CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 260

So che stai ancora aspettando, chiedendoti dove sia il mio cuore

MUSIC TALES, LA RUBRICA MUSICALE 

“Quindi, anche se potessi, non tornerei al punto di partenza

So che stai ancora aspettando, chiedendoti dove sia il mio cuore

Preghi che le cose non cambino, ma la parte più difficile è che ti stai rendendo conto che forse io, forse non sono la stessa

e quello che stai aspettando non c’è più, comunque”

Non c’è troppo da dire ancora su Olivia Dean, classe 1999, giovanissima quindi ma molto molto brava a mio parere.

La cantante inglese ha iniziato la sua carriera lavorando in collaborazione con Rudimental .

È stata nominata artista rivoluzionaria dell’anno 2021 da Amazon Music ed ha registrato una versione esclusiva di ” The Christmas Song ” di Nat King Cole per la line-up di Christmas Originals 2021 di Amazon.

Dean è nata nel distretto londinese di Haringey da padre inglese e madre

giamaicano-guyanese ed è cresciuta a Walthamstow .

Ha preso lezioni di teatro musicale e ha partecipato a un coro gospel sin dalla giovane età.

Ha poi frequentato la BRIT School dove si è forgiata per regalarci quel che sentiamo.

Nulla di più di questa chioma meravigliosa dalla voce calda e profonda, almeno per ora, ma mi piace parlare di artisti magari non in vista come i “grandi” conosciuti agli occhi di tutti.

Dare spazio a nuove sonorità, a nuove idee ed ad artisti giovani ed onesti nella rappresentazione dell’arte.

“La fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l’opportunità.”

CHIARA DE CARLO

Buon ascolto di “The hardest part”

https://www.youtube.com/watch?v=72p1VhZhlMU&ab_channel=OliviaDeanVEVO

scrivete a musictales@libero.it se volete segnalare eventi o notizie musicali!

Ecco a voi gli eventi da non perdere!

Storie non ordinarie a teatro

STAGIONE SGUARDI

II edizione

Pianezza (TO)

27 ottobre 2022 – 1 giugno 2023

Prosegue giovedì 16 marzo, alle ore 21, nel comune di Pianezza, in provincia di Torino, la seconda edizione della stagione Sguardi, con la direzione artistica di Silvia Mercuriati, che quest’anno è dedicata a Storie non ordinarie. La stagione, organizzata con il contributo di Regione Piemonte, Fondazione CRT, Comune di Pianezza, in collaborazione con Fondazione Piemonte dal vivo, Villa Lascaris e Barrocco, è un “Progetto selezionato dal bando Corto Circuito 2022 – Piemonte dal Vivo”.

Lo spettacolo in scena al BARROCCO, la Chiesa di San Rocco, dismessa ad usi profani dal 1982, per la quale nel 2002 venne avviato un grande progetto di ristrutturazione con fondi europei che la riqualifica come centro di cultura e spettacolo, gestito dall’associazione Il Coro Onlus è QUESTA È CASA MIA. Dolor hic tibi proderit olim, scritto, diretto e interpretato da Alessandro Blasioli. Questa è casa mia è il racconto delle peripezie vissute dalla famiglia Solfanelli a seguito del terremoto d’Abruzzo del 2009, ma è anche la storia di un’amicizia, quella tra Paolo e il suo inseparabile compagno Marco, travolta anch’essa dalla potenza della natura e dall’iniquità umana. Un one man show, un monologo di teatro civile vincitore di sedici riconoscimenti nazionali in cui, mediante i principi della Commedia dell’Arte e con una scenografia minimale, Blasioli, giovane attore e drammaturgo abruzzese, alterna serio e faceto, folklore e denuncia, evidenziando la realtà di tutti i paesi che versano nella stessa condizione de L’Aquila, vittime dell’inefficienza statale prima che della natura, in uno dei Paesi europei a più alto rischio sismico. Blasioli è “uno, nessuno e centomila” nel tentativo di portare sul palcoscenico un dramma collettivo fatto di mille voci e mille nomi che si condensano tutti nell’unica figura dell’attore in scena e nel monito che appare luminoso su una rete metallica “Dolor hic tibi proderit olim”: “Un giorno questo dolore ti sarà utile”.

Questa è Casa Mia” è uno spettacolo intenso e complesso, in cui i freddi dati della cronaca, i numeri e le lettere della burocrazia si intrecciano con le emozioni e la forza viscerale della materia umana che narra la propria storia.

Alessandro Blasioli, classe 1992, dopo aver conseguito il diploma e il Bachelor in Acting presso l’Università del Galles, studia Commedia dell’Arte a Parigi, presso l’Accademia A.I.D.A.S., con i maestri Carlo Boso, Nelly Quette, Elena Serra e Florence Leguy. Di ritorno dall’esperienza francese fonda, insieme ad altri colleghi, la Compagnia Sasiski! con la quale consegue diversi premi. Nel 2015 prende parte alla VI edizione del Festival Internazionale di Scherma Scenica Silver Sword di Mosca, ottenendo la Menzione d’Onore del Presidente di Giuria. “Questa è casa mia”, monologo di Teatro Civile sul post-sisma aquilano; la sua messa in scena al teatro India in occasione del festival Dominio Pubblico gli permette di essere insignito del premio Miglior Interprete maschile, bandito dal NUOVOImaie.

INFO E PRENOTAZIONI

telefono +39 3278183448

sguardi@progettozoran.com

www.sguardi.art

BIGLIETTERIA:

INTERO: 18€

RIDOTTO: 15€ (under 25, over 60, associazioni convenzionate con la Stagione)

È possibile utilizzare il bonus docente o 18APP

LOCATION 

Barrocco – Piazza SS.Pietro e Paolo, 3, 10044 Pianezza TO

Foto Manuela Giusto

Il “Premio Gianmaria Testa 2023” al cantautore pescarese Domenico Imperato

 

Moncalieri (Torino)

Cantautore e produttore musicale pescarese (già “Premio Fabrizio De André nel 2014”, due dischi pubblicati, “Postura Libera” nel 2014 e “Bellavista” nel 2018) è il giovane Domenico Imperato il vincitore del moncalierese “Premio Gianmaria Testa 2023”. Dopo aver superato la selezione di oltre 170 brani provenienti da tutt’Italia, Imperato si è imposto sugli altri cinque finalisti, con il brano inedito “Sorridi”, nella cerimonia di premiazione tenutasi al “Teatro Superga” di Nichelino, grazie al giudizio della giuria presieduta da Eugenio Bennato e ottenendo una targa e un premio di 1.500 euro oltre a un’esibizione che si terrà a settembre durante il Festival “Ritmika 2023” al “Pala Expo” di Moncalieri. Al duo folk – rock di origini siciliane “Corimè” ( i fratelli Roberto e Maurizio Giannone) è andato invece il “Premio speciale per la migliore esibizione dal vivo”, per la loro interpretazione di “Extra Muros” di Gianmaria Testa.

Non credo assolutamente che uno faccia musica – ha dichiarato Imperato – con la missione di vincere gare e concorsi, ma questo riconoscimento, in questo momento, fa tanto bene. Ringrazio tutte le persone che mi seguono ai concerti e che hanno speso delle buone parole per me e la mia musica. Ringrazio, nonostante tutto, anche chi non mi ha capito e chi non mi ha voluto: piano piano riusciremo a capirci“.

Durante l’evento, inserito all’interno della 43esima edizione del Premio Letterario“Città di Moncalieri”, organizzato dall’Associazione Culturale “Saturnio”, ha avuto luogo anche la premiazione dei poeti vincitori della “Sezione Silloge Edita”, ovvero della friulana (oggi residente fra Torino e Milano) Mary Barbara Tolusso con “Apolide” (Mondadori) e il milanese Marco Balzano con “Nature Umane” (Einaudi).

Sono contrario alle giurie – ha sottolineato Bennato prima di chiudere la serata con la sua esibizione dal vivo – e questa sera a maggior ragione, perché ci sono cinque finalisti che hanno fatto cinque esecuzioni splendide sia nell’inedito che nel brano di Gianmaria Testa. Ho sentito tanta arte, tanta musicalità, tanta bravura per cui vorrei in questo momento vigliaccamente tirarmi fuori e dire: hanno vinto tutti”.

L’evento più intenso e suggestivo della serata, nata per ricordare il cantautore-ferroviere, “il più francese dei cantautori italiani” (nativo di Cavallermaggiore e scomparso ad Alba proprio sette anni fa), è stato l’esibizione dal vivo di Neri Marcorè che, attraverso le sue canzoni ha reso omaggio alla poetica di Gianmaria Testa, accompagnato da Domenico Mariorenzi(pianoforte e chitarra) e Stefano Chiabrera(violoncello). Infine, nella stessa serata, è stato annunciato che grazie a “Egea Music” e “Produzioni Fuorivia” si realizzerà un cd con le canzoni inedite dei cinque finalisti e la loro interpretazione del brano di Gianmaria Testa, scelto da ognuno di loro per l’interpretazione live, che sarà distribuito in tutta Italia e diventerà una sorta di importante biglietto da visita del “Premio”.

g. m.

 

Nelle foto:

–       Gianmaria Testa

–       Domenico Imperato

–       Mary Barbara Tolusso

La Fontana Nereide e l’antichità ritrovata

Oltre Torino. Storie, miti, leggende del torinese dimenticato.

Torino e l’acqua

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce.

Il fil rouge di questa serie di articoli su Torino vuole essere l’acqua. L’acqua in tutte le sue accezioni e con i suoi significati altri, l’acqua come elemento essenziale per la sopravvivenza del pianeta e di tutto l’ecosistema ma anche come simbolo di purificazione e come immagine magico-esoterica.

1. Torino e i suoi fiumi
2. La Fontana dei Dodici Mesi tra mito e storia
3. La Fontana Angelica tra bellezza e magia
4. La Fontana dell’Aiuola Balbo e il Risorgimento
5. La Fontana Nereide e l’antichità ritrovata
6. La Fontana del Monumento al Traforo del Frejus: angeli o diavoli?
7. La Fontana Luminosa di Italia ’61 in ricordo dell’Unità d’Italia
8. La Fontana del Parco della Tesoriera e il suo fantasma
9. La Fontana Igloo: Mario Merz interpreta l’acqua
10. Il Toret piccolo, verde simbolo di Torino

5. La Fontana Nereide e l’antichità ritrovata
Ancora una volta alla scoperta di una Torino magica e misteriosa. Ci troviamo all’interno dei Giardini Reali, ormai molto curati e ristrutturati; siamo appena poco lontani da Piazza Castello, una delle storiche piazze torinesi, e intanto il sontuoso Palazzo Reale ci protegge dall’andirivieni turistico e ci immerge in un’atmosfera ovattata, silenziosa e del tutto piacevole. Eccoci in un altro luogo poco conosciuto ma meritevole di essere visitato, purtroppo richiesto da pochi, in genere dagli appassionati di esoterismo che vanno in cerca dell’ingresso delle celebri grotte alchemiche.
Torino è colma di dettagli curiosi, mostruosi volti in pietra che si affacciano da sotto i cornicioni, diavoli in bronzo che proteggono portoni massicci, vi sono persino piccoli occhi a fessura che da terra spiano cosa accade in superficie. Numerosi sono i crocevia in cui si dice che si siano svolte vicende strane e bizzarre, e altrettanti sono i luoghi misteriosi in cui si tenta di individuare un ingresso o un passaggio. La fontana Nereide o dei Tritoni è appunto una delle tappe del tour del mistero.

Proprio al centro della parte recintata dei Giardini Reali si scorge una vasca in marmo bianco con la Fontana di Nereide e dei Tritoni. La composizione vede la ninfa, seduta con il busto in lieve torsione e un braccio volto quasi a indicare Palazzo Reale, come figura perno attorno alla quale si ergono i tritoni, creature marine che hanno la parte alta del corpo simile a quella di un uomo, quella bassa a forma di pesce. La collocazione della fontana risale al 1758.

È una creazione scultorea gioiosa, che esalta la giovinezza e la vita, in cui uno degli elementi principali è proprio l’acqua, componente che rimanda al mito greco delle Nereidi, figlie di Nereo, divinità marina, e dell’oceanina Doride. Le Nereidi e Doride sono, nella tradizione classica, amiche e confortatrici dei naviganti, identificate anche con le lente e lievi onde del mare in bonaccia.
Si tratta di un’opera realizzata secondo il gusto barocco, vengono messi in risalto i corpi muscolosi e torti dei tritoni, e le forme morbide e aggraziate della ninfa. La scena realizzata da Simone Martinez, nipote di Filippo Juvarra, esprime appieno la sensazione di tumulto e movimento, come se i protagonisti dell’opera stessero emergendo da un mare in tempesta, con i muscoli tesi, i capelli mossi dal vento e il viso proteso per guardare oltre l’acqua salmastra.

Quanto oggi posiamo ammirare è in gran parte opera dell’architetto André Le Nôtre, già attivo alla corte di Versailles per committenza dei Borbone e rispecchia quella che era una caratteristica dei giardini nobiliari europei: i giochi d’acqua e le prospettive floreali. Già al tempo di Carlo Emanuele I e Vittorio Amedeo I di Savoia il giardino aveva subito notevoli ampliamenti, ma è dal tardo Seicento che si avranno, con il lavoro del De Marne, i veri e propri splendori.

L’opera è certamente meravigliosa e già questo basterebbe a soddisfare l’ipotetico visitatore, in cerca delle bellezze torinesi, eppure c’è altro che tale fontana può raccontarci.
Dicono le leggende popolari, che camminare tre volte intorno alla vasca della fontana porti fortuna, ma dicono anche che proprio nelle vicinanze della stessa fontana si trovi la scala di accesso alle grotte alchemiche. Tale passaggio sarebbe sorvegliato costantemente da una creatura marina benevola, uno di quegli esseri elementali che prendono forma solo dopo essere stati “pensati”, si dice che ancora oggi il guardiano invisibile sia lì a portare avanti il suo compito di osservatore e custode.

Tra gli appassionati di esoterismo molti sono quelli che giocano a cercare le grotte alchemiche, luoghi considerati come porte tridimensionali, all’interno delle quali sarebbe possibile passare da una dimensione materiale a una immateriale e, sempre all’interno di esse, si troverebbe la celebre pietra filosofale.Quindi, se non siete di fretta, rimanete ancora un pochino all’interno dei giardini, aspettate che la maggior parte della gente si allontani e infine aggiratevi per tre volte intorno alla fontana e provate a scorgere qualche angusto ingresso segreto. Se non lo trovate, vorrà dire che il piccolo guardiano marino non si è fidato di voi e allora potrete consolarvi con un fresco aperitivo, in una delle più belle piazze di Torino.

 

Alessia Cagnotto

Torino tra architettura e pittura: Giacomo Balla

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

3) Giacomo Balla (1871-1958)

Mi piace sempre fare un po’ di dibattito con i miei studenti, parlare, proporre loro delle tematiche su cui riflettere, ascoltare ciò che pensano è non solo stimolante e interessante per entrambe le parti, ma necessario per tenere attiva l’attenzione. Uno degli ultimi argomenti su cui ci siamo impelagati è stato davvero complesso, ma credo che abbia fatto comprendere alla classe quanto l’arte possa essere una materia interdisciplinare, diversificata e soprattutto ampia. La riflessione riguardava il concetto di “damnatio memoriae”, e il fatto che in tempi antichi non destasse tanto scalpore la distruzione di opere d’arte; tali accadimenti erano motivati da varie ragioni, politiche prima di tutto, ma anche religiose. Il discorso si è poi allargato e ci siamo ritrovati a dibattere sulla complessa questione dell’arte come “atto distruttivo”.
Le operazioni artistiche talvolta lavorano “in negativo”, rimandano al “disfare” e alla “distruzione creativa”, come per esempio i tagli di Fontana o le combustioni di Burri, inoltre molte “performance” di celebri artisti come Hermann Nitsch o esponenti della “body art”, di cui Marina Abramović è la regina indiscussa, sono allo stesso tempo “atti distruttivi” e “esibizioni spettacolari”.
Non sono pochi i testi e le interviste di esperti del settore che sottolineano il sottile e articolato legame tra tale particolare estetica artistica e la strategia del terrore, basata anch’essa sul “distruggere per richiamare l’attenzione del pubblico”. E se tale modo d’agire “funzionava” in passato, oggi risulta tragicamente vincente: viviamo ormai ai tempi dei “mass media”, una cosa non è vera finché non viene caricata su internet e non ottiene milioni di visualizzazioni. Si pensi ai tragici eventi del 2001, all’esplosione dei Buddha di Bamiyan o alla caduta delle Twin Towers: entrambi momenti angosciosi e tremendi, entrambi rigorosamente filmati e mostrati al mondo con il preciso scopo di spiazzare e terrorizzare gli spettatori.

Eppure l’atto di distruggere un’opera d’arte può avere anche un’altra valenza. Nella “graphic novel” di Alan Moore, “V for Vendetta” il protagonista, mascherato da Guy Fawkes, cospiratore cattolico protagonista della “Congiura delle Polveri”, vuole far esplodere il parlamento inglese, edificio simbolo di una dittatura violenta e totalitaria. La demolizione dell’edificio storico diventa, nel fumetto, simbolo di un nuovo inizio, della libertà del popolo che trionfa sulla dittatura.
L’arte come “atto di distruzione”, la distruzione di opere d’arte, qual è il confine tra i due concetti? Dove può condurre l’etica della spettacolarizzazione? Non basterebbe un ciclo di conferenze per esaurire tali argomentazioni, figuriamoci quarantacinque minuti di didattica a distanza.
Tanto per mantenere attivo il dibattito con la classe, ho voluto insistere su un particolare movimento artistico e culturale che a mio parere risulta più che azzeccato per la situazione.
“Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.” Questo dice il decimo punto del Manifesto del Futurismo, scritto da Tommaso Marinetti e pubblicato il 20 febbraio 1909 sulla prima pagina de “Le Figaro”. Nasce così il movimento d’avanguardia con cui l’Italia si affaccia al panorama europeo dell’arte contemporanea; Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), con la stesura del Manifesto teorico del Futurismo, dà vita ad una corrente artistica che investe tutti i campi culturali, dalla poesia all’arte, dalla letteratura alla musica, dalla danza al teatro. I Futuristi sostengono che sia necessario “cancellare il passato e inneggiare al futuro tecnologico” ed esaltano la distruzione di musei, accademie, biblioteche, perfino di alcune città storiche, per fare spazio alle nuove forme di bellezza che vanno ricercate nel progresso, nelle città industriali, nelle macchine e nel concetto della velocità.

Va tuttavia sottolineato che il Futurismo non è stato un movimento unitario e spesso la carica di attrazione che esercitava sugli artisti si esauriva in fretta.
Al Manifesto letterario presto ne seguono altri: nel 1910 Umberto Boccioni, (1882-1916), scrive il Manifesto relativo alla pittura futurista, due anni dopo Giacomo Balla, (1871-1958) e Fortunato Depero, (1888-1916) redigono il Manifesto della scultura futurista; di questo gruppo di artisti fanno parte altresì Carlo Carrà, (1881-1966), Luigi Russolo, (1885-1947), e Gino Severini, (1883-1966). Nel 1914 viene proclamato il Manifesto dell’architettura futurista, steso da Antonio Sant’Elia (1888-1916).
La progettazione dell’ideale “città futurista” viene immaginata da Sant’Elia in una serie di disegni che rappresentano grattacieli dotati di alte torri, edificati in metallo, vetro e cemento; all’interno dei progetti urbanistici sono compresi aeroporti, centrali elettriche, ponti e strade a vari livelli. Le architetture risultano imponenti e si ergono come “volumi puri”; al di là della vera e propria funzione, tali costruzioni paiono dei “monumenti” volti a celebrare “il trionfo della tecnologia”.
Una città brulicante e in continuo fermento, affollata e caotica, un po’ viene da chiederselo: Sant’Elia sarebbe poi effettivamente sopravvissuto ad un sabato pomeriggio in centro all’ora di punta? Bisogna sempre fare attenzione a ciò che si dice.
Per i Futuristi la protagonista indiscussa della rappresentazione artistica è “la realtà in movimento”, studiata e approfondita nel suo continuo divenire e nella sua incessante trasformazione.
In pittura, ad esempio, i soggetti prediletti sono le automobili, i treni, gli aerei, ma anche i cavalli al galoppo, uomini in azione, che camminano, che danzano, o colti mentre corrono; inoltre sono spesso rappresentate le strade, traboccanti di traffico convulso o costellate di cantieri edilizi, emblemi della città che cresce.
Gli artisti sono fortemente influenzati dalla cronofotografia e dal cinema, mezzi che permettono di registrare le fasi di un’azione, istante dopo istante. È per questo motivo che nei dipinti dei Futuristi il movimento viene scomposto nelle diverse fasi, come se si trattasse di studi scientifici in cui i vari momenti vengono visualizzati separatamente e poi sovrapposti. Più che esplicativo in tal senso è il “Dinamismo di un cane al guinzaglio (guinzaglio in moto)”, opera del 1912, realizzata da Giacomo Balla.

Questa modalità di rappresentazione del movimento risulta totalmente nuova e avrà larga eco nelle figurazioni grafiche dei fumetti. Il ritmo del moto viene sottolineato e accentuato da linee curve, oblique, ondulate o a spirale, che accompagnano il soggetto nella sua traiettoria, come a visualizzare le “scie” delle parti che fendono l’aria. I futuristi, oltre a preferire soggetti dinamici, amano l’uso di colori intensi e vivaci, contrapponendosi ai cubisti, che privilegiano tinte smorzate o monocrome e soggetti statici.
Vorrei ora soffermarmi proprio su Giacomo Balla, uno dei principali esponenti della pittura futurista. Egli nasce a Torino nel 1871, qui frequenta l’Accademia Albertina di Belle arti, dove conosce Pelliza da Volpedo; incomincia a dipingere quadri di matrice “pointilliste”, ma non segue rigorosamente il programma di Seurat e Signac. Nel 1895 Balla lascia definitivamente la città natale e si stabilisce a Roma, qui si avvicina in un primo momento al “Divisionismo”. Tra il 1908 e il 1910 si conclude il momento puntinista e si apre quello futurista; l’opera che segna il passaggio da un movimento all’altro è “Lampada ad arco”, tela databile al 1909, lo stesso anno in cui viene proclamato il Manifesto letterario di Marinetti.

In ambito futurista, Balla si dedica alle ricerche sulla scomposizione del colore e sulle fasi del movimento, percorso che si può constatare, oltre che nel già citato “Dinamismo di un cane al guinzaglio”, nell’opera “Ragazza che corre sul balcone, linee di velocità + paesaggio”, tela che risente degli studi che nel frattempo sta portando avanti la fotografia, come dimostra in particolar modo il lavoro di Anton Giulio Bragaglia. Essenziale, per quel che riguarda la scomposizione della luce e del colore, è il ciclo intitolato “Compenetrazioni iridescenti” (1912-1914), costituito da una folta serie di quadri e lavori ormai completamente astratti.
Negli anni in cui aderisce al futurismo, Balla si dedica anche alla scultura e allo studio di diversi materiali: in questa fase del suo percorso artistico lo si può considerare precursore del dadaismo.
Dopo il fervore iniziale, l’artista ritorna su temi più tradizionali, quali la raffigurazione di città, paesaggi e ritratti, riprendendo tecniche più convenzionali, anche se è giusto sottolineare che non abbandonò mai del tutto gli studi futuristi.
Certo non è sufficiente un’ora di lezione per discorrere di certi argomenti, così come non è questa la sede per spiegare in modo esaustivo le diverse complessità del Futurismo.
Credo tuttavia che il compito di un buon insegnate sia anche quello di stimolare nei propri studenti pensieri e riflessioni e, soprattutto, di pungolare la curiosità che mette in moto la mente e fa sì che ognuno possa approfondire in autonomia le tematiche proposte. D’altra parte ciò che si studia a scuola non è fine a se stesso, anzi sovente, è più attuale di quanto si creda.

Alessia Cagnotto

Il centro Pannunzio ricorda Umberto II a quarant’anni dalla scomparsa

L’ULTIMO RE D’ITALIA. APPUNTAMENTO A PALAZZO CISTERNA

GIOVEDÌ 16 MARZO ALLE ORE 17,30 nella sede della Città Metropolitana di Torino a Palazzo Cisterna (via Maria Vittoria, 12), in collaborazione con l’Associazione internazionale Regina Elena, verrà ricordato il quarantennale della scomparsa dell’ultimo Re d’Italia Umberto II, nato a Racconigi nel 1904. L’incontro verrà aperto dal suono dell’Inno sardo. Verrà letto dall’attrice Ornella POZZI un racconto di Giovannino Guareschi dedicato all’esilio di Umberto II e verrà proiettato uno straordinario servizio televisivo di Enzo Tortora inviato speciale ai funerali del Re ad Altacomba.  Prenotazione obbligatoria con whatsApp o sms al 3488134847.

Torino magica: i luoghi e le energie della città

Il capoluogo del Piemonte è conosciuto per molte ragioni. Sede del regno dei Savoia e prima capitale del Regno d’Italia, vanta anche un ricco passato culturale. È stato infatti un vivace crocevia di variegate personalità, un ritrovo di intellettuali e di conseguenza un ricettacolo di s e leggende. La più famosa vuole che Torino sia magica dato che è il punto di intersezione dei due triangoli della magia, quella bianca e quella nera. Infatti in questa città coesistono sia le energie positive che quelle negative che risultano spartite geograficamente esattamente nei due lati opposti della città.

Torino magica piazza castello I Il Torinese

La Torino magica: il Bene

Tutto il centro abitato è nettamente diviso in due. La parte più vicina al fiume è considerata quella benefica, essendo tradizionalmente collegata al culto delle acque. Sulle sponde del Po infatti sorge la Gran Madre, che secondo le antiche storie è stata fondata su un tempio egizio dedicato alla dea Iside. La chiesa è considerata un posto molto potente per le sue vibrazioni femminili, date dalla presenza di queste divinità che condividono le caratteristiche di vergine e madre. Inoltre pare che lungo la sua scalinata una delle due statue sia la chiave per trovare il Santo Graal. Basterebbe seguire infatti lo sguardo di quella che tiene in mano un calice per trovare la reliquia più famosa di tutti i tempi.

Torino magica Gran Madre I Il Torinese

Il polo maschile invece è rappresentato dalla Mole Antonelliana, che viene recepita nella tradizione esoterica come una antenna che canalizza l’energia dalla terra verso il cielo. Invece in Piazza Castello, precisamente davanti all’entrata di Palazzo Reale, è ricco di vibrazioni positive. Infatti il cancello, sorvegliato dai due Dioscuri, rappresenta al contempo il punto più positivo della città e quello di confine con la zona più oscura.

Torino magica mole I Il Torinese

Il Male, il quadrilatero e piazza Statuto

Questa ha la sua maggiore espressione in Piazza Statuto, dove la credenza popolare ha situato l’entrata dell’inferno. Il collegamento con la religione cattolica è sicuramente dovuto al monumento che troneggia al suo centro, quello dedicati ai caduti durante la costruzione del Traforo del Frejus. Si tratta infatti di un ammasso di rocce e di corpi su cui troneggia un Genio Alato. La simbologia ufficiale rappresenterebbe infatti i minatori, vittime di un’impresa che all’epoca era considerata estremamente tecnologica. Essendo una allegoria del progresso, i corpi potrebbero anche rappresentare i Titani sovrastati da una figura celeste, la Ragione. Però proprio la forma di quest’ultima richiama una delle iconografie collegate a Lucifero, un angelo che porta sul capo un pentacolo. Questa interpretazione trova un terreno ancora più fertile nel momento in cui si nota il suo orientamento verso est, direzione in cui sorge la stella del mattino. Però la credenza che questo posto emanasse delle energie ostili era diffusa ben prima dell’installazione del gruppo scultoreo. Infatti in epoca romana lo snodo delle fogne partiva da quest’area: la divisione netta fra le acque bianche, vicine al fiume, e quelle nere avrebbe anche determinato la dicotomia Bene e Male.

Torino magica I Il Torinese

 

Nelle vicinanze allo stesso modo si può trovare il Rondò della Forca, spiazzo utilizzato per l’esecuzione delle pene capitali, e la guglia Beccaria. Si tratta di un piccolo obelisco situato vicino a via San Martino. Fu costruito nel 1808 per misurare il meridiano che passa per Torino: per questo sulla sua punta reca un astrolabio. Si pensa che da qui partano i vertici per il triangolo della magia bianca -che include Praga e Lione- e della magia nera -con San Francisco e Londra.

Leggi anche – Torino e le sue leggende fondative: il toro rosso e la discendenza egizia dei Savoia 

Francesca Pozzo

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

Denise Pardo “La casa sul Nilo” -Neri Pozza- euro 18,00

E’ il primo romanzo della scrittrice nata al Cairo (ma residente in Italia dal 1961) e racchiude pagine memorabili di storia e vita strettamente privata: rapporti, amicizie, distacchi dolorosi, ambienti altamente esotici e tradizioni di un mondo che non c’è più. E’ il tempo in cui il Cairo era considerato l’Eldorado e la Pardo circoscrive l’arco temporale che va dal 1948 al 1961.

Denise Pardo è nata in una famiglia benestante di ebrei sefarditi ed ha trascorso l’infanzia in un Egitto pieno di attrazioni e stimoli, crocevia di infinite storie.

Conosciamo il passato della madre, del padre, dei nonni, delle amicizie con persone di varie tradizioni, religioni e lingue, che si amalgamavano senza attriti in un cosmopolitismo affascinante.

Ci immergiamo in feste di fidanzamento, cocktail in grandi alberghi, banchetti sul Nilo e lo sfarzo derivante anche da amicizie altolocate.

Tutto finisce a partire dall’attentato ai Grandi Magazzini Cicurel con la bomba messa dai Fratelli Musulmani, estremisti che volevano smantellare il colonialismo inglese ed abbattere ricchezze, potere e privilegi di alcune famiglie. Contraltare di un paese in cui il popolo annaspava in povertà e difficoltà senza che il re Fārūq alzasse un dito per aiutare la sua gente.

Poi l’ascesa di Nasser che trasformerà l’Egitto da luogo magico in territorio pericolosissimo per “gli stranieri”, che diventano nemici da cancellare.

Anche la famiglia della scrittrice scivola nel disastro; da persone agiate e potenti vengono esposti al pericolo più totale. Per salvaguardare la loro incolumità i Pardo sono costretti alla fuga perigliosa verso l’ignoto. All’epoca Denise aveva solo 6 anni; era il 1961 e Nasser aveva preso il potere, trasformando l’Egitto in luogo cupo e ostile.

Il resto è la cronaca -tra nostalgia, cambiamenti repentini e difficoltà di adattamento- della fuga della famiglia a Roma. Un nucleo di storie e personalità diverse: la bellissima madre Fanny, il padre Sam, le loro tre figlie ancora piccole e la strepitosa nonna Berthe, da loro chiamata “Bobe”, che a sua volta era fuggita da Odessa, profuga in seguito alla rivoluzione bolscevica.

 

Catherine Dunne “Una buona madre” -Guanda- euro 19,00

In queste pagine Catherine Dunne (nata a Dublino nel 1954) affronta e affonda la sua mirabile penna nelle spire del dramma degli istituti per ragazze madri e rimanda a una pagina orribile della storia irlandese. Dal 1922 al 1998 circa 56 mila donne furono recluse nelle “Mothers and baby homes”, istituti gestiti prevalentemente dalla Chiesa in accordo con lo Stato. Simili a dei lager dove, sullo sfondo della cattolicissima e bigotta Irlanda, le giovani donne incappate nell’incidente di una gravidanza imprevista erano praticamente detenute.

Additate come “peccatrici” subivano condizioni di vita durissime, al limite della disumanità, costrette ai lavori forzati e spesso obbligate a cambiare nome.

I figli illegittimi che mettevano al mondo erano dati quasi sempre in adozione senza il consenso delle madri. Oppure venivano venduti all’estero, o ancora, usati come cavie di esperimenti medici. Un gran brutto capitolo di storia vera, sulla quale la scrittrice ha condotto approfondite e scrupolose ricerche.

Ogni dettaglio del romanzo, compreso quello dell’infante strappato dal seno materno mentre era allattato, è quanto emerso dalle testimonianze raccolte dalla Dunne.

La trama ha al centro due protagoniste, Tess e Maeve che si incontrano in un caffè di Dublino; sarà una svolta fondamentale dei loro destini e scopriranno di essere unite da un intreccio che è indissolubile.

Due esperienze e due famiglie che vengono raccontate dalla scrittrice. Due facce della maternità: Tess cresciuta in una famiglia numerosa nell’Irlanda degli Anni Settanta, e gravata da una mole di responsabilità. Maeve, invece, rimasta incinta decisamente troppo presto ed ha rischiato di perdere la figlia. E’ stata una coraggiosa zia che l’ha salvata dall’essere rinchiusa in un Istituto per ragazze madri nel quale le avrebbero portato via la creatura che portava in grembo.

Un ulteriore tassello ad altissimo impatto emotivo nella vita della Dunne e nel lettore è la morte alla nascita del secondo figlio della scrittrice, Eoin. Una tragedia e il toccante racconto inedito che ha segnato la vita di questa donna capace di trasformare in altissima letteratura quello che il dolore può fare alle nostre esistenze.

 

Elizabeth Jane Howard “Quel tipo di ragazza” -Fazi Editore- euro 20,00

L’autrice della fortunata “Saga dei Cazalet” ha scritto questo romanzo durante i primi anni del suo matrimonio con Kingsley Amis, imbastendo una trama che ruota intorno alla felicità di una coppia quarantenne che vive vicino a Londra, infranta dall’arrivo di una terza incomoda.

L’unione che da 10 veleggia senza scossoni, in pieno amore e felicità, è quella di Edmund e Anne Cornhill. Una coppia riuscita. Lui è un ricco agente immobiliare che regala alla moglie una vita agiata e piena di attenzioni; abitano in una splendida villa sul fiume nei pressi di Henley, immersa in un rigoglioso giardino frutto della passione e della bravura di Anne nel mantenerlo lussureggiante.

A infrangere l’invidiabile idillio è l’arrivo dalla giovane e avventata Arabella, ospite indesiderata e ragazzina ricca. E’ la figlia di Clara che era stata sposata con il padre di Edmund, ma poi si era dilettata in altri 6 matrimoni e una schiera di amanti; donna egoista, dispotica e manipolatrice vive la figlia come ingombro e la smista a suo piacimento come, dove, e quando più le aggrada.

Questa volta spedisce la 22enne Arabella a tempo indeterminato da quel semi parente alla lontana che è Edmund, al quale si rivolge solo quando le occorre qualche favore.

Arabella diventa subito elemento di sorpresa e disturbo; cresciuta all’ombra della madre ingombrante, ha dovuto spesso subire in silenzio anche le inopportune attenzioni dei variegati e numerosi uomini che si sono accompagnati alla madre. E’ cresciuta nella ricchezza, ma non conosce alcun tipo di regole, non ha la minima idea del valore del denaro, ed è alla disperata ricerca di attenzioni e amore.

Già avete intuito che piomba nella vita dei Cornhill una mina vagante. Anne si sente in dovere di prendersi cura della randagia, mentre Edmund si rivela vulnerabile e propenso a lasciare che le cose accadano.

Mischiate a questo trio anche una serie di personaggi corollario e avrete un romanzo in cui ancora una volta la Howard produce la magia di una storia che veleggia tra la commedia e la fine psicologia, con ironia ed un’eleganza rare.

 

Monika Helfer “I Moosbrugger” -Keller Editore- euro 16,50

In questo romanzo la scrittrice austriaca (nata nel 1947) ha ricostruito la vita della nonna, e lo ha fatto superati i 70 anni nel 2020 in uno scorrevole memoir su cui aleggia l’alone della fiaba.

Siamo nel minuscolo paesino di una valle austriaca, dove Josef e Maria Moosbrugger vivono con i loro 5 figli in una modesta casetta. Sono poveri, con due mucche e una capra.

Josef è un bell’uomo, magro e senza gioia sul volto; Maria ha poco più di 30 anni ed è di una bellezza mozzafiato, di quelle che fanno voltare gli uomini e anche le donne al suo passaggio, ma lei ama il marito e la sua casa, senza tanti grilli per la testa. E’ felice di badare ai figli e di svolgere le semplici faccende domestiche, luminosa e solare quando stende il bucato o tiene in perfetto ordine la modesta abitazione. Non si lascia scoraggiare dalla povertà che l’attanaglia.

Poi scoppia la Prima Guerra Mondiale, Josef viene arruolato e spedito al fronte, e Maria resta sola a provvedere alle bocche da sfamare. Josef che sa quanto la moglie sia ambita dai maschi incarica il sindaco di sorvegliarla mentre lui è in trincea. Peccato che il primo cittadino sia quello che la brama più di tutti e provvede al rifornimento di cibo e vestiti per la numerosa prole di Maria, ma non lo fa in modo disinteressato.

Eppure a rapire il cuore della donna sarà un forestiero che arriva alla sua porta, figura losca e intrigante. Quando poi Maria si ritrova incinta divampano sospetti, invidie, cattiverie varie.

Rock Jazz e dintorni a Torino: Renato Zero e i Lou Dalfin

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Lunedì. Al Cafè Des Arts suona il gruppo  del sassofonista Gianni Denitto.

Martedì. Al Green Pea per “Jazz On The Roof”, concerto di Lil Darling.

Mercoledì. Al Blah Blah si esibisce Steve Rawles. Al teatro Colosseo Massimo Ranieri presenta lo spettacolo “Tutti i sogni ancora in volo”. Allo Spazio 211 è di scena il cantautore Adam Green insieme all’attore Francesco Mandelli.

Giovedì. Al teatro Giacosa di Ivrea Alice rende omaggio a Franco Battiato. Al Cafè Neruda il trio di Luigi Tessarollo suona con il sassofonista Renato D’Aiello. Al Jazz Club si esibiscono i Nandha Blues. Allo Ziggy performance di Alessandra Zerbinati dal nome “Waiting”, alchimia tra danza , teatro e rumorismo.

Venerdì. Alla Suoneria di Settimo suonano gli occitani Lou Dalfin. Al Pala Alpitour primo di 2 concerti consecutivi per Renato Zero. All’Hiroshima Mon Amour si esibisce Tonino Carotone. Allo Spazio 211 sono di scena i BRX!T con i Lamecca. Al Folk Club si esibisce la cantante e violinista Carrie Rodriguez. Al Blah Blah suonano i Nightstalker. Al Magazzino di Gilgamesh è di scena il bluesman Harry Hmura. Al Maffei per la rassegna “Aut Aut”, sono di scena Danilo Battocchio e Iznad_o.

Sabato. Al Bunker per “A Feast For Equinox” suonano Propaganda 1904, Agghiastru, Void Cvlt e altri. Alla Suoneria di Settimo si esibisce la Bandabardò e Cisco. Al Magazzino sul Po è di scena Protto. Al Teatro Colosseo arrivano i Nomadi. Allo Ziggy suonano i Marrano e i Moise. Al Blah Blah sono di scena i Meganoidi. Concerto teatrale al Gabrio con Elio D’Alessandro Marta Bevilacqua e Giorgio Canali. Allo Spazio 211 è di scena Cmqmartina. Nell’aula magna del Politecnico suona il quartetto del chitarrista Moreno D’Onofrio.

Pier Luigi Fuggetta

Milano tra arte e storia, “da romantica a scapigliata”. Ultimi giorni

Una mostra da non perdere (sino al 12 marzo 2023, al Castello Sforzesco di Novara

Quel prologo affidato alla tela di Francesco Hayez, “Imelda de Lambertazzi” del 1853 – tra sguardi languidi e pensierosi di innamorati, tra scranni e tendaggi verdi che nascondono sgherri in agguato -, amore e morte nella lotta tra Guelfi e Ghibellini nella Bologna del XIII secolo, narrato da un ormai sconosciutissimo Defendente Sacchi e caro anche a Donizetti, è il punto d’avvio della mostra “Milano da romantica a scapigliata”, ambientata nelle sale del Castello Sforzesco di Novara, davvero “maravigliosa”, che di testa e di pancia consigliamo a tutti. Volendo ricordare le occasioni che l’hanno preceduta, diremmo che arriva buona quarta dopo quelle sull’Ottocento e sul Divisionismo sino all’evento dedicato a Venezia, ospite tutte di un luogo che a grandi e importanti passi sta divenendo ritrovo d’appuntamento obbligato per gli appassionati dell’arte; e ottimamente resa, attraverso la cura e la conduzione e le scelte di Elisabetta Chiodini, dall’Associazione Mets Percorsi d’arte, ottima reclutatrice di opere da collezioni pubbliche e private, dal Comune di Novara e dalla Fondazione Castello, con il patrocinio di Regione Piemonte, Commissione Europea, Provincia di Novara e Comune di Milano, necessario Main Sponsor Banco BPM.

Settanta opere, piccole e grandi tele, sculture minuscole e di estrema raffinatezza (“La pleureuse”, 1875 – 1878, di Giuseppe Grandi), otto sezioni, i maggiori protagonisti della cultura figurativa ottocentesca attivi a Milano, le vicende storiche che sono trascorse dal Regno napoleonico all’austriaco Lombardo Veneto, dalle rivolte popolari (con l’immancabile Bossoli) sino alle guerre indipendentiste, sino alla liberazione del 1859. Le visioni di una capitale meneghina ancora chiusa dentro sue certe strutture quattrocentesche e delle sue trasformazioni verso una città moderna e signorile, ma ancora portatrice di inevitabili e ampi grumi di povertà, in cui le differenze sociali si facevano sempre più visibili, una città che negli anni Sessanta vedeva la costruzione della Stazione Centrale, la rivoluzione dell’area di piazza Duomo con la demolizione del Coperto dei Figini, con la costruzione della Galleria e l’ideazione di piazza della Scala sino, dieci anni più tardi, all’abbattimento del Rebecchino, antico isolato davanti alla bela madunina, luogo d’azione dei malandrini dell’epoca. Un percorso che non è soltanto affidato alle arti, ma altresì alla Storia e alla riscoperta visiva di angoli della città ormai mutati o scomparsi del tutto.

“Pittura urbana” (la definizione la si deve ancora al Sacchi) che abbraccia vecchie prospettive, iniziata tra il secondo e il terzo decennio dell’Ottocento dall’alessandrino Giovanni Migliara (che illustra vecchi caseggiati e antichi passeggi, eleganti toilette e venditori, nella “Veduta di piazza del Duomo in Milano”, 1828), lasciando presto il campo ai più giovani ma già sguinzagliati colleghi Luigi Premazzi (“Interno del Duomo”, 1843, un fiorire di colonne e vetrate di eccezionale bellezza, a fronte della monumentalità dell’organo descritto in ogni più significativo particolare), Carlo Canella (“Veduta della corsia del Duomo”, del 1845, l’attuale corso Vittorio Emanuele, un susseguirsi di figure colte nella loro più immediata vita quotidiana, lo stagnaro e la signora con l’ombrellino, le piccole voliere e il loro mercante) e Angelo Inganni con i suoi Navigli innevati del 1852. Un “palcoscenico” abitato altresì dagli “attori protagonisti” della storia milanese di quello scorcio di secolo, l’autore dei “Promessi Sposi” raffigurato da Giuseppe Molteni (un quadro ritrovato di recente), il “Conte Carlo Alfonso Schiaffinati in abito da cacciatore” dell’Arienti e i ritratti di Giovanni Carnovali, comunemente conosciuto come il Piccio, “autore – ci viene chiarito nelle note alla mostra – impegnato fin dalla prima metà degli anni Quaranta in una personalissima ricerca intorno alle potenzialità espressive del colore, figura fondamentale per un primo affrancamento della pittura lombarda da quello che era stato l’indiscusso primato del disegno di matrice classicista.”

La terza sezione contempla la Milano occupata dagli austriaci e poi liberata, nelle tele di Carlo Bossoli, il più sensibile quanto tenace narratore delle Cinque Giornate, e di Baldassarre Verazzi (“Combattimento presso Palazzo Litta”), mentre la successiva guarda alla Storia dalla parte degli umili, soprattutto attraverso i nomi dei fratelli Domenico e Gerolamo Induno, apprezzati dalla critica come dal pubblico dell’epoca, per il loro squisito sentimento nel raccontare i drammi e le difficoltà del vivere quotidiano di gran parte delle masse. Drammaticamente resa da Domenico con “Lacrime e pane” la povera camera della donna, che raccoglie qualche soldo con i ricami fatti al tombolo, con a fianco la sua bambina, o da Gerolamo con “La scioperatella” del 1851 e soprattutto “La fidanzata del garibaldino”, conosciuta anche come “Triste presentimento”, di vent’anni dopo, anche qui una povera stanza e un letto sfatto, forse una lettera tra le mani che non promette nulla di buono o un’immagine dell’innamorato e un mozzicone di candela, l’unico abitino poggiato sulla seggiola e un catino, il piccolo busto dell’Eroe posto nella nicchia e una riproduzione, alle spalle della protagonista, del “Bacio” di Hayez. Ogni personaggio colto nel suo habitat abituale, interni domestici disadorni, tra le proprie povere cose, quasi sempre immerso in pensieri di ricordi e di indigenza, ogni particolare reso con precisa autenticità, mai vittima di una componente calligrafica fine a se stessa ma di grande, autentico realismo.

Con il proseguire degli anni, molti artisti avanzano nel rinnovamento del linguaggio pittorico, uno fra questi Federico Faruffini (suicida a trentasei anni), grazie anche all’incontro con la pittura napoletana nelle tele e nell’amicizia di Domenico Morelli, ogni cosa vista attraverso un diverso sguardo dato alla luce e al colore. Sono esposti in mostra due suoi capolavori, “Saffo” e “Toletta antica”, davvero di tanta bellezza. Con il suo modo nuovo d’affrontare la pittura, Faruffini fu di stimolo maggiore e definitivo alla ricerca per artisti, lui espressione di ribellione ai codici, come Filippo Carcano e Tranquillo Cremona, Mosé Bianchi e Daniele Ranzoni, che lo abbracciarono e lo accrebbero, in una dimensione minore del disegno e in un affermarsi spavaldo del colore, capace da solo di costruire immagini, nella ricerca dell’essenza che scivola giù verso la “macchia scapigliata”, verso la rarefazione della materia e una vitalità sino a pochi anni prima certo impensabile. Certamente, in quel decennio tra il Settanta e l’Ottanta che vide l’affermarsi della Scapigliatura, non tutti guardarono con simpatia né sicuramente con convinzione a una nuova forma d’arte, “una pittura filacciosa, senza contorni di sorta, quasi senza piani e senza prospettiva”, si disse a proposito di Carcano. Sarebbero arrivate al contrario opere nuove, in netta area capolavori, quali “Giardino con effetto di sole” (di Carcano, 1867), “Ritratto di Nicola Massa Gazzino” (di Tranquillo Cremona, ancora 1867, un dandy di due secoli fa mollemente adagiato in poltrona, un tendaggio di velluto giallo intensamente colorato che affonda le proprie radici in un Rinascimento veneziano, una sola mano guantata, un fondo quasi impercettibile di fiori: eccezionale), “Un giorno di parata” (di Bianchi, 1870, sarebbe sufficiente la macchia degli abiti delle due donne rappresentate tra il sole e l’ombra, sullo sfondo la chiesa e le piccole e “imprecisate” figurine; come il visitatore si dovrà gustare “Il maestro di scuola” e l’impertinente “Dietro le scene”, ripensando a quanto un critico scrisse dell’artista: “Fu saldo disegnatore, compositore disordinato, schiettissimo pittore, succoso, fresco, vario in quel suo cromatismo in cui il colore dei veneziani riecheggia senza affievolirsi, esperto di ogni segreto dell’arte nel rendere la finezza dell’atmosfera e nel modellare con l’efficacia della pennellata nervosa.”).

Nell’ultima sezione, l’affermazione e il trionfo del linguaggio scapigliato, di Daniele Ranzoni “Giovinetta inglese” e “Ritratto della signora Pisani Dossi” (1880, la leggerezza dell’abito bianco e quegli occhi che paiono dire a chi guarda oggi come allora tutto il rincrescimento nei confronti di un qualcosa non fatto proprio e il dolore assopito del personaggio, uno dei più begli esempi della mostra), di Tranquillo Cremona in primissimo piano a catturare l’attenzione e l’ammirazione, con “La visita al collegio” e soprattutto con un unicum suddiviso tra “Melodia” e “In ascolto”, entrambe datate 1878 ed eseguite su commissione dell’industriale Andrea Ponti, un inno all’azzardo della preparazione, alle zone lasciate alla saggia improvvisazione e al non finito, al sommario, all’evanescente, nel tripudio del “disordine” delle pennellate: “Il pennello tanto squisito del Cremona non si è fermato a determinare che certe parti più importanti della composizione, ma in queste ha messo tutta la squisitezza d’intonazione, della quale ha per così dire una privativa assoluta, e tutta quella gentilezza di figure muliebri che egli solo sa trovare”, fu uno dei giudizi a lui rivolto all’apparire delle opere. La mostra è visitabile sino al 12 marzo 2023: assolutamente da non perdere.

Elio Rabbione

Alcune immagini della mostra: Giuseppe Canella, “Veduta della corsia de’ Servi a Milano”, olio su tela, 1833, coll. Gastaldi Rotelli, Milano; Angelo Inganni, “Veduta del Naviglio di via Vittoria con il ponte di via Olocati”, olio su tela, 1852, coll. privata; Domenico Induno, “Pane e lacrime”, olio su tela, 1854, coll. privata; Tranquillo Cremona, “Melodia”, olio su tela, 1874-1878, coll. privata; Daniele Ranzoni, “Ritratto della signora Pisani Dossi”, olio su tela, 1880, coll. privata.