redazione il torinese

Presa la banda delle rapine in tangenziale

POLIZIA CROCETTAI malviventi agivano su  una vecchia Fiat Ritmo

 

La polizia stradale di Torino ha arrestato due uomini accusati di essere responsabili di quattro rapine a mano armata  nelle aree di servizio della tangenziale la scorsa estate. Arrestata anche una terza persona per la ricettazione di un telefono cellulare rubato nel corso di una delle rapine. I malviventi agivano su una vecchia Fiat Ritmo ed erano già stati arrestati nei mesi scorsi per avere commesso una rapina in banca a Torino, sempre usando la stessa autovettura.

 

(foto: il Torinese)

Teatri torinesi in rosso: Regio e Stabile lanciano un appello a Regione e Comune

regio 2Ha fatto “outing” anche il il Teatro Stabile che, attraverso l’ Ansa, ha reso noti i ritardi nei pagamenti da parte di Comune di Torino e Regione Piemonte

 

“Abbiamo code di creditori lunghe chilometri”, dice l’assessore regionale al Bilancio Aldo Reschigna. Come dire che le richieste di ricevere dalla Giunta i fondi promessi ma mai assegnati, non riguardano certamente solo il mondo della cultura. I problemi di bilancio degli enti culturali piemontesi sono tornati all’onore delle cronache dopo l’allarme del Teatro Regio di Torino, che ha comunicato la propria sofferenza di cassa per un importo di ben 11 milioni di euro. Ha fatto “outing” anche il il Teatro Stabile che, attraverso l’ Ansa, ha reso noti i ritardi nei pagamenti da parte di Comune di Torino e Regione Piemonte. 

 

“Anche noi non abbiamo ricevuto i fondi previsti per il 2014 e quelli del 2015”, rivela all’agenzia stampa il direttore dello Stabile torinese, Filippo Fonsatti, che parla di un “ritardo patologico e pericoloso”. Se la Regione ha annunciato un piano di rientro, Fabio Naggi, vicepresidente di Agis Torino dichiara sempre all’Ansa: “Il sistema delle piccole e medie imprese dello spettacolo dal vivo affronta con grandissima difficoltà  la stretta di liquidità che deriva dal ritardo degli enti”. 

 

 

(Foto: il Torinese)

Sotto la Mole i Musei sono Reali: il polo espositivo di piazza Castello cambia nome e "mission"

castello armeria realepolo reale cavalloBen 3 chilometri di percorsi espositivi,  oltre 46.000 metri quadrati di pertinenze, 7 ettari di giardini

 

Una nuova denominazione ma, soprattutto, un passo avanti nel percorso di autonomia dell’istituzione culturale: una nuova “mission” svincolata dal ministero per il Polo Reale torinese.Il ministro Franceschini ha infatti firmato il decreto che dà un nuovo nome al Polo Reale. Nascono i Musei Reali di Torino che avanzano così nel processo previsto dalla riforma. Il cambiamento di nome è stato attuato per rendere più trasparente, scrive l’Ansa ” la radice storica che unisce le cinque grandi istituzioni culturali ospitate nell’antica residenza torinese dei Savoia: il Palazzo Reale con l’Armeria e la Biblioteca; il Museo di Antichità e la Galleria Sabauda. Un patrimonio legato alla storia della dinastia sabauda, da Emanuele Filiberto, a cui si deve il trasferimento della capitale da Chambéry a Torino, fino a Carlo Alberto, con il quale si compie la trasformazione delle collezioni di famiglia in un museo pubblico”. I Musei Reali rappresentano oggi un distretto culturale alla pari con i grandi musei d’Europa dal Louvre al British Museum all’Ermitage. Ben 3 chilometri di percorsi espositivi,  oltre 46.000 metri quadrati di pertinenze, 7 ettari di giardini.

 

(Foto: il Torinese)

Dalla Regione arriva un fondo di 12 milioni per sostenere le piccole e medie imprese

REGIONE PALAZZO

 I tassi di interesse, inferiori a quelli di mercato, sono stati predefiniti per ogni classe di rating

 

Una misura anticrisi della Regione attiva attraverso Finpiemonte un fondo di 12 milioni di euro. L’obiettivo? sostenere gli investimenti delle piccole e medie imprese. Il fondo, denominato  “Tranched Cover Piemonte”, prevede un intervento a garanzia dei finanziamenti che saranno concessi da tre istituti bancari: Unicredit, Intesa San Paolo e Monte dei Paschi di Siena. L’iniziativa intende allargare il perimetro del credito e abbassarne il costo, per rilanciare gli investimenti.

 

Il finanziamento, che dovrà essere concesso entro il 30 settembre 2016, potrà spaziare da 25mila euro ad un milione di euro per ogni beneficiario. I tassi di interesse, inferiori a quelli di mercato, sono stati predefiniti per ogni classe di rating.

 

L’assessore regionale alle Attività produttive, Giuseppina De Santis, spiega che “non si vuole replicare ciò che fanno le banche, ma operare per un maggiore accesso al credito laddove il mercato arriva con difficoltà. Questa misura, che movimenterà risorse per circa 150 milioni, potrà dare un forte impulso alla ripresa degli investimenti, contribuendo al rafforzamento del tessuto economico piemontese”.

 

“Si tratta – ha aggiunto il presidente di Finpiemonte, Fabrizio Gatti – di una manovra aggiuntiva e non sostitutiva dei finanziamenti bancari. E’ la prima volta che la finanziaria regionale fa una cosa del genere, che rientra appieno nella sua funzione di sostenere l’economia piemontese”.

 

(Foto: il Torinese)

E' CARNEVALE, CAVAGNOLO IN FESTA!

carnevaleSabato 30, dalle ore 15, ci sarà il Carnevale dei bambini al Palazzetto dello sport

 

Con la polentà a baccalà a mezzogiorno, svoltasi domenica 24 gennaio, al circolo Stazione, organizzata dalla Polisportiva, è partita la serie di manifestazioni del carnevale di Cavagnolo. Sabato 30, dalle ore 15, ci sarà il Carnevale dei bambini al Palazzetto dello sport, a cura della pro loco. E sempre questa associazione domenica 7 febbraio andrà invece ad organizzare, alle ore 11.30, in piazza Vittorio Veneto, la fagiolata. Martedì, poi nuovamente pro loco sarà l’anima della polentata con salsiccia, al centro culturale Martini (dalle ore 18.30). Infine il tour della pro loco attraverso Cavagnolo si concluderà a mezzogiorno di domenica 21, con polenta e salsiccia al Borgo Allegria.

Massimo Iaretti

 

Il “giorno della Memoria”. Per non dimenticare quel 27 gennaio del 1945 ai cancelli di Auschwitz

auscwitzaushvitz2aushwitz2Il 27 gennaio del 1945 cadeva di sabato. L’Armata Rossa, e più precisamente la 60ª Armata del Primo Fronte Ucraino, arrivò nella cittadina polacca di Oswieçim (in tedesco Auschwitz), a circa 60 km da Cracovia. Le avanguardie più veloci, al comando del maresciallo Konev, raggiunsero  il complesso di Auschwitz-Birkenau-Monowitz nel pomeriggio e attorno alle 15.oo i soldati sovietici abbatterono i cancelli del campo di sterminio

 

«La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz“Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati». Così recita l’articolo 1 della Legge 20 luglio 2000, n. 211 che ha istituito il “Giorno della Memoria”. Il 27 gennaio del 1945 cadeva di sabato. L’Armata Rossa, e più precisamente la 60ª Armata del Primo Fronte Ucraino, arrivò nella cittadina polacca di Oswieçim (in tedesco Auschwitz), a circa 60 km da Cracovia. Le avanguardie più veloci, al comando del maresciallo Konev, raggiunsero  il complesso di Auschwitz-Birkenau-Monowitz nel pomeriggio e attorno alle 15.oo i soldati sovietici abbatterono i cancelli del campo di sterminio , liberando circa 7.650 prigionieri. Ad Auschwitz, circa due settimane prima, i nazisti si erano precipitosamente ritirati portando con loro, in una marcia della morte, tutti i prigionieri sani, molti dei quali morirono lungo il percorso. In realtà i sovietici erano già arrivati precedentemente a liberare dei campi nel profondo est polacco,  come quelli di Chełmno e di Bełżec , ma questi, essendo di sterminio e non di concentramento, come Treblinka e Sobibòr, erano vere e proprie fabbriche di morte dove i deportati venivano immediatamente uccisi nelle camere a gas. La scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l’orrore del genocidio nazista. In totale, solo ad Auschwitz, furono deportate più di un milione e trecentomila persone. Novecentomila furono uccise subito al loro arrivo e altre duecentomila morirono a causa di malattie, fame e stenti. I soldati sovietici si trovarono di fronte non solo  i pochi sopravvissuti ridotti a pelle e ossa ma, durante l’ispezione del campo,  rinvennero le prime tracce dell’orrore consumato all’insaputa del mondo intero: tra i vari resti,  quasi otto tonnellate di capelli umani. Lì, nel sud della Polonia, a partire dalla metà del 1940, funzionò il più grande campo di sterminio di quella sofisticata «macchina» tedesca denominata «soluzione finale del problema ebraico». Auschwitz era una vera e propria metropoli della morte, composta da diversi campi – come Birkenau e Monowitz – ed estesa per chilometri. C’erano camere a gas e forni crematori, ma anche baracche dove i prigionieri lavoravano e soffrivano prima di venire avviati alla morte. Gli ebrei arrivavano in treni merci e, fatti scendere sulla cosiddetta «Judenrampe» (la rampa dei giudei) subivano una immediata selezione, che li portava quasi tutti direttamente alle «docce» (così i nazisti chiamavano le camere a gas).

 

I morti nei campi di sterminio, ai quali vanno aggiunti anche le centinaia di migliaia di ebrei uccisi nelle città e nei villaggi di Polonia, Ucraina, Bielorussia, Russia, i morti del ghetto di Varsavia e altri ancora,  furono oltre sette milioni. Dei deportati italiani, almeno 8.600 furono gli ebrei e circa 30.000 i partigiani, gli antifascisti e i lavoratori (questi ultimi arrestati in gran parte dopo gli scioperi del marzo 1944).Ci furono poi centinaia di migliaia di  soldati e ufficiali del disciolto esercito italiano che, dopo l’armistizio dell’8 settembre, lasciati senza ordini, soprattutto per quanto riguarda l’atteggiamento da tenere verso l’ex alleato tedesco, diventarono degli sbandati. Gli 810mila militari italiani catturati dai tedeschi sui vari fronti di guerra vennero considerati disertori e quindi giustiziabili se resistenti (in molti casi, soldati e ufficiali vengono trucidati, come a Cefalonia). Deportati  nei lager, furono classificati come internati militari (Imi), non riconoscendoli come prigionieri di guerra, per poterli “schiavizzare” senza controlli, ignorando la Convezione di Ginevra sui Prigionieri, del 1929. Oltre 600mila, nonostante le sofferenze e il trattamento disumano subito nei lager, pur sollecitati ad aderire alla Repubblica di Salò e al regine nazista, rimangono fedeli al giuramento alla Patria, scelgono di resistere,  pronunciando un orgoglioso e dignitoso  “NO” al fascismo. I militari detenuti presso le carceri di Peschiera del Garda furono i primi deportati italiani, giunti a Dachau il 22 settembre 1943. Poi conobbero la tragedia dei lager nazisti gli ebrei, gli antifascisti condannati al carcere o al confino, gli altri militari arrestati sui diversi fronti di guerra. La maggioranza delle vittime dei nazisti trovò la morte nei lager di Auschwitz-Birkenau, Dachau, Flossemburg, Dora-Mittelbau, Neuengamme, Ravensbruck, Mauthausen, Buchenwald. Nell’Italia del Nord furono creati dei campi di transito dove gli arrestati (partigiani, antifascisti, ebrei) sostavano per un breve periodo, in attesa dei convogli che li avrebbero trasportati nei grandi lager del Reich e dei territori occupati. Uno era situato a Fossoli di Carpi, presso Modena: fu smantellato nell’estate del 1944 e sostituito da un altro campo di transito situato più a nord, a Bolzano. Un altro si trovava a Borgo San Dalmazzo, in provincia di Cuneo. Anche in Italia venne istituito un campo di sterminio: la Risiera di San Sabba, a Trieste, dal 20 ottobre 1943 fino al 29 aprile 1945.  Nei lager nazisti gli italiani, arrestati e deportati come antinazisti, dovevano portare sulle spalle anche la “colpa di essere traditori”, “badogliani” e quindi venivano considerati doppiamente colpevoli e tali da essere destinati ai lavori più pesanti, più avvilenti, più massacranti, al pari degli ebrei e dei prigionieri di guerra sovietici.

 

Tutti gli strati del nostro paese furono colpiti dalla tragedia della deportazione: dall’intellettuale all’operaio e all’artigiano, dal più povero al ricco, dal giovane al vecchio stanco e malato, senza risparmiare donne e bambini.Le donne, in particolare, furono deportate a Ravensbruck, lager di eccezionale durezza, in cui i nazisti vollero doppiamente umiliarle, sfruttarle e colpirle a morte. La ricorrenza del 27 gennaio offre una buona occasione per riflettere sulla storia agghiacciante della discriminazione e dello sterminio razzista: una storia tragica, scandita in Italia dalle leggi razziali del 1938 che cancellarono i diritti civili di quaranta mila cittadini italiani , dai luoghi dell’annientamento fisico di milioni di ebrei, di detenuti politici, di persone definite da Hitler “difettose“.  Una riflessione che è parte di uno sforzo necessario per garantire la continuità delle conoscenze tra le generazioni, affinché si possa comprendere, sino in fondo, il significato del nazi-fascismo, che aveva posto a suo fondamento il principio di discriminazione; e come in ogni momento in cui questo principio riemerge , la tragedia può ripetersi.  E, infatti, si ripete in un mondo scosso da guerre, eccidi, violenze dal medio oriente all’ Africa, dal continente sud americano fino all’estremo oriente. Gli ultimi esempi – in Europa –  vennero dai Balcani, all’inizio degli anni ’90, in Bosnia Erzegovina e  poi nel Kossovo. Quando si riflette sul modo con cui i fatti accaduti ad Auschwitz ed in tutti gli altri “campi” debbano essere insegnati e fatti conoscere,  occorre tener presente alcuni principi imprescindibili che si fondano proprio sulla consapevolezza di ciò che ha reso possibile la Shoah.

 

Shoah è una parola ebraica che significa «catastrofe», e ha sostituito il termine «olocausto» usato in precedenza per definire lo sterminio nazista, perché con il suo richiamo al sacrificio biblico, esso dava implicitamente un senso a questo evento e alla morte, invece insensata e incomprensibile, di sei milioni di persone. La Shoah è il frutto di un progetto d’eliminazione di massa che non ha precedenti, né paralleli: nel gennaio del 1942 la conferenza di Wansee approva il piano di «soluzione finale» del cosiddetto problema ebraico, che prevede l’estinzione di questo popolo dalla faccia della terra. Lo sterminio degli ebrei non ha una motivazione territoriale, non è determinato da ragioni espansionistiche o da una per quanto deviata strategia politica. È deciso sulla base del fatto che il popolo ebraico non merita di vivere. È una forma di razzismo radicale che vuole rendere il mondo «Judenfrei» («ripulito» dagli ebrei). Dopo la Shoah è stato coniato il termine «genocidio». Purtroppo il mondo ne ha conosciuti tanti, e ancora troppi sono in corso sulla faccia della terra.

 

Bisogna riflettere su un punto. Se è potuto accadere quello che è successo ad Auschwitz che, forse vale la pena ricordarlo, era un Vernichtungslager cioè -letteralmente – un lager di “nullificazione“, ciò è stato possibile perché uno Stato ha fondato la propria legittimazione sul principio di disuguaglianza. Il nazismo si fondava, come il fascismo, sul principio di discriminazione. Senza quel principio non avremmo avuto gli orrori successivi. L’accettazione di quel principio ha prodotto come “conseguenza normale” il passaggio dalla negazione dei diritti degli ebrei al loro sterminio, con l’applicazione rigorosa di principi di efficienza e un’organizzazione razionale basata sull’applicazione metodica e quotidiana di operazioni burocratiche che Hannah Arendt descrisse, nel loro insieme, come la “banalità del male“. Gli ebrei, e con essi gli zingari, gli omosessuali e le persone “difettose” non venivano arrestati e sterminati a causa delle loro azioni, o del loro “avere“, ma solo in ragione del loro “essere“. Così i prigionieri politici, i dissidenti, gli internati militari. Un’altra riflessione riguarda il dovere di affrontare il problema delle responsabilità, delle connivenze, degli approfittamenti e dei silenzi che vi sono stati nel nostro Paese. Sappiamo che ci furono molte manifestazioni di rischiosa e forte solidarietà. Molti ebrei furono ospitati da amici non ebrei o nascosti.Ma non fu questo il comportamento prevalente. Il comportamento prevalente fu il silenzio. Non ci fu solo chi salì in cattedra grazie all’espulsione dalle università dei professori definiti di razza ebraica. Anche dopo l’inizio delle deportazioni ci furono casi non isolati di cittadini italiani che accettarono di segnalare il proprio vicino ebreo alle autorità nazifasciste in cambio di qualche soldo. Alcuni di questi, anche dopo la guerra, non si vergognarono di uscire indossando i vestiti e gli oggetti preziosi sequestrati nelle case di coloro che avevano denunciato. E’ stata raccolta una mole impressionante di documenti che testimoniano l’efficienza con la quale la burocrazia italiana procedette alla sistematica spoliazione dei beni di cittadini definiti di razza ebraica. Funzionari ed impiegati si impegnarono per la compilazione, e la solerte messa a disposizione dei nazisti, delle liste dei deportati per i campi di sterminio. Si tratta di 8566 persone di cui solo 1009 sono sopravvissute. Fu uno zelo disonorante. Ecco perché il dovere della memoria della Shoah, il non dimenticare mai quanto accadde allora, è parte integrante dell’impegno permanente contro l’indifferenza, contro il torpore della memoria.

 

Il Giorno della Memoria non è un omaggio alle vittime, ma una presa di coscienza collettiva del fatto che l’uomo è stato capace di questo. Non è la pietà per i morti ad animarlo, ma la consapevolezza di quel che è accaduto. La capacità di lottare contro il principio di discriminazione che costituisce la più grave forma di iniquità sociale è uno dei capisaldi della dignità di uno stato democratico. Non va scordato.In tempi così difficili, segnati dai fatti tragici dell’estremismo islamico che si traduce in violenza e  terrore,non tutti comprendono che uno dei caratteri fondamentali del futuro dell’Europa sarà quello della multietnicità e che questo futuro deve essere affrontato con fermezza ma anche con serenità, dev’essere governato e non respinto.Il Giorno della Memoria è un atto di riconoscimento di questa storia: come se tutti, oggi e ogni giorno, ci affacciassimo ai cancelli di Auschwitz,  riconoscendovi il male che è stato. Che non deve più accadere, ma che in un passato ancora molto vicino a noi, nella civile e illuminata Europa, milioni di persone hanno permesso che accadesse. E’ essenziale un lavoro di formazione , di trasmissione di valori, sentimenti, ideali molto impegnativo ma altrettanto necessario per dare un senso alla vita e permettere che la vita abbia un senso.

 

Marco Travaglini

 

È il tempo delle maggioranze variabili

RENZI LAVAGNAIn una stagione dove una maggioranza politica non c’è più, dove gli schieramenti sono sempre più intercambiabili e si registra il più grande incremento di passaggi parlamentari da un’alleanza all’altra e da un partito all’altro dal secondo dopoguerra in poi, è ovvio che le maggioranze che di volta che si formano variano rapidamente. L’unico elemento che ne deriva è la perdita di credibilità della politica

 

La politica italiana è ormai dominata dalle cosiddette “maggioranze variabili”. Una costante che evidenzia il decadimento della politica e il progressivo degrado delle stesse istituzioni democratiche. Certo, in una stagione dove una maggioranza politica non c’è più, dove gli schieramenti sono sempre più intercambiabili e si registra il più grande incremento di passaggi parlamentari da un’alleanza all’altra e da un partito all’altro dal secondo dopoguerra in poi, è ovvio che le maggioranze che di volta che si formano variano rapidamente. L’unico elemento che ne deriva è la perdita di credibilità della politica, la crescita esponenziale degli astenuti e degli indecisi come confermano ormai tutti gli istituti di sondaggio e il tramonto definitivo delle culture politiche che dovrebbero ispirare e guidare le varie formazioni politiche.

 

Voglio fare un esempio concreto senza scendere nella polemica perché sarebbe anche del tutto inutile. Oggi noi abbiamo i cultori storici del berlusconismo e di Berlusconi – dal livello politico e poetico a quello più gestionale, dalla sfera giornalistica a quella della semplice organizzazione del partito di Forza Italia – che sono diventati i più grandi cultori di Renzi e del renzismo. E, di conseguenza, un nuovo e positivo giudizio sull’attuale governo, la necessità di dar vita al sempre più discusso “partito della nazione” e un crescente sostegno alle scelte dell’esecutivo. Certo, il tutto è sempre accompagnato da distinguo speciosi e da marchingegni regolamentari ma il cittadino, anche nel suo disinteresse, capisce al volo che è in atto una mutazione genetica della politica italiana. Almeno di quella che abbiamo conosciuto sino a qualche anno fa. Del resto, è crollata la dicotomia politica e culturale tra berlusconismo e antiberlusconismo, tra destra e sinistra, tra vecchio e nuovo e via discorrendo. Per non parlare della “questione morale” che ormai è diventato un ferrovecchio del passato destinato ad essere archiviato senza appello.

 

Ora, di fronte ad un quadro del genere, è persin scontato che le cosiddette “maggioranze variabili” diventino la regola della politica italiana e non più un’eccezione. Per cui, sulla riforma costituzionale e la rivisitazione di ben 46 articoli della nostra Carta c’è una maggioranza che poi non  viene confermata sulla riforma delle unioni civili che a sua volta è diversa da quella che ha respinto la richiesta di dimissioni della ministra Boschi che a sua volta è ancora diversa da quella che approva regolarmente i provvedimenti meno importanti e di routine quotidiana.

 

Insomma, al di là del Nuovo centro destra – mai nome di partito fu più infelice alla luce dei comportamenti politici concreti di quella formazione politica – è indubbio che siamo di fronte ad un cambiamento radicale nella geografia politica italiana. E questo è anche il frutto di una stagione politica ormai post-ideologica e post culturale dove il tatticismo e la spregiudicatezza sono diventati i principi cardine attorno ai quali si formano e si rompono le maggioranze. Ed è necessario, forse, attrezzarsi a livello politico e culturale per battere questa deriva e questa degenerazione. Altrimenti, senza questo sussulto politico, culturale ed etico, l’attuale situazione politica semplicemente si consoliderà nei suoi pregi, pochi, e nei suoi difetti, tanti.

 

Giorgio Merlo

 

 

Le arpe suonano in Piemonte

arpa piascoIl primo e unico museo al mondo interamente dedicato all’arpa, alla sua storia e al suo universo sonoro. Il Museo è nato per ospitare a rotazione, la collezione di oltre 110 arpe antiche, ispirata da Victor Salvi, è oggi il riferimento a livello internazionale non solo per gli arpisti, ma per i cultori dell’arte

 

di Paolo Pietro Biancone*

 

E’ a Piasco, nel cuneese, il primo e unico museo al mondo interamente dedicato all’arpa, alla sua storia e al suo universo sonoro. Il Museo è nato per ospitare a rotazione, la collezione di oltre 110 arpe antiche, ispirata da Victor Salvi, è oggi il riferimento a livello internazionale non solo per gli arpisti, ma per i cultori dell’arte. Merito anche dell’offerta espositiva di questi anni, dei programmi di concerti e rassegne musicali, dei seminari, delle visite e dei laboratori didattici per tutte le istituzioni e privati, realizzati per promuovere la cultura dell’arpa e il suo universo sonoro.

 

Non a caso Piasco ospita l’azienda leader nella produzione di Arpe, la Salvi Harps, riconosciuta in tutto il mondo: il territorio saluzzese nel saluzzese è, infatti, zona rinomata per l’abilità degli artigiani nella lavorazione del legno. L’abbinamento con l’antico Marchesato di Saluzzo non è, dunque, causale: qui affonda le radici una tradizione di artigianato del legno, dai maestri minusieri agli scultori, agli intarsiatori. Da questa tradizione nasce una cultura del lavoro e del prodotto che conquista Victor Salvi, prima Arpa della New York Philarmonic Orchestra e della NBC Symphony Orchestra, sotto la direzione del grande Arturo Toscanini e di altri celebri direttori come Szell, Monteux e Mitropoulos. Salvi, con l’aiuto di alcuni artigiani, decide di tentare la realizzazione di un’arpa che superi in qualità di suono e manifattura tutte quelle esistenti e realizza un primo prototipo: nel 1954, in un piccolo laboratorio di New York, nasce la prima arpa Salvi. Nel 1956 lascia gli Stati Uniti e si trasferisce in Italia, sua terra di origine.

 

Qui fonda la sua azienda in una splendida sede a Genova, la cinquecentesca Villa Maria, nella quale ben presto inizia a ricevere visite da parte di arpisti al cui orecchio sono giunte voci circa una nuova e rivoluzionaria arpa: le arpe Salvi. Nel 1974 l’attività si trasferisce a Piasco, nel saluzzese, zona rinomata per l’abilità degli artigiani nella lavorazione del legno, dove apre la fabbrica nell’ex-cotonificio Wild. Salvi è mancato nel maggio scorso, ma l’azienda prosegue la tradizione e continua a lanciare nuovi prodotti che rappresentano il mix tra natura e tecnologia: la rigorosa selezione del legno si associa a una costante attività di ricerca per garantire il massimo di design, ergonomia, performance sonora. Il laboratorio di Piasco supporta l’intero ciclo produttivo dell’arpa mediante attività di progettazione, sviluppo di processi e messa a punto delle metodologie di incollaggi e verniciatura. E quando l’arpa supera i severi test finali è a tutti gli effetti un’arpa Salvi.

 

Insomma, un esempio di eccellenza che dà valore e lustro al territorio, in una sinergia positiva tra caratteristiche geografiche, cultura di impresa, arte, musica e turismo.

 

* Director of the European Research Center for Islamic Finance

Editor in Chief European Journal of Islamic Finance

Department of Management

University of Turin

Il centrodestra sulla sicurezza: "Un diritto e un bene pubblico"

ARCHITETTURAInvestire sulla sicurezza urbana è un dovere per la futura amministrazione: dal decoro alla pulizia fino al contrasto all’abusivismo commerciale e ai fumi inquinanti, dalla chiusura del suk al rispetto dei regolamenti

 

“Il nostro obiettivo è creare le condizioni perché i torinesi si sentano nuovamente all’interno di una comunità ovvero il luogo nel quale si contribuisce ad uno scopo comune, in cui ci si aiuta reciprocamente, in cui si condividono e si rafforzano i propri valori, in cui ci si sente parte di un gruppo e non ci si senta isolati, in cui si possano esprimere liberamente le proprie idee, in cui si difenda la propria cultura”. E’ il commento dei rappresentanti del centrodestra a Palazzo Civico sul tema della sicurezza, in vista della competizione elettorale per le Comunali. Dice il capogruppo di Forza Italia, Andrea Tronzano: “La sicurezza è un bene pubblico ed è un diritto. E’ sufficiente leggere i giornali dell’ultimo mese per capire che gli oltre 200 articoli attinenti i reati predatori, furti scippi borseggi aggressioni e altro, dimostrano una realtà che non è il centrodestra ad inventare. In più, nei recenti dati del Sole24Ore, Torino risulta al penultimo posto su 108 Città per l’ordine pubblico. Insomma, investire sulla sicurezza urbana è un dovere per la futura amministrazione: dal decoro alla pulizia fino al contrasto all’abusivismo commerciale e ai fumi inquinanti, dalla chiusura del suk al rispetto dei regolamenti. Un ruolo importante lo dovranno avere il messaggio politico, che proviene dal Sindaco, e l’azione della polizia locale purchè sia formata, tutelata dal Sindaco e dal Comando, garantita dalla modifica della legge nazionale.”

 

IL COMUNICATO DEL CENTRODESTRA: LA SICUREZZA E’ UN DIRITTO ED E’ BENE PUBBLICO

 

Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia: la sicurezza è uno dei capisaldi del nostro programma. Nel piano Torino Metropoli 2025 la parola “sicurezza urbana”  non viene citata neanche una volta. Crediamo si debba riflettere su questo dato.

 

Il nostro obiettivo è creare le condizioni perché i torinesi si sentano nuovamente all’interno di una comunità ovvero il luogo nel quale si contribuisce ad uno scopo comune, in cui ci si aiuta reciprocamente, in cui si condividono e si rafforzano i propri valori, in cui ci si sente parte di un gruppo e non ci si senta isolati, in cui si possano esprimere liberamente le proprie idee, in cui si difenda la propria cultura.

 

È necessario un atteggiamento pragmatico e culturalmente orientato, che consenta di comprendere che la paura dei cittadini non è una invenzione ed ha delle ragioni che la alimentano ed intervenire sulle cause per aiutare a ritrovare serenità e certezze.

 

Innanzitutto i dati. Torino è al 107° posto su 108 Città nella classifica delle Città più insicure in Italia. Scippi e borseggi, furti in casa, rapine e truffe sono ormai all’ordine del giorno e se questi fenomeni non vengono contrastati si acuisce il senso di insicurezza.

 

Le ragioni sono più di una, tra queste sicuramente: la diminuzione degli esercizi commerciali di vicinato, la diminuzione della capacità economica della famiglia (i dati sentenziano che su ogni famiglia pesa il 68% di tasse imposte accise canoni ed a Torino solo di imposte e tasse ogni torinese paga circa 100 euro al mese), la presenza sempre più numerosa di persone anziane fragili rispetto ai contesti in cui vivono, la presenza di stranieri concentrati in alcune strade e quartieri che accresce il senso di non appartenenza e non identificazione, la presenza di aree dismesse o degradate, le azioni della microcriminalità percepite dai cittadini in modo molto più profondo della grande criminalità e della criminalità organizzata.

 

Ricostruire la fiducia nelle Istituzioni e nei rapporti tra i cittadini è il nostro scopo. Le istituzioni devono proteggere i cittadini che a loro volta diventeranno motori di sicurezza. Dobbiamo porre fine a quell’aria di indulgenza che sembra accettare l’illegalità

 

La sicurezza urbana è un bene pubblico da tutelare attraverso il rispetto delle norme di convivenza civile, la vivibilità dei centri urbani, il rafforzamento della percezione di sicurezza.


Per fare un esempio, a Torino, dove tra l’altro la popolazione è particolarmente anziana (25,2% oltre i 65 anni e l’età media che si alza di un anno nel periodo 2002/2015 a 45,9 anni), solo l’1% delle sanzioni vengono elevate per violazione ai regolamenti che dovrebbero essere lo strumento con il quale si garantisce la convivenza tra i molteplici interessi di una metropoli.

 

In questi ambiti il Sindaco può e deve fare molto:

Indirizzi chiari sulla sicurezza urbana
Recupero aree degradate
Formazione e investimenti su Polizia Locale
Contrasto all’abusivismo
Tutela della proprietà privata e pubblica
Colpire i comportamenti incivili
Coordinamento tra politiche urbanistiche, sociali, mobilità e tutela della salute
Regole uguali per tutti
Incentivare i sistemi di sicurezza integrati tra gli organi preposti e tra pubblico e privato
Sviluppare un rapporto di collaborazione con le associazioni, i commercianti, le imprese, il volontariato, le università, i ricercatori, financo istituire la figura del cittadino “vigile osservatore” o “poliziotto osservatore” con la possibilità di riferire fatti delittuosi senza l’obbligo di comparire davanti al Giudice. Dare loro la certezza di essere protetti.
Disciplina per l’autorizzazione alla costruzione di moschee e controllo delle autorità religiose al fine di prevenire infiltrazioni terroristiche
Rimozione dei campi nomadi
Una buona visibilità sugli spazi pubblici e una corretta illuminazione
Nel quartiere la presenza di traffico, ancorché limitato, e una rete di sentieri e piste ciclabili ben individuate e illuminate serve a evitare l’isolamento
Una buona manutenzione, la pulizia regolare e la rimozione immediata dei rifiuti sono elementi fondamentali
La presenza delle Forze dell’ordine, specie del Vigile di Quartiere, aumenta il senso di sicurezza dei residenti
Riparare rapidamente i danni sia agli edifici sia all’arredo urbano riduce gli ulteriori danni dovuti ad attacchi successivi
Investire sulla sicurezza, anche per incrementare e rinnovare gli strumenti in dotazione alle Polizia Locali, estendere l’orario di presenza della Polizia Locale.
Attenzione all’inquinamento ambientale e interventi tempestivi
Insegnamento dell’educazione civica sin dalle scuole primarie