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Dolce crostata alla confettura

crostata3Dolce casalingo per eccellenza, la crostata alla confettura e’ una ricetta semplice che suscita emozioni e ricordi, un dolce che profuma di casa la cui ricetta spesso viene tramandata di madre  in figlia. E’ perfetta in tutte le stagioni, per tutti i gusti e situazioni.  E’ un dolce che… scalda il cuore.

 
Ingredienti
150gr. di farina 00
150gr.di farina integrale
150gr. di burro
80gr. di zucchero
2 tuorli
Un pizzico di sale
300gr. di confettura a piacere

 

Impastare velocemente  nel mixer le farine con il burro freddo tagliato a dadini, aggiungere lo zucchero, i tuorli, il sale sino ad ottenere un impasto omogeneo. Formare una palla, avvolgerla in pellicola da cucina e riporla in frigorifero per almeno mezz’ora. Stendere la pasta frolla con il mattarello e riporla in una teglia per crostate precedentemente foderata con carta forno, livellare i bordi e bucherellare il fondo con i rebbi di una forchetta. Farcire con la confettura e livellare. Stendere la rimanente pasta, tagliare delle strisce e formare una griglia, spennellare la superficie con l’albume. Cuocere in forno preriscaldato a 180 gradi per 30/40 minuti.

 

Paperita Patty

Una bruschetta perfetta

Una bruschetta saporita da mangiare in compagnia? Certo che si’! Una bella fetta di pane casereccio croccante, abbrustolito e condito con tutti gli ingredienti che la fantasia vi suggerisce. Semplicemente perfetto per ogni stagione.

Ingredienti
Fette di pane casereccio
Pomodori San Marzano o cuore di bue
1 spicchio di aglio
Filetti di acciughe sott’olio
Sale, olio evo, aceto balsamico q.b.
Rucola per guarnire
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Lavare e tagliare a cubetti i pomodori, lasciarli scolare poi, condirli con olio, sale ed aceto balsamico. Abbrustolire le fette di pane casereccio su una piastra, strofinarle leggermente con lo spicchio di aglio, sistemarle su un piatto da portata, condirle con il pomodoro ed i filetti di acciuga sott’olio. Servire su un letto di rucola fresca.

Paperita Patty

Al via la "San Giuseppe", la fiera di Casale

PRONTA A PARTIRE L’EDIZIONE NUMERO 73 ALL’INSEGNA DELL’INNOVAZIONE NELLA TRADIZIONE
 
                                
Alle ore 18 di venerdì 15 marzo, al Polo Fieristico Riccardo Coppo di Casale Monferrato, verrà tagliato il nastro per l’inaugurazione della settantatreesima edizione della Mostra Regionale di San Giuseppe che sarà all’insegna della ‘Innovazione nella Tradizione’ per evidenziare le tipicità ed i valori di Casale Monferrato, del Casalese e dell’intero territorio piemontese. Ad organizzarla, all’insegna della continuità con la tradizione, è la D&N Eventi di Casale Monferrato, società composta da tre imprenditrici monferrine. “Anche quest’anno apre i battenti la San Giuseppe, da 73 anni l’appuntamento più popolare nel del nostro territorio – dice il sindaco di Casale Monferrato, Titti Palazzetti – il Polo Fieristico Riccardo Coppo si rivela ancora una volta l’ambiente ideale per ospitare una manifestazione di questo genere. Il tema “Innovazione nella tradizione” esprime bene lo spirito della nostra città, continuità nel conservare la propria identità culturale e capacità innovativa per restare al passo con i tempi muovendo dalle proprie radici, da un patrimonio di laboriosità e di cooperazione che costituiscono il dna del nostro tessuto produttivo”. Il vice sindaco ed assessore alle attività Angelo Di Cosmo evidenzia che; “Da oltre settant’anni la fiera è un momento di riferimento, e di misura, per l’imprenditoria locale eper le nostre comunità, soprattutto per le piccole imprese che cercano di presentarsi ogni anno in veste rinnovata per sollecitare un continuo interesse, offrendo un’importante dose di vitalità all’economia locale”. A sua volta l’assessore alla cultura, turismo e manifestazioni Daria Carmi, sottolinea che: “Con l’occasione della Mostra, la città e l’intero territorio, quello casalese e monferrino, si mettono in vetrina con numerosi stand di promozione delle nostre eccellenze economico-produttive, al paesaggio, alle eccellenze gastronomiche, socio-culturali,  storico-artistiche, senza contare le associazioni di volontariato”.  Interviene il Presidente della Provincia di Alessandria, Gianfranco Baldi: “Si tratta della seconda edizione da quando sono diventato Presidente della Provincia di Alessandria e non nascondo che l’anno scorso sono rimasto colpito nel vedere quanto l’Ente che presiedo sia rappresentato da decine di espositori privati ed istituzionali. Sono fermamente convinto che soltanto un territorio unito, che sappia fare sistema possa avere l’ambizione di essere attrattivo turisticamente e diventare un volano per lo sviluppo economico. Un affettuoso saluto all’Amministrazione Comunale, agli organizzatori, a tutti i visitatori”. Federico Riboldi, Vice Presidente della Provincia ricorda che “Per oltre sette decenni la San Giuseppe è stato l’evento clou della Città , la fiera dove tutte le aziende e gli operatori partecipavano non solo per approfittare dell’importante evento promozionale ma anche in una sorta di sfida a chi allestiva lo stand più grande o più bello. Oggi, è un evento diverso, generalista, dove si possono trovare molteplici prodotti, diventando così un polo attrattivo per visitatori da tutto il territorio. Per il futuro la speranza è che la Fiera sia sempre più una vetrina internazionale del prodotto tipico monferrino che, impreziosito dal riconoscimento di Patrimonio Unesco, esplode in questi anni in tutta la sua unicità e qualità”. Per la D&N Eventi, Nicoletta Cardillo, Daniela Cattaneo e Rossella

Frenna, le tre socie tutte impegnate in prima persona nell’organizzazione sottolineano che: “Questa edizione è all’insegna della ‘Innovazione nella Tradizione’. Tradizione che come società organizzatrice di Casale Monferrato abbiamo voluto preservare, evidenziando le tipicità ed i valori di Casale Monferrato, del Casalese, del Piemonte e confermando gli ingredienti che hanno portato la nostra Mostra Regionale ad essere un punto di attrazione non solo per gli imprenditori locali ma che giungono – possiamo dirlo con una punta di orgoglio – da diverse regioni italiane. Per questo abbiamo confermato l’ingresso gratuito ed il percorso obbligato a giorni alterni, non modificando la grafica, che è quella degli ultimi anni, se non degli ultimi decenni, e confermando anche eventi che accompagnano la Fiera da anni, come Arteinfiera, unicum nel mondo fieristico che compie 25 anni, la presenza dei Comuni Fioriti e di Coniolo Fiori, il Festival Canoro all’ottava edizione e tanto altro. Ma ci sono anche delle novità tra le quali, uno degli assi portanti sarà l’enogastronomia con la creazione dell’Eno-area o ‘Piazza del Vino’ dove, grazie alla presenza del Consorzio Barbesino e di altri produttori enologici, avverranno momenti di degustazione di Vini locali. Cambia anche il ristorante: avremo una ‘Polentoteca’ che servirà, oltre a tante varietà di polenta, piatti tipici della tradizione piemontese accompagnati dai vini del Piemonte presenti in Fiera, frutto di una collaborazione e sinergia che vogliono promuovere il territorio ed i suoi meravigliosi prodotti. Accanto a questi ci saranno sapori e gusti, come sempre da tutta Italia, nell’ormai famosa ‘Piazzetta del Gusto’. Altra importante novità di questa 73° Edizione è la creazione dell’Area Green Farm, dove accanto alla splendida ambientazione floreale creata da Vivai Varallo, ci saranno gli appena citati Coniolo Fiori, Comuni Fioriti, l’Istituto Luparia di San Martino di Rosignano, partner ufficiali di questa importante Fiera settoriale dedicata al Verde e all’Agricoltura, insieme alla Camera di Commercio di Alessandria, Confagricoltura Alessandria, Coldiretti Alessandria e Confartigianato Imprese Alessandria. All’interno dell’area open space di 180 metri quadrati denominata appunto ‘Monferrato Green Farm’ che si svolgerà sempre all’interno del Polo Fieristico Riccardo Coppo ad aprile 2020, verranno illustrati alcuni ingredienti che la caratterizzeranno, come i corsi Workshop sulla potatura di varie tipologie di piante. Possiamo senza dubbio affermare che la presentazione ufficiale di questo prossimo importante evento, all’interno della San Giuseppe 2019, rappresenti un ottimo connubio tra passato e futuro ricordando che la stessa San Giuseppe nacque molti anni orsono come Fiera Agricola. Infine, augurando a tutti buon divertimento e buona visita vogliamo rivolgere un particolare ringraziamento a tutti coloro che hanno creduto in noi a partire dal sindaco Titti Palazzetti, al vice sindaco Angelo Di Cosmo, all’assessore Daria Carmi”.
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LA MOSTRA DI SAN GIUSEPPE OSSERVERA’ I SEGUENTI ORARI:
Feriali: dalle 18 alle 23
Sabato: dalle 15 alle 23
Domenica 17: dalle 11 alle 23
Domenica 24: dalle 11 alle 22

I grandi terroir del Barolo

Un evento ideato da Go Wine

“I grandi terroir del Barolo”, evento ideato da Go Wine, sabato 23 e domenica 24 marzo a Monforte d’Alba, presso le eleganti sale del Moda Venue (Via Cavour, 10), nel centro storico del paese. Il programma prevede banchi d’assaggio alla presenza delle aziende, esclusive degustazioni guidate e un master dedicato al Barolo : una formula che consentirà in un week-end di approfondire “sul campo” la conoscenza della nuova annata di uno  dei più grandi vini del mondo. Ma non finisce qui…: in degustazione una selezione di grandi vini italiani legati a cru o terroir particolari affiancherà i dialoghi con il Barolo.

LE DEGUSTAZIONI GUIDATE 
Il programma prevede oltre alle degustazioni al banco d’assaggio tre appuntamenti di approfondimento condotti dal giornalistaGianni Fabrizio (curatore della guida ai vini del Gambero Rosso).

Sabato 23 marzo
– ore 15.30: “I percorsi nei terroir del Barolo: da Verduno a Barolo”. 
Domenica 24 marzo
– ore 11:00: “I percorsi nei terroir del Barolo: da Barolo a Serralunga”.
– ore 15.30: “Barolo e Brunello di Montalcino” vini e terroir a confronto. 

E’ obbligatoria la prenotazione


IL MASTER SUL BAROLO
Una giornata di approfondimento sul campo in cui si potrà approfondire la conoscenza di questo vino fra lezioni, percorsi nel territorio di produzione e degustazioni. 

Il master si svolgerà nella sola giornata di sabato 23 marzo, con il seguente programma: 
Ore 9,30 Ristorante Moda: ritrovo dei partecipanti e accredito
Ore 9,45 sala degustazioni: lezione introduttiva:
a)il disciplinare
b)il territorio e i suoli
c)il vitigno nebbiolo
d)le menzioni geografiche aggiuntive
Ore 10,45 inizio del Barolo Tour in bus
Ore 11,00 Enoteca Regionale del Barolo:
Conoscere l’istituzione, la sua storia, le attività, il castello di Barolo. Un calice di Barolo di benvenuto.
Ore 12,00 trasferimento a La Morra 
La vigna di Brunate, il paesaggio del Barolo da La Morra
Ore 12,45 Brunch in cantina 
Ore 14,00 trasferimento verso un altro sito storico del Barolo: la collina di Cannubi
Breve comunicazione con dialoghi in vigna: le vigne storiche del Barolo.
Ore 15,00 trasferimento verso il sito di Serralunga e percorso guidato osservando i vari terroir
Ore 15,30 Un calice in vigna: cammineremo uno dei grandi terroir del Barolo di Serralunga e assaggeremo un Barolo che proviene da quella vigna.
Ore 16,30 ritorno al Ristorante Moda e assaggi finali al banco d’assaggio con le cantine presenti all’evento.
Ore 19,00 fine della giornata e consegna degli attestati.
Costo della giornata euro 50,00 per i soci Go Wine e euro 60 per i non soci.

I posti sono limitati. Per esigenze di organizzazione è obbligatoria la prenotazione entro il 14 marzo.  Per info e prenotazioni: tel. 0173 364631 oppureufficio.soci@gowinet.it

L’uomo e il cosmo (parte seconda)

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Con l’ausilio di diapositive, il prof. Galeotti offrirà una visione a 360 gradi della storia delle scoperte sul cosmo, dall’antica Grecia fino ai nostri giorni, delineando le conoscenze e le credenze dell’uomo sulla volta celeste, a partire dalle varie teorie che si sono succedute nei secoli

Via Maria Vittoria 12 – Torino
Martedì 12 marzo 2019, ore 18
L’uomo e il cosmo (parte seconda)
Struttura e costituenti dell’universo
Piero Galeotti, astrofisico e docente universitario
L’associazione Cromie – Vivere a Colori, con il patrocinio della Città Metropolitana di Torino, organizza un incontro-conferenza del Prof. Piero Galeotti, noto astrofisico e docente universitario su “L’uomo e il cosmo“, seconda parte. Con l’ausilio di diapositive, il prof. Galeotti offrirà una visione a 360 gradi della storia delle scoperte sul cosmo, dall’antica Grecia fino ai nostri giorni, delineando le conoscenze e le credenze dell’uomo sulla volta celeste, a partire dalle varie teorie che si sono succedute nei secoli. “In principio era il … la Voragine, un vuoto oscuro, un abisso cieco, notturno, sconfinato dove nulla può essere distinto …” Al termine, dibattito con il pubblico e, a seguire, brindisi conviviale. I posti sono limitati, occorre prenotare al 338/2539740. I soci di Cromie hanno la priorità. Piero Galeotti, Professore di Fisica Sperimentale all’Università di Torino, svolge attività scientifica nel campo della fisica astroparticellare. E’ famoso per le ricerche di astrofisica neutrinica effettuate nel laboratorio del Monte Bianco e in quello del Gran Sasso per studiare le fasi evolutive finali di stelle che possono esplodere come Supernove. Altre ricerche riguardano lo studio dei raggi cosmici di altissima energia dalla Stazione Spaziale Internazionale (ISS). E’ autore di libri e pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali. Associato al CERN e Vice Presidente del Planetario di Torino. Ha partecipato e partecipa tuttora come relatore di conferenze e incontri in diversi Paesi del mondo. In riconoscimento della sua attività di ricerca, didattica e divulgativa l’Unione Astronomica Internazionale ha attribuito il suo nome al pianetino JR134 (20461) scoperto nel maggio 1999.
MOMENTO CONVIVIALE OFFERTO DAL RISTORANTE IMBARCO DEL RE DA PEROSINO VIALE VIRGILIO 53 
 
 

La rustica crostata di carciofi

Una ricetta dedicata agli amanti dei carciofi. Una classica torta rustica, un abbraccio di sfoglia dorata e croccante che racchiude uno squisito ripieno dall’aroma intenso e inconfondibile di questi ortaggi. Gustosa e deliziosa. 

Ingredienti 

6 carciofi 
2 fette di prosciutto cotto 
1 confezione di pasta sfoglia 
3 uova 
50gr. di parmigiano grattugiato 
1 provola fresca 
Sale, pepe, olio, prezzemolo, timo q.b. 
1 spicchio d’aglio 
50ml. di latte 

Pulire i carciofi, tagliarli a fettine sottili e cuocerli in padella con poco olio, uno spicchio d’aglio, il timo, il prezzemolo ed un pizzico di sale.  Stendere la sfoglia in una teglia da forno, bucherellare il fondo con una forchetta, coprire con il prosciutto cotto, coprire con i carciofi cotti e le fette di provola. Sbattere le uova con il sale, il pepe, aggiungere il latte e versare sul ripieno. Cospargere con il parmigiano e cuocere a 180 gradi per 30 minuti. Servire con una fresca insalatina. 



Paperita Patty 

I ‘Salotti Letterari’ di Arte e Moda

Si presenta il libro di Sarah Zaramella ‘Scalza …’          
Sarah Zaramella, autrice di origine romana che vive a Chieri, presenta il suo libro ‘Scalza … percorro le strade che portano al cuore’ nell’ambito dei ‘Salotti Letterari’ di Arte e Moda Casale. “Come era stato anticipato in occasione dell’avvio del nuovo concept – spiega Cinzia Sassone, anima dell’iniziativa – oltre ai corsi lo spazio polifunzionale viene messo a disposizione per ospitare altre esperienze artistiche e letterarie. L’appuntamento è per mercoledì 13 marzo 2019, alle ore 17.30, a Casale Monferrato, in viale Morozzo di San Michele 5, nella sede di Arte e Moda Casale Monferrato. I l ‘Salotto Letterario’ verrà introdotto da un intervento di Cinzia Sassone. Il libro parla di un percorso esperienziale nel quale l’autrice decide di condividere parti essenziali per poter accompagnare nel cammino altre vite. Un mattino del 2011, Sarah si guarda allo specchio e si chiede chi è quella donna. Mette così in discussione tutta la sua vita, le scelte fatte fino ad allora, il suo matrimonio, la sua figura di figlia, moglie e madre. Da questo momento di grande devastazione interna inizia il Risveglio della Consapevolezza. Nella vita tutto può essere giusto e tutto può essere sbagliato. Le conoscenze, i libri, gli studi, contribuiscono ad arricchire il proprio essere, ma solo attraverso l’esperienza vissuta, la relazione, si può trasferire quell’aiuto concreto per continuare il cammino. Mettersi a nudo con questo libro, in cui sono riportati stralci nei suoi diari, le ha permesso sempre più di diventare quell’Osservatore Amorevole ed Accogliente per se stessa e per gli altri.L’ingresso all’incontro è libero e aperto a tutti.Per informazioni e contatti : tel 0142590395
Facebook: arteemoda Casale Monferrato
mail arteemoda.casalemonferrato@gmail.com
 

Dolci Bugìe di Carnevale

bugieUna golosa variante sono le bugie ripiene, una sfoglia croccante che racchiude un cuore di marmellata, nutella, crema pasticcera e perché no, mostarda di frutta

In Piemonte le chiamiamo “bugie”. Sono le classiche chiacchiere, il dolce tipico del carnevale. Una golosa variante sono le bugie ripiene, una sfoglia croccante che racchiude un cuore di marmellata, nutella, crema pasticcera e perche’ no, mostarda di frutta. Friabili, cosparse di candido zucchero a velo, sono una vera tentazione  per tutti.

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Ingredienti:

400gr. di farina 00

60gr. di burro

50gr. di zucchero

3 tuorli

0,5 dl di cognac

Latte, q.b.

Scorza limone grattugiata

Un  pizzico di sale

Olio per friggere

Ripieno a piacere

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Impastare la farina con lo zucchero, i tuorli, il liquore, il burro fuso, la scorza di limone grattugiata e il sale. Aggiungere il latte fino ad ottenere un impasto elastico. Fare una palla e lasciar riposare a temperatura ambiente per 30 minuti. Stendere la pasta con il mattarello fino ad ottenere una sfoglia come si fa con i ravioli, mettere un cucchiaino di marmellata, inumidire i bordi con poca acqua e coprire con altra sfoglia, tagliare nella forma desiderata con una rotella dentata. Friggere con olio d’oliva in una pentola a bordi alti, scolare e quando fredde cospargere di zucchero a velo.

Paperita Patty

Nuovo Presidio Slow Food, è il cavolfiore di Moncalieri


Presentazione lunedì 4 marzo alle 18,30 presso il ristorante La Cadrega 
Il Presidio Slow Food è un potente strumento di difesa delle piccole produzioni tradizionali. A oggi il progetto coinvolge più di 13.000 realtà produttive che con il loro lavoro sostengono l’economia locale, producono reddito, tutelano l’ambiente e salvano dall’estinzione razze autoctone, varietà locali di frutta, ortaggi e tecniche artigianali. Per diventare Presidio il prodotto, oltre che essere buono, deve seguire un rigido disciplinare e «deve rispettare canoni di sostenibilità ambientale: la tutela della fertilità della terra e degli ecosistemi idrografici, l’esclusione delle sostanze chimiche di sintesi, il mantenimento delle pratiche tradizionali di coltivazione e gestione del territorio. Ma deve anche essere sostenibile da un punto di vista sociale: i produttori devono avere un ruolo attivo e una totale autonomia nella gestione dell’azienda, devono collaborare, decidere insieme le regole di produzione e le forme di promozione del prodotto, possibilmente riunendosi in organismi collettivi» precisa Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità. L’ultimo arrivato tra i Presìdi Slow Food è il cavolfiore di Moncalieri coltivato a ridosso delle colline a sud di Torino. Le origini di questo ecotipo sono francesi: probabilmente è stato introdotto in Italia quando i Savoia si sono insediati in Piemonte, con gli ortolani e i giardinieri della Casa Reale al seguito. Fino agli anni Settanta, non c’era famiglia contadina dell’area che non coltivasse questa varietà, particolarmente apprezzata e ricercata per via delle ottime caratteristiche organolettiche. La produzione è andata in crisi con il sopravvento dell’agricoltura industriale e la diffusione di cultivar caratterizzate da un ciclo produttivo più rapido e dimensioni maggiori. Tuttavia, ancora oggi la sua sopravvivenza, nonostante l’inserimento nel Paniere dei prodotti tipici della provincia di Torino e nell’elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali (Pat), è affidata a pochi agricoltori che ne custodiscono le sementi. L’obiettivo di Slow Food è recuperare questo prodotto coinvolgendo nuovi coltivatori, valorizzarlo, farlo conoscere a consumatori e ristoratori. Il cavolfiore di Moncalieri si presta a qualsiasi tipo di preparazione: si mangia fritto, bollito, abbinato alla bagna cauda. Sono molto buone (sia crude, sia cotte) anche le foglie che lo avvolgono. «È un momento molto importante per dare nuova linfa a questo ortaggio, anche perché stiamo parlando di un prodotto che si coltiva nella periferia di una grande città e potrebbe concorrere al suo sostentamento riuscendo a conservare le caratteristiche nutrizionali e organolettiche perché dal raccolto alla sua distribuzione passano poche ore e non deve affrontare lunghi viaggi» sottolinea Roberto Sambo, responsabile Presìdi Slow Food per il Piemonte e la Valle d’Aosta. Il cavolfiore di Moncalieri fa il suo ingresso in società lunedì 4 marzo alle 18,30 presso il ristorante La Cadrega in piazza Vittorio Emanuele II 5 a Moncalieri con un aperitivo alla presenza dei produttori il Tasso, Ortobio e Vita in campo, chef e autorità.
 
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Un paese, due chiese e una campana di troppo

L’appuntamento era al quadrivio, verso l’ora di pranzo. Don Luigi, riposti nell’armadio i paramenti della Messa, inforcò la sua vecchia “Atala” nera e pedalò con vigore verso il luogo del “rendezvous”

In tasca portava, bene in vista, una copia de’ L’Avvenire, come pattuito, un segno di riconoscimento che, difficilmente, passava inosservato, essendo ben pochi i lettori di quel giornale a Borgo Vallescura. Don Luigi – detto anche Luison, data la sua non proprio esile corporatura dovuta ai piaceri della tavola – non si sentiva davvero a posto se non dedicava almeno un’ora al giorno alla lettura del suo amato “quotidiano di ispirazione cattolica”. Dai tempi del seminario, sul finire degli anni ’50, quando la lettura de “L’Italia” era d’obbligo per dare un’occhiata ai fatti del mondo, non aveva mai mancato di un giorno l’appuntamento all’edicola con il “suo giornale”. Così, quando gli era toccato scegliere un segnale convenzionale, non aveva avuto dubbi: esibire L’Avvenire! A volte, rimuginando durante le sue notti insonni o passeggiando sul viale che portava dal sagrato della chiesa dedicata a San Maurizio fino al piccolo camposanto, pensava a come fosse finito lì, in quel borgo collinare di alcune frazioni, tante case – la maggior parte vuote e sfitte – e poche persone. Nessuno l’aveva informato, tanto meno la Curia, che quello era un paese con due chiese, due parroci e una, infinita, lite su chi dovesse fregiarsi del titolo di arciprete. L’età contava poco nella disputa, incentrata piuttosto sul titolo d’onore di cui fregiarsi e sull’esercizio dell’effettiva giurisdizione su entrambe le realtà religiose. Chi doveva rappresentare San Maurizio e San Rocco? Da oltre mezzo secolo la questione era irrisolta e, con ogni probabilità, difficilmente risolvibile, considerato che tutti i parroci che si erano alternati nel paese si erano inspiegabilmente calati nel ruolo di duellanti – seppur in forme incruente – appena insediatisi. Anche i cinque vescovi che avevano, uno dopo l’altro, retto la Diocesi – nonostante l’impegno e la dedizione impiegati per trovare una soluzione definitiva a quell’increscioso braccio di ferro – si erano dovuti arrendere, chiudendo un occhio e rivolgendo le loro attenzioni a ben altri problemi. Così, a Borgo Vallescura, tutto proseguiva come sempre, compresi contrasti e disaccordi, dissidi e screzi tra lui, padre Luigi Borlotti, e Don Carmelo Greco. Da quasi un lustro entrambi i sacerdoti erano arrivati in paese provenendo, il primo, dalla campagna e dalle risaie della “bassa”, e il secondo dai monti della Sila. Entrambi avevano ottime referenze, stando a quanto aveva detto, presentandoli ai parrocchiani, il Vicario del Vescovo, don Anacleto Rugosi. I caratteri dei due sacerdoti non erano, però, delle più facili. Se padre Borlotti era scaltro, dotato di furbizia contadina e di spiccata arguzia, Don Greco era testardo come un mulo, scostante e poco incline ai compromessi. Quando il titolare della chiesa di San Maurizio scoprì che il suono melodico della campana era stato sostituito da un 33 giri che, opportunamente collocato sul piatto del giradischi, riproduceva i rintocchi che ritmavano lo scorrere della giornata dei credenti, dall’aurora al crepuscolo, dall’Ave Maria all’Angelus, si adirò molto. Nessuno l’aveva informato che la campana era stata rubata una decina d’anni prima e che, da quel momento, si era deciso di sostituirne i ritmi con un disco.
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Dalla canonica, i suoni salivano fino agli altoparlanti collocati sul campanile e si diffondevano nell’aria, richiamando i fedeli. Così, con qualche fruscio di troppo dovuto all’usura, i momenti più importanti della vita della loro comunità cristiana – dai lutti ai matrimoni, dalle messe alle festività – venivano scanditi grazie a quel vecchio vinile che “girava” sopra un ancor più vetusto radio-giradischi della “Phonola”. Padre Luigi Borlotti non aveva accettato di buon grado quella situazione. Anzi, era ossessionato dall’assenza di quello che per lui era un “sacro bronzo”. Una chiesa che si rispetti deve poter chiamare a sè i suoi parrocchiani. E un campanile orfano della campana è come un frate magro e mingherlino. Non è che non ce ne siano, intendiamoci: è che si tratta di un segno di povertà”. Aveva un modo tutto suo di esprimersi e non era proprio il caso di contraddirlo dal momento che si alterava, stizzito, diventando rosso in volto come un peperone maturo. Il paese era diviso in quattro frazioni, con il centro più importante – che dava il nome all’intero comune e ospitava il municipio, l’ufficio postale e l’unica osteria – in alto, sulla collina, a sovrastare tutto il resto. Da lassù, tra i faggi e i castagni che fasciavano l’altura, lo sguardo poteva abbracciare quasi completamente lo specchio del lago, da una riva all’altra e la chiesa di San Maurizio stava proprio lì, in posizione dominante. Ma, nonostante questo, a differenza di quella di San Rocco che si ergeva al limite della Via Crucis, dopo il bosco, nella frazione di Montedoro, era una chiesa senza campana. Roso dall’invidia, incurante del fatto che quel sentimento doloroso, figlio della frustrazione, rappresentasse uno dei sette peccati capitali, padre Borlotti decise di infrangere anche il settimo dei dieci comandamenti: non rubare. Se la sua parrocchia non aveva la campana, nemmeno quella del sacerdote “rivale” doveva disporne. Così, accantonato ogni precetto morale e nascosta nel profondo della sua coscienza ogni remora, decise di rivolgersi a due balordi che, per poco prezzo, s’incaricarono di compiere il furto su commissione. Tramite un ladruncolo locale che, ormai redento, nel segreto della confessione, aveva raccontato a padre Borlotti le scorribande che l’avevano visto protagonista con i due, venuto a conoscenza del loro ultimo domicilio, li contattò. Venne così organizzato quell’incontro clandestino al quadrivio che, puntualmente, si svolse in tutta segretezza. In quattro e quattr’otto s’intesero anche se, per un istante, la battuta infelice del più grosso dei due – “certo che rubare la campana ad un’altra chiesa, è proprio uno scherzo da prete” – rischiò di fare andare a monte l’accordo. “La salita parte da qui”, disse a voce bassa Gualtiero Marin. “Basterà seguire il sentiero e, giunti al termine delle stazioni della Via Crucis, troveremo la chiesa”. Più conosciuto come Non son bon, appellativo un po’ malevolo che gli era stato appioppato perché quella era la risposta che dava quando intendeva schivare un lavoro, Marin era un omaccione corpulento. L’esatto contrario di Egisto Malfermi, magro come il manico di un piccone e basso di statura. Malfermi, a causa di una rapina finita male in Alto Adige, aveva scontato sette dei dieci anni di galera inflittigli dalla condanna e, dopo la sentenza, a causa di una battuta del maestro Dragotti, appassionato del Risorgimento, era diventato per tutti Silvio Pellico. Il Dragotti, con una punta d’ironia, sosteneva come il carcere di Bolzano non fosse paragonabile allo Spielberg e la causa della detenzione non potesse certo venir rubricata tra le più nobili (furto con scasso nel negozio di un orologiaio, ndr) “ma in fondo, sempre di galera si trattava” e quelle erano state “le sue prigioni”; quindi quel Silvio Pellico “ gli calzava bene.
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I due, “incaricati” da padre Borlotti, con fare rapido e circospetto, iniziarono a salire contando, una dopo l’altra, le cappelle. Alla quarta, raffigurante Gesù che incontra sua Madre, fecero una piccola sosta. Ripresero, poi, il cammino di buon passo e si arrestarono nuovamente alla settima stazione, davanti al dipinto che raffigurava Gesù mentre cadeva per la seconda volta nella salita al Calvario. Marin, ansimante e con il fiatone grosso, si fermò, ancora una volta, all’undicesima stazione, puntando gli occhi su quel Gesù inchiodato sulla croce che ben rappresentava i patimenti che l’omone stava provando. Silvio Pellico, meno stanco, lo esortò a compiere ancora un piccolo sforzo, rassicurandolo che, da lì a poco, sarebbero sbucati davanti alla chiesa. E così, sbuffando come un mantice, oltrepassata l’ultima cappella che raffigurava il corpo di Gesù deposto nel sepolcro, il massiccio Non son bon raggiunse il sodale sotto le mura del campanile della chiesa di San Rocco. La luna era piena, tondeggiante e gonfia di una luce gialla che illuminava il bosco, allungando le ombre. I due loschi figuri alzarono lo sguardo verso la sommità del campanile. Per Silvio Pellico sarebbe stato un gioco da ragazzi scalare esternamente quella torre, poggiando i piedi in aderenza sulle pietre che, al tempo stesso, sarebbero servite come appigli per le mani. E così fece. Giunto a destinazione, avvolse il batacchio con uno straccio, evitando di far risuonare la campana e – recuperata la cima che vi era legata –   la assicurò alla maniglia della campana. Quest’ultima, sganciata dalla trave, venne così calata lentamente fino a terra dove l’attendeva Marin. Sceso in fretta dal campanile, con l’agilità di un gatto, Silvio Pellico aiutò il complice a portare la refurtiva e, in pochi istanti, sparirono nel folto del bosco. In fondo alla Via Crucis, avevano lasciato la vecchia Ape 50 del Non son bon, e caricarono la campana sul cassone di lamiera. Avviato lo schioppettate motore, si dileguarono nella notte in direzione opposta al lago. La stazione ferroviaria era lontana dal paese. A piedi, disponendo di un buon passo, occorreva un quarto d’ora abbondante per raggiungere il piccolo albergo dove al maresciallo Tancredi Manetti era stata prenotata una stanza dall’economo della Curia, don Francesco Stella. Senza indugiare, seguendo le indicazioni ricevute, Manetti s’incamminò. La pensione, gestita dalla famiglia Tinchelli, si trovava a un centinaio di metri dal pontile d’attracco dei battelli che accompagnavano i visitatori all’isola Grande, nel bel mezzo del lago di Paglione. La signora Giulietta, una donna di mezza età dai lineamenti fini e dallo sguardo dolce, lo accolse calorosamente, mostrandogli subito la sua camera.
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Vista lago, signor Maresciallo”, si premurò di dire, sottintendendo un trattamento di favore. In realtà, essendo in bassa stagione, a parte il Manetti e Arturo Terzilli, poeta e pittore che, da anni, era ospite fisso della pensione “Al buon ristoro”, nessun altro cliente occupava le rimanenti otto stanze. Il maresciallo era stato inviato in quel paese stretto tra lago e colline per indagare su un furto alquanto strano: la campana di una delle due chiese, quella dedicata a San Rocco. Il luogo di culto sorgeva sulla piccola altura che portava lo stesso nome del santo pellegrino che, dal Medioevo, veniva invocato a protezione dai terribili flagelli della peste e delle epidemie. L’edificio, con la torre campanaria sulla cui guglia svettava una croce di ferro battuto, si raggiungeva seguendo la Via Crucis con le sue quattordici stazioni e da lì, in una notte di luna piena di due settimane prima, erano saliti i ladri, scalando il campanile fino alla sommità. Non doveva esser stato un compito così agevole, per i ladri, staccare la campana da 60 kg e, poi, calarla giù con una corda. Ma l’attività criminosa, compiuta nelle ore notturne, era passata inosservata fino a quando, la domenica mattina, Alfredo Bini, il sagrestano, aveva fatto l’amara scoperta, tentando di suonare la campana per richiamare i fedeli alla messa. Il parroco, Don Carmelo Greco, sporse subito denuncia ai carabinieri di Borgo Vecchio che, a loro volta, informarono il loro comando a Valle Scura. Le prime indagini non portarono a nessun risultato, così venne incaricato il Maresciallo capo Manetti, uno degli uomini più esperti di cui l’Arma poteva disporre in quel territorio. Dopo aver ascoltato il parroco e il sagrestano, raccogliendo le loro testimonianze, Manetti iniziò ad interrogarsi su quello strano furto. Chi poteva aver interesse a trafugare una campana? E per farne cosa, poi? Venderla? Forse, ma – ammessa la possibilità di fonderla per recuperare il bronzo – non era un’operazione così facile da eseguire. Ne sarebbe valsa la pena? Un furto su commissione da parte di un collezionista? Ne dubitava: ce n’erano di più belle e più antiche nelle chiese vicine. Decise di fare un sopralluogo. Giunto al culmine del sentiero, lasciatasi alle spalle la Via Crucis, venne colto di sorpresa dal temporale. Salendo nel bosco non s’era accorto di quei nuvoloni neri, gonfi di pioggia, che – addensatisi sui rilievi dei monti della Val Cupa – erano stati sospinti   dal vento fino alle colline che digradavano verso il lago. Iniziò a cadere la pioggia. Prima a goccioloni e poi, via via, sempre più fitta e intensa. Manetti trovò rifugio sotto la tettoia che riparava l’entrata della canonica. Padre Borlotti, nel frattempo, era roso dal rimorso e si era amaramente pentito per aver escogitato quella trovata e di avere chiesto ai due balordi di mettere in atto quel suo piano scriteriato. Cosa fare, ora, della campana trafugata? Quale destino riservarle? Per il momento, l’aveva nascosta nel fienile di Clementina De Nellis, la sua fidatissima perpetua. La donna, ignara e all’oscuro dell’intera vicenda, aveva risposto con sollecitudine all’istanza del parroco, consegnandogli le chiavi della cascina ormai in disuso.
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L’aveva fatto senza chiedersi il perché di quella strana richiesta. In fondo, pensava, “il Don avrà le sue ragioni e se vorrà dirmele me le dirà lui, senza importunarlo con le mie domande”. Il parroco di San Maurizio si arrovellava, consapevole di aver commesso un grave peccato commissionando quel furto a quei due che, in cambio del lavoro e del silenzio, avevano ricevuto due biglietti da 50 mila lire a testa e la doppia assoluzione – almeno dal punto di vista della fede – per il gesto compiuto. La campana non poteva certo essere restituita così, magari abbandonandola in uno dei campi. L’atto che aveva architettato era senz’altro esecrabile ma l’idea del possibile riposizionamento dello strumento musicale nel campanile di San Rocco non gli piaceva affatto. La sua contrarietà era così forte da ottenebrarne la mente. Così, prese una decisione d’impeto, evitando di rimuginarci troppo: gettare la campana nel vecchio pozzo vicino alla cascina abbandonata dei Laricini, dove da più di vent’anni, morto senza eredi il vecchio Augusto, nessuno aveva più messo piede. Non era molto distante dal fienile di Clementina e, attese le ore più buie della notte, quelle che precedono l’alba, Padre Giravolta, mise in pratica il suo progetto. Faticando non poco nel trascinare un vecchio carretto trovato nella casina abbandonata sul quale aveva caricato la campana, fermandosi a prender fiato di tanto in tanto, coprì il breve tragitto quasi fosse il suo, personalissimo, Calvario. Agganciata la campana alla corda, fece scorrere la carrucola finché udì il tonfo nell’acqua sul fondo del grosso pozzo. Nessuno avrebbe mai pensato di cercarla lì e, comunque, se un giorno – per puro caso – la campana fosse stata rinvenuta, non avrebbe potuto essere mossa alcuna accusa nei suoi confronti e la cosa sarebbe finita lì, avvolta in quell’oblio che circonda spesso i misteri che nessuno, in fin dei conti, muore dalla voglia di svelare. Inforcata la bicicletta, che aveva appoggiato alla staccionata del fienile, ritornò verso la canonica, più sollevato. Si era tolto un bel peso dallo stomaco e, seppure il peccato – e che peccato! – rimaneva intatto sulla coscienza, l’essersi liberato della campana era già un passo avanti. Ed ora, la sua parrocchia – pur con il giradischi e senza strumento a batacchio – aveva un seppur lieve, ma evidente vantaggio su quella di San Rocco, dove la cura pastorale era affidata a quella testa dura di Don Carmelo. 
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L’inchiesta del Maresciallo era arrivata ad un punto morto. Probabilmente, la campana era stata rubata per conto di qualche collezionista di arredi sacri. Negli ultimi tempi, questa tipologia di furti su commissione si era diffusa moltissimo e difficilmente le indagini avevano portato a risultati positivi. La maggior parte dei casi erano rimasti irrisolti, senza un colpevole e senza un evidente movente che potesse mettere chi investigava sulla pista giusta. L’unica cosa che balzava all’occhio, a Borgo Vallescura e nelle sue frazioni, era la forte competizione tra i due parroci, ma – dalle testimonianze che il buon Manetti aveva raccolto – non era certo una novità, considerato che la disputa durava da tempo immemore. Così, allargando le braccia con aria sconsolata, il Maresciallo dovette arrendersi, comunicando la fine dell’investigazione all’ormai rassegnato Don Carmelo Greco e, avvertito il comando di Valle Scura, al quale inviò, per fax, un rapporto dettagliato in cui si motivava il nulla di fatto, salutato con deferenza il parroco, prese congedo dalla signora Giulietta che gli augurò di tornare ancora alla pensione “Al buon ristoro”, “magari per riposarsi un po’ e non per queste beghe di paese”.E i parroci? Padre Luison Borlotti, per scontare il suo peccato, alla spasmodica ricerca di un qualcosa che potesse alleggerire la sua coscienza, regalò – con i soldi raccolti con le offerte in chiesa, ai quali aggiunse altro denaro di tasca sua – un giradischi a Don Carmelo, corredando il marchingegno con un bell’ Lp contenente una compilation di rintocchi di campane da far invidia. Il dono fu apprezzato dall’altro parroco, ma tutto questo non mutò di una virgola il clima di accesa competizione tra le parrocchie di San Maurizio e di San Rocco. L’unica variante era che, a “chiamare” i fedeli ora non restavano che i rintocchi di campane fasulle, incisi sui vinili.