Referendum: sì, no, boh?

Si sono tenuti la settimana scorsa i referendum (anche se al plurale sarebbe meglio dire referenda) su cinque temi.

Io mi reco alle urne dal 1981 quando fummo chiamati ad esprimerci, come ora, su 5 referendum che videro un’affluenza di oltre il 79% degli aventi diritto.

Nel corso degli anni, l’istituto referendario è stato più volte utilizzato per i temi più svariati; partendo dal 1946, che vide vincere la scelta repubblicana, ebbero notevole eco quello del 1974 sul divorzio, del 1978 (in particolare quello sul finanziamento pubblico dei partiti) e via così con il nucleare, l’aborto, il porto d’armi, l’ergastolo e via dicendo.

Ad ogni referendum, però, l’affluenza è diminuita (tranne un picco positivo nel 2011) a dimostrazione che l’istituto referendario non è probabilmente più idoneo a raccogliere la volontà dei cittadini.

Quest’ultimo ha poi dimostrato diverse pecche: gli organizzatori sono gli stessi che avevano approvato la legge della quale hanno chiesto l’abrogazione, i comitati promotori hanno fatto pochissima propaganda, specie sui tabelloni fuori dai seggi, cosicché moltissime persone ignoravano che si tenessero i referendum.

Sicuramente a favore dell’astensionismo ha giocato il cambiamento da certificato elettorale consegnato a casa a tessera elettorale, perché il primo comunicava inequivocabilmente che si tenesse una qualche forma di elezione, quando, dove, ecc.

Inoltre, spesso il referendum pone quesiti decisamente riservati ad un pubblico di esperti o, quantomeno, di persone con cultura medio-alta, per cui il quesito può non essere compreso correttamente e la scelta essere dettata dall’ ignoranza circa il quesito posto.

In quest’ultimo caso, poi, è saltato subito agli occhi che il referendum poteva essere l’unica forma per modificare la legge, stante che il Governo gode di ottima salute e le possibilità che i promotori possano un domani salire al Governo e, ipso facto, modificare la legge risultano essere bassissime.

All’indomani della debacle di questi referendum molti si sono posti la domanda se questo istituto sia ancora valido, se realmente possa rappresentare la volontà popolare in un periodo storico in cui le percentuali di elettori degli anni ’60 e ’70 sono solo un lontano ricordo.

Consideriamo che un referendum ha dei costi folli: parliamo di poco più di 88 milioni di euro solo per l’emolumento dei componenti dei seggi, ai quali vanno aggiunti gli straordinari di tutti i dipendenti comunali (i Municipi effettuano apertura straordinaria dal sabato al lunedì) e di quelli dei Tribunali, la stampa delle schede, la realizzazione delle urne, l’illuminazione continua dei seggi (di notte la luce deve restare accesa per sicurezza) giungendo così a oltre 350 milioni di euro.

Qualcuno parla di democrazia ma, stante che non viviamo in una dittatura, è il Parlamento, eletto dai cittadini, che eventualmente modifica le leggi o ne approva di nuove abrogative di quelle precedenti.

Se il popolo decide di eleggere chi non intende modificare le leggi vigenti, va da sé che un eventuale referendum ha scarse probabilità di riuscita.

Qualcuno, nella settimana appena trascorsa, ha avanzato l’ipotesi di addebitare i costi dei referendum ai comitati referendari; è evidente che, nella stragrande maggioranza dei casi, nessuno potrebbe affrontare quei costi vanificando, dunque, ogni tentativo di modifica della legislazione vigente tramite referendum.

Quel che preoccupa, però, è la scarsa partecipazione che accompagna le consultazioni, non solo referendarie: gli elettori danno per scontato l’insuccesso, sono disillusi dalla politica o non sono interessati da quei quesiti?

Fatto sta che quei 350 milioni avrebbero potuto essere impiegati per la sanità, la sicurezza sul lavoro, l’istruzione, l’occupazione o per chissà cosa.

Se aumentassimo il nostro senso civico? Se evitassimo di promulgare leggi che dopo pochi anni necessitano di essere sottoposte a referendum perché palesemente frutto di incapacità governativa o dell’entusiasmo del momento?

Sergio Motta

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