redazione il torinese

Caporetto, 1917. Erano gli ultimi giorni di ottobre

ACCADDE OGGI / di Marco Travaglini

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Ponte de Priula l’è un Piave streto / i ferma chi vién da Caporeto; Ponte de Priula l’è un Piave streto / i copa chi che no ga ‘l moscheto. Ponte de Priula l’è un Piave mosso / el sangue italiàn l’ha fatto rosso…”

 Massimo Bubola,  autorevole interprete della canzone d’autore italiana, descrive così, in una struggente canzone,  la ritirata italiana da Caporetto al Piave, dove si trovava il ponte. Dopo la sconfitta nella 12° battaglia dell’Isonzo, l’esercito italiano si assestò sulla linea del Piave. Furono giorni di confusione e di tensione, anche tra i vertici militari e le truppe. Non c’è bisogno di tradurre il testo dal veneto per capirne il significato, legato al dramma della ritirata, con molti soldati italiani “giustiziati” come disertori. Erano gli ultimi giorni di ottobre del 1917 e la rotta di Caporetto portò alla sostituzione del generale Luigi Cadorna (che cercò di nascondere i suoi gravi errori tattici imputando le responsabilità alla presunta viltà di alcuni reparti) con Armando Diaz.

 

Kobarid/Caporetto…oggi

Il Kobariški muzej, il museo di Caporetto si trova al numero 10 di Gregorčičeva ulica a Kobarid, in Slovenia, nello stesso edificio che ospitava la sede del tribunale militare italiano durante la Grande guerra.  Nelle sue sale si può visitare la mostra permanente corredata di carte geografiche che rappresentano i fronti aperti in Europa durante la prima guerra mondiale e le modifiche dei confini politici apportate a guerra finita. Ci sono le bandiere, i ritratti di combattenti delle diverse nazionalità, persino  le pietre tombali recuperate nei cimiteri militari dell’Alto Isonzo. Caporetto, circa quattromila abitanti,  sorto all’incrocio delle due vallate dell’Isonzo e del Natisone che mettono in comunicazione il Friuli con la Carinzia, proprio per questa sua posizione  fu teatro di molteplici scontri. Nella sua piazza , durante l’ultimo secolo, vennero issate dieci bandiere diverse. Caporetto (Kobarid in sloveno, Cjaurêt in friulano, Karfreit in tedesco), oggi è territorio sloveno ma  le distanze dal confine italiano non sono grandi: 27 chilometri da Cividale, 44 da Udine, 50 da Gorizia e Tarvisio.

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Caporetto, sinonimo di catastrofe

La località principale, Caporetto, sede comunale, conta poco più di mille abitanti ma il  comune è formato da ben  22 località: la più popolata è  il centro omonimo, mentre quella con meno persone residenti è Magosti (Magozd) ,dove vivono in una sessantina.  Caporetto forse sarebbe rimasta un’anonima località se non si fosse combattuta la più cruenta e decisiva delle battaglia sull’Isonzo, tra il 24 ottobre e il 26 ottobre del  1917. Un disastro per le truppe italiane che si dovettero ritirare fino al Piave perché erano naufragati i piani per la difesa delle posizioni, essendo la strategia del Regio Esercito basata esclusivamente sull’offensiva. Caporetto, da allora, è diventato sinonimo di catastrofe. L’immagine che balza in mente è quella di una disfatta dai costi umani altissimi: 10.000 morti, 30.000 feriti, 300.000 prigionieri, 350.000 sbandati e disertori. Furono abbandonati o persi nella ritirata due terzi dei grossi calibri d’artiglieria, metà dei medi e due quinti dei pezzi leggeri. Non solo: sul campo restarono 1700 bombarde, 3000 mitragliatrici e un’enorme quantità di munizioni, viveri e rifornimenti di ogni genere. Il tutto avvenne in una situazione dominata dal caos, con diserzioni e fughe che sfociarono nelle già citate fucilazioni. Un vero e proprio macello. Basta recarsi sul Colle di Sant’Antonio che domina la conca di Caporetto per vederne le tracce indelebili. Lì c’è il sacrario dei militari italiani. In quell’ossario furono traslate le salme di 7014 soldati italiani, noti ed ignoti, caduti in quelle battaglie. I loro nomi sono incisi in lastre di serpentina verde. Ai fianchi della scalinata centrale sono disposti i loculi contenenti i resti di 1748 militi ignoti.

Sul Carso, “spazzato dai venti..”

La visita al Museo ci accompagna in questa storia , esposta in quattro grandi sale  ( quella del Monte Nero, la sala Bianca, quella delle retrovie e la sala Nera)  e, al secondo piano,  nella caverna. Nella sala Monte Nero si incontra il periodo iniziale degli scontri lungo l’Isonzo avvenuti dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il 24 maggio del 1915. Gli alpini italiani conseguirono la prima brillante vittoria del fronte isontino con la conquista della cima del Monte Nero (2244 m) strappato ai difensori ungheresi. Al centro di questa sala è collocata una riproduzione plastica su scala 1:1000 del Krn (il Monte Nero), della Batognica (il Monte Rosso) e delle cime limitrofe. Proseguendo nella sala Bianca prendono corpo le indicibili sofferenze patite dai soldati che si scontrarono su queste montagne per ventinove lunghi mesi. Il Carso, “fatto di roccia che riflette il calore, spazzato dai venti, privo d’acqua quando non allagato, difficile da percorrere camminando e ancor più correndo, era l’ultimo posto del pianeta dove andare a combattere una guerra di trincea”, viene descritto dallo storico inglese Mark Thompson nel suo libro “La guerra bianca”, come un vero e proprio luogo infernale.

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“Retrovie”, parola magica

La sala delle Retrovie descrive la realtà della zona a ridosso del fronte: un vero e proprio formicaio di centinaia di migliaia di soldati e operai dislocati lungo la linea compresa tra il Rombon e il golfo di Trieste. Del resto il congegno militare di ambedue gli eserciti  richiedeva una ragnatela di postazioni, strade, acquedotti, funicolari, ospedali, cimiteri, officine, case di tolleranza e tanto altro ancora. “Retrovie” era quasi una parola magica che equivaleva a  riprender fiato, dormire, bere acqua pulita, disporre di cibo, di godere una pausa  dalla paura. E tutto in attesa di ritornare nel fango e nel fuoco delle trincee. Nella sala Nera – la sala del monito –  si conclude la descrizione di questa guerra assurda  con i ritratti degli alpini che pregano prima di andare in battaglia, dalla porta d’ingresso di una prigione militare italiana, dall’affusto di un cannone abbandonato su una rovina di sassi e rottami di ferro e dalle fotografie disposte nella parte superiore a rappresentare gli orrori di questa assurda carneficina.

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”Se tu verrai quassù fra le rocce..”

Al secondo piano è esposto il materiale riguardante l’evento conclusivo della 12° battaglia dell’Isonzo, consumatosi a Caporetto nello spazio di meno di quindici giorni , tra il  24 ottobre  e il  9 novembre di cent’anni fa. Da parte austro-ungarica fu il primo successo di una guerra-lampo (blitzkreig) nella storia bellica e l’azione di sfondamento meglio riuscita del primo conflitto mondiale. Una riproduzione plastica di 27 metri quadri rappresenta l’Alto Isonzo su scala 1:5ooo, illustrando ai visitatori del museo la portata di quest’operazione mentre gli spostamenti e gli schieramenti delle unità combattenti sono riprodotti su grandi carte geografiche, accompagnate  da una ricca collezione di fotografie  che illustrano i preparativi e lo svolgimento della battaglia. Si tratta per lo più di fotogrammi originali scattati  nella seconda metà dell’ottobre del ‘17 e nei primi giorni della battaglia. C’è anche un filmato di una ventina di minuti,  disponibile in undici lingue mentre è particolarmente toccante la riproduzione sonora della lettera scritta al padre da un soldato collocato nella “caverna italiana” scavata sul massiccio del monte Nero. Il contenuto della lettera e l’accompagnamento musicale ( la popolare canzone friulana “Stelutis alpinis”, stelle alpine) non lasciano indifferenti , inducendo a meditare sulle angustie e le sofferenze umane vissute dai soldati di ambedue gli schieramenti. Ascoltiamo in silenzio le prime strofe della canzone che recitano:”Se tu verrai quassù fra le rocce,dove fui sotterrato,troverai uno spiazzo di stelle alpine bagnate del mio sangue. Una piccola croce è scolpita nel masso; in mezzo alle stelle ora cresce l’erba; sotto l’erba io dormo tranquillo”.

 Non un museo di guerra ma dell’uomo..

Il prof.Branko Marusic, storico sloveno,conosce le vicende del ‘900 in queste terre come le sue tasche. Per ventidue anni ha diretto il  Goriški muzej di Nova Gorica e ha contribuito all’allestimento delle sale storiche di Kobarid. Il museo di Caporetto non è un museo di guerra, bensì dell’uomo e delle sue angustie”, ha scritto. Aggiungendo:”Non è un museo della vittoria e della gloria, delle bandiere liberate o calpestate, della conquista e della vendetta, del revanscismo o dell’orgoglio nazionalistico. In prima fila sta l’uomo, colui che ripete ad alta voce oppure tra sé e sé, a se stesso oppure ai compagni di sventura esprimendosi nelle diverse lingue del mondo: “Maledetta guerra!” In questa concisa imprecazione sta la fondamentale testimonianza del museo di Caporetto, il suo successo ed il suo diritto e la necessità di esistere e progredire”. Fuori dal Kobariski muzej il cielo ci accoglie con il suo volto peggiore, rovesciandoci addosso una pioggia fredda e intensa. Tutt’attorno la vita scorre tranquilla all’ombra delle cime del Monte Nero, del Matajur e dello Stol, mentre scorrono le acque verde cupo dell’Isonzo e quelle un po’ torbide del Natisone  nello stupendo paesaggio delle Alpi Giulie . Questa località oggi attira i turisti che rifuggono dagli affollati centri turistici , alal ricerca di un ambiente tranquillo che offra possibilità di passeggiate o di attività sportive per il tempo libero.  E ciò avviene all’ombra dei rilievi montuosi  che furono taciti testimoni degli eventi di cent’anni fa che resero noto nel mondo il nome di Kobarid – Caporetto – Karfreit.

 

 

“Dalla parte opposta”

“Dalla parte opposta. L’amore, l’immortalità e l’altrove”, romanzo d’esordio del torinese Valerio Vigliaturo, narra le vicende esistenziali di un uomo antipatico ai più, simpatico a pochi ma buoni. Un outsider, da sempre considerato divergente, alla ricerca di conferme, una meta e un senso, tra le alterne fortune delle sue vicende amorose, il suo essere incompreso, gli interessi per le nuove tecnologie, le religioni, i viaggi, ma anche le esperienze con le droghe e il sesso, attraverso una trasgressione consapevole. Connesso con l’infinito, catapultato sulla terra come un “reporter onnisciente venuto dallo spazio” (Ferlinghetti), fatica a vivere secondo le regole dei mortali e attende di essere trasferito nella redazione stellare di un altro pianeta. La scoperta del progetto Global Future 2045 gli consente finalmente di cambiare vita, abbandonando il proprio corpo per smaterializzarsi in una macchina o in un robot. E solo l’incontro con una donna ideale potrà proiettarlo verso il romanticismo di una nuova esistenza. “L’autore dimostra di possedere, anche se alla sua prima prova di scrittura narrativa, la capacità di cristallizzare con una certa sobrietà una materia schiettamente autobiografica, solitamente difficile da padroneggiare, con naturalezza e con la capacità di raccontarsi senza che la materia rischi continuamente di sfuggire” (Valentino Fossati, poeta, critico letterario). Valerio Vigliaturo, cantante, scrittore, giornalista e operatore culturale dal 2004 è direttore del Premio InediTO – Colline di Torino organizzato dall’associazione Il Camaleonte di Chieri (TO) con cui ha fondato nel 2009 il giornale «CHierioggi». Ha collaborato con «Il Giornale del Piemonte», «La Nuova» e «Torino CronacaQui».  Il romanzo è stato presentato al Salone del Libro di Torino, al Festival Internazionale di Poesia “Parole Spalancate” di Genova, ad Area – Festival Internazionale dei beni comuni di Chieri (TO), al Circolo dei Lettori di Torino, a Firenze, Libro Aperto, alla Fiera delle Parole di Padova, al ciclo di incontri “Martini on the Books” di Chieri, e sarà presentato il 17 novembre a BookCity Milano, a dicembre in occasione della fiera Più Libri, Più Liberi di Roma, a gennaio al Festival “I Luoghi delle Parole” di Chivasso (TO), e in diverse librerie e rassegne. Inoltre Dalla parte opposta è stato selezionato tra i 10 prefinalisti del Premio Carver la cui finale di premiazione si svolgerà a Lucca a novembre.

I vigneti urbani fanno squadra

Torino capofila di una rete che coinvolgerà anche le vigne metropolitane di Parigi e Vienna

Inizia sotto la Mole il primo passo per la costituzione di una rete europea delle vigne di città, un patrimonio rurale, storico e culturale da tutelare, valorizzare e rendere produttivo per il futuro. È quanto emerge dalla dichiarazione di intenti firmata al termine della due giorni che, grazie alla collaborazione e al contributo della Regione Piemonte, ha riunito a Torino alcuni tra i principali vigneti urbani d’Italia in occasione della seconda edizione di Vendemmia a Torino – Grapes in Town. Padrona di casa la Vigna reale di Villa della Regina di Torino, con lei la Vigna di San Martino di Napoli e la Vigna del Parco Archeologico di Pompei, il Vigneto Pusterla di Brescia, i Vigneti della Laguna di Venezia e i Vigneti di Siena. Ospite anche il Vigneto urbano di Parigi “Clos Montmartre”. «Abbiamo fortemente voluto organizzare un convegno dedicato alle vigne urbane nell’ambito della seconda edizione di Vendemmia a Torino e promuovere un dialogo tra i gestori dei diversi siti italiani – dichiara Antonella Parigi, assessore alla Cultura e al Turismo della Regione Piemonte –Il nostro obiettivo è valorizzare e rafforzare il ruolo di Torino e del Piemonte come area di riferimento a livello nazionale sui temi della valorizzazione culturale e turistica di questi vigneti, a partire dall’importante esperienza di Villa della Regina». «Abbiamo condiviso l’entusiasmo e l’urgenza di mettere in rete competenze, storie e conoscenze per riuscire a sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni – spiega Luca Balbiano, curatore di Vigna della Regina –. Il prossimo passo sarà dare una forma giuridica a questo gruppo che unisce realtà pubblico-private eterogenee e molto diverse tra loro. Torino, ad esempio, vede la sinergia tra le Cantine Balbiano e l’Associazione Amici di Villa della Regina, a Pompei esiste una partnership tra la Soprintendenza Speciale e l’Azienda Mastroberardino, Siena ha un progetto interdisciplinare che fa capo all’Università, i vigneti di Brescia e Napoli sono realtà completamente private, Venezia e Parigi invece hanno alle spalle associazioni di promozione sociale. L’obiettivo è creare una linea di intervento comune e coordinata in cui coinvolgeremo subito anche Vienna. Puntiamo a progetti di recupero storico e divulgazione culturale di questo patrimonio, ma anche ad essere ispirazione di nuove iniziative imprenditoriali e sinergie pubblico-private, fino a vere e proprie azioni congiunte di promozione turistica dei vigneti urbani d’Europa».

Il patrimonio culturale come sistema di valori

Nelle economie del nostro tempo, la produzione dei contenuti è diventata la vera materia prima che genera il valore economico…

Pier Luigi Sacco, Ordinario di Economia della Cultura alla IULM di Milano

Nell’anno europeo per il patrimonio culturale, in Sala Viglione del Consiglio Regionale del
Piemonte presso Palazzo Lascaris – Via Alfieri, 15 a Torino, giovedì 8 novembre 2018, con inizio alle 9,30,  si svolgerà il Convegno:

IL PATRIMONIO CULTURALE COME SISTEMA DI VALORI
PER LO SVILUPPO SOCIALE ED ECONOMICO DEL TERRITORIO

Il convegno è la sessione Piemontese di ‘Il Filo d’Arianna – Arte come identità culturale’ giunto, nel 2018, alla sua XV  Edizione nell’ambito del programma dell’European Ardesis Festival 2018 – Art Design Innovation as Social network.
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Saluto istituzionale

Il tema della CULTURA, a servizio della ECONOMIA trattato da:

– Guido Bolatto, Segretario Generale della Camera di Commercio di Torino, con la relazione:
LE IMPRESE CULTURALI NEL TORINESE E IL RUOLO DELL’ARTIGIANATO
– Massimo Corcione, dottore di ricerca DRASD, presso Università degli Studi del Piemonte
Orientale Amedeo Avogadro sul tema
DALLE CONVENZIONI UNESCO ALL’ORDINAMENTO ITALIANO
– Andrea Longhi, Politecnico di Torino con
PATRIMONIO RELIGIOSO: PROSPETTIVE DI RIUSO TRA SACRALITA’ E CREATIVITA
– e da Valeria Dinamo, di Imprese Culturali in Hangar Piemonte, con la presentazione della missione:
A SERVIZIO DI NUOVI PROGETTI E START UP.

La sessione che tratta il tema dei valori UNESCO, argomento portante del Convegno, comprende
tre interventi che presentano alcuni riconoscimenti di valori sociali, culturali ed economici espressi da
uomini e Comunità del nord Italia:

IVREA, CITTÀ INDUSTRIALE DEL XX SECOLO
SOCIALE & IMPRESA: UN BINOMIO DI VALORE
Renato Lavarini, Coordinatore “Ivrea città industriale del XX secolo” nella World Heritage List –
riconoscimento luglio 2018
Matteo Olivetti, Fondazione Adriano Olivetti

HERITAGE IMPRENDITORIALE E VALORE UNESCO PER IL TERRITORIO

Così, in Francia, nel 1855 sbocciarono “I Fiori del Male”

Le liriche di Baudelaire conobbero  l’asprezza della censura dei benpensanti, conseguenza naturale dello scalpore sollevato dall’audacia dei componimenti e dall’anticonformismo dei temi trattati che sconvolsero l’intero mondo letterario europeo

BAUDELAIRE« Ma jeunesse ne fut qu’un ténébreux orage, traversé çà et là par de brillants soleils; le tonnerre et la pluie ont fait un tel ravage, qu’il reste en mon jardin bien peu de fruits vermeils »(Non fu che fosca tempesta la mia giovinezza,qua e là solcata da rilucenti soli;il tuono e la pioggia ne han fatto un  tale strazio da lasciare nel mio giardino solo qualche vermiglio frutto). Versi potenti, tratti da “L’ennemi”, il nemico, una delle poesie che Charles Baudelaire raccolse nei suoi “Les Fleurs du Mal”. Era il 1°giugno 1855 quando, per la prima volta, la Revue des Deux Mondes pubblicò, con tanto di nota cautelativa per violenza, diciotto poesie di Baudelaire dal titolo I Fiori del Male, opera che subito destò scalpore e fu censurata. Ma la censura e la critica de Le Figaro non bastarono a celare l’opera e, infatti, il grande pubblico fu subito attirato dal lavoro.  Così “I Fiori del Male” sbocciano in quel lontano primo giugno, per poi essere pubblicati in prima edizione il 25 giugno del 1857, con 100 poesie suddivise in 5 sezioni e messi in vendita in circa 1100 esemplari, dagli editori Poulet-Malassis et De Briose.BAUDELAIRE 2

Le liriche di Baudelaire conobbero nuovamente e con più vigore  l’asprezza della censura dei benpensanti, conseguenza naturale dello scalpore sollevato dall’audacia dei componimenti e dall’anticonformismo dei temi trattati che sconvolsero l’intero mondo letterario europeo. Il 20 agosto si celebrò a Parigi il processo penale contro l’autore e l’editore, accusati di pubblicazione oscena. Pubblico ministero era Ernest Pinard, lo stesso che qualche mese prima aveva pronunciato la requisitoria contro “Madame Bovary” di Flaubert. Baudelaire e Poulet-Malassis furono condannati a pene pecuniarie e alla soppressione di sei poesie. Negli appunti scritti per il suo avvocato per la difesa, Baudelaire diceva: “Il libro deve essere giudicato nel suo insieme: solo così si può coglierne la terribile moralità”. Il 30 agosto Victor Hugo gli scrisse: “I vostri “Fiori del male” risplendono e abbagliano come stelle […]”. E pensare che Baudelaire voleva intitolare la sua opera “Les lesbiennes”, ovvero “Le lesbiche”, proprio per provocare quella gente che tanto disprezzava. Nonostante la censura e le critiche feroci che subì al tempo, il capolavoro di Baudelairesi diffuse in tutta Europa e ancora oggi I Fiori del Male è considerata una delle opere più innovative e influenti dell’Ottocento. Per questo vale sempre la pena brindare al talento di Baudelaire, accompagnando il tutto con  gli ultimi versi de “Le osterie” di Alda Merini che, ricordandolo, scriveva che in quei luoghi popolari“..ci sta il nome di Charles scritto a caratteri d’oro”. Santè!

Marco Travaglini

Appendino fino alla fine

La sindaca ne è sicura: “Certo,  porterò a termine il mio mandato. È un’esperienza straordinaria e se tornassi indietro la rifarei”. Così  la prima cittadina di Torino, Chiara Appendino, ha risposto ai giornalisti che la assediavano (anche in relazione al processo sui fatti di piazza San Carlo)  in occasione della presentazione della stagione sciistica della Via Lattea. “Ogni giorno si lavora mettendoci l’impegno massimo e ogni giorno pensi a come potresti fare meglio”, ha aggiunto la sindaca.

 

(foto: il Torinese)

Il leone del deserto

Si intitola The Lion Of The Desert  ed è un film che non ha mai avuto libera circolazione nel nostro Paese. Uscito nell’aprile 1981 negli Usa, fu presentato al Festival di Cannes l’anno successivo e poi distribuito in Europa, ma non in Italia

 

 Il Ministero degli Esteri ne vietò ufficialmente la visione ritenendolo lesivo dell’onore militare (queste le parole dell’allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti). Venne anche intentato un procedimento giudiziario per vilipendio delle Forze Armate che, però, non ebbe seguito. Mancando il nullaosta di censura la pellicola ha quindi avuto una diffusione quasi clandestina, in versione originale e senza sottotitoli. Le rare occasioni in cui è stata mostrata al pubblico hanno assunto il sapore dell’evento. Si ha notizia di una proiezione tenutasi a Rimini nel 1988, che suscitò più di qualche polemica, e di un’altra al Festival dei Popoli nel 2002. Girato nel deserto libico ed a Cinecittà sotto la regia di Moustapha Akkad, americano di origine siriana, The Lion Of The Desert  annovera nel cast attori di primo piano, quali Anthony Quinn, Rod Steiger, John Gielgud, Oliver Reed, Irene Papas. Classica produzione internazionale ad alto budget tipica degli anni Settanta, il film venne finanziato con capitali americani e, sia pure parzialmente, dal leader libico Gheddafi, che pretese anche l’inclusione di alcune sequenze. La vicenda (ecco spiegate le ragioni della censura) è ambientata nei primi anni Trenta durante l’occupazione italiana della Libia, la “quarta sponda”, il “posto al sole” che pretendeva Mussolini (impersonato da Rod Steiger). Il film racconta la strenua resistenza che le tribù beduine opposero al nostro esercito guidato dal generale Graziani (Oliver Reed).

 

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Eroe e protagonista del film è Omar el-Mukhtār (Anthony Quinn), soprannominato il leone del deserto, un anziano maestro di scuola elementare che dimostrò doti inaspettate di strategia militare. L’esercito italiano incorse in più di una disfatta prima di sconfiggerlo grazie all’assoluta superiorità di uomini e mezzi. L’occupazione guidata dal generale Graziani fu spietata e sanguinosa, vennero compiute brutalità tenute nascoste per anni negli archivi militari. Per stroncare la resistenza le coltivazioni furono distrutte, i pozzi avvelenati e l’intera popolazione della regione del Jebel Akhdar deportata. Circa centomila persone (il dieci per cento degli abitanti della Cirenaica) finirono deportate nei campi di concentramento approntati nel deserto della Sirte, dove in migliaia morirono di stenti. Contro i combattenti vennero inoltre usate armi proibite dalle convenzioni internazionali, come le terribili bombe chimiche all’iprite. Il 13 settembre 1931 Omar el-Mukhtār e i suoi uomini furono circondati e catturati in Cirenaica. Condotto a Bengasi, egli subì un processo-farsa davanti a una corte militare con l’accusa di alto tradimento. La condanna venne eseguita per impiccagione nel campo di concentramento di Soluk all’alba del 16 settembre, davanti a ventimila compatrioti. La morte di Omar el-Mukhtār sancì la fine della resistenza libica e l’inizio della sua leggenda, tanto che è ritenuto ancora oggi l’eroe nazionale per eccellenza. Sia pure con qualche esagerazione narrativa, The Lion Of The Desert  propone una ricostruzione meticolosa degli avvenimenti che gli storici (anche italiani) hanno giudicato sostanzialmente corretta. In questo senso alcune sequenze sono estremamente significative. Ad esempio quella in cui le camicie nere, approfittando dell’assenza di Omar el-Mukhtār, invadono il suo villaggio e ne massacrano gli abitanti (una giovane donna, accusata di essere una ribelle, viene crudelmente impiccata). In un’altra si descrivono le condizioni umilianti che i diplomatici fascisti imposero al tavolo delle trattative. Per converso occupa un posto di rilievo la figura positiva del colonnello interpretato da Raf Vallone, il che evita una separazione manichea tra italiani cattivi e libici buoni.

 

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Il lungo e incredibile ostracismo contro il film di Moustapha Akkad si inserisce in una più ampia campagna di mistificazione e disinformazione, che ha sempre teso a conservare una visione romantica della storia coloniale del nostro Paese, mitica quanto assolutamente falsa. La verità è che per molti decenni non siamo stati in grado di fare i conti con la nostra disastrosa politica espansiva, in Libia e altrove. Questa pagina oscura è stata a lungo relegata nell’oblio. Chi partecipò ha sempre negato i massacri, le nefandezze e, soprattutto, l’impiego dei gas urticanti. Soltanto nell’ultimo decennio alcuni libri e qualche programma televisivo hanno cominciato a parlare in termini critici degli eventi bellici senza rimasticare la propaganda fascista dell’epoca o citare le “opere di civilizzazione” compiute. Si è trattato di un silenzio scandaloso, mantenuto anche grazie al boicottaggio cui è stato sottoposto questo film, che sfata lo stereotipo degli “italiani brava gente” e punta il mirino contro le atrocità commesse dal nostro esercito. Il 10 giugno 2009, in occasione della sua prima visita ufficiale in Italia, Muammar Gheddafi si presentò accompagnato dall’anziano figlio di Omar el-Mukhtār con la fotografia che ne ritrae l’arresto appuntata al petto. Si trattò di una mossa provocatoria, beninteso, ma che coincise con la fine di questo caso di vera e propria censura politica durato trent’anni. Il giorno seguente Cinema Sky Classics metteva in onda Il leone del deserto e, in seguito, lo replicò più volte. Oggi possiamo comodamente reperirlo su YouTube. Varrebbe la pena dargli almeno uno sguardo, tenendo bene a mente la lezione storica che, al di là del valore puramente artistico, la pellicola può impartirci ancora.

Paolo Maria Iraldi

 

Il Requiem verdiano secondo Conlon

Sarà la Messa da Requiem di Verdi il nucleo centrale del secondo concerto della stagione sinfonica, da poco iniziata, dell’Orchestra Sinfonica della Rai, in programma giovedì 25 ottobre alle 20.30 all’Auditorium Rai di Torino Arturo Toscanini. Saranno protagoniste le voci di Anna Pirozzi, reduce dal successo come Lady Macbeth al Festival Verdi di Parma; Saimir Pirgu, noto per le sue interpretazioni in ruoli verdiani, quali quello del Duca di Mantova e di Alfredo Germont; il contralto Marianna Pizzolato, gia protagonista con Conlon dello “Stabat Mater” Rossini, e Riccardo Zanellato, in sostituzione dell’indisposto Dmitry Belosseskiy. Saranno affiancate dal Coro del Teatro Regio di Parma. Sul podio il direttore principale James Conlon.Il Requiem fu eseguito dallo stesso Verdi per la prima volta nella Basilica di San Marco a Milano, il 22 maggio 1873, dedicato all’amico Alessandro Manzoni, da poco scomparso e la cui perdita provocò nel compositore un dolore profondo. Il Requiem risulta impregnato di una forte carica drammatica, capace di riflettere la linea portante del teatro verdiano, accompagnandosi ad una grandiosa meditazione sul mistero della morte che, pur sotto il segno della ribellione contro la volontà divina, è in grado di restituire all’uomo consolazione e dignità. La Messa da Requiem verdiana risulta intensa, ricca di armonia e di frasi melodiche inusuali per un testo di musica sacra, capaci di suscitare nell’ascoltatore sentimenti intensi come la pietà, la trascendenza, il senso della vita e quello della morte. Il testo liturgico della Messa funebre ha offerto al compositore una traccia capace di toccare i vertici del drammaticità, dalla fine della vita alla solitudine dell’anima, dal rimorso per i peccati commessi all’avvicinamento al Signore nei cieli. La Messa ha voluto anche essere, secondo le intenzioni di Verdi, un omaggio a Rossini, scomparso nel novembre 1868.Nel compianto funebre emerge quello che è l’ultimo personaggio della tragedia, l’uomo verdiano, con la sua intransigente moralità, le sue aspirazioni tradite, vinto ma, al tempo stesso, superiore al mondo. In questa chiave interpretativa si comprende il carattere laico di una Messa priva del Credo, in cui si addensano, fino ai limiti estremi, i tipici motivi del melodramma, tra i confini opposti del Dies Irae e dell’Agnus Dei. D’altronde la morte, come ha ben scritto il musicologo e critico Massimo Mila, rappresenta un leitmotiv delle opere verdiane e, nella Messa da Requiem, tutto il genere umano si comporta come i suoi personaggi.

 

Mara Martellotta

Gambero Rosso: la grande degustazione “3 bicchieri”

Città del gusto Torino di Gambero Rosso organizza la grande degustazione “3 bicchieri” nella sua sede: PALAZZO COPERNICO GARIBALDI. Le migliori bollicine d’Italia e i migliori vini rossi (Barolo, Barbaresco, Brunello, Amarone…), i migliori bianchi d’Italia. 

 

Per partecipare all’evento è necessario acquistare qui il biglietto:

https://www.thetips.it/torino/eventi/grande-degustazione-tre-bicchieri-2380/661 

 

Gariglio (PD) “Nel DL Ponte di Genova ennesimo schiaffo al Piemonte”

“Il Decreto Legge recante disposizioni urgenti per la Città di Genova, in discussione oggi alla Camera, contiene un ennesimo attacco al Piemonte e alle imprese piemontesi. L’articolo 7 del Decreto, infatti, prevede l’istituzione della Zona logistica semplificata “Porto e retroporto di Genova” comprendente i territori portuali e retroportuali del Comune di Genova e i retroporti di Rivalta Scrivia, Arquata Scrivia, Novi San Bovo, Alessandria, Castellazzo Bormida e Ovada Belforte (tutti in provincia di Alessandria, il vero retroporto di Genova), nonché i retroporti di Piacenza, Dinazzano e Milano Smistamento” ha spiegato il parlamentare piemontese del Partito Democratico Davide Gariglio.

“Curiosamente sono stati esclusi da questo elenco sia l’interporto di Orbassano, sia quello di Novara, quest’ultimo collocato proprio sulla direttrice Genova-Milano; è, invece, presente Milano.
L’essere inclusi nella Zona logistica semplificata consente alle imprese del settore operanti su quei siti di godere di procedure semplificate (e quindi di avere minori costi), nonché di contributi pubblici” ha proseguito Davide Gariglio.

“Alla mia domanda di chiarimenti, in Commissione, al viceministro ai Trasporti, l’on. Rixi, mi é stato risposto che il Governo ha fatto una valutazione e che poi, in futuro, si vedrà se correggerla. Questa scelta é l’ennesimo schiaffo che il Piemonte riceve da questo Esecutivo. Dopo il blocco degli appalti TELT per realizzare il tunnel internazionale di base per collegare Torino a Lione, dopo il blocco del Terzo Valico (il DL Genova non ha finanziato i lavori per completare l’opera), dopo la vicenda del furto delle Olimpiadi invernali a vantaggio di Milano, ecco un’altra offesa alla nostra Regione, che Lega e Cinquestelle stanno umiliando a vantaggio di Lombardia e Veneto, nel silenzio colpevole dei Cinquestelle, che hanno abbandonato al suo destino anche la sindaca Appendino.Chiederò in Aula alla Camera che tutti i parlamentari piemontesi insorgano contro la volontà del Governo gialloverde di marginalizzare la nostra Regione” ha concluso l’on. Gariglio.