redazione il torinese

Popolari, Pd, Zingaretti e i cattolici

Di Giorgio Merlo

Senza alcuna presunzione e senza alcuna arroganza culturale e politica credo sia corretto chiarire qualche equivoco che continuano ad aleggiare quando si parla di Pd, di partito plurale e della prospettiva politica dei cattolici popolari.
Voglio essere volutamente schematico per essere il più chiaro possibile. Le elezioni del 4 marzo scorso hanno archiviato, almeno per il momento, la stagione dei “partiti plurali”. Nello specifico mi riferisco alla vicenda del Partito democratico. Come, sul versante per così dire alternativo, si potrebbe tranquillamente parlare di Forza Italia. Ma, per fermarsi al Pd, e’ chiaro che la stagione del partito veltroniano e’ ormai alle nostre spalle. E mi riferisco, per essere ancora più esplicito, al tramonto della “vocazione maggioritaria”, del “partito plurale” come sintesi tra le grandi culture politiche del novecento, della identificazione tra il capo del partito e il candidato a Premier e della sostanziale cancellazione della “cultura della coalizione”. Cioè delle alleanze. Tutto semplicemente cancellato.


In secondo luogo, piaccia o non piaccia, sono ritornate le identità. Certamente rinnovate e
modernizzate rispetto anche solo ad un recente passato. Ma sono ritornate. Innanzitutto la sinistra. Come dicono giustamente, e comprensibilmente, i due candidati alla segretaria nazionale del Pd, cioè Zingaretti e Martina. Ovvero, entrambi si impegnano e auspicano “la rifondazione, la riscoperta e il rilancio del pensiero e della cultura della sinistra italiana”. È ritornata, in chiave fortemente minoritaria, la sinistra radicale. Grazie alla intelligenza e alla abilità di Salvini e’ in campo una destra europea, moderna, di governo e chiaramente identificabile. Resiste una ideologia, la definisco così per comodità, antisistema, populista e fortemente antipolitica. Cioè i 5 stelle. In un quadro del genere può restare a bordo campo la cultura, la tradizione e la ricchezza ideale del cattolicesimo democratico, sociale e popolare del nostro paese? In ultimo, la domanda di un rinnovato protagonismo – ovviamente laico, aconfessionale, riformista e moderno – dei cattolici italiani, nel pieno rispetto di un ormai consolidato ed acquisito pluralismo della scelte politiche, richiede una risposta credibile. Politica e forse, adesso, anche organizzativa. Una domanda che non parte dall’alto di qualche pulpito. Certo, anche da alcuni settori della gerarchia. Ma soprattutto dalla base, da settori sempre più consistenti dell’associazionismo, da una moltitudine di elettori delusi e senza più alcuna rappresentanza politica credibile e coerente e da persone, gruppi sociali e “movimenti civici” che non intendono più, nell’attuale fase storica italiana, consegnare agli archivi una storia e una cultura politica che continua a conservare una bruciante attualità e anche modernità. Anche e soprattutto nell’affrontare e cercare di risolvere i problemi che attraversano la società contemporanea. E a questa domanda politica, quindi, va data una risposta politica. Ecco perché, di fronte al tentativo, peraltro legittimo anche se un po’ curioso, di Zingaretti e altri di accreditare il futuro Pd come partito che può farsi anche tranquillamente carico del popolarismo di ispirazione cristiana o della cultura cattolico democratica e sociale, e’ bene essere chiari e coerenti. Certo, il problema non riguarda quei popolari e cattolici democratici che hanno la necessità, e la priorità – peraltro comprensibili – di conservare e consolidare il proprio spazio di potere all’interno del futuro Pd, o Pds che dir si voglia. Comportamento ovviamente legittimo ma che non va affatto confuso con la riscoperta, la rifondazione e il rilancio della cultura politica popolare di ispirazione cristiana.


È giunto, cioè, il momento della chiarezza e anche del coraggio. Il profondo cambiamento della
geografia politica italiana accompagnato da un nuovo riassetto delle varie forze politiche, ha
definitivamente aperto una nuova fase. È inutile, e forse anche inconsapevolmente un po’ patetico, riproporre le stesse formule del passato fingendo che tutto è rimasto uguale rispetto ai tempi della fondazione del Partito democratico nel lontano 2007. Dopo la felice e feconda stagione veltroniana  c’è stata la lunga stagione renziana che ha sostanzialmente distrutto quel Pd e con il Pd anche il tradizionale centro sinistra. Pensare oggi, come mi pare sostengano a giorni alterni i futuri leader del Pd, che si può riportare tranquillamente indietro le lancette della storia, mi pare più una operazione da furbacchioni che non una credibile e consapevole operazione politica. È cambiata una fase politica e storica. Dobbiamo prenderne atto tutti. Da Zingaretti ai Popolari, dal futuro Pds, oggi ancora Pd, al mondo cattolico seppur variegato e complesso, dagli altri partiti di centro sinistra allo stesso episcopato. Pensare che dopo il voto del 4 marzo tutto si può aggiustare oltre che un gesto politico irresponsabile sarebbe anche disonesto a livello intellettuale. E i futuri capi del Pd certamente non lo sono.

Stranieri, Piemonte primo per la formazione

Prima in Italia nella graduatoria dei progetti di formazione civico linguistica per stranieri, si aggiudica 2,5 milioni di euro

Il Piemonte si aggiudica 2,5 milioni di finanziamenti (europei e statali) per la formazione civico linguistica degli stranieri. In questo modo la nostra Regione ottiene l’intero importo richiesto, ma soprattutto arriva prima, rispetto alle altre Regioni italiane, nella graduatoria per il finanziamento dei ‘Piani regionali per la formazione civico linguistica dei cittadini di Paesi terzi 2018-2021’. “Il progetto Petrarca ha preso infatti 87,30 punti. – spiega l’assessora all’Immigrazione, Monica Cerutti – Il punteggio più alto tra i partecipanti”. In seconda posizione nella graduatoria, pubblicata il 24 dicembre, è arrivata l’Emilia Romagna. Mentre in terza il Friuli Venezia Giulia. “Se da una parte il ministero dell’Interno ci premia – prosegue l’assessora – D’altra parte con il decreto sicurezza ci sottrae i potenziali allievi. La norma infatti non permette ai richiedenti asilo di partecipare ai corsi per imparare l’italiano, visto che impedisce loro di avere carta d’identità, di iscriversi all’anagrafe. E siccome il nostro progetto era stato studiato tenendo conto anche di questo bacino di utenti, adesso rischiamo il paradosso: di avere i soldi, ma di non avere studenti”. Tra i criteri tenuti in considerazione dal ministero dell’Interno, ci sono la qualità complessiva della proposta progettuale, la coerenza del budget di spesa, della tempistica di progetto, ma anche le esperienze maturate in passato e la capacità di attivare reti.  Il Piano regionale, denominato “Petrarca 6”, si pone in continuità con le progettualità attivate negli anni passati, prevedendo anche specifiche azioni per l’orientamento e la conoscenza del territorio nel quale gli stranieri extracomunitari si vengono a trovare, dei servizi sanitari di cui possono usufruire, di quelli sociali. Oltre ai corsi di italiano, saranno forniti anche servizi per consentire la partecipazione alle attività didattiche al più alto numero di persone, ad esempio, servizi di babysitting per andare incontro alle madri, di mediazione interculturale, tutoraggio, di accompagnamento personalizzato rivolto a persone vulnerabili. “Il progetto Petrarca ormai va avanti dal 2011. E i risultati sono finora più che soddisfacenti. Dal suo inizio a oggi sono state coinvolte più di 10mila persone. – racconta Cerutti – Solo con Petrarca 5 si sono realizzati 364 corsi coinvolgendo 3460 beneficiari“. Diverse le nazionalità coinvolte. Per la maggior parte hanno seguito i corsi i marocchini (25%), i cinesi (8%), i nigeriani (7%), i senegalesi (5%), gli albanesi (5%), gli indiani e gli egiziani(4%). Soprattutto le donne hanno aderito all’iniziativa. Erano quasi sei su dieci (58% del totale).

 

(CS – foto: il Torinese)

Il manicomio più grande di tutti

C’erano una volta i matti
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)
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2. Il manicomio più grande di tutti
La nascita della Certosa Reale a Collegno è strettamente legata alle vicende politiche del Ducato di Savoia nel XVIII secolo. Fu Maria Cristina di Francia a fondare il monastero certosino, basato sul modello architettonico della Grande Chartreuse di Grenoble, portando così a compimento le volontà del suocero e del defunto marito. Come sede del monastero fu scelto Palazzo Data, un complesso di edifici al di fuori del perimetro murario medievale collegnese. Il Palazzo era stato fatto costruire da Bernardino Data, il quale, nel 1628, venne prima accusato di peculato e di gravi abusi amministrativi e in seguito condannato a morte, poi, grazie ad amicizie altolocate, la pena si tramutò in esilio perpetuo, mentre i suoi beni venivano incamerati dall’erario ducale. Madama Reale, reggente del Ducato, volle tenere fede alla volontà dei Duchi di Savoia e diede così inizio alla fondazione della Certosa, acquistando anche i fondi contigui. La Duchessa permise ai monaci certosini di installarsi stabilmente a Collegno, in un’ampia area, attorno alla quale vennero erette alte mura che non solo assicuravano ai monaci una totale clausura, ma delimitavano le proprietà contigue al monastero e impedivano la vista dei fabbricanti ai collegnesi. Il 31 marzo 1641 fu sancita la nascita formale del complesso certosino e successivamente, nel 1737, Carlo Emanuele III donò alla Certosa il grandioso portale d’accesso, progettato da Filippo Juvarra, sul quale ancora troneggiano le statue della Fede e della Carità. Negli anni seguenti i monaci non ebbero vita facile, dapprima costretti a lasciare temporaneamente il complesso, a causa del decreto napoleonico di soppressione dei monasteri, vennero poi del tutto allontanati nel XIX secolo, con l’insediamento del nuovo manicomio, fatto che comportò anche il completo riadattamento dello stabile alle nuove necessità ospedaliere. Quando, molto tempo dopo, l’ospedale psichiatrico venne definitivamente chiuso, la struttura passò sotto la proprietà del Comune. Il 25 aprile 1985 venne inaugurato il parco pubblico intitolato al Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, all’interno del quale hanno avuto la possibilità di nascere, e tutt’oggi persistono, associazioni di vario genere, che piano piano si sono insediate all’interno dei vecchi e spogli padiglioni. Nell’ex reparto 21, quello riservato ai “pazzi criminali”, risiede illegalmente dal 2006 un gruppo di anarchici che ha denominato la propria sede “Mezcal Squat”, uno spazio libero e aperto ad iniziative culturali, politiche e ludiche. Ad una vicenda tanto remota quanto complessa ha corrisposto una realtà altrettanto difficile, articolata ed oscura. Nel manicomio di Collegno successero tante cose, moltissime persone vagarono per quei lunghi corridoi spaventosamente alienanti, ciascuno con le proprie vicissitudini, le proprie manie e con la propria incapacità di chiedere aiuto. Con l’aumento critico dei pazienti, che ogni giorno minacciava la sicurezza dei reparti e la possibilità dell’insorgere di una qualche epidemia, la creazione di una sede decentrata e fuori città era diventata una necessità. La Certosa di Collegno si presentò come la scelta migliore, una struttura enorme, protetta e isolata, distante solo dieci chilometri da Torino, ideale per risolvere sia il problema degli spostamenti che quello dell’isolamento, inoltre, essendo una struttura di campagna, presentava costi decisamente minori rispetto ad una sede cittadina. Era stato sottolineato che anche dal punto di vista architettonico e paesaggistico la Certosa possedeva le caratteristiche perfette per ospitare i malati, i quali si sarebbero sentiti meglio già solo passeggiando tra gli ombrosi alberi dell’immenso cortile. L’antica struttura dedicata alla preghiera era perfetta sotto ogni punto di vista per diventare il più grande manicomio d’Italia. L’attività dell’ospedale psichiatrico si avvia formalmente l’8 settembre 1852, con lo spostamento  di ottanta malati di mente dal manicomio di via Giulio a quello di Collegno, e avrà fine solo il 4 giugno 1998. La vita all’interno del manicomio era una lunga, disarmante e monotona attesa di qualcosa, c’era chi aspettava di guarire, chi di morire, chi attendeva una lettera di risposta e chi una visita, c’erano quelli che aspettavano un premio o un compenso e quelli che attendevano il momento giusto per la rivoluzione. I pazienti più tranquilli potevano lavorare seguendo l’insegnamento dell’ergoterapia, si occupavano dell’orto, del bestiame nelle stalle, ma anche dei forni per la produzione del pane e della pasta, c’erano, poi, quelli addetti alla lavanderia e alla manutenzione dei fabbricati, dei mobili, dei caloriferi, della disinfezione e ripulitura dei locali, c’erano muratori e cementisti, decoratori, fabbri ferrai e meccanici, c’era anche chi si occupava dei trasporti e chi gestiva una piccola tipografia e un laboratorio di orologeria, e tra tutti non c’era nessuno che venisse pagato. Fino agli anni venti del Novecento la retribuzione avveniva sotto forma di regalo, i pazienti ricevevano del vino o delle sigarette, del formaggio, della frutta o del caffè.  Ad alcuni venivano dati dei soldi, pochissimi spiccioli, ma c’era chi se li bruciava subito, come Renato, che lavorava in serra ed era efficientissimo, ma appena riceveva la mancia lui la incendiava, i regali mangerecci, invece, li seppelliva, perché temeva che qualcuno lo volesse avvelenare. C’era anche chi si lamentava delle 75 lire al giorno, con le quali, dopo dieci giorni, non si potevano nemmeno comprare le sigarette Alfa, ma erano sussurri e borbottii, perché, per chi alzava la voce, scattavano le botte o l’elettroshock. A Collegno vi erano anche degli artisti, come Francesco Toris, impazzito per il troppo stress derivatogli dall’aver messo incinta una donna più abbiente di lui. Toris divenne molto abile nell’intarsio delle ossa di bovino provenienti dalle cucine, scolpiva volti e piccoli idoli antropomorfi, che poi inseriva perfettamente nelle colossali sculture sostenute dall’audace gioco di incastro dei singoli pezzi. E poi Giuseppe Versino, addetto alle pulizie, che sfilacciava gli stracci e realizzava vestiti, borse e accessori vari, per poi indossarli con fierezza. Mario Bertola era un abile tipografo e creò “Il Mondo in rivista”, un libretto di settantasei tavole, chiamate “allegorie”. Ogni tavola era costituita da otto disegni, eseguiti con china e pastelli a cera e accompagnati da didascalie. C’era ancora Agostino G. Miletti, ricoverato a Collegno con la diagnosi di “demenza paranoide”, si credeva una volta multimilionario, un’altra volta genero del sindaco di Milano, un’altra ancora ricostruttore della Basilica di Superga; disegnava progetti per dar vita a oggetti assai complessi, come un orologio che si caricava ogni 278 anni, o come un ponte di vetro che potesse collegare L’Europa con l’America, e inventò, tra le altre stranezze, due alfabeti, i cui caratteri erano formati da chiodi e bicchieri. Tra i creativi c’era anche chi preferiva recitare, infatti, fino al 1932, fu attiva una Compagnia filodrammatica di ricoverati che si esibiva sul palco del teatrino da trecento posti, ma gli attori vennero silenziati dall’eccessivamente alto volume della radio e della TV, strumenti che entrarono nel manicomio già gridando e senza poter essere mai spenti. Il genio e la creatività non riguardano solo l’arte, ma anche le scienze, come nel caso di Luigi Marinotti. Egli era di povera famiglia, e fu costretto a terminare gli studi in quarta elementare per poi improvvisarsi in ogni genere di lavoro; impazzì quando incontrò l’amore: cercò di trovare i soldi con il rapire una bambina di Genova e chiedendone il riscatto, il suo piano andò in fumo quando accusarono un altro uomo del rapimento e lui andò a protestare in questura, presentandosi come vero colpevole. Da questo momento Luigi iniziò a frequentare carceri e manicomi, e trascorse tutta la vita in un perenne “dentro” e “fuori”, al punto da trovarsi a suo agio più “dentro” che “fuori”. Durante i periodi di detenzione egli si dedicò a scrivere brillanti teorie sulla fisica e sulla matematica, scrisse una lettera a Benedetto Croce, che gli dedicò l’ultima appendice del “Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia” dandogli il titolo di “un indagatore del mistero dell’universo”. Ne scrisse un’altra a Einstein, al quale chiese: “Dica Lei, Einstein, che vuol spiegare il mondo con le matematiche, qual è il primo numero e qual è l’ultimo? Se non lo sa dire, che cosa pretende di spiegare?” (quest’ultima, forse, non venne spedita). Tra tutto questo pensare, c’era anche chi iniziò ad illudersi. Nella notte tra l’11 e il 12 luglio 1912, nel reparto 21, quello dei “pazzi criminali”, il bandito Rivoltella e il “famigerato martellatore di Nizza”, Demorizzi, capeggiarono una rivolta. Con un inganno, alcuni inservienti vennero catturati e presi come ostaggi e subito si perse il controllo della situazione, intervennero pompieri, carabinieri e giornalisti, il direttore sanitario del manicomio, il Prof. Antonio Marro, salì sul tetto per dialogare con i rivoltosi. Il Prof. Marro rimase in attesa finché uno tra i più assennati tra i ricoverati non espose le ragioni della sommossa: essi volevano minore clausura e più aria e cielo, le condizioni in cui vivevano erano peggiori di quelle delle bestie nelle stalle, dormivano su letti di cemento, abbandonati a loro stessi, chiedevano “perché non venite più spesso a vedere da vicino le nostre miserie?”. Sedata la rivolta, non venne preso nessun provvedimento. La vita all’interno di Collegno era poi tanto diversa da quella del mondo fuori? Chi ha potere si impone sui più bisognosi, chi non sa rispondere a semplici domande alza la voce e le mani, chi si rivolta per un disagio viene ingannato e poi messo a tacere, di questo i matti se ne sono accorti, per ciò li abbiamo rinchiusi là dentro.
Alessia Cagnotto
 

Colti in flagrante mentre smurano la cassaforte

I Carabinieri del Nucleo operativo radiomobile della Compagnia di Casale Monferrato e delle Stazioni di Gabiano, Murisengo, Fubine e Pontestura hanno arrestato in flagranza di reato per tentato furto aggravato in concorso quattro cittadini stranieri:, 21enne ed una 23enne rumeni, una cittadina rumena di 19 anni ed un moldavo di 20 anni. Roberta, 19enne rumena, GROSU Andrei Alexandru, 23enne rumeno, e DEACOV Ion, 20enne moldavo. I quattro sono stati sorpresi all’interno di un locale in ristrutturazione nel Comune di Casale Monferrato, il No Noia di strada alla Dida, dove stavano smurando una cassaforte e avevano già accumulato materiale ferroso di vario genere, pronto per essere asportato. I Carabinieri hanno proceduto al sequestro degli arnesi da scasso utilizzati per il tentato furto e restituito la refurtiva ai proprietari. Al termine dell’attività di polizia giudiziaria, i quattro sono stati condotti presso il carcere di Vercelli, a disposizione dell’Autorità Giudiziaria.

Massimo Iaretti

Ute Lemper a Torino per il Giorno della Memoria

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Canzoni dai ghetti e dai campi di concentramento
Canzoni sul razzismo e canzoni in cerca di pace

“Come tedesca, nata dopo la Guerra, sposata ad un uomo ebreo, a New York da 20 anni, sono da sempre legata alla storia, terribile, dell’Olocausto. E’ mia responsabilità e dovere etico onorare la cultura del popolo ebreo e stimolare il dialogo su questo orribile passato.”: così la grande cantante ed artista tedesca Ute Lemper spiega le motivazioni che sono alla base di “Songs for Eternity”, spettacolo costruito sulle canzoni scritte nei ghetti e nei campi di concentramento da musicisti ebrei deportati, molti dei quali morirono nelle camere a gas. Il 31 gennaio e il 1 febbraio Ute Lemper porterà “Songs for Eternity” a Torino e a Cuneo, nell’ambito delle iniziative del Giorno della Memoria 2019.

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Il comunicato del Consiglio regionale:

http://www.cr.piemonte.it/web/comunicati-stampa/comunicati-stampa-2019/471-gennaio-2019/8560-songs-for-eternity-ute-lemper-a-torino-a-cuneo

PESCE AVARIATO IN CORSO GIULIO CESARE 

Agenti del Comando VI Circoscrizione Barriera di Milano della Polizia Municipale hanno effettuato oggi, giovedì 17 gennaio, un controllo in un negozio di vendita generi alimentari in corso Giulio Cesare nei pressi di via Feletto, gestito da una cittadina di nazionalità nigeriana. Sono stati trovati circa 60 chilogrammi di pesce surgelato (sgombro, nasello, orata…), in pessimo stato di conservazione. L’esercente è stata deferita all’Autorità Giudiziaria e gli alimenti posti sotto sequestro. Altri Agenti del Comando VII Circoscrizione Aurora della Polizia Municipale hanno ispezionato una gastronomia all’inizio del corso Giulio Cesare con un titolare di etnia nord-africana. Sono stati riscontrati illeciti amministrativi relativi al pavimento sporco, presenza di prodotti per la pulizia collocati vicino a derrate alimentari, bidoni dell’immondizia privi di copertura, mancanza del relativo cartello dell’orario dell’esercizio. Gli Agenti, sempre in corso Giulio Cesare, hanno anche accertato identiche infrazioni in altri due locali di gastronomia, con titolari di etnia nord-africana e di etnia asiatica. Infine, in un bar, gestito da cittadino italiano, sono stati posti sotto sequestro amministrativo 3 videogiochi, ai sensi dell’art. 5 Legge Regionale n 9/16.

Salone del Libro, avviso di garanzia anche a Fassino

La procura di Torino sta consegnando gli avvisi di garanzia nell’ambito dell’inchiesta sul salone del Libro. Tra i destinatari – in tutto 29 – anche  l’ex sindaco di Torino Piero Fassino, l’assessore regionale alla Cultura, Antonella Parigi, l’ex presidente del Salone Rolando Picchioni, Giovanna Milella ex presidente e Michele Coppola, assessore regionale nella giunta Cota dal 2010 al 2014. L’inchiesta parte dall’ipotesi di valore sovrastimato  del marchio di Librolandia per 1,8 milioni di euro, quasi  otto volte di più rispetto alla cifra definita dopo  tre anni dopo. L’obbiettivo sarebbe stato secondo i pm era quello di coprire i debiti creatisi.

 

(foto: il Torinese)

Paura in via Micca: aggressione a colpi di accetta

Terrore  in centro città  e mezzi pubblici bloccati stamane verso le 12 per un uomo di colore che, con un giubbotto giallo da cantiere e armato di un’accetta, ha aggredito un passante, probabilmente un altro  migrante. Poi è scappato a piedi in via Cernaia. La vittima, derubata dello zaino, è stata colpita alla testa più volte e poi  soccorsa dai passanti e dal 118. Le forze dell’ordine stanno dando la caccia all’aggressore.

1700 firme per salvare il Libero Scambio del Balon di Borgo Dora

Oggi 17 gennaio 2019 consegnate al Gabinetto della Sindaca, al Questore, al Prefetto di Torino e alla Circoscrizione 7 le firme raccolte per fermare il trasferimento del Mercato del Libero Scambio 

Gentile Sindaca,

Gentili assessori Giusta, Sacco e Montanari,

Gentili Consiglieri Comunali,

Gentile Presidente della Circoscrizione 7,

Gentili associazioni del quartiere,

Gentili Signori e Signore,

sta crescendo la solidarietà dei cittadini torinesi per il mercato del libero scambio.  In poco più di una settimana abbiamo raccolto, tra petizione online e cartacea, più di 1700 firme a favore della sua permanenza a Borgo Dora, che consegniamo oggi al Gabinetto della Sindaca e, per conoscenza, al Questore, al Prefetto di Torino e alla Circoscrizione 7. In nome di tutti i firmatari vi chiediamo di riconsiderare la scelta dello spostamento. Sabato 19 gennaio saremo al Canale Molassi, per dire Sì al Balon per tutti. La raccolta firme continua su Change.org “Salviamo il BALÔN. NO allo spostamento del mercato del libero scambio” Come sapete, la Giunta comunale in data 27 dicembre ha deciso di spostare il mercato del libero scambio del sabato, chiamato anche Suq, in via Carcano, lontano da Borgo Dora. Gli abitanti di Porta Palazzo, Borgo Dora e Aurora, riuniti nel Comitato Oltredora, vogliono esprimere il loro forte dissenso con questa lettera. Il Balôn è da secoli il mercato delle pulci di Torino. Appunto il mercato delle pulci. Una realtà popolare del riuso in primo luogo per necessità, ma anche per il fascino del vecchio e con tutti i benefici sociali ed ecologici che ciò comporta. Per sviluppi storici della legislazione il Balôn si è spezzato formalmente in due, però, seppur porti oggi altro nome ufficialmente, il mercato del libero scambio rappresenta l’essenza di ciò che il Balôn è sempre stato.  il Suq centinaia di famiglie, italiane, come straniere, riescono a tirare avanti – come venditori e come compratori. Ma questo mercato è importante per il quartiere. Lo mantiene vivo e non solo per i turisti, ma soprattutto per la moltitudine piena di diversità per cui Porta Palazzo sono una casa. Come abitanti siamo contrari a una strategia miope che cerca di espellere a beneficio di un ipotetico sviluppo turistico che piuttosto dalla presenza del mercato trarrebbe vantaggio. Ilcompito del Comune sarebbe semmai di sviluppare, insieme agli abitanti e utenti storici di questi luoghi strategie per evitare che il turismo porti a un processo di gentrificazione del quartiere, cioè di suo snaturamento e distruzione della sua essenza sociale. Insieme a chi vive questo luogo andrebbe anche avviato un processo per elaborare soluzioni concrete e reali in loco a quei problemi che ci sono nel quartiere: problemi che non stanno in chi lo frequenta, ma, per esempio, nella mancata manutenzione dello spazio pubblico. In questo senso critichiamo anche una mancanza di ascolto da parte dell’amministrazione comunale che prima di una tale decisione non si è confrontata con tutte le voci del quartiere. Che non ha, quantomeno, sentito il Comitato Oltredora, come ci era stato promesso dal presidente del Consiglio Comunale, Fabio Versaci.Invitiamo pertanto le altre realtà del quartiere di esprimere anch’esse il loro dissenso e la Giunta a ritornare sui suoi passi e avviare finalmente un dialogo inclusivo sul futuro di Aurora, Borgo Dora e Porta Palazzo, rispettoso della sua storia e della sua realtà sociale!

Comitato Oltredora

Un potere al femminile ovvero quando la grandeur giunse sulle rive del Po

In un periodo in cui gli schermi di cinema e televisione vanno riscoprendo il fascino delle sovrane di tempi più o meno recenti, con un gran bel bagaglio di intrighi, bellezze, storie e pettegolezzi – ancora una volta la lotta tra Elisabetta I e la cugina Maria Stuarda (Margot Robbie e Saoirse Ronan si fronteggiano da domani), Olivia Colman, già forte di una Coppa Volpi e di un Golden Globe, tra una settimana agiterà come Anna d’Inghilterra i sonni (e le lenzuola) della sua Favorita e poi passerà a indossare gli abiti di Elisabetta II nella serie The Crown su Netflix, in Spagna furoreggia Isabel sulla regina di Castiglia e Helen Mirren si trasforma nella Grande Caterina di Russia, da noi come regina Anna di Dumas Margherita Buy ha nuovamente bisogno dei Moschettieri per salvare la Francia dalle mire di Mazarino -, è giusto che Torino riscopra le sue Madame Reali, ovvero Cristina (o meglio Chrestienne) di Francia e Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours, che nello spazio di poco più di un secolo portarono “cultura e potere da Parigi a Torino”, come recita il sottotitolo della mostra allestita sino al 6 maggio nella sala del Senato a Palazzo Madama e curata dalle conservatrici del museo Clelia Arnaldi di Balme e Maria Paolo Ruffino. Un potere che vide la figura femminile in prima linea, nella difesa del proprio ruolo e nella volontà di rafforzare uno stato che potesse competere con capitali quali Parigi, Vienna o Madrid, politicamente e culturalmente. A testimonianza dell’opera delle due sovrane, sono esposte nel percorso dei vari ambienti che compongono la mostra oltre 120 opere, tra dipinti (due di essi, di Claude Dauphin e del Buffi, ritratti equestri dalle grandi proporzioni, ce le mostrano all’apice della loro grandezza, in abiti elegantissimi e cappelli piumati, la spada ben stretta in mano, mentre la Vittoria alata le precede al suono della tromba; altre opere in mostra di Anton Van Dyck, Carlo Maratta, Maurizio Sacchetti, Giovanna Garzoni, Francesco Cairo, Jan Miel), oggetti d’arte, arredi, tessuti (tra gli altri, quelli raffinati che la Compagnia delle Indie portava in Europa), gioielli, oreficerie, maioliche bianche e blu, di importazione cinese, che ispireranno la produzione delle manifatture di maioliche locali; e ancora ceramiche, disegni e incisioni, tutti provenienti da prestiti di collezionisti privati e di importanti musei italiani ed esteri, tra gli altri dalle Gallerie degli Uffizi ai Musei di Belle Arti e dei Tessuti di Lione, dal Museo del Castello di Versailles al Castello di Racconigi, dal Museo del Rinascimento di Ecouen al Prado di Madrid.

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Opere piccole o grandi che ripropongono anche la quotidianità della corte, il momento della toeletta e la tavola, il piacere della conversazione tra dame arricchito da cerimoniali e ambienti che ripropongono il gusto francese nei mobili, nei parati in “corame d’Olanda”, nei servizi di porcellana pronti per assaporare thè e cioccolate e caffè: non dimenticando una citazione all’attrazione per l’Oriente che crebbe proprio in quei decenni tra le corti europee, alla moda con il privilegio a quella d’oltralpe (nuovi tessuti e nuovi gioielli, con la ricchezza di diamanti e perle) che va a sostituirsi a quella spagnola che aveva imperato durante i governi di Carlo Emanuele I e di Anna d’Austria. Cristina, terzogenita del re di Francia Enrico IV di Borbone e di Maria de’ Medici (in mostra i due loro ritratti dovuti a Frans Pourbus il Giovane, provenienti da Firenze), nasce a Parigi nel palazzo del Louvre e tredicenne, nel 1619, giunse a Torino da Parigi per andare sposa a Vittorio Amedeo I di Savoia, compiendosi un matrimonio che avrebbe rafforzato l’alleanza tra il Piemonte e la Francia e dato alla corte torinese un prestigio maggiore tra le corti europee. Cristina predilesse le feste, i balletti di corte, cui partecipò con assiduità e che affidò alle coreografie di Filippo d’Aglié (anche lui rappresentato in mostra), suo amante e fedele consigliere nonché cortigiano raffinato; fece ampliare e arredare due residenze extraurbane, il grandioso castello del Valentino (ad opera del Castellamonte) e la Vigna in collina (ad opera di padre Andrea Costaguta, l’attuale villa Abegg), trasformò quella che era la piazza per il mercato del vino nella elegante Place Royale (la piazza San Carlo di oggi). Rimasta vedova nel 1637 (un quadro di Philibert Torret, appartenente alla collezione Intesa San Paolo, che è partner della mostra, la rappresenta in abiti vedovili), assunse la reggenza del figlio Carlo Emanuele II, di non ancora cinque anni e subentrato al trono in seguito alla morte in giovanissima età del fratello Francesco Giacinto. Lo scontro con i cognati, il cardinale Maurizio e Tommaso di Savoia-Carignano, sostenitori della corte spagnola, fu inevitabile, “principisti” e “madamisti” si fronteggiarono dando il via ad una guerra civile che si protrasse sino al 1642, anno in cui il matrimonio della giovane Ludovica con lo zio cardinale (una dispensa papale salvò prontamente la situazione, anche se lo sposo, pur avviato in giovane età alla carriera ecclesiastica, non aveva mai preso gli ordini sacri) pose fine al conflitto. Mantenendo l’indipendenza del ducato, la sovrana passò il comando al figlio soltanto nel 1648, anche se di fatto fu lei a governare sino all’anno della morte, nel 1663. Due anni dopo, sposa di Carlo Emanuele, giungerà Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, pronipote di Enrico IV, dama di corte della regina di Francia e cugina del Re Sole.

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Vedova dopo soli dieci anni, si vide costretta a fronteggiare un lungo periodo di carestia, istituì un Monte di pietà e fondò l’ospedale di San Giovanni Battista. Fu reggente fino al 1684 (approfittando del suo potere, tentò di allontanare il figlio dalla corte grazie ad un matrimonio con la figlia del re del Portogallo: un’unione che avrebbe anche sviluppato una nuova rete di commerci con quel paese e con le sue colonie), anno in cui l’erede Vittorio Amedeo II con quello che può essere definito un vero colpo di stato assunse il potere. Privata del comando, si dedicò all’arte e, completandoli, ai vari ampliamenti della città, alle chiese e alla costruzione di nuove vie e piazze (gli ampliamenti verso est, che hanno il loro fulcro nella cosiddetta piazza Carlina), istituì il ghetto ebraico, chiamò Filippo Juvarra per affidargli la realizzazione dello scalone d’onore di Palazzo Madama e l’abate Guarini per la chiesa della Consolata. Fu accusata quest’ultima soprattutto di organizzare feste a palazzo assai dispendiose (al fine di allontanare il figlio dalle occupazioni politiche, si disse), che intaccarono non poco il tesoro della corte: come certi comportamenti piuttosto liberi contribuirono a metterla in cattiva luce agli occhi dei più. Come chi l’aveva preceduta nel comando, espìa omaggiando il Santuario di Oropa e la sua Madonna nera di ostensori o di preziosi pendenti, in oro smaltato e diamanti, sceglie al termine della vita uno stato di devozione e di povertà, per la sepoltura il dimesso abito delle Carmelitane scalze, una veste di panno marrone, lo scapolare con il soggolo bianco, il velo nero. Il corpo di Cristina viene portato in Santa Cristina, in epoca napoleonica sarà traslato nella chiesa di Santa Teresa. Maria Giovanna Battista è seppellita nel Duomo, ma il suo cuore, protetto in una scatola d’argento, è consegnato alle Carmelitane.

 

Elio Rabbione

 

Nelle immagini, nell’ordine:

Charles Dauphin, “Ritratto equestre di Cristina di Francia in veste di Minerva”, 1663 ca, olio su tela, Castello di Racconigi;

Giovanni Luigi Buffi (?), “Ritratto equestre di Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours”, terzo quarto del XVII secolo, olio su tela, Palazzo Madama – Museo Civico di Arte Antica, Torino;

“Pendente raffigurante la Vergine con Sant’Anna e il Bambino”, dono di Cristina di Francia, prima metà del XVII secolo, oro smaltato e diamanti. Oropa, Tesoro del Santuario. (Ph Paola Rosetta);

Jan Miel (1599 – 1663) e collaboratori (?), “Ritorno di Cristina di Francia con il giovane Carlo Emanuele II a Torino” 1645 post – 1660, olio su tela. Racconigi, Reale Castello.