ha realizzato durante la residenza, in collaborazione con l’antropologo Mirko Vercelli, è stata coinvolta anche lə performer e artista Lux Aeterna, con cui avevamo già collaborato in occasione della mostra collettiva Il futuro è una schiuma cosmica. L’artista Rac Montoro, già presente nella mostra collettiva Kissinkemmer nel 2023, è statə nuovamente coinvoltə nel febbraio 2025 con la performance Broken Violet Dream, da noi curata, insieme ad altrə artistə con cui collabora abitualmente: Sirius Alexander Venus Rose, Erauqave e H’im. Nel luglio 2024, abbiamo portato un lavoro dellə artistə Lorenzo Peluffo e Enrico Turletti, che hanno partecipato alla mostra collettiva Il futuro è una schiuma cosmica, nella mostra curata da Osservatorio Futura al Forte di Exilles, intitolata Materie: sulla linea temporale del progresso la vita danza in cerchio. Nella stessa mostra, era presente anche un lavoro di Volga Sisa, artista che aveva esposto alla mostra personale Flor Inmortal da A PICK Gallery nel 2024. Entrambe le ricerche sono state oggetto di una riflessione critica a firma di Ghëddo, pubblicata all’interno del catalogo della mostra a cura di Osservatorio Futura. Al di fuori del bando TO.BE abbiamo avuto la possibilità di conoscere, interessarci e lavorare con altrə artistə torinesə e non solo. Nel novembre 2023, in occasione di Artissima, abbiamo curato la perfomance Sintetico di Plurale, collettivo di Verona insieme al quale abbiamo realizzato la fanzine Body of evidence: power, desire, desolation. Nel 2024 abbiamo esposto due lavori di Emma Scarafiotti e Virginia Argentero, artiste selezionate nella prima edizione del Premio promosso dalla Fondazione Recontemporary, a cui Ghëddo ha partecipato come partner in qualità di partner per una menzione speciale”.

“Nell’ambito del progetto TO.BE – conclude il team – abbiamo una novità per l’edizione 2025: oltre alle gallerie, fondazioni, e spazi indipendenti che collaborano e ospitano le mostre dellə giovani artistə, ci saranno anche alcune istituzioni torinesi. Questo ci rende molto felici perché significa ampliare le possibilità di crescita per lə artistə oltre ad essere una manifestazione di crescita di Ghëddo stesso. Per il nostro futuro ci auguriamo di raggiungere maggiori finanziamenti, in modo da poter dare ulteriori opportunità allə artistə e avere uno spazio in città tutto nostro. Ci piacerebbe sostenere le spese di produzione delle opere, offrire più budget per i trasporti delle opere e per tutte quelle spese di realizzazione di una mostra, ci stiamo lavorando. Se si scava bene e nel modo giusto, la città di Torino offre buone possibilità a realtà come la nostra”.

Gian Giacomo Della Porta

Paesaggi da sogno. Le 53 stazioni della Tokaido

Il MAO propone la prima selezione dell’omonima serie di stampe di Hiroshige che ci trasporta sulla leggendaria Via del Mare Orientale, fra l’antica capitale imperiale Kyoto ed Edo, l’odierna Tokyo.

 

MAO Museo d’Arte Orientale, Torino

Fino al 3 agosto 2025

Nell’ambito del riallestimento della galleria dedicata all’arte giapponese, il MAO presenta la prima di tre selezioni dedicate alla celebre serie Le 53 stazioni della Tōkaidō di Utagawa Hiroshige, uno dei capolavori assoluti dell’arte giapponese dell’Ottocento, di proprietà di UniCredit. Questa prima selezione prevede l’esposizione di 19 stampe, a cui seguiranno nei prossimi mesi altri due rotazioni di 18 xilografie ciascuna.

Il progetto si inserisce nel programma di rotazioni e interventi dinamici delle collezioni del MAO e, in questa configurazione, propone una lettura inedita della serie Le 53 stazioni della Tōkaidō di Hiroshige. Frutto della collaborazione con il Museo di Belle Arti di Montréal (MMFA), l’esposizione adotta un approccio ecologicamente sostenibile alla progettazione espositiva, in linea con l’orientamento che il MAO sviluppa da alcuni anni, volto a valorizzare il pensiero curatoriale e il contributo scientifico per un uso consapevole delle risorse museali. La serie conservata al MAO è infatti identica a quella presente nelle collezioni del MMFA: questo consente di realizzare una mostra in cui non siano le opere a viaggiare, ma la visione curatoriale e l’apparato educativo che la accompagnano.

Il progetto è curato da Laura Vigo, conservatrice di arte asiatica presso il MMFA, e si avvale dei contenuti didattici sviluppati dal museo canadese in occasione della presentazione della serie nel 2024, proposta allora con la medesima chiave interpretativa.

Installation view, “Paesaggi da sogno. Le 53 stazioni della Tokaido”. Foto: Studio Gonella

Realizzata per la prima volta nel 1833 e pubblicata dalla casa editrice Hōeidō di Takenouchi Magohachi, la serie riscosse un successo immediato, rivoluzionando il panorama degli ukiyo-e, le celebri xilografie a blocchi di legno. Stampata in oltre 15.000 copie, la Tōkaidō divenne un vero e proprio bestseller dell’epoca Edoaccessibile a tutti: le singole stampe costavano quanto una ciotola di ramen e venivano comprate, appese, spesso dimenticate, per poi essere riscoperte e consacrate come opere d’arte in Occidente solo nella seconda metà del XIX secolo.

Ma perché questa serie è così speciale rispetto a quelle che l’hanno preceduta? Hiroshige, artista proveniente da una famiglia samurai, ebbe l’intuizione di trasformare un tema allora già molto frequentato – il viaggio lungo la Tōkaidō, la strada di 490 km che collegava Edo (l’odierna Tokyo) a Kyoto – in un racconto visivo capace di mescolare realtà e immaginazione. Con un linguaggio accessibile e modernissimoispirato all’arte tradizionale giapponese ma con profonde suggestioni occidentali (come la prospettiva centrale, l’ombreggiatura, il formato orizzontale e l’uso del blu sintetico), Hiroshige non si limitò a rappresentare il paesaggio, ma lo reinventò. Ogni stampa è una scena onirica, atmosferica, capace di evocare sogni di viaggio e avventura.

Queste immagini non nascevano come opere d’arte da museo, ma come prodotti editoriali di largo consumo. Eppure, proprio per questo furono rivoluzionarie. Il lavoro editoriale di Takenouchi Magohachi fu cruciale: non solo nella stampa e distribuzione, ma anche nel concept narrativo e visivo dell’intera seriecostruita come una sorta di storyboard ante litteram, pensato per catturare l’attenzione di un pubblico ampio e alfabetizzato, assetato di immaginazione e novità.

La Tōkaidō era una delle cinque grandi arterie del Giappone Tokugawa, istituita nel 1601 e percorsa da daimyo, pellegrini e, col tempo, da mercanti e viaggiatori comuni. Ogni stazione di posta offriva alloggi, cibo, servizi (anche sessuali) e prodotti tipici. Hiroshige restituì tutto questo, e molto di più: trasmise il senso del movimento, la varietà degli incontri, il fascino di un paese in trasformazione. Le sue stampe trasformarono l’ordinario in straordinario, aprendo al pubblico giapponese – e in seguito anche a quello occidentale – un mondo sospeso tra realtà e sogno.

Accesso incluso nel biglietto delle collezioni permanenti.

MAO Museo d’Arte Orientale

Via San Domenico, 11, Torino

ORARI

martedì – domenica: 10 – 18. Lunedì chiuso.

La biglietteria chiude un’ora prima. Ultimo ingresso ore 17.

Anthony McCall – Solid Light alla Reggia di Venaria

Da Sabato 28 Giugno 2025 a Domenica 31 Agosto 2025

Le iniziative espositive della Reggia di Venaria spaziano in campo internazionale con la proposta dei nuovi linguaggi ed espressioni artistiche di Anthony McCall, artista britannico noto per le sue installazioni a luce solida.

Installation Photography of Anthony McCall ‘Solid Light’ Exhibition at Tate Modern

Le sue “sculture luminose” consistono in scenografici fasci di luce piani, curvi e conici tesi a delineare volumi che, come lame fisiche, percorrono spazi oscurati: alla Venaria Reale, attraverso una lettura contemporanea inedita, entrano in dialogo con gli ambienti barocchi e le prospettive della Reggiacoinvolgendo direttamente il visitatore in esperienze che espandono e superano le tradizionali performance del cinema artistico.

La mostra-evento propone alcune delle più significative installazioni dell’artista inglese.

Le opere iniziali documentano le prime esplorazioni di McCall sulle forme geometriche negli anni ’60 e ’70 con disegni e fotografie.
Si prosegue con un video digitale della performance realizzata dall’artista nel film del 1972 Landscape for Fire.
Il fulcro dell’esposizione è costituito da quattro installazioni “solid light works” esplorabili fisicamente da parte del pubblico che può attraversarle con il corpo, interagendovi nella totalità.

Solid Lights si inserisce nell’ambito del programma Into the Light dedicato al tema della luce che denota un ampio cartellone di eventi, iniziative, mostre ed attività fino al 2026.


Realizzata in collaborazione con Tate, UK, con la cura di Gregor Muir, Director of Collection at Tate Modern – Exhibition Curator e di Andrew de Brún, Assistant Curator of International Art at Tate Modern – Exhibition Co-Curator .

IL TEMPO NELL’ARTE. La settima… compresa

Quanto è lo scarto temporale richiesto in un’opera letteraria e cinematografica dal momento della sua presentazione al pubblico rispetto alla sua ambientazione temporale?
Probabilmente la domanda è un po’ criptica, ma nasconde dati di fatto piuttosto angolari.
George Orwell, famoso studioso inglese, scrisse il suo romanzo ‘1984’ in un allora lontano 1949, cioè all’inizio della Guerra Fredda, una guerra non guerreggiata ma che per decine di anni dividerà l’intero pianeta fra due opposte ideologie.
La trama è conosciuta ai più ma, sintetizzabile; lo scrittore descrive in un lontanissimo 1984 (solo 35 anni dal 1949) tre macro società mondiali in lotta fra loro. Viene disegnata una realtà politica planetaria, globale, inimmaginabile per chi scrive quel romanzo solo pochissimi anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Il romanzo si avviluppa però attorno alla macro realtà OCEANIA, governata da un onnipresente Grande Fratello che governa tutto e tutti grazie a una polizia spietata ed efficientissima, assistita da futuribili tecnologie ancora inimmaginabili (!!!) al giorno d’oggi.

Quando ho letto il libro negli anni ’70 ero uno svogliato studente di liceo e nell’anno che titola il romanzo (1984) avevo solo 29 anni. Come è stato possibile per il grande scrittore preconizzare una spaventosa ma futuribile e super avanzata Società mondiale, solo un pugno di anni dopo la pubblicazione del suo lavoro?

Ma quanto futuro distopico e futurista avrebbe potuto svilupparsi in soli 35 anni? Nei fatti, dittatura nazi-stalinista a parte (il vero soggetto del romanzo), tecnologicamente il mondo non è così cambiato rispetto al primo dopo guerra.

La fantascienza al cinema porta esempi abbagli temporali ancora più macroscopici.

Tanti sono gli esempi: il mitico film Blade Runner (sugli schermi già nel 1982) mostrava una distopica ma iper-tecnologica società vissuta dai protagonisti nel … 2019!
In quell’anno il film mostra una incomprensibile e irriconoscibile Los Angeles, ricca di astronavi, palazzi altissimi (forse chilometri), robot umanoidi dalle capacità sovrumane, lontanissime colonie da gestire e sottomettere a distanze per noi neanche concepibili (… navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione… i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser). Tutta questa futuribilità si realizzava niente meno che… SEI ANNI FA.

Tornando alla realtà di tutti i giorni, sono già passati sei anni dalla Los Angeles del film, che resta però quella di sempre, magari ancora un po’ bruciacchiata dagli incendi nei pressi di Hollywood, ma resta sempre quella che tutti conosciamo.

E parlare del primo Terminator, interpretato dal giovane Arnold Schwarzenegger nel 1984?
Anche questo è un famoso cult osannato da pubblico e critica. Nel film il gigante austriaco interpreta il guerriero angelo protettore delle protagoniste in arrivo negli anni ’80 nientemeno che dal … 2029. In effetti mancano ancora 4 anni, e qualcosa può ancora cambiare nel nostro immediato futuro; difficilmente però vivremo quello che ha reso famosi i protagonisti del film.

Il caso più eclatante di questa carrellata di successi cinematografici ricchi di genio, fantasia e rare capacità; non possiamo però eludere gli impressionanti errori sul passare del tempo da tutti visti in 2001, Odissea dello Spazio.
Già solo nel titolo è evidente l’ossimoro.
L’indimenticabile film di Kubrick è uscito nel 1968 e parla della missione dell’astronave Discovery verso Giove (scelta, tra l’altro, contenente un errore astrofisico clamoroso. Giove è pianeta gassoso e non roccioso come la Terra, Marte o Venere: impossibile quindi da ‘toccare ed esplorare’).
Ma, viaggio verso Giove a parte, nel film l’anno 2001 vedeva già astronavi-navetta da e per la Luna, organizzate approssimativamente come i nostri attuali voli di linea.
Purtroppo per gli autori (Clark il romanziere e Kubrik il regista del film) dal 1968 al 2001 mancavano solo 23 anni.
Nel mondo reale il 2001 sarà ricordato, nel bene, per la nascita di Wikipedia, e nel male per la distruzione delle Torri Gemelle di New York. Chissà se i nostri nipoti potranno veramente viaggiare dalla Terra alla Luna sulle stupefacenti navette del film. Potrebbe forse essere ma noi – Super Musk permettendo – non ne siamo per niente certi.

In questo pezzo estivo abbiamo certamente guardato il pelo nell’uovo, ce ne rendiamo conto. Si dirà infatti che l’Arte può permettersi di essere ben superiore rispetto a simili particolari.

Quando si tratta di Futuro con la F maiuscola crediamo però che risparmiare sugli anni non sia attività redditizia.

Un paio di secoli per un ‘robusto futuro possibile’ possono bastare .. ma potremmo consigliare pure di più.

Ferruccio Capra Quarelli

L’arte che nasce dalle crepe dell’asfalto

Al torinese “PAV – Parco Arte Vivente”, Centro Sperimentale d’Arte Contemporanea, la prima mostra istituzionale dell’americano Alan Sonfist

Fino al 19 ottobre

Classe 1946, newyorkese cresciuto nel South Bronx, Alan Sonfist è universalmente noto come il “pioniere”, l’“apripista” della “Land (o Earth) Art”. Certamente fra i più rigorosamente “fedeli” a quell’arte (che coinvolse con le più varie sfaccettature artisti del calibro di Robert Smithson, Dennis Oppenheim, Jean Claude e Christo, fino al nostro Alberto Burri)  “fatta con – e nella – natura”, nata negli Stati Uniti nel decennio ’67 – ’78, in antitesi con il “figurativismo” della “pop art” e le fredde “geometrie” della “minimal art”. A regalare, da subito, a Sofist la notorietà, il suo “Time Lanscape”, una sorta di scultura ambientale datata 1965, un appezzamento rettangolare (tuttora in via di compimento e trasformazione) situato nella parte sud di Manhattan, all’angolo fra West Houston Street e LaGuardia Place nel “Greenwich Village” di New York City, dove l’artista insieme a una numerosa comunità di esperti, urbanisti, biologi, architetti e politici locali, per 13 anni ha studiato e creato una “foresta”, la prima “foresta urbana” del genere, abitata da piante precoloniali. Non un parco né una riserva naturale, ma “un monumento pubblico vivente e in mutamento, che gli uccelli, il vento e la presenza umana circostante modificano lentamente ancora oggi ogni giorno”. Opera studiata e progettata insieme ad altri fantasiosi (ma insieme concreti) interventi successivi sull’ambiente, di cui è data specifica contezza nella mostra “Seeds of Time” (“Semi del Tempo”), la prima in Italia, dedicata dal “PAV” di via Giordano Bruno a Torino, fino a domenica 19 ottobre, al grande artista statunitense. Curata da Marco Scotini, la rassegna – inserita nell’ambito di “Exposed, Torino Foto Festival”, con il sostegno di “Compagnia di San Paolo” e “Fondazione CRT” –  intende, soprattutto, approfondire i primi anni di attività di Sonfist (“archeologo visivo”, per sua stessa autodefinizione) per mettere in luce le peculiarità di quei suoi “monumenti pubblici” attraverso i quali guardare “non più solo agli eventi della storia umana – spiega Scotini – ma a quelli che celebrano l’intero ecosistema naturale, rivitalizzando così la storia dell’ambiente e delle diverse specie di un luogo”.

E proprio partendo dall’interesse “per l’interazione della natura negli ecosistemi urbani”, la mostra di Sonfist al “PAV” si apre con l’installazione a lui commissionata di “Growth Between the Cracks” (2025), opera curiosa, assolutamente singolare e non priva di genialità, che nasce partendo dall’invito fatto dall’artista alla comunità locale di  raccogliere nel perimetro della città di Torino campioni di terra nelle crepe dell’asfalto, negli interstizi dei marciapiedi e negli spazi liminali solitamente ignorati. Gran lavoro e materiale in abbondanza per i cittadini torinesi! Che, di certo, non hanno vieppiù che l’imbarazzo della scelta nel discernimento delle “buche” stradali più generose per adempiere al compito loro assegnato. E poi? E poi, si sottolinea, “le piante e i semi contenuti nel suolo raccolto e successivamente portati al ‘PAV’ vanno e andranno a costituire una mappatura frammentata della città, un carotaggio che racconta la storia di una via o di un quartiere attraverso la presenza di vegetali autoctoni o che testimoniano migrazioni a volte risalenti a ere o geografie lontane”.

In mostra troviamo anche gli scatti fotografici che illustrano il momento più “performativo” di Sonfist legato ai suoi esordi artistici, quelli più intensamente vincolati al rapporto, anche strettamente fisico, con la grande sua “musa ispiratrice”, quella “natura” che è “albero da abbracciare” per confrontarne le dimensioni rispetto al suo corpo (“Myself Becoming One with the Tree”, 1969) o “soggetto per studiare il comportamento animale, diventando egli stesso animale, tigre in ‘Tiger Chance Kill’ (1972 – ’74) o gorilla in ‘Territorial Gorilla Invasion’ (1972 – ’73)”.

A completare la rassegna anche la memoria di uno dei più ambiziosi e grandiosi progetti firmati da Sonfist, quel “Circle of Time” (1986), attraverso il quale l’artista documenta la storia del “paesaggio toscano” attraverso “sette anelli concentrici” (e qui la memoria va all’enorme “Spiral Jetty” creata nel ‘70 con cristalli di sale, sabbia e rocce basaltiche, per inventarsi una spirale che incorniciasse una piccola isola artificiale sulle rive del “Grande Lago Salato” dello Utah, da Robert Smithson!) che rappresentano ognuno una nuova fase dell’uso del territorio, portando alla luce la complessa relazione tra l’essere umano e la terra.

Nell’ambito dell’inaugurazione della mostra, giovedì 15 maggio scorso, le AEF/PAV (“Attività Educazione Formazione”) hanno realizzato anche un proficuo incontro – con la collaborazione di Carmen Concilio, “Dipartimento Lingue e Letterature Straniere” e “Culture Moderne” di “UniTO” – fra Alan Sonfist e le persone che hanno partecipato alla call to action lanciata dall’artista, contribuendo alla realizzazione dell’installazione “Growth Between the Cracks” (2025).

Gianni Milani

Per info:  “PAV – Parco Arte Vivente”, via Giordano Bruno 31, Torino; tel. 011/3182235 o www.parcoartevivente.it

Nelle foto: Alan Sonfist “Time Landscape”, fotografia, 1965; “Myself Becoming One with My Tree”, serie fotografica autoritratti, 1969; Workshop _ “84 Semi del tempo: crescita tra le crepe”, 2025

“Olimpia – Prova d’orchestra” Biennale di Arte Contemporanea in Alta Langa

Dal 5 luglio al 31 agosto

Alta Langa (Cuneo)

Intrigante il titolo dell’evento “Olimpia”, che ci rimanda all’antica “Olimpia” (oggi “Archea Olympia”), città greca del Peloponneso dove si svolsero, dal 776 a. C. al 393 d. C., i primi “Giochi Olimpici” della Storia; e non meno intrigante il sottotitolo “Prova d’orchestra”. L’iniziativa, infatti, tutta e con varie sfaccettature dedicata all’“arte contemporanea”, intende proprio presentarsi come una perfetta “Prova d’orchestra”, capace di mettere insieme in un’unica sinfonia le più varie espressioni delle attuali prove d’arte visiva (dalle performance alle installazioni site-specific), senza dimenticare la musica, la letteratura e il paesaggio stesso (come elemento non meno decisivo alla completezza del messaggio estetico), interpellando e dando spazio alle più interessanti e  giovani voci della “contemporaneità” di casa nostra.

Programmata da sabato 5 luglio a domenica 31 agosto, l’iniziativa – curata dalla Galleria “Lunetta11” di Mombarcaro (Cuneo) e organizzata dall’“Unione Montana Alta Langa” con la collaborazione di “Fondazione La Masa”di Venezia, “Recontemporary Torino” e “Firenze Jazz Festival”  – coinvolgerà ben sette Comuni della Provincia Cuneese del Basso Piemonte: da Cortemilia a Prunetto, da Paroldoa Castino, a Camerana, Serravalle Langhe e Niella Belbo.

“Il programma – sottolineano gli organizzatori – è un racconto a tappe, per costruire un percorso immersivo e itinerante”.

La prima tappa, sabato 5 luglio (alle ore 17), ci condurrà all’“Ecomuseo dei Terrazzamenti e della Vite” di Monteoliveto a Cortemilia , con l’inaugurazione dell’installazione “Fairy Ring”di  Stefano Caimi, lecchese di Merate, oggi residente a Montevecchia e docente alla “Naba Computer Art – Nuova Accademia di Belle Arti”.L’opera si presenta composta da una serie di “sfere di acciaio” disposte a forma di anello sul terreno, con l’intento di riportare alla memoria e alla luce il cosiddetto “cerchio delle streghe”, secondo antiche leggende popolari il tracciato delle loro danze rituali. In realtà, nulla più della manifestazione del “micelio”, l’apparato vegetativo, sotterraneo e invisibile, del fungo, mezzo principale di assorbimento e distribuzione dei nutrienti. “L’installazione intende rimarcare – secondo Caimi – la capacità dell’elemento naturale, maestoso o nascosto che sia, di incuriosire e stregare l’essere umano, rompendo le barriere tra razionale e soprannaturale”. E, in questo caso, c’è da dire che il “gioco” appare perfettamente riuscito.  Sempre sabato 5 luglio, l’“Oratorio di San Michele” a Serravalle Langhe, dipinto dall’artista britannico David Tremlett nel 2020, si trasformerà, fino a domenica 13 luglio, in uno “studio d’artista” dove sarà possibile vedere all’opera la videoartista Emma Scarafiotti e il musicistaPaolo Dellapiana .

Domenica 6 luglio, alle 15, gli Otto cieli” , le sculture volanti dell’artista “fanciullino” Oliviero Fiorenzi , voleranno sopra il “Castello di Prunetto”, invitando il pubblico a partecipare all’azione performativa dell’artista marchigiano con il proprio aquilone.

Sabato 12 luglio, la giornata di “Olimpia” si apre, alle 11, a Niella Belbo, con la presentazione di Fioritura” , la plastica essenziale scultura del giovane cremasco Edoardo Manzoni, in cui è ben chiaro l’influsso esercitato da un mondo contadino da sempre, particolarmente caro all’artista e che rimarrà in permanenza alla “Confraternita dei Battuti”.

Alle 15, la “Torre medievale” di Camerana accoglierà Come due gocce d’acqua” , opera site-specific di Dora Perini , realizzata in collaborazione con la “Fondazione Bevilacqua La Masa” di Venezia, mentre, alle 17, alla “Confraternita di San Sebastiano” a Paroldo, si presenterà, in collaborazione con la “Fondazione Recontemporary” di Torino, la mostra “Listen to me, why is everything so hazy?” della fotografa e videoartista milanese Mara Palena.

Ma “Olimpia” non sarà solo “arte visiva contemporanea”.

Domenica 13 luglio, alle 17, a “San Bovo di Castino”, andrà in scena una rilettura di 1984” di George Orwell , un reading sonoro tra letteratura e musica dal vivo a cura dello scrittore Giuseppe Culicchia e del musicistaGiorgio Li Calzi, in collaborazione con il“Firenze Jazz Festival”.

Tutte le opere (fatta eccezione per lo “studio d’artista” di Serravalle Langhe) rimarranno visibili durante i weekend (venerdì, sabato e domenica), fino al 31 agosto.

 

Info e programma completo: www.olimpiacontemporanea.com

g.m.

Nelle foto: Oliviero Fiorenzi “Giant Kite”, 2024 (ph. credit Matteo Natalucci); Stefano Caimi “Fairy Ring”, 2023; Edoardo Manzoni “ Fioritura”, 2023; Giuseppe Culicchia

Renzo Rolando, omaggio alla natura morta

A Casale Monferrato, un singolare omaggio alla natura morta attraverso la personale di Renzo Rolando, versatile artista, pittore, restauratore di affreschi, autore di meridiane e di libri che, con documenti e fotografie del passato, riportano in vita personaggi, artisti, monumenti, chiese, vecchie osterie e botteghe, tutto un mondo suggestivo ormai scomparso ed ancora rimpianto.

GRB

I Templari in Val di Susa

 Andare in montagna significa anche scoprire la storia delle nostre vallate, dei nostri borghi, della gente che ci abita, di tradizioni e costumi che sembravano perduti ma che in realtà sono ancora vivi e presenti e ci raccontano storie che neanche conoscevamo.

Recarsi per esempio in Val di Susa, così vicina a Torino e così ricca di memorie storiche, significa ripercorrere fatti ed eventi che affondano le radici ben prima dell’era cristiana. Da Annibale che con 30.000 uomini e 37 elefanti da battaglia valicò nel 218 a.C. il Moncenisio o forse il Monginevro, ma non si escludono altri passaggi come sul Piccolo San Bernardo o addirittura sul Monviso, ad Augusto che a Susa, 2000 anni fa, di ritorno dalla Gallia, si fermò a Segusium (Susa romana) per fare la pace con le bellicose tribù delle Alpi Cozie. Da Costantino il Grande che nel 312, proveniente dalla Britannia e diretto a Roma, scese a Susa per sbaragliare le truppe dell’usurpatore Massenzio fino a Carlo Magno che alle Chiuse di Susa (le rovine delle fortificazioni sono ancora parzialmente visibili) sconfisse nel 773 i Longobardi di Desiderio che il torinese Massimo d’Azeglio ha illustrato in un prezioso bozzetto. Grande storia, grandi eventi hanno segnato la Val di Susa ma ci sono anche storie minori o anche solo oggetti e simboli che ci ricordano il passaggio da queste parti di personaggi altrettanto importanti. Come i Templari che spuntano ovunque, come i funghi in Val Sangone, e spesso vengono visti in luoghi dove in realtà non sono mai stati. E proprio una leggenda valsusina narra che i Templari sarebbero saliti alla Sacra di San Michele arrampicandosi, a piedi e a cavallo, sul monte Pirchiriano ottocento anni fa. I Cavalieri del Tempio si sarebbero ritrovati nell’antica abbazia per trattare il passaggio di alcuni monaci alla Confraternita esoterica e religiosa dei Rosacroce. Tre croci incise nella pietra accanto alla porta dell’Abbazia, la Porta di Ferro, dimostrerebbero l’attendibilità dell’incontro. È probabilmente solo un racconto popolare ma tra il Piemonte e i Templari, ordine religioso-militare fondato nel 1119, poco dopo la prima Crociata, c’è sempre stato un forte legame storico. Si sa infatti con certezza che i Templari furono presenti in molte città e paesi del Piemonte, tra cui, Cuneo, Alba, Ivrea, Moncalieri, Torino, Chieri, Casale, Vercelli e Novara. Anche in Val di Susa è stato registrato un certo via vai di templari. Da fonti storiche risulta che il più antico insediamento templare, risalente al 1170, fu presumibilmente quello di Susa e presenze templari sono state individuate nella vicina San Giorio, a Villar Focchiardo e a Chiomonte. Sorprendente e imprevisto è stato il ritrovamento negli anni Novanta, da parte di alcuni esperti guidati dalla studiosa Bianca Capone Ferrari, di alcune croci templari nel piccolo comune di San Giorio, alle porte di Susa. Una croce è murata nella facciata della canonica che in tempi antichi era quasi certamente una fortezza da cui si controllavano i movimenti nella valle attaversata dalla Dora Riparia mentre sull’arco del portale laterale di una cappella del XIII secolo, che si trova nei pressi della chiesa parrocchiale, risplende un’altra croce templare. Si ritiene pertanto probabile che a San Giorio fosse presente un presidio militare dei Cavalieri rosso-crociati a difesa della valle e del ponte sulla Dora. È stato finora impossibile accertare il luogo esatto dell’insediamento templare a Susa (forse si tratta della chiesa di Santa Maria della Pace sulla Dora), tuttavia esistono documenti che confermano la presenza in città di una “domus templi”, come dimostra la magnifica croce a otto punte scolpita in un fianco della cattedrale di San Giusto.

Filippo Re

(foto LIGUORI)

La linea che veglia su chi è stato: il Cimitero Monumentale

Oltre Torino: storie miti e leggende del torinese dimenticato

È l’uomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nell’arte

L’espressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo l’uomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare. Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo. Non furono da meno gli autori delle Avanguardie del Novecento che, con i propri lavori “disperati”, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto “Secolo Breve”. Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di “ricreare” la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i “ghirigori” del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa l’edera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di un’arte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che l’arte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso.

 

Torino Liberty

Il Liberty: la linea che invase l’Europa
Torino, capitale italiana del Liberty
Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio
Liberty misterioso: Villa Scott
Inseguendo il Liberty: consigli “di viaggio” per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti
Inseguendo il Liberty: altri consigli per chi va a spasso per la città
Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicità
La Venaria Reale ospita il Liberty: Mucha e Grasset
La linea che veglia su chi è stato: Il Liberty al Cimitero Monumentale
Quando il Liberty va in vacanza: Villa Grock

Articolo 9. La linea che veglia su chi è stato: il Cimitero Monumentale

Il Liberty al Cimitero Monumentale
Il Cimitero Monumentale, un tempo chiamato Cimitero Generale, si trova a Nord della città, in una zona non lontana dalla Dora Riparia, nell’area del Regio Parco. Nel 1827 la città di Torino ne deliberò l’edificazione decidendo di situarlo lontano dal centro abitato, in sostituzione del piccolo cimitero di San Pietro in Vincoli, nel quartiere Aurora. L’opera si poté attuare grazie alla donazione di 300 mila lire piemontesi del marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo. Aperto nel 1828, su progetto dell’architetto Gaetano Lombardi, con disegno a pianta quadrata dagli angoli smussati, il Monumentale fu presto ingrandito con una parte aggiunta a cura dell’architetto Carlo Sada Bellagio, collaboratore di Pelagio Palagi e vincitore del concorso per la realizzazione della chiesa dedicata al primo vescovo torinese, San Massimo. Seguirono poi necessari ampliamenti, e negli anni tra Ottocento e Novecento l’alta società borghese di Torino affidò a celebri scultori il mandato per la costruzione di imponenti edicole funerarie, a solenne affermazione del prestigio raggiunto dalle singole famiglie. Proprio l’estetica Liberty, sintesi raffinata di natura, tecnica e arte, riuscì ad interpretare il compianto pietoso verso il defunto, delineando il triste tema della morte attraverso pure ed efficaci metafore di una grande arte funeraria.

Tra le opere che possiamo visionare in rigoroso e rispettoso silenzio vi è il Monumento Porcheddu, dedicato al grande ingegnere Giovanni Antonio Porcheddu, che ha introdotto in Italia la tecnica delle costruzioni in cemento armato. Figura essenziale per l’imprenditoria torinese, alla sua impresa si devono imponenti opere, quali l’immenso Stadium del 1911 (demolito nel 1946), il progetto dello stabilimento Fiat Lingotto del 1922, il Ponte Risorgimento a Roma. Il monumento, realizzato dallo scultore Edoardo Rubino e dal decoratore Giulio Casanova, è composto da un semplice sacello marmoreo su cui è posto un corpo femminile, lievemente ricoperto da un lenzuolo che ne lascia scoperto il volto e che scivola appena oltre i bordi del sepolcro. Da una parte e dall’altra di questo, quattro figure femminili, due per ciascun lato, vegliano il feretro: quelle che stanno dal lato del capo porgono su questo le mani un poco rialzate come in segno di protezione, dall’altro lato una delle due donne veglia sul corpo con il capo reclino e l’altra alza il braccio sorreggendo una lampada. La compostezza delle figure lascia trasparire una sobrietà di sapore classico, nei gesti, nei panneggi, nella postura, mentre un delicato senso di pietas avvolge con intensità l’intera struttura compositiva. Sullo sfondo compare una particolare croce con tralci stilizzati di rose nella parte verticale e motivi dorati nel lato orizzontale. Al centro della croce una corona di rose bianche è posta intorno all’inquadratura dorata con la scritta “IHS” (sigla intesa come “Gesù salvatore degli uomini”, ma in realtà è la trascrizione latina abbreviata del nome greco di Gesù). Sulla volta del portico che accoglie il gruppo scultoreo, un cielo stellato d’oro mosaicato su fondo blu inquadra una grande croce.

Un’altra opera che richiama la mia attenzione in questo luogo di assordante silenzio è il Monumento Kuster, realizzato da Pietro Canonica nel 1921. Esso mostra una figura femminile con abito succinto che, inarcando la schiena, si solleva con il busto in posa quasi teatrale, ed emerge da un giaciglio posto di fronte ad una croce. I suoi lunghi capelli sono scompigliati dal vento che gonfia anche un drappo posto sulla croce e agita le foglie morbidamente rappresentate sulla bronzea stele verticale. Tra le note di tristezza e di intenso pathos, vi aleggia in primo piano la spettacolarità della scena, la figura si pone come la “divina” del cinema muto, la nuova arte che nei primi anni del Novecento andava affermandosi in città.La protagonista del Monumento Roggeri è una fanciulla inginocchiata e piegata dal dolore, le mani le coprono il volto, e i capelli fluenti e raccolti dietro il capo le scendono fin oltre la schiena. Il lungo abito, movimentato dal panneggio di morbide linee, scende e si posa sul basamento in travertino e in parte lo ricopre. La nota di un patire intenso e irrefrenabile è il messaggio che viene dalla donna che, inginocchiata e chiusa al mondo, sembra pregare, tormentata da un affanno senza fine. Su di un lato, si intravvede appena la firma di O.Tabacchi, allievo di Vincenzo Vela, al quale succederà nella cattedra di scultura presso l’Accademia Albertina di Torino.

È ancora un’altra fanciulla ad essere al centro della composizione funebre del Monumento Maganza, posta tra colonnine in marmo verde Roja, una giovane dal volto delicato, da cui traspare una espressione affranta; una sottile tunica le avvolge lieve il corpo esile, ha un’acconciatura alla moda, con i capelli corti, il volto, appena piegato e reclinato sulla mano sinistra, sembra voler trasmettere un messaggio di triste rimpianto. Alle spalle, marmorei tralci di fiori e, dietro, la croce. Soffermiamoci ancora sull’opera che si trova sulla sinistra, entrando dall’ingresso principale del Cimitero. Si tratta di un gruppo statuario che comprende una figura velata da un ampio panneggio, rappresentata mentre sta per avvolgere in un abbraccio simbolico una giovane figura femminile in piedi, con le braccia abbandonate lungo il corpo e il capo reclinato su una spalla. Dal basamento crescono steli e boccioli di rosa che paiono voler avvolgere i corpi sovrastanti: si tratta di una sintesi di decorazione Art Nouveau, completata dalla dedica dei committenti. L’opera fu eseguita da Cesare Redduzzi, scultore affermato e insegnante di scultura presso l’Accademia Albertina, più noto ai Torinesi come l’autore dei gruppi scultorei allegorici: l’arte, il lavoro, e l’industria, collocati nel 1909 a coronare le testate verso corso Moncalieri del ponte dedicato a Umberto I.
Moltissimi sono i monumenti funebri di squisito gusto Liberty davanti ai quali sarebbe opportuno soffermarsi, e numerose le figure femminili modellate con l’estetica della Nuova Arte, o che, con il loro atteggiamento da “dive” affrante del cinema muto, sorvegliano le anime di chi non c’è più e accompagnano silenziose gli sguardi di chi le va a trovare.

Alessia Cagnotto