SPETTACOLI- Pagina 7

Newman, voleva essere un onesto attore, non gli occhi più belli di Hollywood

La retrospettiva dell’attore, al TFF, nel centenario della morte

Nell’estate del ’63, in piena Mostra di Venezia, in una stanza dell’Excelsior, o forse dell’Hotel des Bains, Paul Newman s’arrabbiò parecchio quando Oriana Fallaci lo intervistò, chiedendogli prima di ogni cosa: “Signor Newman, mi faccia un favore, si tolga quegli occhiali neri. Ma perché va conciato così? Si direbbe che si vergogna di sé, del suo perfettissimo viso. Coraggio, se li tolga, non c’è mica nulla di male, sa, a essere belli.” Occhiali e barba, un camuffamento perfetto ma da proteggere. “Quando mi dicono si tolga gli occhiali, voglio vedere i suoi occhi celesti – le rispose serio seriamente il divo -, mi arrabbio come una bestia.Proprio come quando mi dicono lei è così bravo e poi ha due occhi talmente celesti… Tennessee Williams ha scritto molto su questo, sull’agghiacciante influenza che la bellezza fisica ha sugli altri in America e la pagana adorazione che si fa della bellezza ha qualcosa di anticristiano, di orrendo, e perché no? di umiliante.” Certo, aveva ragione, non dovrebbero aver avuto peso il naso greco e gli occhi azzurri, no, ma il pubblico li sottolineava e lui lo ricadeva a ogni istanti nell’agghiacciante, nell’umiliante. Una cosa che lo riempiva d’angoscia.

E pensare che lui non credeva ai premi e ai riconoscimenti, voleva essere ricordato soltanto per un uomo che faceva con onestà il proprio lavoro. Nasceva cento anni fa – era di gennaio, in un sobborgo orientale di Cleveland, tra il freddo dell’Ohio -, e nel centenario il TFF gli dedica una retrospettiva di 24 titoli, che nessuno più o meno curioso o l’appassionato incallito dovrebbe lasciarsi sfuggire, pur nella vena bulimica del direttore Giulio Base e di tutti i suoi collaboratori che ha sovraccaricato le giornate, un sostanzioso elenco dentro cui si può ancor oggi constatare quanto il talento sia stato ben superiore alla sua bellezza. Un talento che l’Academy, nel 1986, quasi a risarcimento, volle testimoniare con l’Oscar alla carriera, salvo poi l’anno successivo pigiare il pedale con uno zio Oscar vero e proprio per “Il colore dei soldi” (a riprendere quell’Eddie Felson già conosciuto nello “Spaccone” del 1961). Ma Newman ci aveva già dato di meglio, sette candidature a cui ne sarebbero seguite altre due, per non contare sempre sino a quel momento le sette – con quello in carne e ossa nel 1957 come “miglior attore debuttante – del Golden Globe, e un Palmarès a Cannes per “La lunga estate calda” di Martin Ritt che adattava tre racconti di Faulkner, dove aveva incontrato la futura signora Newman, Joanne Woodward, che non avrebbe più lasciato. Un anno di arte drammatica alla Yale University e iscrizione all’Actors Studio di Strasberg, i primi approcci con i palcoscenici di Broadway (“Picnic”, ad esempio), “Il calice d’argento” del ’54 che sarebbe stato il suo biglietto per il cinema: mica lodi sperticate da parte della critica, se The New Yorker scrisse “recita la sua parte con il fervore emotivo di un autista di autobus che annuncia le fermate locali” e lui si comprò una pagina del quotidiano per chiedere scusa della sua interpretazione.

Ma due anni dopo avrebbe interpretato il pugile Rocky Marciano in “Lassù qualcuno mi ama” per la regia di Robert Wise e le cose sarebbero andate decisamente meglio. Sarebbe poi arrivata la passione per le macchine da corsa o quella per la politica (nel ’68 appoggiò la campagna di McCarthy), sarebbero arrivate, specie nel primo decennio d’attività, anche le commedie leggere leggere, quelle che aiutano parecchio i divi di tutto il mondo a pagare le bollette o il mensile alla servitù, quelle che il pubblico corre a vedere per un paio d’ore di facile divertimento, da “Missili in giardino” a “Il mio amore con Samantha” a “La signora e i suoi mariti” con una Shirley McLaine che pensa parecchio al proprio avvenire, in qualunque modo; sarebbero arrivate, disseminate in un paio di decenni, le sue cinque regie, ognuna più che apprezzabile – non comprese nella retrospettiva, ed è un peccato, da “La prima volta di Jennifer” a “Sfida senza paura”, da “Gli effetti dei raggi gamma sui fiori di Matilda” (un eccellente ritratto femminile, Palmarès per la Woodward) a “Harry&Son” a “Lo zoo di vetro” (dal dramma di Williams, ancora a Cannes, 1987, ancora grande interpretazione di Woodward), ci sarebbe stato il grande spettacolo, da “Exodus” a “Indianapolis”, dal “Sipario strappato” di Hitchcock alla “Stangata” con l’amico Redford, dal catastrofico ”Inferno di cristallo” al tellurico “Ormai non c’è più scampo”.

In alcuni di questi titoli potrete andare a sincerarvi se per talento e bellezza sia stato diverso il peso specifico, altri, anche importanti, mancano all’appello (“Quintet” di Robert Altman, “Mr & Mrs Bridge” di James Ivory); della retrospettiva, che è un dovuto omaggio a uno degli ultimi divissimi della cinematografia americana, ancora non perdetevi “La gatta sul tetto che scotta”, che magari qualcuno sa a memoria ma è sempre una bella carrellata di duetti tra Newman e la Tayloro, soprattutto tra Newman e il vecchio e granitico Burl Ives, e “Furia selvaggia” di Penn, che con “Butch Cassidy and the Sundance Kid” di Roy Hill forma l’accoppiata filmica per eccellenza del duo di fuorilegge, “Lo spaccone” e “Hud” (qui il nostro deve vedersela con Patricia Neal, a cui andò l’Oscar, e la battaglia risultò dura), “L’uomo dei sette capestri” di Houston e “Nick mano fredda” di Rosenberg, “Il verdetto” (Lumet) e “Mister Hula Hoop” (Coen) ed “Era mio padre” (Mendes). Ne avrete l’unione perfetta tra l’uomo e l’interprete, un ritratto pressoché completo e dovutamente sfaccettato, intelligente e acuto, sempre alla ricerca della propria anima e di quella del protagonista che doveva essere sullo schermo, a volte insicuro e fuggitivo, forte sino alla fine (interruppe la chemioterapia per il cancro ai polmoni alla notizia che la sua vita sarebbe durata ancora poche settimane e passò gli ultimi istanti con la famiglia, nella sua casa nel Connecticut), mai d’accordo con la macchina cinema che finiva per divorare e fare vittime, lui che – è stato scritto – si sentì per anni un soprammobile di casa, un bell’ornamento, lui che dal padre di origini e di religione ebraica ebbe poche parole d’amicizia e d’affetto, lui che poche ne seppe dare a suo figlio Scott che un giorno, nel 1978, morì di overdose: Paul era a dirigere una pièce in un campus universitario, non smise le prove, entrò nella camera mortuaria soltanto tre giorni dopo.

Elio Rabbione

Nelle immagini, L’intervista di Oriana Fallaci a Paul Newman, e scene tratte da “Hud il selvaggio”, da “”La lunga ala della giovinezza”, da “La stangata”

Il successo di un’inaugurazione, “Eternity” è la bella riproposta del cinema di ieri

Ieri al via il 43mo Torino Film Festival

C’è voluto una manciata di anni perché la sceneggiatura di Pat Cunnane trovasse un posto sul tavolo di qualche produttore di Hollywood, perché l’irlandese David Freyne, con un paio di lungometraggi alle spalle, fosse accreditato in veste di regista, il cast fosse composto e finalmente “Eternity”, con cui si è ieri sera inaugurato il Torino Film Festival numero 43 e che dal 4 dicembre arriverà sugli schermi, venisse girato. Commedia romantica, 115’ di piacevolezze e divertimento venati da qualche pizzico di toni drammatici che non impensieriscono più di tanto, di quelle che si potrebbero ripensare legate agli anni Quaranta o Cinquanta, affidate alle coppie Powell/Mirna Loy o Hepburn/Spencer Tracy, di quelle per cui vedresti facile facile dietro la macchina da presa quel gran genio di Frank Capra, un carico di amori e languori, di affanni e di finali lieti, di script svolti sempre con garbo e gusto e girandole che certo non t’annoiano – anche se per qualche strada secondaria degli ultimi minuti è difficile mantenere chiarezza e ritmo, ma comunque uscendo più che convinti che “the end” arriva con tutte le carte in regola.

Tutto parrebbe naturale, solo che qui siamo nell’aldilà, in un mondo “altro” circondato da un cielo fatto di teli dalle nubi colorate, di quelli che già abbiamo visto anni fa in “Truman Show”, un mondo dove una giovane Joan, arrivata dopo aver lasciato in terra una donna anziana consunta dal cancro, ha la possibilità lunga una settimana di tempo per decidere con chi voglia trascorrere l’eternità: la scelta dovrà essere pensata tra Larry, che lì l’ha da poco preceduta essendosi strozzato con un assaggio di biscotti durante una riunione di famiglia che avrebbe preteso di essere felice, e il primo suo sposo Luke, bello e perfetto agli occhi di tutti, costretto tuttavia un giorno a partire per combattere in Corea e là morire. Con il risultato che da 67 anni l’eterno innamorato la sta aspettando tra l’arrivo di un treno e l’altro che trasportano defunti nelle praterie celesti, con un solerte CA o Consulente dell’Aldilà, tra una sala d’aspetto e un’altra di smistamento, tra una nuvola qua e l’altra là. C’è il tempo per ripercorrere il lungo tunnel dei ricordi, per gite in montagna o ombrelloni in riva al mare, pensieri d’un tempo e chiarimenti sulle doti di questo o di quello, finché il trio amoroso non s’ingarbuglia più del dovuto. Senza dimenticare che una soluzione va comunque presa. Non è certo il caso di raccontare i tanti sviluppi di cui la storia, felicemente surreale, si alimenta né definire con chi Joan deciderà di trascorrere “il resto dei suoi giorni”, se l’espressione non sapesse altresì di troppo terreno: sarà sufficiente dire degli ingranaggi perfetti stabiliti tra i tre interpreti, Elizabeth Olsen e i suoi pretendenti di egual misura, Miles Teller (Larry) e Callum Turner (Luke), cui s’aggiunge una vaporosissima e davvero brava  Da’Vine Joy Randolph, che già si conquistò l’Oscar quale miglior attrice non protagonista un paio d’anni fa con “The Holdovers – Lezioni di vita” di Alexander Payne. Un applauso in più va alle scenografie di Zazu Myers, eccezionali, qualcosa che sa di Ziegfield degli anni d’oro.

Lino Escalera, il regista di “Hamburgo”, produzione Spagna/Romania, primo dei sedici film in concorso, ha studiato cinema alla New York University, per poi perfezionarsi in regia e sceneggiatura alla Scuola di cinema cubana. È poi tornato nella sua Spagna, ha iniziato a ricevere premi con i suoi primi corto, è approdato con “No se decir adiòs” al lungometraggio e con quel titolo ha raggiunto i premi Goya: “Hamburgo” è il suo secondo lungometraggio, al centro la figura di Germàn, introverso e silenzioso, un povero rifugio dove abitare, in cerca di quattrini per sbarcare le sue giornate, autista che s’è messo a lavorare tra i bordelli della Costa del Sol, al soldo di Cacho, un vecchio amico d’infanzia, che con la violenza gestisce un traffico di prostitute. Girano soldi e Germàn intravede la possibilità di poter cambiare vita, con l’aiuto di uno sbandato tenta la rapina ai danni del datore di lavoro ma il risultato lo porterà soltanto a uccidere e a fuggire da quegli uomini per cui sino a quel momento s’è sbattuto. “Il film affronta temi già presenti nel mio esordio, come la dipendenza, la distorsione della realtà, il rifiuto del dolore, la solitudine e il bisogno di comunicazione. Ma lo fa in un modo nuovo, attraverso un genere che mi ha sempre affascinato: il noir. Con il noir mi sono immerso nel mondo del traffico di donne, cercando di restituirne la durezza, ma anche di trasmettere compassione”, ha detto di recente Escalera. La durezza che ne nasce è forte come la tensione e il ritmo che il regista imprime all’azione, tra molte ombre e pochissime luci, tra sguardi e silenzi, con una guida del protagonista ferma e dal sapore sincero, di autentica immedesimazione, sa Escalera raccontare, anche le cose più angosciose, con vera precisione, tenendo ben viva l’attenzione dello spettatore. Ovvero un thriller tutto da guardare, d’azione ma non soltanto, anche i disperati hanno un’anima ed Escalera sa guardarci dentro.

Quel che proprio non fa Marianne Métivier, regista di origini canadesi-filippine, con il suo “Ailleurs la nuit”, suo primo lungometraggio: ovvero trovare qualcuno che ti mette una macchina da presa in mano e ti dice “gira!” e tu cominci a girare ma a vuoto, andando a riprendere pianure e campagne e vacche da mungere, sentieri e camminate e corse in auto da filmare con tempi e lungaggini incredibili, a considerare una torrida notte d’estate in cui Marie che è un’artista del suono – e va in giro a raccogliere i fruscii delle foglie e lo scorrere delle acque mentre il suo partner ci dovrebbe interessare con i suoi studi delle processionarie – mette in discussione la sua vita di coppia, in cui Noée arrivata dalla grande città da non troppo tempo la disorienta, in cui la giovanissima studentessa Jeanne perennemente in crisi guarda il mondo da un oblò e distribuisce viveri alle porte degli alloggi di Montréal, in cui Eva, appena arrivata dalle Filippine con al seguito una madre che non sai se comprensiva o imbronciata, viaggia nella città notturna insicura dell’intero suo avvenire. Non ci si sente coinvolti da alcuna porzione del film, che al contrario vorrebbe avere un sapore universale, vorrebbe parlare di rapporti e di giovinezza, di esistenze e di equilibri ad ogni istante in cerca di punti fermi: anche i silenzi restano tali e non trasmettono che il nulla.

Elio Rabbione

La photogallery del TFF

 

Ieri sera il Teatro Regio ha inaugurato la 43ª edizione del Torino Film Festival sfidando un freddo polare e una pioggerellina pungente, a tratti quasi nevischio, che non ha però fermato il pubblico delle grandi occasioni. Sul red carpet è tornata la parata glamour voluta dal direttore artistico Giulio Base, introdotta dalla madrina Laura Chiatti, mentre uno dopo l’altro sono stati premiati con la Stella della Mole alcuni autentici giganti del cinema: Antonio Banderas, Sergio Castellitto, Hanna Schygulla, Spike Lee, Claude Lelouch, Jacqueline Bisset, Daniel Brühl e Aleksandr Sokurov.
Durante la cerimonia non sono mancati momenti deliziosi, come lo scambio affettuoso tra Spike Lee e Antonio Banderas, che si sono consegnati a vicenda la Stella della Mole, ognuno con un mezzo inchino divertito, tra risate del pubblico e applausi, e l’uscita autoironica di Dolph Lundgren, che ha rievocato la sua celebre battuta “Ti spiezzo in due”, provocando l’ilarità della platea.

Giuliana Prestipino

La galleria fotografica:

Clementina, Josephine e le altre, esperienza di danza dedicata a tutti i corpi

Nella giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne

La palazzina di Caccia di Stupinigi apre le sue porte al movimento, alla poesia del corpo e alla relazione con gli altri. Lo farà martedì 25 novembre, nella giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Il Salone d’onore tornerà ad essere luogo di danza per incontrare la memoria. Le persone partecipanti al progetto ‘E motus I danzare con il Parkinson’ si uniranno ai visitatori per attraversare insieme la dimora barocca guidati da Serena Fumero, storyteller e referente per la didattica della Fondazione Ordine Mauriziano.
Il movimento renderà omaggio alle donne che, nella storia della corte, seppero creare, dentro e fuori le regole, spazi di libertà e coraggio.
L’iniziativa rientra nel progetto “Orizzonti Prosssimi I Corpi, Luoghi, Comunità” a cura della danzaterapeuta Elena Maria Olivero, un percorso di danza inclusivo e accessibile che valorizza la relazione tra corpo, comunità e patrimonio. Si tratta di un progetto che nasce dal desiderio di costruire spazi di cura e partecipazione,  intrecciando la pratica artistica con l’esperienza di ‘E- Motus I danzare con il Parkinson’, sostenuto dai fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese. In collaborazione con Lyceum Academy di Milano, Associazione Italiana Parkinsoniani, Associazione Amici Parkinsoniani Piemonte e con il patrocinio di Associazione Professionale  Italiana DanzaMovimentoTerapia e in rete con Associazione D’idee, arte e Comunicazioni per il progetto La piattaforma. Nuovi corpi, nuovi sguardi e con le Incredibili Storie.

Palazzina di Caccia di Stupinigi

Piazza Principe Amedeo 7, Stupinigi , Nichelino.

Martedì 25 novembre  ore 15-17.

La partecipazione è compresa nel biglietto di ingresso alla Palazzina.

Prenotazione obbligatoria allo 0116200601

stupinigi@ biglietteria.ordinemauriziano.it

Mara Martellotta

Il teatro e il palcoscenico invadono la tragedia di Re Lear

Al Carignano, sino a domenica 30 novembre, per la stagione del TST

Io ho visto cose che voi umani. Come il vecchio Roy Batty. Ovvero i capelli bianchi non sono poi proprio una cosa che meriti pollice verso a tutti i costi. Addirittura? Addirittura. Per cui posso raccontare – e ricordare – di come cinquantatré anni fa Giorgio Strehler introducesse in palcoscenico (da noi all’Alfieri), attraverso una coltre di terra faticosa, in medias res, Tino Carraro a esporre il volere e la vanità di “Re Lear”, “Sappiate, dunque, che noi abbiamo diviso il nostro regno in tre parti”, e che quello andasse diviso alle sue tre figlie e che le prime due, Goneril e Regan, si struggessero in (troppi, falsi) salamelecchi a sbandierare l’amore per il vecchio mentre la più piccola Cordelia si mettesse in un angolo ben consapevole dei suoi autentici sentimenti e del degrado che ne avrebbero avuto dalle parole vuote. In quell’edizione Gabriele Lavia era Edgar, il figlio legittimo e denigrato e buono del conte di Gloucester: oggi, in questa edizione – produzione principe del Teatro di Roma, al Carignano per la stagione dello Stabile torinese sino a domenica 30 novembre – che mantiene la bellissima traduzione di Angelo Dellagiacoma e Luigi Lunari – la poesia della parola, con la bellezza delle voci -, è protagonista e regista (con i suoi ottantatré perfettamente portati), raccogliendo attorno a sé quattordici compagni di un viaggio che è bello e sbalorditivo ascoltare (pur con qualche mancanza nelle compagini più giovanili), giocando – “to play” – e raccogliendo idee e umori e invenzioni intorno ai meccanismi allo stesso tempo della tragedia e del teatro, dopo la vestizione a vista degli attori (sui jeans e sulle magliette indossano lunghi e scuri e sfilacciati mantelli elisabettiani dagli inserti d’oro e ramati, i costumi sono di Andrea Viotti, sotto le luci da gran ricamo di Giuseppe Filipponio), il re che divide un regno e un capocomico che un giorno passerà la palla, le terre da spartire e le retrovie di un palcoscenico – eravamo anche a teatro con i “Giganti della montagna”, le scene sono qui di Alessandro Camera -, una soffusa luce dall’alto, il grande orologio del Tempo sul fondo, le quinte, i bauli e le casse, più avanti le sedie rovesciate, un pianoforte scuro sui cui tasti strimpellerà il fool le sue filastrocche, i vecchi sipari rossi che scendono dai palchi, un minuscolo teatrino per il divertimento e le invenzioni dei bambini che riporta all’infanzia (e che magari può fare il paio con quel trenino di legno che Gianni Santuccio faceva sbuffare nel “Giardino” cecoviano, ancora Strehler, due anni dopo).

Una storia (“una storia di perdite: perdita della ragione, perdita del regno, perdita della fraternità”, cosi Lavia definisce “Re Lear”), in apparenza favolistica ma cruenta, fatta nel sangue e con il sangue, tendente come altre opere shakespeariane alla riaffermazione finale della giustizia su tutto e su tutti – muore Amleto, muore Cordelia, muore Macbeth, muoiono Cleopatra e Antonio – che ha le proprie radici nella mitologia anglosassone e che il Bardo mostrò alla sua regina nel 1605, una vicenda non soltanto specchio della corruzione e della cattiveria e della bramosia di potere che circola per il mondo (ogni parola e ogni frase come rimando all’oggi), non soltanto di vanità ma di affetti traditi, di abdicazione (non ci resterà che “Lear”, un uomo o l’Uomo), di travestimenti e di inganni, di lettere falsificate, di duelli e di inganni, di mariti succubi, di protezioni e di ceppi, di tempeste che si rivestono di simbologie e di sguardi alle stelle, di duchi accecati che nella cecità riacquisteranno saggezza (grande prova di Luca Lazzareschi come Gloucester, sua la vicenda secondaria che poggia sulla principale) e di figli bastardi, di ambizioni e di tradimenti, di giullari che dicono grandi verità attraverso il più semplice dei linguaggi: rappresentazione del buco nero senza uscita in cui l’uomo nostro contemporaneo si sta dibattendo, esasperazione e presa di coscienza dinanzi a un cadavere – quello di Cordelia, del Bene stesso – che altro non è che l’essenza del più tragico pessimismo: “Urlate, urlate, urlate, urlate! Oh, voi siete uomini di pietra: se io avessi le vostre lingue e i vostri occhi, vorrei adoperarli in modo, che la volta del cielo si dovrebbe squarciare. Essa è andata via per sempre. Io lo so quando uno è morto, e quando vive ancora: lei è morta come terra!”

Lavia parla altresì in questo spettacolo, che ha meritato il titolo di migliore dell’anno (Premio “Le Maschere del Teatro Italiano 2025, nel settembre scorso), di essere e di apparire, di realtà e illusione, del “non-essere”, con voce potente, ferma nell’esporre, dove le parole sono grandezza assoluta e i gesti lontani da una brutta “teatralità”, dove passa in eguale bravura dalla rabbia alla disperazione alla pazzia che lo rende così arreso e umano e debole, con quel dare vita a siparietti comici che sprigionano divertimento e ad altrettanti momenti di sincera commozione: coniuga diverse strade e offre al pubblico una serata che rimarrà nella memoria a lungo. Che ne direbbe il suo maestro Strehler che già dalle prove del suo “Lear” si portava a casa quelle intuizioni del trentenne allievo, di quell’Edgar di un tempo, per farne poi tesoro sulla scena? Tra gli interpreti ancora, coinvolti nella piena riuscita dello spettacolo, i due fratelli che verranno in un duello finale alla resa dei conti, il buono e il perfido, Edgar ed Edmund, Giuseppe Benvenga e Ian Gualdani, il Kent fedele di Mauro Mandolini, la fanciullezza spenta della Cordelia di Eleonora Bernazza, le malvagie Goneril e Regan che hanno autentica ferocia spietata con Federica Di Martino e Silvia Siravo, il matto saggio dell’eccellente Andrea Nicolini. Assolutamente da non perdere, e non vi spaventino gli oltre 200 minuti della durata: anzi, da goderseli tutti.

Elio Rabbione

Nelle immagini di Tommaso Le Pera, alcuni momenti del “Re Lear” interpretato e diretto da Gabriele Lavia.

Il Coro Femminile dell’Accademia Tempia per la Giornata contro la Violenza

Lunedi 24 novembre, alle 21, al teatro Vittoria, il Coro Femminile dell’Accademia Stefano Tempia propone un programma per la Giornata Internazionale per l’eliminazione della Violenza contro le Donne

Lunedì 24 novembre, al teatro Vittoria di Torino, verrà proposto un programma che attraversa stili e secoli con il Coro Femminile dell’Accademia Stefano Tempia in occasione della Giornata contro la Violenza sulle Donne, intitolato “Da Brahms agli ABBA”. Il Coro femminile dell’Accademia sarà guidato dal Maestro Luigi Cocilio, con il contributo pianistico di Chiara Romanelli e la partecipazione del Coro di Voci Bianche della Scuola Internazionale A. Spinelli, che affronterà un programma che attraversa stili e secoli, dalle raffinate armonie romantiche di Joahnnes Brahms ai linguaggi contemporanei di Pau Casals, Bob Chilcott, Eric Whitacre, Ola Gjeilo e Karl Jenkins, fino alle trascrizioni di celebri brani pop tratti dai repertori dei Coldplay e degli ABBA, con un momento speciale dedicato alla compositrice Mel Bonis, voce femminile troppo a lungo dimenticata. In un mondo musicale dominato dagli uomini, Mel Bonis fu costretta a celare la sua identità dietro un nome ambiguo per essere presa sul serio. Nata Mélanie Bonis, scelse di firmarsi Mel Bonis per mascherare il suo genere, data la difficoltà per le donne ad essere accettate, a quel tempo, nei salotti giusti.

Info: lunedì 24 novembre, alle ore 21 – teatro Vittoria, via Antonio Gramsci 4, Torino

“Melodie Intrecciate, da Brahms agli ABBA”

Biglietti: https://www.ticket.it/musica/evento/melodie-intrecciate.aspx

www.stefanotempia.it

Gian Giacomo Della Porta

Torino Film Festival: via alla 43esima edizione, la seconda diretta da Giulio Base

Atteso ritorno nel grande cinema, all’ombra della Mole, con la serata inaugurale venerdì 21 novembre, della 43esima edizione del Torino Film Festival 2025, che vanta un passato glorioso, dal lontano 1982, quando nacque come festival internazionale “Cinema Giovani”. La cerimonia inaugurale si svolgerà alle 18.45 al teatro Regio, e a condurre la serata saranno il direttore Giulio Base e l’attrice Laura Chiatti. In quell’occasione verranno assegnati otto dei dodici premi “Stella della Mole”, tra cui quelli ad Antonio Banderas, Spike Lee e Stefania Sandrelli. Il programma del TFF, ancora una volta sarà diviso in sei sezioni, per un totale di 120 film. Tre sono le sezioni competitive: il concorso principale, il concorso documentario e il concorso cortometraggi. Tre, invece, le sezioni non competitive: lo zibaldone, il fuori concorso e la retrospettiva dedicata a Paul Newman. Torino sarà anche scenario di due film: il primo intitolato “Juventus. Il decennio d’oro”, di Angelo Bozzolini, che ripercorre gli anni bianconeri tra il 1975 e il 1985, il secondo, facente parte della sezione documentari, con il titolo “Nel blu dipinto di rosso”, di Stefano Di Polito, che narra la storia del collettivo torinese Cantacronache. A Torino arriveranno molti ospiti eccellenti, tra i quali Antonio Banderas, Juliette Binoche, Jaqueline Bisset, Daniel Bruhl, Sergio Castellitto, Terra Gillian, Spike Lee, Claude Lelouche, Vincent Lindon, Vanessa Redgrave, Stefania Sandrelli e Aleksander Sokurov. Diversi i luoghi delle prooiezioni: il Teatro Regio, per l’inaugurazione, il cinema Massimo e il cinema Romano.

Per il Torino Film Festival è possibile acquistare i biglietti online o in biglietteria fisica presso le sedi principali.

Biglietti: intero: 7,50 euro – ridotto: 5,50 euro – biglietti carnet a tariffa intera possono essere acquistati sul sito www.torinofilmfest.org – la vendita online sarà consentita fino a 30 minuti prima di ogni proiezione, con acquisto massimo di 10 biglietti. Biglietterie fisiche nei cinema Massimo e Romano.

I riconoscimenti delle sezioni competitive saranno assegnati nella serata di chiusura di sabato 29 novembre al cinema Massimo.

Mara Martellotta

Il premio Prolo a Iciar Bollaín

Il Premio Prolo 2025 sarà assegnato il 10 dicembre a Torino a Iciar Bollaín presso il Cinema Massimo. In quell’occasione verrà consegnato il riconoscimento alla regista spagnola e verrà proiettato il film dal titolo “Il mio nome è Nevenka”, e sarà presentato l’ultimo numero di Mondo Niovo, il 110 della rivista, con un’intervista inedita alla regista. Il legame tra cinema e diritti umani a ispirare il lavoro dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema. Quest’anno, come sempre nella Giornata Internazionale dei Diritti Umani, la sala 2 del Cinema Massimo ospiterà mercoledì 10 dicembre la consegna del Premio Maria Adriana Prolo, alle 20.30. Giunto alla 24esima edizione, il riconoscimento riceve il patrocinio di Amnesty International Italia. Tra le voci più sensibili del cinema europeo, attenta ai temi sociali e ai personaggi femminili, Iciar Bollaín ha debuttato giovanissima, nel 1983, come protagonista del film “El Sur” di Victor Erice. Fra le sue interpretazioni si ricorda anche quella in “Terra e libertà” di Ken Loach, nel 1995. Ha esordito alla regia nel 1996 con”Hola¿Hestas Sola?”, mentre il successo internazionale è arrivato nel 1999, con “Flores de otro mundo”, vincitore alla Semaine de la Critique di Cannes, e con “Te doy mis ojos” del 2003, vincitore di 7 premi Goya. La regista ha poi vinto il premio Panorama e ha ottenuto 13 candidature ai Goya con “También la lluvia”, nel 2010. Sono eseguiti “El olivo”, nel 2016, e “Juli”, del 2018, biopic sul ballerino cubano Carlos Acosta. Con “Maixabelle” si è aggiudicata tre premi Goya. In sala, oltre alla regista, saranno presenti Silvia Luciani, direttrice di Mondo Niovo, Giovanna Maina, docente dell’Università degli Studi di Torino e Valentina Noia, Vicepresidente dell’AMNC. Il premio Mara Adriana Prolo è sostenuto da Regione Piemonte, Fondazione CRTe Nova Coop. Seguirà poi la proiezione in anteprima regionale de “Il mio nome è Nevenka”, girato in Spagna e in Italia nel 2024, in lingua spagnola con sottotitoli in italiano.

“Il 2025 è stato ricco e intenso per l’Associazione – dichiarano Valentina Noia e Vittorio Sclaverani, Presidente AMNC – un anno in cui è stato possibile far crescere la progettualità. I nostri obiettivi principali sono di continuare a organizzare momento culturali e formativi gratuiti, stimolare pubblici capaci di condividere idee ed esperienze e lavorare informa diffusa con il territorio e lavorare in forma diffusa sul territorio, in sinergia con i principali enti culturali, a partire dal Museo del Cinema e Film Commission Torino Piemonte. Consapevoli dell’importanza del nostro lavoro, in un’epoca sempre più complessa, l’AMNC è orgogliosa di conferire il Premio Prolo a Iciar Bollaín, in occasione della Giornata Mondiale dei Diritti Umani, con il patrocinio di Amnesty International, nell’anno in cui ricorre il 50⁰ anniversario di attività in Italia”.

“Non è un caso se per il secondo anno consecutivo il premio Prolo venga assegnato a una donna di cinema dal talento multiforme – conclude Davide Ferrario – Presidente Onorario dell’AMNC – dopo Ariane Ascaride, il testimone passa in modo naturale a Iciar Bollaín, attrice, regista e sceneggiatrice spagnola che, con i suoi film, trasmette l’idea di un cinema europeo che mette al centro i valori umani e umanistici, gli stessi che il premio Prolo vuole incentivare. Valori la cui promozione, oggi, ha il sapore di un atto di resistenza in un orizzonte culturale e politico sempre più imbarbarito e più forte, e piegato al diritto del più forte”.

In passato, il premio Prolo è stato conferito a registi e registe quali Giuseppe Bertolucci, Marco Bellocchio, Ugo Gregoretti, Giuliano Montaldo, Massimo Scaglione, Daniele Segre, Cosa Gavras, David Grieco; agli attori e attrici quali Piera degli Esposti, Lucia Bosè, Ottavia Piccolo, Roberta Herlitzka e Elio Pandolfi; all’esercente e storico del cinema Lorenzo Ventavoli, al compositore Manuel De Sica, allo sceneggiatore Giorgio Arlorio, al film maker, artista e operaio Pietro Perotti. Dal 2022 il riconoscimento, precedentemente ospitato dal Torino Film Festival, viene ogni anno assegnato il 10 dicembre insieme ad Amnesty International Italia, in occasione della Giornata Mondiale dei Diritti Umani.

Mercoledì 10 dicembre, ore 20.30, Cinema Massimo
Prenotazioni: https://bit.ly/4i2CL50

Mara Martellotta

Un bravo ragazzo

PRIMA ASSOLUTA PER LO SPETTACOLO DI SANTIBRIGANTI TEATRO

In occasione delle celebrazioni della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, lo spettacolo debutta a Torino il 20 e 21 novembre. Il 26 novembre invece, il talk Dallo stalking al femminicidio

 

Saranno due, quest’anno, gli appuntamenti di Santibriganti Teatro sul territorio torinese, per riflettere in occasione delle celebrazioni della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: Il primo lo spettacolo teatrale Un bravo ragazzo in anteprima assoluta per l’occasione, giovedì 20 e venerdì 21 novembre alle ore 21 al Cinema Teatro Esedra, il secondo il talk Dallo stalking al femminicidio, mercoledì 26 novembre alle 17:30 al Centro di documentazione e Biblioteca Pedagogica.

 

Entrambi gli eventi si inseriscono nel cartellone del bando T3D, Di Donne, Di Cultura, Di Quartieri, la rassegna diffusa vincitrice del Bando Circoscrizioni, che spettacolo… dal Vivo! 2025, che esplora la complessità e la profondità dell’esperienza femminile, reinterpretata nel suo intreccio altrettanto complesso con il territorio, gli spazi abitati del quotidiano della Circoscrizione 3 di Torino.

 

Un bravo ragazzo – spettacolo teatrale 

Un bravo ragazzo è la storia di una madre, una madre che parla a un figlio e di un figlio che ha fatto ciò che non si dovrebbe fare. Ma l’ha fatto. E non si può tornare indietro. Non si può fermare la mano. Ma se l’ha fatto un motivo, qualche di motivo, ci sarà: ci deve essere. Lei ne è sicura.

Lei lo sa. Lei si conosce, è una donna, e sa di cosa possono essere capaci le donne.

Deve cacciare gli incubi che la assalgono la notte. Lei non è d’accordo con quegli incubi.

Non stanno così le cose. Non sono andate così. Ripete lei. Lui non è cattivo. Lui non è malato.

Lui non è un mostro.

 

Un bravo ragazzo si inserisce nella trilogia prodotta da Santibriganti Teatro Indagare il male nata da alcune riflessioni sulle devianze protocriminali e loro sviluppi, sorgenti spesso in età adolescenziale. L’intento è appunto indagare la nascita e lo sviluppo del male, che è soprattutto maschio, perché è spropositato il divario: per una donna che si macchia, ci sono cento uomini che delinquono, feriscono, violentano, uccidono, disprezzano; considerando i fatti, più o meno gravi di cui si viene a conoscenza e quelli assai più numerosi che restano sconosciuti. L’obiettivo è sviluppare una riflessione, particolarmente forte, che si incentri su categorie e loro derive tristemente protagoniste della nostra contemporaneità. Della trilogia, oltre a Un Bravo ragazzo fanno parte: O Gesù d’amore acceso che indaga la pedofilia in ambito clericale e Io Odio che indaga attraverso “l’odiatore” il razzismo che c’è in ognuno di noi anche quando è ben nascosto.

 

Un bravo ragazzo

giovedì 20 e venerdì 21 novembre alle ore 21, Cinema Teatro Esedra, Via Pietro Bagetti 30, Torino

 

Drammaturgia Valentina Diana

Con Mariagrazia Cerra

Luci e suoni Nicola Rosboch

Scena Marco Ferrero

Ideazione e regia Maurizio Bàbuin

Con la consulenza delle psicologhe e psicoterapeute Enrica Fusaro, Monica Prastaro, Stefania Gianpaoli

 

Ingresso Eur 10,00
info e prenotazioni: booking.liberipensatori@gmail.com

 

Dallo stalking al femminicio – talk

Mercoledì 26 novembre ore 17:30, Centro di documentazione e Biblioteca Pedagogica, C.so Francia 285, Torino

 

Attraverso questo talk si vuole generare una riflessione sulle responsabilità della famiglia in relazione alla piaga dello stalking e alle sue degenerazioni fino agli estremi del femminicidio, tema fondamentale e forse ancora poco dibattuto e considerato dalla società nella sua totalità.

Il passaggio dallo stalking al femminicidio non è improvviso né imprevedibile. È spesso il culmine di un’escalation di comportamenti che hanno una radice comune: controllo e possessività.

Si tratta di un percorso di violenza che potrebbe essere interrotto molto prima: anche grazie al supporto della famiglia.

Interverranno:

Enrica Fusaro, psicologa psicoterapeuta

Monica Prastaro, psicologa psicoterapeuta

Stefania Gianpaoli, psicologa psicoterapeuta

Valentina Diana, autrice dello spettacolo teatrale “Un bravo ragazzo”

Mariagrazia Cerra, protagonista di Un bravo ragazzo

Maurizio Bàbuin, regista e ideatore della trilogia Indagare il male

 

Ingresso gratuito

info e prenotazioni: booking.liberipensatori@gmail.com

Promenade, singolare femminile

In vista ed in occasione della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne 2025” del 25 novembre, al “Cortile delle Arti” di via Vanchiglia, all’interno del civico numero 16, si svolgerà venerdì, sabato e domenica l’iniziativa “Promenade – Singolare femminile” con tutti gli atelier e le gallerie d’arte aperti al pubblico sino a sera. Sempre dal 21 al 23 novembre, alla Galleria “Febo e Dafne” sarà possibile visitare il progetto fotografico di Daniele Robotti e Cinzia Spriano: “Oltre il silenzio – Storie di donne che sono uscite da situazioni di violenza in famiglia”

Igino Macagno