La ricerca dei Marcido porta alla sofferenza dell’Uomo di Dostoevskij

Al Gobetti, per la stagione dello Stabile, repliche sino a domenica 21 novembre

 

Forse da sempre, fin da quell’ormai lontano 1984 in cui si raggrupparono a compagnia, i Marcido (breviter per Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa) hanno pensato ad una messa in scena da Dostoevskij e adesso che l’autore/regista del gruppo, Marco Isidori, anzi l’Isidori, è stato “acchiappato” dal grande russo, adesso eccole lì, sul palcoscenico del Gobetti, repliche sino a domenica, per la stagione dello Stabile torinese, le “Memorie del sottosuolo”, datate 1864, lo sguardo rivolto totalmente alla prima parte, al lungo monologo del protagonista. Un alternarsi di esaltazione e di disperazione, le confessioni e le parole da sempre taciute, un urlo contro quel positivismo che costruiva sentieri ottimistici e ingannatori, incapace di giungere alla sempre sperata società del benessere, la consapevolezza di una sofferenza che l’uomo va ricercando, di un bel carico di autoumiliazione e di autodistruzione, l’afflizione di una incalzante accidia che lo rende ben lontano da quegli uomini d’azione che sono pronti a prefissarsi e a raggiungere certe precise mete. Un Uomo che si rispecchia in quanto di negativo c’è in lui ma che anche si definisce “evoluto”, un uomo che soffre della propria irrazionalità ma che sembra reclamarla, nella negazione di ogni certezza, semplificata dal prodotto 2 x 2 = 4 contrapposto nel 2 x 2 = 5 e dettato dall’imposizione della volontà individuale. Di fronte all’impianto negativo dell’Uomo, l’Isidori riconosce a “Dosto” – ormai c’è dimestichezza tra i due! – “un merito speciale”: “gli riuscì di calibrare il suo occhio d’artista in modo da penetrare al micron la misura dell’angoscia che ci spacca il petto allorquando comprendiamo che il punto della nostra posizione nel pelago esistenziale ci viene fornito soltanto, unicamente, diabolicamente, dal “male” che siamo in grado di portare in dote ai nostri simili”.

C’è Dostoevskij e c’è l’Isidori, il secondo ad “acchiappare”, anche lui, – rutilante e famelico quanto spudorato autore in cerca di un personaggio, che non esita a farsi complementare nel desiderio e nella necessità di una riscrittura -, la materia scritta che il russo gli offre e adattarla alla filosofia e alla teatralità dei Marcido, stiparla in tutto quel bagaglio di palcoscenico che da sempre il gruppo costruisce e disfa per poi ricostruire, in una lodevolissima sperimentazione, efficace e guerriera, che gli si è sempre riconosciuta, adeguarla al “modo” interpretativo che della compagnia è proprio. Conseguenza (felice) prima, è “un’oralità dispiegata”, pietra angolare è la “voce”, ricerca sempiterna, cui è anche per questa occasione affidato il nucleo primario. “E la ‘voce’ è l’attore” dice l’Isidori: e l’attore diventa voce, affascinante, spasmodica, mai ripiegata su se stessa ma esplosiva in ogni accento, vera palla luccicante su di un tappeto di gomma, aspra e incantatrice, un’auto impazzita che scivola e fa irruzione con ardimentose gimkane tra le parole del monologo. Un “rodeo poetico” cui Paolo Oricco – ripetendo in tecnica e smisurata bravura quell’exploit kafkiano, in cui lo applaudimmo in periodo anti-covid, della “Relazione per l’Accademia” e forse superandolo – si pone alle dipendenze (ma fino a quanto?) del metteur en scène e gioca, incanalandosi in lampi di luce, altresì con il proprio corpo, salti e snodature, strane posture e variopinte clownerie. Detto questo, sarei propenso a pensare che, questa volta, l’attore con tutto il suo lavoro, orale e fisico, la sua negazione a risparmiarsi, il suo saper costruire un personaggio fuori di ogni dimensione, agghindato di ogni libertà interpretativa e arricchito della ricerca, e della riuscita, sulla sua propria voce, superi il testo e il non facile compito del co-autore, dell’Isidori, affascinante, chi mai lo negherebbe?, ma affaticante al tempo stesso, ricco di una scelta finissima di parole che a tratti (una suggestione che potrebbe essere cancellata ad un secondo appuntamento?) finiscono coll’affastellarsi oltre ogni argine, debordanti in quel loro incessante rotolare in platea. Alle spalle di Oricco, la grande pala/sipario realizzata da Daniela Dal Cin, una vera opera pittorica ispirata al “Trionfo della Morte”, affresco quattrocentesco di Palazzo Abatellis a Palermo, grottesco e ossessivo, un livido marasma bruegeliano modernamente inteso, dove l’uccellaccio della preistoria viene a recidere vite con quei falcetti che tiene tra gli artigli. Sala gremitissima alla prima, pubblico attento e al termine osannante: come raramente accade nelle serate teatrali.

Elio Rabbione

 

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