ilTorinese

Sconfitte per Juve e Toro nelle due amichevoli internazionali

Barcellona-Juventus 3-0
Depay
Braithwite
AZ Alkmaar-Torino 2-1
Karlsson       Pjaca
Pavidis

Nel giorno dell’addio di Leo Messi al Barcellona, i blaugrana ospitano la Juventus allo stadio Johan Cruijff per un’amichevole di grande prestigio.Subito in vantaggio il Barca con Depay al terzo minuto il quale sfrutta  un buco della difesa bianconera. La Juve risponde con Morata, chiuso in due occasioni dall’ex Neto. Nella ripresa Allegri rivoluziona la squadra: dentro anche Chiesa, subito pericoloso, ma Braithwaite raddoppia di testa.Una Juve ancora imballata che dovrà lavorare parecchio per esser competitiva e provare a vincere la Champions League.Dal mercato dovranno necessariamente arrivare 2 centrocampisti di qualità,richiesti da Allegri.
In casa granata altro passo falso nell’amichevole persa in Olanda contro l’Az.Qualche buona notizia da Berisha e Pjaca,neo acquisto granata in gol  che hanno ben figurato nel grigiore generale.Per il resto il solito vecchio Toro degli ultimi 2 anni che ha evitato la retrocessione solo alla penultima giornata.Urgono rinforzi di qualità,almeno 3 giocatori,forse 4.Ci vuole chiarezza con Belotti e dar via tutti i giocatori,almeno 10(bocciati dal tecnico granata)dell’elefantiaco organico composto da 34 giocatori.
Altrimenti quest’anno sarà dura salvarsi senza questi accorgimenti necessari.
Buona fortuna Juric!

Vincenzo Grassano

 

Il guru del vino Donato Lanati chiamato in Madagascar

Un’impresa eroica che coniuga scienza, cultura, ambiente e territorio, con risvolti economico-sociali

“in Madagascar, vengono prodotti 15milioni di ettolitri di vino: i bianchi sono discreti, mentre i rossi sono imbevibili”

Pochi gli elementi certi e tante le variabili da analizzare

E’ partita dal Madagascar la delegazione malgascia, guidata dall’economista internazionale e procacciatore d’affari governativo Bruno Randri-Anantenaina, giunta settimana scorsa nel Monferrato per incontrare il guru del vino Donato Lanati. Un lungo viaggio di speranza e ambizione, per qualificare e lanciare la produzione enologica della Repubblica insulare, situata nell’Oceano Indiano, al largo della costa orientale africana.

Tra i Paesi economicamente più poveri del mondo e con una qualità della vita ancora bassa per la maggior parte della popolazione, il Madagascar annovera rari esempi di un’eccezionale biodiversità. L’economia nazionale è essenzialmente basata sull’agricoltura, sull’allevamento del bestiame e sulla produzione di oggetti di artigianato. Il riso resta il più importante prodotto del Paese, mentre l’esportazione agricola è centrata su prodotti di ridotto volume e di alto valore, come vaniglia, caviale litchi e oli essenziali. Il cuore del Paese, con le regioni di Fianarantsoa e Antananarivo, è l’altopiano centrale (hautes terres), caratterizzato da rilievi collinari e montani che raggiungono i 1700 metri di altitudine e che proteggono le fertili valli, fondamentali per l’agricoltura. Il tratto più distintivo dell’isola è il colore rosso intenso del terreno (ricco di ferro) che dà il suffisso “Rosso” all’Isola.

La nostra tradizione enologica parte dai vini prodotti per i riti religiosi”, ha spiegato l’economista malgascio durante la visita all’Enosis Meraviglia di Fubine; “poi, con le prime colonizzazioni europee, le coltivazioni sono iniziate a prosperare. Oggi, in Madagascar, vengono prodotti 15milioni di ettolitri di vino: i bianchi sono discreti, mentre i rossi sono imbevibili. Ecco, la motivazione del viaggio in Italia alla ricerca di una collaborazione/cooperazione con Donato Lanati, sommo maestro nell’interpretare ambiente/territorio e dar voce alla vite. Attualmente, il Madagascar è caratterizzato da un’economia di sussistenza e da scarsa industrializzazione, ma riserva grandi potenziali nel turismo, quello solitario e paesaggistico a contatto con la natura. In quest’ambito, riteniamo che il vino sia un elemento importante, una risorsa complementare per elevare la nostra offerta turistica”.

Che a Lanati piacciano le sfide è lapalissiano e che sia un luminare dell’enologia è una certezza inconfutabile ma, questa volta, si tratta di un’impresa davvero eroica, che coniuga scienza, cultura, ambiente e territorio, con potenziali risvolti economico-occupazionali. Una sfida oltre la sfida, che guarda anche al sociale e al riscatto di un Paese, paradossalmente, povero e ricco allo stesso tempo. Certamente, il notevole lavoro sul fronte della viticoltura e della vinificazione svolto in Georgia (dal 2004 sull’altopiano del Kakheti, dove c’erano 4 aziende e oggi, grazie a Lanati, se ne contano 120), Kazakistan e Cile, oltre che in Italia, è tra le dimostrazioni palpabili del suo vincente e lungimirante operato, anche sotto l’aspetto economico-sociale ma, col Madagascar, l’impresa è ancora più grande: è una lotta che si fa serrata contro il tempo e le distanze.  

E’ un invito impegnativo e stimolante allo stesso tempo”, riflette Lanati. “Pochi gli elementi certi e tante le variabili da analizzare, prima di intraprendere un percorso. Tra le certezze: l’eccezionale biodiversità del Madagascar, uno degli ultimi paradisi terrestri; da analizzare, invece: le condizioni pedoclimatiche, le escursioni termiche, la durata e l’intensità delle piogge, le temperature per la dormienza della vite, nonché gli agenti patogeni vegetali e animali. Alla luce di tutti questi elementi, fondamentale risulterà, altresì, la scelta del porta innesto. L’obiettivo? Un vino dialogico, dal cromatismo luminoso e trasparente. Ogni bottiglia dovrà racchiudere un pezzo di Madagascar. Sarà un lungo lavoro che durerà anni”.

La vite accompagna l’uomo da oltre otto millenni e, quando compresa, è in grado di esprimere la cultura e la storia di un territorio: “solo con tale consapevolezza”, sottolinea Lanati, “i malgasci conquisteranno la forza necessaria per interloquire col mondo”.

Con studi e analisi alla mano, potremmo ipotizzare di produrre un milione di bottiglie in una cantina modulare, che non sia solo il luogo di trasformazione dell’uva in vino, ma l’anima pulsante di una terra fiera e orgogliosa. Immagino cantine immerse nei vigneti, disegnati come parchi. Penso a cantine nelle quali vivere un pieno trasporto nella cultura di un territorio dalla storia millenaria. Marketing e comunicazione, poi, completeranno l’opera: l’etichetta dovrà essere geniale, diretta ed essenziale; un vero e proprio biglietto da visita del Madagascar e di tutto il suo comparato agroalimentare”.

Davanti alle sfide più grandi, l’eloquio di Lanati è tornato ad essere un fiume in piena che, tanto, ha affascinato i visitatori malgasci, pronti ad aprire autostrade allo scienziato del vino o, meglio ancora, ad edificare archi vitruviani, già emblema di riscatto e fortuna in altri Paesi del mondo, solcati dalla sapiente mano del guru monferrino.  

  

 I giorni della Comune di Parigi 

150 anni dopo l’evento che Carlo Marx definì “il primo governo operaio della storia”

Belleville , storico quartiere nel XX° arrondissement parigino, uno dei più popolari della “Ville Lumière”, s’innalza come Montmartre su uno dei colli più alti della città, sviluppandosi tra case e piccole vie tra il parco delle  Buttes- Chaumont e il grande “cimetière de l’Est”, il Père Lachaise. 

E’ in questo quartiere che, sul finire del 1915, vide la luce al civico 72 di Rue Belleville  la donna che incarnò una delle leggende e dei miti del filone realista della canzone francese. Si chiamava Édith Giovanna GassionPiccola, minuta come un “passero”  (venivano chiamati così i bambini che vivevano nelle strade del quartiere), passò l’infanzia accompagnando con la sua voce le esibizioni del padre contorsionista per poi diventare la celebre Édith Piaf, l’usignolo di Francia. In rue de Belleville una targa ricorda la casa  dove “nacque il 19 dicembre 1915 nella più grande miseria Edit Piaf, la cui voce, più tardi, sconvolgerà il mondo”.

Ma la collina di Belleville è conosciuta anche come quella dei martiri della Comune, delle barricate e delle strade che conservano tracce e memorie di lotte e insurrezioni. Fu lì che si concluse l’ultima resistenza di quello che Karl Marx definì “il primo governo operaio della storia”, con i combattimenti tra le tombe del Père-Lachaise. Nata come forma estrema di reazione allo sfascio del Secondo Impero (la guerra franco-prussiana, dopo la sconfitta francese a Sédan, volgeva a favore di Bismarck) la Comune  s’impose come un moto spontaneo di rivolta, cui fece seguito un concreto tentativo di dare allo slancio iniziale la forma di un governo popolare.

Dal 18 marzo al 28 maggio del 1871, in settantadue giorni, la Comune mise in atto un programma d’impronta socialista con misure a beneficio dei lavoratori come l’abolizione del lavoro notturno e l’occupazione degli alloggi sfitti, la separazione tra Stato e Chiesa, la socializzazione delle fabbriche abbandonate dagli imprenditori, il riconoscimento delle coppie di fatto, la creazione di una scuola pubblica, laica e gratuita. Tra gli obiettivi della Comune, c’era anche la riappropriazione della città, che le trasformazioni di Haussmann avevano iniziato a rendere estranea agli strati popolari. Misure radicali che però non entrarono quasi mai in vigore in quei tre mesi scarsi.

Cosa sarebbe diventata la “Commune de Pàris”? Avrebbe mantenuto il suo profilo di democrazia partecipata dal basso o si sarebbe trasformata in dittatura? Difficile dirlo perché la storia non si fa con i se e con i maE’ certo che vi furono delle frizioni tra le varie componenti del governo rivoluzionario ma l’esperimento finì in tragedia con la violenta repressione da parte dell’esercito regolare, ordinata dall’assemblea nazionale riunita a Versailles. Dal 2 aprile in poi Parigi fu assediata e bombardata dalle truppe governative mandate da Adolphe Thiers , il primo presidente della Terza Repubblica francese. I soldati di Versailles entrarono nella capitale il 21 maggio 1871: iniziava la “semaine sanglante”, la tristemente famosa “settimana di sangue“.

Sei giorni dopo, sabato 27 maggio, il Peré Lachaise fu teatro di uno degli ultimi, feroci  scontri , durante i quali precipitarono i sogni e le speranze della Comune di Parigi. Obbedendo agli ordini di Thiers, i reparti dei fucilieri di marina provenienti da Charonne e comandati dal generale Vinoy invasero i viali  del grande cimitero dell’Est dove si erano trincerati poche centinaia di federati decisi a battersi fino alla morte per difendere le proprie idee. Gli uomini della Comune si difesero tra le tombe, dietro ogni albero, al riparo di cripte e monumenti. Finite le munizioni, sotto una pioggia battente, i combattimenti proseguirono all’arma bianca fino a notte inoltrata.

Gli scontri più violenti si consumarono tra il 48° e il 49° settore , soprattutto nell’area nord occidentale del cimitero, attorno al Rond-point des travailleurs Municipaux, dove sono sepolti Honoré de Balzac e Gerard de Nerval, Eugène Delacroix e lo storico Félix Féris, barone de Beaujour. Ancora oggi è possibile scorgere tracce dei proiettili su alcune tombe come quella di Charles Nodier, lo scrittore che fu precursore del Romanticismo. Le Monde Illustré, nell’occasione, scrisse: “L’orribile dramma ebbe fine al cimitero, come nell’ultimo atto di Amleto, tra tombe scoperchiate, colonne rovesciate, urne profanate, statue e lastre divelte a formare l’ultima barricata. Lottarono passo dopo passo su un terreno disseminato di corone in onore di personaggi immortali, nella fossa comune, con le ossa fino alla caviglie, fin dentro le tombe di famiglia dove la baionetta trafiggeva i vivi infilzandoli assieme ai morti”.

I 147 federati sopravvissuti, furono immediatamente condannati a morte da una corte marziale straordinaria insediata sul posto, tra le tombe. Immediatamente fucilati, i loro corpi vennero gettati, assieme a circa ventimila altri passati per le armi e provenienti da tutta Belleville, in grandi fosse comuni scavate ai piedi del muro che porta il loro nome, nel 76° settore del Peré Lachaise . In realtà il muro sul quale campeggia la targa “Aux mort de la Commune 21-28 Mai 1871” fu ricostruito successivamente e con i resti del muro originario venne edificato un monumento, “Il muro delle Rivoluzioni”, a loro dedicato dallo scultore Paul Moreau-Vauthier. L’opera si trova all’esterno della cinta cimiteriale, in Square Samuel de Champlain 18, nell’avenue Gambetta. Con un po’ d’attenzione si potrà leggere una citazione di Victor Hugo: “Ce que nousdemandons à l’avenir, ce que nous voulons de lui, c’est la justice ce n’est pas la vengeance“ (Ciò che noi domandiamo all’avvenire, ciò che vogliamo da lui è la giustizia, non la vendetta). Parole quanto mai giuste, perfettamente opposte allo spirito e all’intento di colui che all’epoca ordinò di soffocare nel sangue l’insurrezione popolare, agendo con uno spirito vendicativo senza scrupoli, violento e repressivo.

Su Adolphe Thiers, soprannominato “le serpent à lunettes ” e “le croque-mort  de la  Nation“, il becchino della nazione, il giudizio più duro  fu quello pronunciato dal sindaco di Montmartre, Georges Clemenceau. Giornalista e repubblicano, presidente del consiglio e deputato dell’Assemblée Nazionale, Clemenceau durante i giorni della Comune definì  Thiers  “il prototipo del borghese crudele ed ottuso che sguazza nel sangue senza battere ciglio“.

Oltre 43 mila federati furono fatti prigionieri e condannati dai consigli di guerra a morte o ai lavori forzati nei bagni penali (soprattutto in Nuova Caledonia, territorio francese d’Oltremare nel sud del Pacifico). Alla Comune furono imputate circa 800 vittime mentre secondo le cifre ufficiali tra i ranghi dei federati furono uccise più di 30 mila persone. Le truppe di Versailles eseguirono fucilazioni in serie, senza processi. A caldo, il giornale inglese Evening Standard constatò: “Dubitiamo si possa mai stabilire la cifra esatta della carneficina che continua. Persino per gli autori di queste esecuzioni deve essere impossibile dire quanti cadaveri hanno accumulato”.

Resta il fatto, tutt’altro che secondario, di un evento importante che ha segnato in maniera profonda la storia e la memoria collettiva della Francia. Eugène Pottier, il poeta che nel giugno del 1871, nascosto in una soffitta di Parigi per sfuggire alla repressione che seguì alla sconfitta della Comune, compose il famoso inno “L’Internazionale”, scrisse : “L’hanno uccisa a colpi di fucile. A colpi di mitraglia. E avvolta con la sua bandiera nella terra argillosa. E l’accozzaglia di boia panciuti si credeva più forte. Tutto ciò non impedisce che la Comune non sia morta!

Marco Travaglini

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Edith Bruck “Il pane perduto” -La nave di Teseo- euro 16,00

Non bisogna mai smettere di ricordare l’orrore dello sterminio degli ebrei, soprattutto oggi che xenofobia e razzismo tendono ad rialzare la testa. E’ questo il valore aggiunto delle pagine autobiografiche in cui la scrittrice ungherese Edith Bruck -nata nel 1931, ultima di 6 fratelli di una modesta famiglia ebrea- nel 1944, poco più che una bambina sprofonda nell’inferno della persecuzione.
Dapprima sperimenta l’ostracismo riservato alla sua stirpe: lei bravissima a scuola è relegata al fondo della classe con altre 2 allieve ebree. Ma è solo l’anticamera dell’atrocità che irrompe con i gendarmi nella sua casa: arrivano e li portano via tutti con la forza, per caricarli sui treni della morte.
E’ l’inizio di un viaggio crudele in cui sono ammassati come bestiame e destinati ai campi di concentramento.
Lei è piccola, spaventata e non sa a cosa sta andando incontro. Dopo 4 giorni il treno frena bruscamente e ad accoglierli ci sono cani feroci e nazisti spietati che operano la prima selezione. Loro non lo sanno, ma la differenza tra essere ammassati a destra o a sinistra sancisce l’immediata morte nelle camere a gas o l’indicibile orrore delle baracche, con fame, freddo, pidocchi, malattia e morte.

Quello che segue è il racconto di una bambina che, separata dai genitori (struggente la scoperta del destino della madre nel campo in cui si cammina sulla cenere eruttata dai camini dei forni crematori), si ritrova a tentare di sopravvivere insieme alla sorella Judit.
Vengono spostate in vari inferni, tra le tappe ci sono Anschwitz, Dacauh e Bergen-Belsen, la macabra toponomastica dello sterminio. Riescono a sopravvivere ma si porteranno sempre dentro il ricordo degli stenti, delle pile di cadaveri che sono state obbligate a trascinare nella piramide umana del Todzelt, ovvero la tenda della morte e dell’infamia nazista.

Quando vengono liberate sprofondano nello spaesamento, nella disperazione e nel senso di abbandono. Ritrovano due sorelle, ma l’accoglienza non è quella sperata. Dilaniante è il senso di estraneità rispetto agli altri ebrei che non hanno conosciuto la mostruosità dei lager; è impossibile che capiscano quello che hanno vissuto Edith e Judit. Va meglio con il fratello che era stato internato col padre e che, come loro, ha attraversato la tragedia.

Judit cercherà il futuro in Israele, mentre Edith realizza di voler scrivere. E’ la genesi della sua lunga e straordinaria carriera di scrittrice di romanzi, poesie e traduzioni, grande testimone della Shoah.
Ed eleggerà l’Italia come paese di adozione, accanto all’uomo della sua vita, il regista Nelo Risi, scomparso nel 2015, col quale aveva costruito un lungo sodalizio artistico oltre che sentimentale.

 

Susan Allott “Una vita migliore” -HarperCollins- euro 18,00

E’ strepitoso l’esordio letterario della scrittrice inglese Susan Allot, che ha vissuto e lavorato negli anni 90 in Australia, salvo poi avvertire la nostalgia di casa e tornare in patria dove ha incontrato e sposato un australiano. Ora vivono a Londra con i loro figli, ma il paese dei canguri le è rimasto nel cuore.
Questo romanzo noir è in qualche modo un omaggio a quella terra e affronta temi corposi come i rapporti matrimoniali, tradimenti, derive di disperazione, alcolismo e violenza domestica, nostalgia per la patria di origine e l’argomento scottante dei bambini aborigeni sottratti arbitrariamente alle loro famiglie.
Una vergogna a lungo taciuta che riguarda la “stolen generation” (la generazione rubata), ovvero i bambini isolani dello Stretto di Torres allontanati con l’inganno e la forza dai genitori, in ottemperanza alla spietata legge dei governi federali australiani in vigore dal 1869 al 1970.
Secondo alcune stime ha coinvolto almeno 100.000 piccoli aborigeni. L’idea era quella di fornire loro un futuro migliore; venivano affidati alle missioni religiose che avrebbero dovuto educarli secondo “lo stile di vita bianco”. Ma in realtà, molti finivano in un buco nero.
Su tutto poi imperversano segreti accuratamente custoditi e la misteriosa scomparsa da 30 anni di una delle protagoniste, della quale non è stato ritrovato neanche il corpo.
Al centro ci sono due coppie che abitano vicine in un tranquillo sobborgo di Sydney, fatto di villette e giardini curati affacciati sul mare e destinati ad aumentare di valore negli anni.
Nel 1967 lì comprano casa gli immigrati inglesi Joe e Louisa con la loro bambina di 4 anni, Isla; e la coppia formata da Mandy e Steve, che di mestiere fa il poliziotto. Agli inizi sembrano giovani, belli e spensierati; ma sotto la superficie albergano inquietudini e insoddisfazione.

Louisa è attanagliata dalla nostalgia di Londra, Joe non la capisce e lei a un certo punto decide per uno strappo doloroso che getta il marito nella disperazione.
Le cose non vanno meglio per l’altra coppia con la quale fanno amicizia. Mandy che fa un po’da baby sitter a Isla, è terrorizzata dalla prospettiva di una gravidanza. Cosa che invece renderebbe felice Steve, il quale a sua volta è dilaniato dal suo lavoro “sporco”; perché è lui che ha lo sgradevole compito di strappare dalle loro famiglie i piccoli aborigeni per relegarli in case di accoglienza ed assistenza minorile.

La storia corre di pagina in pagina su due piani temporali diversi: nel 1967 quando improvvisamente si perdono le tracce di Mandy e poi nel 1997 quando Isla Green, 35enne in lotta contro l’alcolismo e residente a Londra, torna in Australia perché il padre è accusato di essere stato l’ultimo a vedere Mandy ed è il principale sospettato.
Isla deve confrontarsi con il passato, e continui colpi di scena vi indicheranno la strada verso la soluzione del mistero.

 

Linn Ullmann “Gli inquieti” -Guanda- euro 20,00

Ingmar Bergman, nato nel 1918 e morto nel 2007, è stato uno dei registi più geniali e famosi a livello mondiale del 900: autore di opere di profonda introspezione psicologica, sommo maestro nel raccontare drammi interiori, angosce e senso della morte. Sceneggiatore, drammaturgo, scrittore e produttore cinematografico svedese ha lasciato all’umanità pellicole della caratura de “Il settimo sigillo”, “Il posto delle fragole”, “Scene da un matrimonio” ed altre perle della storia del cinema.

Linn Ullman è la figlia del regista e dell’attrice Liv Ullmann, che ebbe ruoli importanti in alcuni film di Bergman e nella sua vita privata. Si innamorarono sul set nel 1964 e dalla loro relazione nacque nel 1966 la loro unica figlia.
Liv capitò tra un matrimonio e l’altro. Per stare con lei, il regista lasciò la sua quarta moglie; i due vissero insieme ma non si sposarono mai e le loro strade presero tangenziali diverse quando Linn aveva 5 anni. La bambina crebbe con la madre, attrice tra le più intense e talentuose della sua epoca, sempre in viaggio tra Europa e America, tra un set e l’altro. Una madre «capace di piegare una sbarra di ferro con uno sguardo» facendo sentire la figlia compresa e amata.
Oggi Linn è un’affermata scrittrice e questo libro è il suo portentoso tributo al padre.
Quasi 400 pagine che ci portano dentro la vita incredibile del genio, dalla vita sentimentale parecchio intensa: sposato 5 volte ebbe in tutto 9 figli da 6 donne diverse.
Un’ incredibile famiglia allargata in cui la prole legò allegramente, soprattutto durante le spensierate vacanze sulla piccola isola svedese di Fårö nel Mar Baltico. Lì, nel villaggio di Hammars, il regista costruì una casa in pietra, con vista sul mare, che negli anni ampliò sempre e solo orizzontalmente, nido del via vai dei numerosi figli.
E’ lì che Bergman scelse di ritirarsi nel tempo del declino, fino alla sua morte a 89 anni il 30 luglio del 2007.

Quando è alla soglie degli 80 anni, e avverte che la memoria sta scemando, Ingmar Bergam è alla figlia più piccola, Linn, che affida il racconto della sua vita, tutto metodicamente registrato e trascritto dalla scrittrice. Nel libro, a metà strada tra opera autobiografica e biografia romanzata, l’autrice mischia ricordi personalissimi alle parole del padre; a volte stentate o sconclusionate, soprattutto quando la memoria stava per arrendersi all’impietoso incedere degli anni.

E’ soffuso di affetto figliale il ritratto di un genio che nella vita privata ha pasticciato tra amori, tradimenti e tratti da Peter Pan; salvo poi venire schiantato dal dolore per la morte dell’ultima moglie, Ingrid, consumata dal cancro.
Emergono anche le debolezze di un padre “monumento”: forte, impeccabile, capace di pensare e creare in grande, ma anche con qualche mania, come la fissazione per la puntualità.

C’è poi l’ultimo tratto di stentata vita del regista, sempre più debole, depresso e relegato alla sedia a rotelle; accudito da uno stuolo di donne governate con piglio dittatoriale da Cecilia, che manda avanti la casa, protegge ogni istante il malato e spesso sgrida anche Linn perché disturba “Pappa” desideroso di pace e silenzio.
Ingmar Bergam fa i conti con l’avvicinarsi di quella morte di cui erano intrisi i suoi film. E fu regista fino all’ultimo, dando le disposizioni da seguire rigorosamente alla sua morte. Pianificò puntigliosamente ogni frame del suo funerale, scrisse e modificò il testamento, decise il luogo in cui voleva essere sepolto e diede anche disposizioni per esumare la salma di Ingrid e farla riposare accanto a lui.

 

Se poi volete leggere altre opere di Linn Ulmann vi consiglio il romanzo “Prima che tu dorma”
-Mondadori-

Anche qui l’autrice racconta la storia di una famiglia norvegese attraverso le vicende di tre generazioni. Voce narrante è quella di Karin che una sera racconta una storia al nipotino Sander, figlio della sorella Julie.
E’ l’avvio di ricordi e pensieri che imbastiscono i rapporti della sua famiglia.
Più che una saga familiare è la narrazione delle tante difficoltà e differenze caratteriali che possono rendere difficile la convivenza tra le pareti domestiche e non solo. Linn Ulmann scava a fondo nell’animo dei personaggi e ci regala un romanzo che, per tematica e modo di affrontare questioni e sentimenti profondissimi, ci rimanda a famosi film del padre, come “Scene da un matrimonio” o “Fanny e Alexander”
A partire dal nonno emigrato in America negli anni 30 e il suo matrimonio con la nonna June; poi la madre Anni, irresistibile ma infelice e alcolizzata, con punte di pazzia. Dotata di una bellezza mozzafiato, ma anche egocentrica e decisamente balzana.
Vivere con lei è difficile se non impossibile, tant’è che il marito abbandona la famiglia quando Karin è ancora piccola; ma continua il legame forte con le figlie -suoi “cuori gemelli”- anche se in modo sporadico.

Poi c’è la sorella maggiore Julie che ha paura dei sentimenti e si relega in un matrimonio stentato, nella falsa speranza di trovarvi la sicurezza che va cercando.
Non manca anche una zia sui generis: è l’ultraottantenne Selma (sorella minore della nonna June), perennemente arrabbiata con la vita e con tutti quelli che le capitano a tiro, a partire dai parenti. Fuma 40 sigarette al giorno, beve come una spugna e sembra che a tenerla in vita sia un’ insondabile e profondissima ira. Tanto per darvi un’idea del personaggio, quando morì la sorella June, lei festeggiò con una bottiglia di cognac. Le due si detestavano dopo un episodio sgradevole capitato quando erano giovani e vivevano ancora in America.
Karin scava nei complessi rapporti di amore ed affetto della sua famiglia, intrecciando ricordi e fantasia; ma parla anche molto di se stessa, dei suoi sogni e delle aspettative deluse, della sua irrequietezza e le difficoltà nel costruire legami solidi.

Tutela dell’ambiente e sicurezza: ecco i primi interventi lungo i fiumi piemontesi

Riqualificazione fluviale, terminati gli interventi lungo la Dora Baltea e il Sesia

Nove gli interventi, 7 nel Torinese e 2 nel Vercellese. I lavori, realizzati con i contributi dei due progetti europei Interreg “Eau Concert” e con fondi regionali, permettono sia il contenimento degli inquinanti che il consolidamento delle sponde fluviali.

L’assessore all’Ambiente Marnati: “Continua il nostro impegno per il miglioramento del territorio”

Terminati gli interventi di riqualificazione della vegetazione sulle sponde della Dora Baltea e del Sesia. Si tratta di lavori, sostenuti finanziariamente dai due progetti europei Interreg “Eau Concert” e da fondi regionali, che consentono sia il contenimento degli inquinanti provenienti dai terreni agricoli limitrofi ai corsi d’acqua, che il consolidamento delle sponde fluviali in modo da renderle, con infrastrutture verdi, più resilienti all’erosione e agli eventi alluvionali. E, non da ultimo, permetteranno di valorizzare le aree dal punto di vista della fruizione da parte dei cittadini, migliorare gli habitat favorendo la biodiversità e contribuire a mitigare i cambiamenti climatici attraverso il trattenimento della CO2.

Gli interventi si inseriscono nella strategia complessiva che l’Assessorato Ambiente della Regione Piemonte ha promosso negli anni più recenti per una buona gestione della vegetazione presente sulle sponde dei corsi d’acqua.

“Continua il nostro impegno per il miglioramento del territorio– commenta l’assessore regionale all’Ambiente, Matteo Marnati – Questi interventi aumentano la capacità di resistere alle precipitazioni eccessive che spesso sfociano nelle esondazioni e non rappresentano solo un beneficio in termini ambientali ma anche sotto il profilo dello sviluppo del territorio”.

I Comuni interessati dalle riqualificazioni, per quanto riguarda la Dora Baltea, sono Borgofranco d’Ivrea, Caravino, Crescentino, Ivrea, Montalto Dora, Quassolo, Quincinetto e Settimo Vittone. Sono state messe a dimora 4.500 piante autoctone su una superficie di 30 ettari complessivi di miglioramento forestale e oltre 5 Km di fasce tampone.

Lungo il fiume Dora Baltea i progetti sono stati effettuati nell’ambito del Contratto di Fiume in corso di attivazione, e quindi con il coinvolgimento e con il contributo dei Comuni nella programmazione degli interventi e nella scelta dei siti; sono stati coinvolti inoltre i conduttori dei terreni agricoli e alcune imprese locali per la realizzazione e la manutenzione degli interventi, oltre ad aziende specializzate presenti sul territorio regionale.

Lungo il fiume Sesia, nel solo comune di Caresana, sono stati messi a dimora 2680 tra alberi e arbusti, su una superficie complessiva di oltre 4 ettari.

Oltre a proseguire in altre aree vicine al Sesia, la Regione Piemonte intende attuare, sempre con il supporto tecnico di IPLA, interventi analoghi di valorizzazione della vegetazione e delle aree demaniali su altri importanti corsi d’acqua quali Dora Riparia, Stura di Lanzo, Cervo, Orba, Belbo.

Passante rapinato in zona San Salvario

Arrestato dagli agenti del Commissariato Barriera Nizza

Lo scorso martedì notte, attorno all’una, un cittadino italiano che stava camminando in via Nizza viene avvicinato da uno sconosciuto di nazionalità egiziana che gli chiede qualcosa. L’uomo intuisce che l’altro non sia ben intenzionato e affretta il passo, cercando di  allontanarsi dal giovane. Ma questi continua ad importunarlo finchè, all’intersezione stradale fra via Nizza e Corso Vittorio Emanuele II, lo raggiunge e gli mette le mani nelle tasche. Nasce una colluttazione: la vittima rovina per terra, il suo aggressore, dopo avergli strappato la maglietta, lo rapina del cellulare e corre via. La persona aggredita riesce  a chiedere aiuto  al personale di un pub ubicato nei pressi: convergono sul luogo le Volanti dell’Ufficio Prevenzione Generale e del Commissariato di zona, che intercettano il fuggitivo in via Galliari. Si tratta di un cittadino egiziano ventiduenne: il giovane fornisce generalità differenti rispetto a quelle reali ma gli accertamenti svolti a suo carico tramite la comparazione in banca dati delle impronte digitali faranno emergere i suoi veri dati anagrafici e i suoi numerosi precedenti per reati contro il patrimonio, la persona, la P.A. nonchè un divieto di dimora nel Comune di Torino. Gli agenti del Commissariato Barriera Nizza, dopo aver recuperato il cellulare rapinato e averlo restituito al legittimo proprietario, traggono in arresto il ventiduenne egiziano per rapina  e false dichiarazioni sull’identità personale.

La passione per la libertà. Ricordi e riflessioni

LIBRI / Pier Franco Quaglieni, noto storico e giornalista, fondatore nel 1968 del Centro Pannunzio con Arrigo Olivetti e Mario Soldati, ha fatto propria e portato avanti per una vita la battaglia per la libertà e per la tolleranza (che altro non è se non il rispetto della libertà altrui).

Definito da Gramellini un «liberale del Risorgimento nato nel secolo sbagliato. Per nostra fortuna.», da alcuni anni presenta al pubblico una panoramica di insigni personaggi italiani del ‘900, con il duplice obiettivo di riconoscere loro meriti troppo spesso taciuti e di indicarli ad esempio per le nuove generazioni. Lascito che diventa necessità impellente con il progressivo scadere del dibattito politico, l’aumento della veemenza e dell’intolleranza nei social, la riduzione progressiva degli spazi dedicati alla libera cultura.

Nel primo capitolo di questa panoramica, Figure dell’Italia civile(2016) l’autore tratteggia i maestri e gli amici che hanno costituito i pilastri del pensiero liberale, e non solo, del ‘900, in parte per averli studiati, in parte per averli conosciuti o averne condiviso le battaglie. Einaudi, Calamandrei, Rossi, Bobbio, Montanelli, Ciampi, Spadolini, Pannella, solo per citarne alcuni, emergono non solo come pensatori, ma nella loro piena umanità, con le loro passioni, le loro incertezze, le loro battaglie che hanno fatto dell’Italia il paese che è oggi. Nel 2018, con Grand’Italia, questa Antologia di Spoon River si arricchisce di altri insigni personaggi, anche non strettamente legati all’idea liberale: Saragat, Gramsci, Eco si affiancano a Guareschi, Martini Mauri, Sartori, Zanone e tanti altri. Nella varietà delle posizioni, si ricostruiscono i contesti politici, i dibattiti, le polemiche, anche molto accese, dei decenni passati. Il dar voce a posizioni anche contrastanti è scelta imprescindibile, non solo per amore di verità storica, ma anche perché, ricordando Gobetti, solo attraverso il confronto le idee poterono e possono proseguire.

Oggi viene alla luce un terzo capitolo La passione per la libertà. Ricordi e riflessioni che, se da un lato integra i lavori precedenti, dall’altro apre a nuove tematiche. Sempre nella duplice accezione di dar loro un riconoscimento e di indicarli quale esempio alle nuove generazioni, trovano spazio personaggi più vicini ai nostri giorni quali Daverio, Biondi, Ostellino o Pansa di cui tutti ricordiamo le opere ed in alcuni casi i forti dibattiti che hanno suscitato (e suscitano). Si arricchisce così questa poliedrica storia del ‘900, rivista con le prese di posizione di molti dei suoi protagonisti, spesso in aperta antitesi tra loro. Solo la profonda conoscenza, unita all’onestà intellettuale ed al rigore storico di Quaglieni, poteva presentare i passaggi fondamentali del secolo, non in modo lineare come un qualsiasi manuale scolastico, ma attraverso le scelte dei suoi artefici. Ritroviamo i dibattiti sull’intervento in Libia nel 1911 o nella Grande Guerra, le posizioni sull’avvento del fascismo e sulla sua caduta, con la conseguente guerra civile, ma anche l’esodo giuliano-dalmata e le foibe. Più recentemente il brigatismo, i dibattiti sulla scuola, i temi sempre divisivi dell’aborto e del divorzio. Tra le tante tematiche ne cito una, illuminante per l’equilibrato modo di porla. Riprendendo la strage delle Fosse Ardeatine, l’autore ricorda una delle vittime, Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo, capo del Fronte Militare clandestino, arrestato per delazione, torturato in modo disumano, che mai parlò tradendo i suoi compagni, insignito di medaglia d’oro della Resistenza. Tacque eroicamente, nonostante fosse stato contrario ad atti terroristici, quale quello di via Rasella che causò la rappresaglia, a cui per poco scampò Pannunzio. Chi invece compì l’attentato, non si consegnò per evitare la strage e, dopo la guerra, ottenne onori e riconoscimenti, sotto la protezione di Amendola. L’aspetto più interessante di questo racconto, è il ritratto che l’autore delinea, alcune pagine dopo, dello stesso Amendola. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, nonostante le responsabilità per via Rasella, il giudizio su Amendola è distaccato e complessivamente positivo. Questo esempio è significativo della personalità e dell’opera di Quaglieni, la capacità, più unica che rara, di mantenere un giudizio equilibrato, scevro di preconcetta faziosità o di umana emotività: storico nel senso più puro del termine. Una perla rarissima, rispetto all’involgarimento cui siamo purtroppo abituati.

Ne La passione per la libertà, l’autore va oltre al ruolo di storico e docente che caratterizzava i primi libri, affiancando quello del giornalista che interviene e partecipa a dibattiti attuali: non a caso è anche una delle firme più autorevoli de il Torinese. Trovano così posto nel volume alcune prese di posizione, anche fortemente polemiche, su temi odierni come l’esclusione di Casa Pound dal Salone del Libro, la lapide sui disertori al Vittoriano, il negazionismo sulle foibe, il revisionismo sul Risorgimento. Anche quando entra nel dibattito, però, ha la capacità di ascoltare e vagliare le tesi opposte, prendendo seccamente le distanze da chi dimostra un’intolleranza o una faziosità che non gli sono mai appartenute.

In quest’ultimo lavoro poi, sono presenti (e colpiscono chi lo conosce e ne apprezza da tempo le opere) alcuni tratti spiccatamente personali, da ricordi di infanzia, ad album di famiglia ad aneddoti personali di alcuni dei personaggi ricordatiche svelano un aspetto più intimo del professor Quaglieni. Conclude il volume Riflessioni sulla laicità tra Cristianesimo edIslam e il magistero del Cardinal Ravasi, più che un capitolo, di fatto è un breve saggio che ripercorre in modo esaustivo, tra Matteucci, Bobbio, Croce, Abbagnano, Pera la difficile convivenza tra liberalismo e religione, nelle varie declinazioni tra anticlericalismo, laicismo e laicità. Argomento di grande rilevanza, sia perché il Cristianesimo è alla base della cultura occidentale ed i rapporti con esso sono stati fondamentali tanto per il Risorgimento, quanto per l’antifascismo; sia perché lascia trapelare un avvicinamento dell’autore, in età matura, ad un sentimento religioso che in passato, forse, non sentiva così vicino. Questo, al di là di titoli e riconoscimenti formali, rende l’autore ancora più umano ed il libro ancora più interessante.

Paolo Vieta

 

Dalla Regione i fondi per i giovani agricoltori

Assessore Protopapa: “Un unico bando per l’insediamento dei giovani e per il miglioramento delle aziende”

E’ in arrivo il bando regionale per l’anno 2021 a sostegno dei giovani agricoltori piemontesi sulle misure del Programma di sviluppo rurale del Piemonte per gli anni di transizione 2021-2022.

La Giunta regionale, su proposta dell’assessore regionale all’Agricoltura e Cibo Marco Protopapa, ha approvato oggi la delibera che assegna un finanziamento complessivo di 45,6 milioni di euro per l’apertura del bando cosiddetto “pacchetto giovani” in quanto integra le operazioni 6.1.1 del Psr, insediamento dei giovani agricoltori e 4.1.2 del Psr, miglioramento delle aziende agricole (rendimento globale e sostenibilità).

“Per l’anno 2021 la Regione Piemonte assegna una dotazione finanziaria significativa a sostegno dei giovani agricoltori piemontesi attraverso l’apertura di un unico bando, molto atteso dall’intero comparto – dichiara l’assessore all’Agricoltura e Cibo, Marco Protopapa – Sono previsti aiuti per avviare nuove imprese e per la realizzazione di investimenti finalizzati agli adeguamenti strutturali delle aziende con l’obiettivo di migliorarne la competitività”.

L’emanazione del bando è condizionata dall’approvazione da parte della Commissione Europea della richiesta di modifica del Psr 2014-2020 del Piemonte per gli anni di transizione e verrà pubblicato la prossima settimana sul sito della Regione Piemonte.

Carceri, i radicali scrivono a Cirio

VISITA AL CARCERE DELLE VALLETTE DI TORINO: LA DELEGAZIONE DEL PARTITO RADICALE E DELL’ASSOCIAZIONE MARCO PANNELLA DI TORINO SCRIVE AL PRESIDENTE E ALL’ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE PIEMONTE.

Lo scorso 2 agosto una delegazione del Partito Radicale, guidata da Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, Mario Barbaro, delle Segreteria del Partito Radicale e Sergio Rovasio, Presidente dell’Associazione Marco Pannella di Torino, insieme ai Garanti dei detenuti del Piemonte, Bruno Mellano e del Comune di Torino, Monica Gallo, hanno inviato una lettera urgente al Presidente della Regione Alberto Cirio e all’Assessore alla Sanità della Regione Luigi Icardi per chiedere interventi urgenti riguardo l’assistenza sanitaria quasi del tutto inesistente nel Carcere Lorusso-Cotugno delle Vallette di Torino.

Nella lettera si fa riferimento a dati oggettivi e dettagliati riguardo gravi carenze sanitarie riscontrate all’interno del carcere, in particolare vengono sollecitati  interventi urgenti di competenza regionale che negli ultimi due-tre anni si sono acuiti. E’ stata segnalata l’assenza quasi totale di medici specialisti con gravi carenze di tipo strutturale, tra tutte la cardiologia.  Persone detenute con gravi problemi psichiatrici in reparti non adeguati, in aree in comune con altre detenute nel reparto femminile.

Viene inoltre segnalata la mancanza di un referente regionale che possa con celerità riscontrare le varie disposizioni in materia di prevenzione di diffusione del Virus Covid-19  che consenta alla popolazione detenuta di poter incontrare in sicurezza e in appositi spazi all’aperto (Aree Verdi) i parenti, così come previsto recentemente dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e la totale mancanza di adeguata informazione tra la popolazione detenuta e il personale penitenziario sui benefici del vaccino anti-Covid con percentuali piuttosto elevate di persone. Il personale adibito alla sicurezza ( solo il 60% degli agenti del corpo della polizia penitenziaria si è sottoposto a vaccinazione ) – che lo rifiutano e che si trovano in situazione di promiscuità con rischi elevati di diffusione del virus all’interno del carcere.

Le condizioni igieniche carenti dovute a scarsa/inesistente manutenzione, in particolare per mancanza di adeguata disinfestazione di tutte le aree con  ambienti degradati e spazi inadeguati sotto il profilo igienico-sanitario e conseguente presenza costante di blatte, scarafaggi e topi e gravi ritardi sulla consegna dei medicinali di cui necessitano i detenuti (attesa anche di oltre un mese dalla richiesta);

Nella lettera viene sottolineato che tali problematiche si riversano gravemente sulle condizioni di detenzione dei detenuti e riguardano direttamente anche il personale che opera all’interno del Carcere delle Vallette della Casa circondariale Lorusso-Cotugno (Polizia Penitenziaria, dirigenti, educatori, assistenti, insegnanti, volontari e personale amministrativo).