SPETTACOLI- Pagina 24

Concerto dell’Avvento, “Il genio giovanile di Mozart”. Con l’Orchestra da Camera Polledro

Domenica 8 dicembre prossimo, alle 17.30, presso il teatro Fonderie Limone

Di Mozart vengono scelti la Sinfonia in Fa maggiore n.13 KV 112, il Concerto per fagotto e orchestra in Si bemolle maggiore K 191, la Sinfonia in La maggiore n.29 KV 201. Il Concerto per fagotto in Si bemolle maggiore K 191, composto nel 1774, è una delle più celebri opere solistiche scritte da Mozart per strumenti a fiato. Con una struttura in tre movimenti, il concerto è noto per la sua ricca espressione melodica, la sua tecnica virtuosistica richiesta al fagottista. Il primo movimento, intenso e brillante, si alterna con il secondo movimento lirico, mentre il terzo, vivace e pieno di spirito, mostra il talento di Mozart nel trattare il fagotto come un vero strumento solista, capace di una sorprendente varietà espressiva. Questo meraviglioso concerto sarà suonato da un solista d’eccezione, il Maestro Nicolò Pallanch, primo fagotto del Teatro Regio.

La Sinfonia in Fa maggiore n.13 KV 112 è una composizione di Mozart scritta a Milano durante il suo secondo viaggio in Italia nell’autunno del 1771. La Sinfonia il La Maggiore n.29 KV 201 rappresenta una autentica svolta all’interno della produzione sinfonica mozartiana, segnando l’ultima tappa di un lento processo di affiancamento dall’influenza dominante del gusto italiano. Questo orientamento, avviato già all’indomani del terzo viaggio in Italia e del trionfo milanese del Lucio Silla, risalente all’inverno 1772-1773, potè trovare esiti adeguati soltanto dopo il viaggio a Vienna della successiva estate 1773. I frequenti e proficui contatti avviati nella Capitale imperiale, con le più significative tendenze contemporanee, prima fra tutte quella di Joseph Haydn, spinsero Mozart ad abbandonare quella struttura in tre movimenti concisi e i cui limpidi contrasti di matrice italiana che, appresa da bambino, era rimasta un punto di riferimento fin da bambino.

Fonderie Limone-Via Pastrengo 88, Moncalieri (TO)

Ingresso gratuito

 

Mara Martellotta

Un omaggio del Conservatorio Verdi al Museo Egizio con Sinfonie d’Oriente

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Mercoledì 4 dicembre, al Conservatorio Giuseppe Verdi, alle 20.30, si terrà un omaggio speciale al bicentenario del Museo Egizio con l’appuntamento intitolato “Sinfonie d’Oriente”.

Il fascino dell’Oriente prende vita in un concerto che unisce raffinatezza, energia e un pizzico di mistero. In programma tre autentiche gemme che raccontano l’Egitto attraverso la musica di Camille Saint Saens, Giuseppe Verdi e Gioachino Rossini.

Il concerto si inserisce nel fitto programma di celebrazioni per i duecento anni del Museo Egizio di Torino, che vivrà un anno di trasformazioni e nuovi progetti. Frutto della collaborazione tra il teatro Regio di Torino e il Conservatorio Giuseppe Verdi, questa serata rappresenta un omaggio congiunto al Museo Egizio, uno dei più importanti simboli culturali della città, d’Italia e del mondo.

Ascoltare la versione della Sinfonia per Aida è un’occasione rara e preziosa. Originariamente pensata per sostituire il preludio, tuttora presente, più breve e suggestivo, questa sinfonia, ricca di temi legati ai personaggi e alle vicende dell’opera, rappresenta un esperimento audace di Verdi nel portare la musica italiana verso un sinfonismo più ampio e strutturato.

Il concerto per pianoforte n. 5 di Camille Saint Saens, conosciuto come l’Egyptien, è un viaggio musicale compiuto a Luxor, dove l’autore si lasciò ispirare dai paesaggi e dai suoni d’Africa. Tra melodie nubiane annotate sul Nilo e sonorità evocative, questo brano trasporta il pubblico in un Oriente immaginario, ricco di virtuosismo e colore.

Le danze tratte da Moise et Pharaon di Gioachino Rossini rappresentano un omaggio maestoso alla corte faraonica con quell’inconfondibile tocco rossiniano. Una musica vibrante e d’effetto, capace di incantare con la sua eleganza.

A dirigere l’orchestra del teatro Regio sarà il maestro Christopher Franklin con al pianoforte il giovane talento Pietro Verna, formatosi al Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino.

Il concerto è inserito in Incanto Egizio, scoperte musicali e esplorazioni sonore del passato. Si tratta di tredici appuntamenti per i duecento anni del Museo Egizio, progetto di Sistema Musica in collaborazione con la Città di Torino, Museo Egizio e sostegno di Iren.

Mara Martellotta

James Franco ha presentato a Torino il film “Hey Joe”

Ieri sera è quasi passata inosservata la presenza di James Franco in città, forse per la presenza di un’altra grande stella del cinema giunta sotto la Mole, Zoe Saldana. Eppure l’attore americano, antidivo per eccellenza in tenuta casual, è stato accolto con grande calore dal numeroso pubblico accorso per incontrarlo in ben due sale al Cinema Massaua Cityplex. In compagnia del regista Claudio Giovannesi James Franco ha presentato il film Hey Joe, ambientato a Napoli, un film sulle occasioni perdute, intriso di nostalgia e del neorealismo dei grandi maestri. James Franco interpreta un veterano di guerra del New Jersey, Dean Berry, che sul finire degli anni Sessanta decide di tornare in Italia, a Napoli, dove durante la Seconda Guerra Mondiale, ha avuto una relazione con una donna del posto dalla quale ebbe un figlio mai conosciuto. Barry fa ritorno in Italia nel 1971 per poter incontrare il figlio ormai venticinquenne, cercando di recuperare voragini di assenza. Suo figlio, interpretato da un convincente Francesco Di Napoli, ormai diventato un uomo, è ormai stato completamente assorbito dagli ambienti della malavita e non sembra facile l’impresa di sradicarlo.

Giovannesi ha sottolineato il paradosso di questa storia tra padre e figlio che non parlano la stessa lingua anche se c’è un’estrema vicinanza di sangue, una storia che viene raccontata attraverso la conoscenza di due estranei che devono sforzarsi per incontrarsi, avvicinandosi ognuno alla lingua dell’altro, infatti James recita mezzo film in italiano e Di Napoli prova a parlare un po’ in inglese.

James Franco ha raccontato al pubblico come ha costruito il suo personaggio, che non è stato molto difficile immedesimarsi in un personaggio che è americano come lui, arriva a Napoli dove non conosce la lingua, il tessuto della città, quindi rimane un po’ stordito allo stesso modo, doveva recitare in una lingua che non era la sua, insomma c’era questa assonanza con il personaggio. In più prima di iniziare la lavorazione del film c’è stato un lavoro di ricerca basandosi sul libro Napoli ‘44 di Norman Lewis e in più hanno guardato tantissimi film di Rossellini per carpire un po’ il senso di quello che era la vita italiana di quel periodo. Il suo modo di recitare in questo film è completamente diverso da quello a cui siamo avvezzi, ha lavorato per sottrazione, seguendo i dettami della sua formazione quando ha iniziato la scuola di recitazione. Gli veniva insegnato che è di fondamentale importanza prima capire la vita del personaggio, sentirla dentro e solo in un secondo tempo usare le parole. Ed è un po’ quello che ha fatto in questo film rispetto agli altri film, è stato un po’ come tornare alle proprie radici, anche perché ha senso che in questo film il personaggio non parli tanto e la maggior parte di ciò che è emerge dal comportamento, dagli atteggiamenti. E il regista è stato abile nel guidarlo perché ha lasciato che fossero più gli stati d’animo ad emergere senza mai cadere nel didascalico o nel sentimentale, con l’asciuttezza che lo contraddistingue. Giovannesi ha sottolineato come “questa è una storia tra padre e figlio che non parlano la stessa lingua e questo è già un paradosso, perché c’è un’estrema vicinanza di sangue che viene raccontata attraverso la conoscenza di due estranei che devono incontrarsi avvicinandosi ognuno alla lingua dell’altro, infatti James recita mezzo film in italiano e Di Napoli prova a parlare un po’ in inglese.”

Testo e foto di Giuliana Prestipino

Il giorno di Zoe Saldaña a Torino

Si è concluso da poco il TFF ma a quanto pare il red carpet non è stato ancora archiviato. Ieri è stato il giorno di Zoe Saldaña ospite speciale del Museo Nazionale del Cinema dal pomeriggio a tarda sera con tre appuntamenti diversi.

L’eclettica attrice di rara bellezza ha prima incontrato alle 17:00 al Cinema Massimo il direttore del Museo Carlo Chatrian, in una conversazione in cui ha passato in rassegna le tappe salienti della sua carriera, mettendo in luce il ruolo della donna nel cinema e la sua attenzione per l’ambiente.

L’incontro è proseguito con la proiezione del cortometraggio Dovecote, girato da Marco Perego, marito di Zoe Saldaña che si è unito alla conversazione. Dovecote, film di grande impatto emotivo girato all’interno di un carcere femminile della Guidecca a Venezia, è candidato alla categoria cortometraggi degli Academy Awards ed è stato presentato alla Biennale di Venezia 2024 nel Padiglione del Vaticano.

Alle ore 19:30 al Museo Nazionale del Cinema nell’Aula del Tempio Zoe Saldaña ha ricevuto il Premio Stella della Mole dalle mani del presidente del Museo del Cinema Enzo Ghigo e dal direttore Carlo Chatrian che ha sottolineato: “Siamo molto felici di poter accogliere una delle attrici che meglio incarna quella varietà di proposte che il Museo Nazionale del Cinema ospita nelle sue sale espositive. Splendido contrappunto alla mostra ‘Movie Icons’, Zoe Saldaña è icona cinematografica cara all’immaginario giovanile ma anche figura a tutto tondo carica di una profonda umanità. Nei panni delle “guerriere” Neytiri e Gamora ma anche in quelli dell’avvocato Rita Mora Castro, Saldaña ha dato corpo ad un’idea di femminilità capace di conciliare fragilità e fermezza”. Saldaña ha ringraziato in un perfetto italiano “per me significa tanto questo riconoscimento del mio lavoro che rappresenta tutto e soprattutto in Paese come l’Italia in cui mi sento a casa. L’intervento a sorpresa del regista James Cameron in video collegamento sui maxi schermo del Museo del Cinema ha entusiasmato il pubblico intervenuto. Il regista di Titanic e Avatar non solo si è congratulato con l’attrice statunitense ma ha promesso di venire a trovarci fra due mesi. L’ondata di star che approdano al Museo del Cinema sembra così non placarsi.

 La giornata torinese di Zoe Saldaña si è conclusa alle ore 21:00 al Cinema Massimo dove ha introdotto il musical EMILIA PÉREZ, diretto da Jacques Audiard e candidato francese per la categoria Lungometraggi Internazionali agli Academy Awards 2025. Il film ha ricevuto il prestigioso Premio della Giuria al Festival di Cannes e 4 candidature agli EFA, tra cui quella per il Miglior Film. EMILIA PÉREZ uscirà in Italia il 9 gennaio 2025, distribuito da Lucky Red.

Testo e foto di Giuliana Prestipino

Shel Shapiro, dal Mausoleo della Bela Rosin a Casale

Un fortuito, interessantissimo incontro con un grande rappresentante del beat italiano anni ’60: Shel Shapiro. Alcuni giorni fa Shel ha partecipato all’evento “Bisogna saper vivere”, intreccio tra musica e parole condotto da Renzo Sicco nel Mausoleo della Bela Rosin di Torino. L’eccellente musicista londinese nato nel 1943 naturalizzato italiano, eclettico, anticonformista e uomo di cultura, ha sviluppato con arte raffinata la sua lunga carriera di cantautore, scrittore, doppiatore e autore per interpreti come Patti Pravo e Dori Ghezzi, arrangiatore per Mia Martini, Ornella Vanoni, Raffaella Carrà, Mina e Dik Dik, produttore di album e singoli per Enrico Ruggeri, Gianni Morandi, Rino Gaetano, Luca Barbarossa e Ombretta Colli, moglie di Giorgio Gaber. Come attore cinematografico partecipò con Vittorio Gassman e Stefania Sandrelli a “Brancaleone alle Crociate” di Mario Monicelli e a “Rita, la figlia americana” di Piero Vivarelli con Totò e Rita Pavone.

Prese parte alla commedia televisiva “Non cantare spara” di Leo Chiosso (paroliere di Fred Buscaglione) con il Quartetto Cetra e allo show di Febo Conti per gli alunni delle scuole medie “Chissà chi lo sa” dove il suo gruppo fu il più votato in Italia dal sondaggio promosso dal settimanale “Giovani”. Partecipò come attore teatrale a “Shylock”, tratto da William Shakespeare con Moni Ovadia. A Torino, durante un concerto con il gruppo formato in Inghilterra negli anni ’60, i musicisti si trovarono ad eseguire il repertorio in sostituzione del solista rimasto improvvisamente senza voce e l’episodio determinò la carriera solistica di Shel che fu scritturato per altri eventi musicali. A Roma fu notato da Teddy Reno suo futuro produttore, marito e manager di Rita Pavone che inserì il gruppo dei Rokes nello spettacolo televisivo “Gian Burrasca”. Il complesso partecipò al “Festival degli Sconosciuti” di Ariccia e fu tra i migliori gruppi italiani della Beat Generation ad essere invitato nel Piper romano con Patti Pravo.
Furono definiti i Beatles italiani senza essere per nulla scalfiti dalla diversa scala di valori del grande gruppo di Liverpool. Il successo dei Rokes è rappresentato dai cinque milioni di dischi venduti nel mondo e la loro immagine si identifica con le famose chitarre a freccia Eko Rokes del marchio Eko Guitars, ancora oggi ricercate dai collezionisti per la qualità dei materiali utilizzati. A ottobre Shel è stato invitato a Mestre per i festeggiamenti della storica etichetta veneta Azzurra Music con Tony Esposito, Maurizio Vandelli e Le Orme, serata presentata da Mara Venier. Il vuoto musicale immerso nel silenzio di un profondo sonno spettrale degli ultimi decenni non ha impedito a Shel di aprirsi un varco nella barriera immobile della bonaccia contemporanea e con lo stesso impegno artistico giovanile continua a dialogare con le nuove generazioni ed accumulare esperienze. I testi musicali dei Rokes ispirati alla fratellanza e alla pace e le note distorte trasognate di tristezza rappresentarono uno splendido miraggio per la nostra generazione di adolescenti ormai assopita dal tramonto delle illusioni. Dopo aver atteso invano per oltre mezzo secolo la nascita di una nuova estetica musicale, il sogno visionario del ’68 è destinato a non ripetersi.
Jack Kerouac è ormai lontano.
Armano Luigi Gozzano

Luca Argentero debutta come autore e conquista lo “Zecchino d’Oro”

L’edizione 2025 dello “Zecchino d’Oro”, uno degli appuntamenti  musicali più amati in Italia, giunto oramai alla sessantaseiesima edizione, si è conclusa domenica a Bologna premiando la canzone “Diventare un albero”.

Il brano scritto dall’attore torinese è stato eseguito da Anna Sole Dalmonte, di 9 anni, proveniente da Voltana, in provincia di Ravenna, accompagnata dal Piccolo Coro dell’Antoniano diretto da Sabrina Simoni. Luca Argentero si è cimentato per la prima volta nella scrittura di un testo per lo Zecchino e ha ottenuto un successo immediato. Oltre a lui, “Diventare un albero” porta la firma di Rebecca Pecoriello e Nicola Marotta, mentre la musica è stata composta da Pecoriello, Marotta e Stefano Francioni. Tematica della canzone l’importanza del vivere le diverse fasi della crescita: non bisogna avere fretta di diventare grandi perchè ci sono tante cose da scoprire giorno per giorno mentre, piano piano, si cresce e si diventa uno splendido albero.

 

Il Piemonte quest’anno era rappresentato allo Zecchino anche da Carlotta, una bambina di 7 anni di Pavone Canavese, in provincia di Torino, che ha cantato “Il leone Piagnone” e da Greta di 9 anni proveniente da Oleggio, in provincia di Novara, che ha cantato in trio “Il principe Futù”. La finale dello Zecchino d’oro, in diretta da Bologna su Rai , ha sfiorato il 17% di share ed è stata vista da 2 milioni 595 mila telespettatori. Un momento davvero speciale che Luca Argentero ci ha tenuto a festeggiare sui social con una storia Instagram dove non ha trattenuto il suo entusiasmo scrivendo: “Vincere lo Zecchino d’oro cheeeeck”.

Igino Macagno

Igino Macagno

Ute Lemper e Sergey Khachatryan le “stelle” di dicembre

NOTE DI CLASSICA

Lunedì 2 alle 20 al teatro Vittoria, per la stagione dell’Unione Musicale, Justin Taylor al

clavicembalo eseguirà musiche di Bach e B. Marcello. Martedì 3 alle 20 sempre al teatro

Vittoria, il Quartetto Castalian eseguirà musiche di Beethoven e Antonioni. Il concerto sarà

preceduto alle 19.30 dall’aperitivo. Giovedì 5 alle 20.30 e venerdì 6 alle 20 all’auditorium

Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da Andrès Orozco-Estrada e con Pablo Ferràndez al violoncello, eseguirà musiche di Dvoràk e Richard Strauss. Sabato 7 alle 18 al teatro Vittoria, il quartetto Petra

con Antonio Valentino, eseguirà musiche di Haydn, Beethoven e Mendelssohn. Domenica 18

alle 16.30 sempre al teatro Vittoria, per l’Unione Musicale, Antonio Ballista al pianoforte e con

Alberto Batisti voce recitante, eseguirà musiche di Debussy e Poulenc. Giovedì 12 alle 20

al teatro Regio, debutto di “Giselle”, balletto in 2 atti con musica di Adolphe-Charles Adam.

L’Orchestra del teatro Regio sarà diretta da Papuana Gvaberidze/ Levan Jagaev. Repliche fino a

mercoledì 18. Sempre giovedì 12 alle 20.30 e venerdì 13 alle 20 all’auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da Kirill Karabits e con Sergey Khachatryan al violino, eseguirà

musiche di Chacaturian e Dvorak. Mercoledì 18 alle 20.30 al Conservatorio per l’Unione musicale,

Ute Lemper voce con Vana Gierig pianoforte , Giuseppe Bassi contrabbasso e Mimmo Campanale batteria, eseguiranno musiche di Brel, Weill, Lemper, Prima, Hollaender, Dylan, Piazzolla.

Sabato 21 alle 20 al teatro Regio debutto de “Lo Schiaccianoci”. Balletto in 2 atti, musica di Cajkovskij. L’Orchestra del teatro Regio sarà diretta da Papuna Gvaberidze/Levan Jagaev. Repliche fino a lunedì 30. Domenica 22 alle 18 all’Auditorium Toscanini, “Concerto di Natale”. L’ Orchestra

Rai diretta da Andrès Orozco-Estrada e con Mario Acampa voce recitante, eseguirà musiche

di Cajkovskij.

Pier Luigi Fuggetta

Il torinese Willie Peyote a Sanremo

Anche il rapper indie torinese Willie Coyote è tra i 30 Big scelti da Carlo Conti per il Festival di Sanremo 2025. È diventato noto al grande pubblico, quando a Sanremo nel 2021, in pieno Covid, si è esibito sul palco dell’Ariston davanti ad una platea vuota, ma la sua “Mai dire noi”  è diventato un refrain pop che gli è valso anche il Premio della Critica “Mia Martini”.

In questi giorni è uscito “Chissà”, un singolo insieme a Ditonellapiaga; un brano che alterna i pensieri di due amanti che, sebbene le loro strade si siano separate, continuano ad interrogarsi sul passato. Per quanto riguarda il cast 2025 del Festival, da segnalare il ritorno di Massimo Ranieri, Marcella Bella e Giorgia. Ed ora attendiamo i titoli dei brani in gara, perchè Sanremo è sempre Sanremo!

Igino Macagno

 

TFF, mai così tante star a Torino. Un successo, ma non si perdano le radici della rassegna

Si è da poco conclusa la 42° edizione del Torino Film Festival, la prima firmata dal direttore artistico Giulio Base, sotto l’egida del Museo Nazionale del Cinema, presieduto da Enzo Ghigo e diretto da Carlo Chatrian, con uno schieramento di divi hollywoodiani e italiani così come non si era mai visto all’ombra della Mole.

Una passerella continua di grandi nomi che hanno illuminato l’autunno torinese, regalandole un’allure ancora più internazionale. Da Ron Howard a Billy Zane, da Sharon Stone a Julia Ormond, da Emmanuelle Béart a Rosario Dawson, da Alec Baldwin a Matthew Broderick in compagnia di Sarah Jessica Parker e Vince Vaughn. Tra i grandi ospiti della cinematografia italiana, Giancarlo Giannini, Ornella Muti, Michele Placido, Claudia Gerini, Giuseppe Battiston, Maurizio Nichetti, Donatella Finocchiaro, Cristiana Capotondi solo per citarne alcuni. Molti di loro sono stati insigniti del premio Stella della Mole o nel corso delle conferenze stampe o alla presentazione dei film, in tutto sono stati consegnati dodici premi.

Ben riuscita la cerimonia di apertura per l’indiscusso effetto sparkling, il red carpet solcato da grandi personaggi internazionali, un dispiegamento di fotografi senza precedenti a Torino come a Cannes e Venezia. Persino i più allergici alle serate mondane si sono ritrovati in smoking e paillettes nelle poltroncine del Teatro Regio, che neanche alla prima dell’opera hanno osato tanto. C’era da aspettarselo in fondo con la presenza della moglie di Giulio Base, Tiziana Rocca, maestra di cerimonie, figura di spicco nell’organizzazione di grandi eventi ed esperta nello stanare e mobilitare le star più glamour del pianeta. Sul palco ritmo incalzante, avvicendarsi di ospiti illustri che hanno ricevuto il premio Stella della Mole, da Sharon Stone a Ron Howard, senza momenti letargici come in alcune passate edizioni e un bel film di apertura: il drama thriller di Ron Howard, con un cast di attori eccellenti del calibro di Jude Law, Ana De Armas, Vanessa Kirby, Daniel Brühl e Syndey Sweeney.

Protagoniste assolute del primo weekend del festival un tris di dive incredibili che è una dichiarazione di intenti se il messaggio dell’inaugurazione non fosse già stato chiaro: l’imperativo è brillare. Ecco Sharon Stone, Emmanuelle Béart e Angelina Jolie che si sono generosamente concesse in conferenza stampa, ai fotografi e ai numerosi fans in coda ad attenderle. La prima ha raccontato la sua parabola di attrice dagli esordi come modella qui in Italia ai sodalizi umani ed artistici con registi importanti come Scorsese e Sam Raimi, soffermandosi sulla strada che c’è ancora da percorrere nell’ autodeterminazione delle donne, nel riconoscimento dei propri diritti nella società e nella battaglia contro la violenza di genere, senza dimenticare il suo impegno nel sociale. Emmanuelle Béart ha presentato in qualità di regista e come portavoce della battaglia contro gli abusi in ambito familiare, essendone stata vittima da adolescente, il documentario Un silence si bruyant. Angelina Jolie, presenza annunciata all’ultimo a poche ore dall’inizio del festival, ha interloquito anche lei in una veste inedita, quella di regista raccontando la genesi del suo film Without Blood tratto dall’omonimo libro di Alessandro Baricco Senza sangue: dall’incontro magico con lo scrittore torinese al lavoro di trasposizione in immagini per rimanere il più fedele possibile alla scrittura dell’autore torinese. Dietro la cortina di glamour sono emerse personalità affascinanti e sfaccettate.

Massiccia la presenza femminile: dalle cineaste alle componenti delle giurie ufficiali, dai temi trattati alle dive simbolo di empowerment femminile. A proposito di temi dominanti sembra che il fil rouge di quest’anno fosse la maternità, quella desiderata e cercata ma anche quella negata, dal belga Holy Rosita di Wannes Destoop vincitore di questo festival, al danese Madame Ida di Jacob Møller, dal coreano My best, your least di Hyun-jung allo spagnolo Nina di Andrea Jauerrieta e al tedesco Vena di Chiara Fleischhacker. Anche se nelle intenzioni dei selezionatori sembra non sia stata una scelta voluta, il risultato è parso un po’ ridondante.

Al centro della retrospettiva di quest’anno Marlon Brando, anche qui scelta in controtendenza rispetto al passato perché si è deciso di dare risalto più all’attore inteso come figura iconica che a un regista o ad una figura autoriale che abbia avuto un impatto importante sul cinema moderno. È stata comunque una scelta molto apprezzata nel centenario della sua nascita, coronata nel corso della cerimonia di premiazione dalla proiezione di Waltzing with Brando. Il film scritto e diretto da Bill Fishman è stato presentato in anteprima mondiale alla presenza del regista e del protagonista Billy Zane.

Risultato di questa abbuffata di star: grande successo di pubblico, un pubblico diverso (forse si è aggiunto quest’anno quello più a caccia di selfie), meno film, anche se la qualità è rimasta intatta, meno sale ed eventi collaterali. Alcuni han gridato al miracolo e al ben venga tutto questo scintillio, mentre i puristi del festival sono rimasti delusi e su posizioni scettiche. La parata di stelle per quanto abbia illuminato la città, in qualche modo ha appannato l’identità di questo festival. Già, perché il TFF, ex Festival Internazionale del Cinema Giovani, che nasce nel lontano 1982, nelle intenzioni del suo fondatore Gianni Rondolino era chiara la vocazione di porsi come festival alternativo e critico alla supina sottomissione all’imperialismo hollywoodiano. E non perché il cinema americano non fosse apprezzato dai progenitori di questo festival, ma per dare risalto alla ricerca di esperienze non omologate, con un’attenzione alla scena più underground, alle strade meno battute. Lontanissimi i giorni delle retrospettive sul cinema messicano, la Nouvelle vague e le maratone di film horror ora che il cinema di Hollywood è rientrato dalla finestra.

Di sicuro con questa edizione la manifestazione ha acquistato un respiro ancora più internazionale, ma ha perso quel radicamento nel tessuto culturale cittadino se si considera che, nell’asciugare il programma, si sono perse per strada quelle sezioni e quei progetti che davano risalto al Piemonte, come Spazio Torino e Piemonte Factory ed è venuto a mancare quello spirito amante del rischio e della scoperta, tratto distintivo da sempre del Torino Film Festival. Ci si augura che venga recuperato nelle prossime edizioni, mantenendo se è possibile quel tocco patinato che a molti non è dispiaciuto.

Testo e foto  Giuliana Prestipino

Chiuso il 42mo TFF. Belgio, Germania e Egitto vincono con il tema della maternità

 

È stata la maternità il tema che più ha interessato il gruppo di selezionatori, quello che più ha raccolto titoli all’interno dei sedici film del concorso lungometraggi del 42mo TFF: ed era quasi logico, nel ripensare al valore delle opere, che la giuria guidata da Margaret Mazzantini andasse a pescare proprio lì. Opere subito apprezzate, amate, discusse, provenienti da cinematografie per noi a volte lontanissime, pochissimo o nulla frequentate, che hanno saputo proporre al loro interno meccanismi diversi e sentimenti contrastanti, guardare con estrema sicurezza alle problematiche che “quelle” maternità imponevano, considerare le ansie e a tratti le sottili crudeltà che giorno dopo giorno il mettere al mondo un figlio poteva presentare.

Il titolo di miglior film se lo è aggiudicato “Holy Rosita” della belga Wannes Destoop, dove la protagonista chiusa nella sua solitudine ma sempre con un sorriso per tutti coltiva il sogno grande di diventare madre salvo poi tacere una felice realtà allorché rimane incinta. Il Premio speciale della Giuria è andato a “Vena”, diretto dalla tedesca Chiara Fleischhacker, film che chi stende queste note ha amato molto, magari in attesa anche di un riconoscimento alla protagonista, un’altra madre in attesa, che lotta contro quella dipendenza dalla droga che continuerà a distruggere il suo compagno e vive nella disperazione e nella speranza guardando a un futuro che, per un piccolo conto aperto con la giustizia, le toglierà la bambina poco dopo la nascita (il film ha altresì vinto il premio Fipresci, “per la sua capacità di trasformare la storia intensa di una maternità in un percorso plausibile di salvezza dalle dipendenze grazie a un’interpretazione molto umana, una storia emotivamente forte e un montaggio che scandisce bene i tempi della narrazione, a tratteggiare complessivamente una maturità registica non comune per un’opera prima”). All”Aiguille” dell’egiziano Abdelhamid Bouchnack il premio per la migliore sceneggiatura, il ritratto e la scrittura esatti di una giovane coppia che in un costruirsi di progressive quanto differenti emozioni e stati d’animo rimane divisa per la nascita di un figlio in cui natura maschile e femminile s’uniscono.

 

Una vicenda condotta con estrema esattezza dal regista, che si trova anche a far fronte a una cultura estremamente chiusa e antica e ai pregiudizi che inevitabilmente ne nascono, una vicenda che ha visto assegnarsi anche il premio Achille Valdata, quello Scuola Holden per la miglior sceneggiatura con una motivazione da parte degli allievi che sottolinea “una drammaturgia intensa che procede per azioni, dialoghi mai banali e atti mancati, il film racconta un conflitto di grande potenza che ricade su tutti i personaggi.” “L’aiguille” si aggiudica altresì il Premio Interfedi.

Due film che poco (mi: e non soltanto) hanno convinto, imperfetti, si sono divisi i premi per le interpretazioni: il trio femminile delle interpreti, chiuse nei dolori e nelle violenze di una vecchia casa di “Madame Ida”, sono le migliori attrici in una unanimità affatto condivisibile, mentre il miglior attore è River Gallo di “Ponyboi” che il film ha scritto interpretato e diretto e in cui soprattutto ha personalmente creduto. L’Italia – il suo cinema – è qui a mani vuote e certo non lo diciamo con soddisfazione: ma è la conferma di quanto le due opere presentate di Minucci e Danco siano pretenziose (“Europa Centrale”) o decisamente azzardate e vuote nel voler buttarsi su strade fortunatamente e altrimenti per nulla frequentate (“n-Ego”).

Una gran festa per chi ama il cinema e ha sempre visto nello studio e nel consumarsi quasi dentro certi personaggi, nei gesti, nelle scelte e negli atteggiamenti e nelle prese di posizione – aver mandato in vece sua sul palco degli Oscar una nativa americana a rivendicare intere esistenze e violenze – il vero esplodere e il soffio rivoluzionario di un antico cinema americano, trovarsi per una intera settimana davanti a manifesti locandine programmi con il viso di Marlon Brando inquadrato nella sala da ballo parigina del “Tango” di Bertolucci. È stata la festa per i 24 titoli con cui il direttore Giulio Base gli ha voluto rendere omaggio nel centenario della nascita, impossibile elencarli tutti, ma sono state vere boccate d’aria “A Streetcar Named Desire” e “Julius Caesar”, “Guys and Dolls” dove Marlon non sapeva cantare ma cantava benissimo pronto a rivaleggiare con Sinatra e “The Chase”, “Queimada” del nostro Pontecorvo e “The Godfather”, da “The Men” a “The Missouri Breaks” di Penn: e l’elenco potrebbe continuare.

Adesso, davanti alle immagini di “Waltzing with Brando” – presentato a chiusura del festival – e vedendoti Billy Zane davanti, nella sala grande della Cavallerizza con contiene le conferenze stampa, pare che il vecchio Marlon abbia avuto la sua brava resurrezione. Magari il potente fantasma incombe da sempre sullo psicopatico di “Ore 10: calma piatta” o sul fidanzato di Kate Winslet, riccastro e spregevole, che non esita a salvarsi, solo, dalla tragedia del “Titanic”: ma oggi più che mai, con il suo corpo massiccio, con qualche chilo in più, con la profondità marcata dello sguardo, il vecchio Marlon pare essere lì. Se ci mettete il modo di muovere le mani, il momento di poggiare il capo sulla mano e il gesto di grattarsi la fronte, immediatamente sopra l’occhio, e confrontate tutto questo con le scene del “Padrino” o di “Tango” ricostruite per il film di oggi, vi accorgete che il vecchio Marlon è lì. E vi godete appieno anche il nuovo personaggio, quel Billy Zane che ha voluto fortemente “Waltzing”, termine ultimo per ora di una carriera ondivaga e crediamo non soddisfacente appieno, storia tratta dal libro “Planning Paradise in Tahiti”, scritto da Bernie Judge, architetto californiano che, votato a progetti portati avanti ed esauriti per dare un giusto posto alla protezione dell’ambiente, incontrò in Brando e Brando in lui il giusto referente per un più o meno idilliaco lavoro in quelle isole da sogno, là dove l’attore durante la lavorazione dell’”Ammutinamento del Bounty” aveva trovato un’isola e una moglie.

L’isola è quella di Tetiaroa, un’isola della Polinesia francese, un insieme di bungalows e di altre costruzioni che dovevano vedere la luce con tecniche e sguardi d’architetture mirate con occhio e intenti decisamente moderni, in un’epoca ancora troppo lontana da discorsi di tale genere. Non lo spaventano i costi che crescono o tutte le contrarietà che si possono presentare, quello è e sarà il suo eremo felice, dove magari anche poggiare per terra come ferma porta l’Oscar vinto. Un ambientalista, posto al centro di un film che non importi se non soddisfi molto: l’importante è che ci restituisca un Brando in anticipo sui tempi, come lo era stato nella recitazione.

Elio Rabbione

Nelle immagini, scene da “Holy Rosita”, “Vena” e “L’aiguille”. Billy Zane Marlon Brando in “Tango a Parigi” nel film “Waltzing with Brando” che ha chiuso il festival.