SPETTACOLI- Pagina 2

Orsini e Branciaroli, due “ragazzi irresistibili” e grandiosi

Sino a domenica 9 febbraio, sul palcoscenico del Carignano

Willy Clarck e Al Lewis sono stati compagni di palcoscenico per una vita intera: poi il meccanismo s’è rotto. Vita travagliata intendiamoci, ma sopportata, digerita, mandata giù a fatica con un paio di pastiglie di quell’Alka-Seltzer di cui il primo avrebbe sempre voluto accaparrarsi la pubblicità: certo per i bigliettoni verdi ma soprattutto perché quelle due paroline di Alka-Seltzer, ne è sempre stato convinto, fanno ridere. Come fanno ridere le parole con la “z”, zuzzurellone in prima linea. Si sono guardati in cagnesco più del solito, il vecchio Willy certo molto di più, e si sono salutati una volta per tutte. Willy adesso sciabatta per casa tutto il giorno, ha fatto la punta a un carattere diavolesco e irritante che più non si potrebbe, ogni mercoledì ha la visita del diligente e paziente nipote che gli porta sù scatolette di cibo e la copia di Variety, tanto per sapere chi è morto e chi è vivo del mondo di luci di Broadway. E gli procura qualche scrittura: rarissima. Vuoi che la CBS, a undici anni da quella divisione, decida di dare una bella spolverata al vecchio teatro leggero americano, il duo non può certo mancare, il buon cachet aiuterebbe ma con la ricomparsa di Al – carattere serafico ma quantomai graniticamente pistino, faticosamente evocato da quell’angolo del New Jersey dove vive con figlia e nipotini – schermaglie e mugugni e bisticci riprendono a circolare. Ricucire lo strappo è difficile, riaffiora la vecchia rivalità, i ricordi amari e i pochi e camuffati tratti di solidarietà, si fa strada con parecchi inciampi tutta la comicità che li ha uniti, imbastita oggi con un pizzico di soffusa malinconia. Nel tentativo di ridar vita a quel numero che li ha resi famosi, ricircolano le battute di un tempo, ricircolano i tic e le certezze che hanno fatto vivere e imbestialire l’arte di Willy, pensando ancora una volta che il sodalizio s’è rotto perché Al lo riempiva di sputacchi con tutta la saliva possibile nell’emettere quelle parole infarcite di “t” che lui sceglieva a bella posta, perché lo picchiettava sul petto ad ogni battuta, perché ad inizio dello sketch del dottore e dell’impiegato delle tasse, al primo “toc toc” di entrata di Al il compagno in luogo dello stabilito “avanti” sonorizzava un irritante “s’accomodi”.

Non andiamo avanti nel racconto della trama dei “Ragazzi irresistibili” che tutti conosciamo, festosa quanto crepuscolare commedia di Neil Simon del 1972, che tre anni dopo divenne film sotto il ricamo interpretativo fornito da Walter Matthau e George Burns (Oscar a quest’ultimo), storia che ricalcava la vita di una vera coppia di artisti del vaudevelle, Joe Smith e Charles Dale. Oggi, vedendola ancora una volta in palcoscenico (se non sbaglio, all’inizio dei Novanta, la proposero per ultimi Scaccia e Fiorentini), al Carignano per la stagione dello Stabile torinese sino a domenica 9 febbraio, appare forse datata, a ripercorrere momenti e battute e situazioni già visitate: ma rimane una efficace macchina di pieno divertimento, soprattutto l’impareggiabile esempio del mondo del teatro e della recitazione – il “piacere” del recitare -, l’occasione di lasciar scivolare la scena dentro la vita, la rappresentazione delle rivalità e delle debolezze, dei tramonti e della felicità (“The Sunshine Boys” è il titolo originale), dello spegnersi delle luci, dell’elenco – ormai vuoto ma ancora tutto da sogno – dei teatri in cui potrebbero ancora risuonare gli applausi. Simon, con i suoi più che trenta titoli per il palcoscenico, occasione molti per vivacissime sceneggiature, è stato un maestro della risata e di un intrecciarsi di umanità varie, anche qui si dimostra un maestro, se mai ancora ce ne fosse bisogno: catturando non soltanto la comicità ma angoli di zona d’ombra, sottilmente soffusa, grazie alla regia di egregio servizio, nell’affettuoso rispetto per la classe dei protagonisti, di Massimo Popolizio, angoli che guardano con altrettanto rispetto alle atmosfere di Checov e di Beckett.

Diceva Franco Branciaroli (nell’osservanza del dato anagrafico, classe 1947) in un’intervista tempo fa: “È più difficile far questo tipo di teatro piuttosto che gli Shakespeare brutti che ci sono in giro, là è tutto bla bla bla e vai!, qui scatta la controprova e se non fai ridere hai fallito. In più, se un autore europeo avesse considerato lo stesso argomento, il teatro e la vecchiaia e la morte, avrebbe annoiato a morte. Al contrario, il drammaturgo americano ha una qualità rara, ha ricoperto tutto di una bella crema pasticciera e li ha fatti passare divertendo”. Lui e Umberto Orsini (nell’osservanza del dato anagrafico, classe 1934) hanno affrontato repertori vari, dai classici ai contemporanei, da Euripide a Hofmannsthal a Strauß – e voi capite quanto l’elenco potrebbe continuare -, quante volte sotto lo sguardo modernissimo di Ronconi) e oggi ci entusiasmano con il divertimento. Suona una battuta dello spettacolo: “Dove c’è talento non ci può essere vecchiaia”. Al di là di ogni retorica, è il loro marchio di fabbrica, e il pubblico non fa che al termine applaudirli, mentre loro nella loro seriosa staticità sembrano due bravi soldatini che hanno “soltanto” fatto bene il loro lavoro. Non perdeteveli nelle poche repliche che restano e saprete dalla serata che cosa sia la Grandezza di un Attore.

Elio Rabbione

Il dramma dei desaparecido e la intima “tragedia” di una donna

Io sono ancora qui” di Walter Salles

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

C’è molta allegria sulla spiaggia di Rio, a due passi dalla casa dei Facciola Paiva, una casa dove qualsiasi motivo è buono per festeggiare, dove si balla e si beve e si ride, accogliente e sempre aperta agli amici, la domestica che prepara piatti e tartine. Sotto il sole, sulla riva del mare, i ragazzi si buttano sulla pallavolo mentre le ragazze si bagnano il corpo di Coca cola per apparire più scure. A guardarlo così, sembra felice il Brasile, e ricco e innovativo. E libero di vivere. È l’inizio dei Settanta, nelle camere delle ragazze sono appese le locandine dei film dell’epoca, si gira in famiglia in super8, si cantano le canzoni di Caetano Veloso e di Gilberto Gil, il Cinema Novo si esprime attraverso i titoli di Glauber Rocha, anche l’architettura vive un periodo felice con le architetture e le innovazioni di Niemeyer. Ma in quella stessa capitale, come nel resto dell’immenso paese, tutto si fa scuro, regnano gli annientamenti e le sparizioni, la violenza e le morti di quanti sono contrari alla dittatura militare che nel ’64 aveva rovesciato un governo eletto democraticamente e che sarebbe rimasto al potere per più di vent’anni.

Io sono ancora qui” è la storia di una famiglia e della scomparsa nel gennaio del ’71 di Rubens Paiva, marito e padre di cinque figli, ingegnere e attivista politico, ex deputato del Partito laburista del suo paese. È la storia che Walter Salles (“Central do Brasil”, “I diari della motocicletta” sulla gioventù del Che) ha tratto dal libro di memorie scritto una decina di anni fa dal figlio del desaparecido, Marcelo Rubens Paiva, premio per la miglior sceneggiatura a Venezia 2024, già Golden Globe per la migliore attrice in un film drammatico ad una immensa Fernanda Torres, in attesa della serata degli Oscar con le candidature per il miglior film, per il miglior film straniero e ancora per la protagonista. Una testimonianza che sembra arrivare tarda nei confronti della scomparsa di un uomo il cui corpo non venne mai ritrovato – le sepolture in fosse comuni e i lanci dagli elicotteri nell’oceano erano all’ordine del giorno – ma anche una necessità da parte di quello che fu un ragazzo in amicizia con i figli di quell’uomo e abituato a frequentare la loro casa. La casa dove irrompono, all’improvviso, oscurando immediatamente le finestre in un giorno di solare inverno, uomini che gli dicono di prepararsi, che li deve seguire per una semplice testimonianza e lui che dice tranquillo “un paio d’ore e sono di nuovo a casa”. Non lo rivedranno più. Anche la moglie Eunice e la figlia Eliana sono poco dopo prelevate e portate nelle celle di una caserma, questa per una notte soltanto, quella per dodici giorni, tra domande incessanti e tavolacci e formalità per cui non c’è da temere, tra le urla che provengono dalle stanze vicine e uomini che buttano secchiate d’acqua sui pavimenti a lavare il sangue. Al ritorno a casa, prima che i vestiti di Rubens siano dati via e prima che s’abbandoni quella casa che diventerà un ristorante, per cercarne una nuova a San Paolo, prima che si sia cancellata ogni speranza di un ritorno, non dovrà mai apparire la “tragedia”, i sorrisi di un tempo non dovranno mai scomparire, anche se lo chiede il regime che per una nuova immagine da distribuire vorrebbe tutti i superstiti almeno seriosi, no, rimarranno impressi quegli stessi sorrisi che abbiamo visto nelle tante fotografie che circolano nei tanti momenti, esposte o sfogliate o rimesse in grandi scatole, nulla deve cambiare, per la tranquillità sognatrice dei più piccoli, per la necessità di andare avanti, per la caparbietà che Eunice vive negli anni pur di arrivare a qualche risultato, pur di ottenere per il marito e per la famiglia un qualche riconoscimento, pur di coltivare una memoria che resti con tutto lo strazio intimo per sé, e per gli altri.

Sino all’ultimo festeggiamento, una fotografia anche lì da scattare, quando Eunice, ormai vittima dell’Alzheimer (è scomparsa nel 2018), rivede in un vecchio filmato che passa in televisione il volto del marito e i suoi occhi hanno un moto di felice stupore. Ogni attimo è trascorso incredibilmente su un percorso piano, rassicurante, aperto, dove le urla e la disperazione non hanno mai trovato posto. Salles ha voluto mantenere, tra storia privata e Storia pubblica, ogni tono sommesso, rinchiuso, lasciando alla macchina da presa, attraverso gli sguardi e i piccoli gesti, il compito di “accompagnare” un misfatto che non può non aver attraversato intere esistenze: le lacrime scorrono sulle guance, ma durano un attimo, vengono immediatamente cancellate, i singhiozzi e le urla e la disperazione stanno da altra parte. Forse questi silenzi non incontreranno i favori di molti dei giurati dell’Oscar, chissà, ma certo cominciamo fin da adesso a tifare per Fernanda Torres (negli ultimi fotogrammi Eunice è Fernanda Montenegro, sua madre nella vita e già indimenticabile interprete di “Central do Brasil”) che incarna e vive perfettamente, in ogni parte del corpo e della mente, nei piccoli segni premonitori della malattia e negli insperati traguardi, quella che fu la personale, richiusa “tragedia”, perché al fondo di tutto questo dire il termine deve essere comunque scritto, di Eunice Paiva.

“Io amo Italia”. Le vicissitudini di immigrata di seconda generazione

7-8 febbraio 2025

Casa Fools, via Bava 39, Torino

Primo testo da autrice e interprete di Sofija Zobina

 

 

Siamo agli inizi degli anni ’60 e in Unione Sovietica avviene una piccola ma grande rivoluzione: all’interno dei suoi confini inizia a echeggiare la musica italiana. Tutto nasce da uno scambio di oggetti avvenuto al confine tra Russia e Finlandia: una stecca di sigarette per un vinile, “O’ sole mio” di Robertino Loretti.

Questa è la storia che inizia a raccontare Sofia, un’aspirante attrice, sul palco di un karaoke. Ha già cantato una canzone, ma l’occasione di avere finalmente un pubblico la spinge a restare. Con la scusa di raccontare il ruolo della musica italiana nella sua vita, parla della sua condizione di immigrata russa di seconda generazione e di quella di sua madre: una ballerina, che tramite mille peripezie cerca di darle un futuro migliore proprio in Italia, dopo che il crollo dell’Unione Sovietica aveva lasciato tutti senza niente. Lo spettacolo è fatto di racconti, sketch, imitazioni e di momenti più intimi legati al rapporto della protagonista con il padre, inteso come patria, come certezza, ma anche come limite. Nella storia delle due donne è una figura completamente assente, ma diventerà sempre più presente per la protagonista, durante il suo costante dialogo con il pubblico.

“Io amo Italia” è un racconto che rapisce e mescola inevitabilmente commedia e prosa, realtà e immaginazione, la grande Storia e la vita quotidiana. In un continuo scambio tra presente e passato, tra Italia e Russia, in cui la musica diventa il ponte per ricongiungere gli opposti, riportando alla ricerca della “Felicità” di un bicchiere di vino con un panino.

 

“Io amo Italia” è il primo testo da autrice e interprete di Sofija Zobina. Nata in Lituania nel ’99, si trasferisce in Italia a 3 anni e vive tra costanti trasferimenti per via del lavoro della madre. Si laurea in recitazione nel 2022 alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, al cinema ha lavorato con Alice Rohrwacher (La Chimera) e Maurizio Nichetti (Amiche Mai), ha partecipato a serie tv Netflix e Rai (Summertime, Il Clandestino) e a teatro è stata diretta da Serena Sinigaglia, Maurizio Schmidt, Claudio Autelli. “Io amo Italia” debutta nel maggio 2024 al Torino Fringe Festival e viene selezionato a luglio anche dal Roma Fringe Festival dove vince il Premio Speciale OFF.

 

CONSONANZE

“Io amo Italia” è il primo spettacolo del 2025 di “Consonanze”. La stagione teatrale 2024-2025 di Casa Fools, composta da 21 repliche di 10 diversi titoli, propone un calendario multidisciplinare che promuove linguaggi espressivi di classici contemporanei attraverso la riscrittura di grandi capolavori o nuove opere e adattamenti in chiave pop che affrontano temi universali.

 

CASA FOOLS

Casa Fools è una Casa con un Teatro dentro. Codiretto da Roberta Calia, Luigi Orfeo e Stefano Sartore, da anni Casa Fools lavora per ricostruire la comunità attraverso l’arte e abbattere le barriere e i pregiudizi legati a certi luoghi della cultura. Non solo attraverso una politica dei prezzi contenuta, ma anche facendo partecipare attivamente il pubblico alla vita del teatro, coinvolto fin dall’inizio nella direzione artistica tramite un’esperienza di decisione collettiva del cartellone.

 

La stagione Consonanze ha ricevuto il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo all’interno del bando “Linee guida per progetti nell’ambito della cultura contemporanea 2024” ed è sostenuta dal contributo del patrocinio oneroso 2024 del Consiglio Regionale del Piemonte.

Come “indigeni e forestieri” creano una autentica comunità

Un variegato calendario per il Balletto Teatro di Torino

Nelle parole di Viola Scaglione, direttrice artistica del Balletto Teatro di Torino, sta la presentazione di una stagione di danza ma soprattutto l’anima e le anime che abitano in una compagnia, la rivendicazione di aver fatto confluire, e continuare a farlo, “nel proprio processo creativo entità apparentemente distanti”, la padronanza e la bellezza di “un costante allenamento dello sguardo verso il mondo”, forse con quello che può sembrare una “forzatura di linguaggio” tra le pareti della Sala della Musica all’interno del Circolo degli Artisti, come dice qualcuno, la ricerca di “un intreccio tra indigeni e forestieri in grado di agitare le nostre acque creando una comunità che scorre, che si modella e cambia forma in continuazione e che non perde mai di vista l’analisi del contesto in cui opera”. Tutto questo quando, in un alternarsi di “intimità e distanza” si cerca con il passare delle settimane e dei mesi di arrivare alla certezza di “una casa comune” che abbracci uffici e sala di prove aperte e sede di spettacoli e che superi quello che può essere identificato come uno “spazio di passaggio”, una casa comune “dove sperimentare e allevare il pensiero, il modo di percepire e di percepirsi e non una ricerca sul consenso insieme agli artisti che incontrano le nostre progettualità ma una tensione costante verso il rischio per quello che non si conosce ancora”. Tutto questo quando, in uno sguardo unanime e in una necessità di progettualità diversificate, Matteo Negrin, in veste di direttore della Fondazione Piemonte dal Vivo in prossima uscita, sottolinea come il BTT abbia pieno merito di accrescere i propri scenari e la nuova stagione di danza contemporanea “Tensioni Temporanee” inserita nella stagione del teatro Marenco di Novi Ligure – di cui s’è parlato già qui nei giorni scorsi – vada a colmare un vuoto nel sud della regione, limando quell’80% di richiesta/offerta che è stanziato sul solo capoluogo. Tutto questo quando Rosanna Purchia, assessora alla Cultura di Torino, ribadisca come “è proprio l’inclusione e l’ascolto a fare di questo lavoro un lavoro a servizio della condivisione e sperimentazione, per attuare nuove e diverse prospettive artistiche anche indicate a chi del balletto è spettatore”.

Avvicinandosi tra un paio d’anni quelli che saranno i cinquanta d’attività, un lungo percorso iniziato da Loredana Furno con passione e caparbietà e condotto in Italia e all’estero, il BTT è ancora una volta sostenuto da Ministero della Cultura, Regione Piemonte, Città di Torino e Fondazione CRT e composto attualmente da cinque danzatori/danzatrici, oltre alla figura ospite di Marta Ciappina. Guardando ai futuri progetti, sono in sviluppo di progettazione “Living Cabiria” risolto in una Realtà Virtuale, “Carmen – Nous sommes toutes des étoiles”, dovuto ad Anna Basti con la collaborazione critica di Ariadne Mikou e con la collaborazione di Piemonte dal Vivo mentre, realizzato in partenariato con Fondazione Egri per la Danza, si concretizza il progetto triennale IN.CON.TRA, che approfondisce la tematica legata al femminile (ovvero “Manifesto femminile per un corpo che re-ESISTE”), in collaborazione con CasaBreast, associazione che si sviluppa in seno alla BrestUnit dell’ospedale Cottolengo di Torino: ancora nella convinzione che “cresce sempre più la necessità per la compagnia di tornare a vivere la danza non soltanto come espressione artistica, ma come un rituale capace di connettere le persone al di là dei confini culturali, sociali e fisici, creando uno spazio esperenziale di condivisione”. Convinzioni e condivisioni che abbracciano altresì tra gli altri realtà che sono spazi scolastici come il DAMS e il Liceo Gioberti, l’Istituto Musicale Città di Rivoli “G. Balmas”, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.

Venendo al cartellone vero e proprio, già scrivevamo in precedenza degli “Anni” di Marco D’Agostin, ricavato dal romanzo di Annie Ernaux e interpretato da Marta Ciappina (teatro Astra). Seguiranno alla Fondazione Re Rebaudengo, il 13 marzo (ore 21), e in occasione dei Giochi Mondiali Invernali Special Olympics Torino 2025, “Studio per Aliseo” – coreografia di Manfredi Perego, danzatrice Nadja Guesewell, “le intensità sono disegni di trasformazioni, modificano ciò che il corpo agisce mutando il paesaggio, esattamente come l’intensità del vento” -, in anteprima “Umingmak”, produzione BTT, ideazione e coreografia Mauro de Candia, danzatore Luca Tomasoni, “Noa” ancora in anteprima, produzioni BTT, coreografia di Jye-Hwei Lin e danzatrice Noa Van Tichel, dove “ogni gesto diventa un frammento di una narrazione non detta”, vero e proprio luogo d’incontro “tra chi crea, chi interpreta e chi osserva”. Terzo luogo è il Teatro della Lavanderia a Vapore di Collegno, dedicato a “Race” (9 aprile, ore 21), un intenso ritratto di vita quotidiano sotto i colori del Real Conservatorii Profesional de Danza “Mariemma” di Madrid, dieci danzatrici con le coreografie e i costumi di Victoria Miranda, immerse nelle musiche di Antonio Vivaldi, Menestra, Plastikman e Paco Osuna. A completare la serata Mauro de Candia propone “Tra” mentre José Reches porta dalla capitale spagnola “Galea”, dove sono uomini destinati a remare, dove è imposta una forma di schiavitù che priva di ogni libertà. Ancora sul palcoscenico dell’Astra, “Sista”, la coreografia è di Simona Bertozzi, le danzatrici sono Marta Ciapina e Viola Scaglione, e “White Pages”, con il coreografo Manfredi Perego le prove di Nadja Guesewell, Noa Van Tichel, Luca Tomasoni e Luis Agorreta.

e.rb.

Nelle immagini, momenti di “Studio per Aliseo”, “Race” e “Sista” (ph Serena Nicoletti)

Il virtuoso norvegese Leif Ove Andsnes nel recital della rassegna “I Pianisti del Lingotto”

A sei anni dall’ultima presenza

 

Il terzo appuntamento della nuova rassegna dei Pianisti del Lingotto, previsto venerdì 7 febbraio, vedrà protagonista il norvegese Leif Ove Andsnes, che il New York Times ha definito un pianista di eleganza, energia, introspezione magistrali, e il Wall Street Journal uno dei musicisti più talentuosi della sua generazione. Il suo ritorno, per il concerto di venerdì 7 febbraio alle 20.30 in sala 500, al Lingotto, è certamente gradito per il blasonato virtuoso scandinavo che, dopo il debutto del 2004 con il secondo concerto di Rachmaninov, è tornato a esibirsi al Lingotto Musica altre cinque volte: nel 2012 e nel 2014 alla guida della Mahler Chamber Orchestra per il progetto “The Beethoven Journey”. Nel 2015 e 2017 in recital all’Auditorium Giovanni Agnelli e, nel 2019, nel concerto in La minore di Grieg. L’omaggio al conterraneo Grieg, con la giovanile Sonata n.7, si unisce nel suo impaginato alle nostalgi.che melodie boeme della raccolta “Sul sentiero di rovi” di Janáček e all’amatissimo Chopin dei celebri Preludi op.28.

Vero maestro del tocco che combina I classici della mitteleuropa romantica con i profumi del profondo nord, Andsnes propone la Sonata in Mi minore op.7 di Edward Grieg, l’unica l’errore pianoforte scritta dall’autore, all’epoca ventiduenne, nel 1865. La dedica a Niels Gade, suo maestro al Conservatorio di Lipsia, sottintende un omaggio al Decano della grande scuola nordica, ma ad ogni pagina fanno capolino anche luoghi di pianista di Schubert e Schumann. Segue il ciclo “Sul sentiero di rovi”, composto da Leoš Janáč̣ek tra il 1901 e il 1908. La raccolta si intreccia alla composizione dell’opera “Jenůfa” e intimamente alle vicende biografiche del compositore ceco, fra cui la morte della figlia ventenne Olga. Colpisce di queste 10 minitaure la scrittura laconica, fatta di brevi accenni, emozioni trattenute che si carica di intensità romantica con squarci lirici improvvisi.

Chiudono la serata i celebri 24 Preludi op.28 di Chopin, scritti a Maiorca nel 1838, quando perseguire al rigido inverno parigino e alla curiosità suscitata dal suo legame con la scrittrice George Sand, si trasferì sull’isola in compagnia della donna. Organizzati nell’ordine normale delle scale, secondo le 24 tonalità, rappresenta un tributo pagato a Bach e al clavicembalo ben temperato che Chopin frequentava contemporaneamente.

Biglietteria presso gli uffici di Lingotto Musica al numero 333 9382545

Da lunedì a venerdì ore 10-12 / 14.30-17

E nel giorno del concerto presso il foyer di Sala 500, via Nizza 280/41, Torino

Dalle 19.30 alle 20.30

 

Mara Martellotta

“Cabiria Atlas”, immagini e immaginari intorno al più celebre colossal italiano

Due giorni di studi presso l’aula magna della Cavallerizza Reale in via Verdi 9

 

111 anni è l’età che ha festeggiato il primo colossal della storia, “Cabiria”, girato da Giovanni Pastrone e uscito nelle sale nel 1914, su soggetto di Gabriele D’Annunzio. Ancora oggi esercita un sorprendente fascino sugli amanti del mondo del cinema. Giovedì 6 e venerdì 7 febbraio prossimi, presso l’aula magna della Cavallerizza Reale, in via Verdi 9, si terrà il convegno di studi “Cabiria Atlas”, percorsi transdisciplinari tra immagini e immaginario intorno e oltre Cabiria, promosso dall’Università di Torino nell’ambito del progetto “Living Cabiria”, sviluppato all’interno dello Spoke 2 Creativity and Intangible Cultural Heritage nel partenariato esteso PE5 Changes-PNR, che affronta il film di Pastrone come un case study privilegiato per la valorizzazione del patrimonio culturale audiovisivo attraverso un approccio transdisciplinare e l’utilizzo di tecnologie innovative. Il convegno è curato da Giulia Carluccio e Silvia Alovisio, organizzato con il contributo di UniVerso, in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema di Torino e con il patrocinio della Consulta Universitaria del Cinema. L’iniziativa vuole rilanciare lo studio degli immaginari evocati da Cabiria, l’opera più celebre e influente del primo cinema italiano. L’evento vedrà la partecipazione di oltre 50 studiosi internazionali provenienti da discipline differenti, tra cui, oltre al cinema, storia, archeologia, architettura, estetica, cultura visuale ed etnoantropologia, rendendo l’incontro un momento di particolare interesse per la comunità accademica e per tutti gli appassionati. Due giorni di studi e approfondimenti culmineranno, dalle 20.30, nelle sale del Cinema Massimo, con proiezione a ingresso libero e gratuito. Il convegno prevede due proiezioni cinematografiche, entrambe a ingresso gratuito, presso il Cinema Massimo. La prima è “Occhi che videro”, un incontro toccante con la fondatrice del Museo Maria Adriana Prolo e le sue collezioni, realizzato dal grande documentarista Daniele Segre; venerdì 7 verrà proposta la proiezione di “Italia, il fuoco, la cenere” di Olivier Bohler e Céline Gaileurd, un poetico viaggio lungo trent’anni di Cinema muto italiano. Cabiria costituisce uno dei più importanti film della storia del cinema, e la sua lezione è stata determinante per lo sviluppo della settima arte a livello internazionale. Da decenni è oggetto di ricerche approfondite che ne hanno esaminato le molteplici componenti, dal gigantismo scenografico alla recitazione, dagli effetti speciali innovativi alla mobilità del punto di vista con l’invenzione del carrello, dall’uso coreografico delle folle al ruolo della parola dannunziana, fino alla sua ricezione critica e culturale. L’obiettivo del convegno è quello di esplorare nuove prospettive concentrandosi sugli immagini ari che hanno influenzato Cabiria e che il film stesso ha contribuito a generare. L’evento intende proporre un’analisi che si sviluppa in un’ottica aperta e trasversale, considerando Cabiria come un atlante di immagini in grado di evocare temporalità stratificate e interazioni culturali molteplici, e di generare nuove visioni, ancora inesplorate. Il film di Pastrone sarà così analizzato come un sistema dinamico di influenze, riconfigurazioni e rielaborazioni culturali, la cui vitalità continua a risuonare nel tempo presente. Si tratta di un approccio che invita a superare i confini tradizionali della ricerca accademica, promuovendo un’immagine innovativa sull’eredità visiva e culturale del film. Quando lo scorso ottobre il regista Martin Scorsese è stato ospitato a Torino, è rimasto affascinato dal mondo della riproduzione del Moloch, presente proprio nel capolavoro di Pastrone e collocato nell’Aula del Tempio della Mole Antonelliana, dimostrazione che Cabiria è amato anche dai grandi registi internazionali.

 

Mara Martellotta

Da sabato 8 febbraio al via il cartellone 2025 del Teatro della Caduta

 

Teatro, musica e stand up comedy si alterneranno richiamando la tradizione del varietà della caduta (2004-2017), l’esperienza artistica che, ispirandosi all’avanspettacolo e al cabaret di inizio Novecento, ha reso famoso il teatro della Caduta, diventando un trampolino di lancio per centinaia di artisti italiani e stranieri.

Ed è proprio a tre artisti di rilievo nazionale che viene affidata la direzione artistica 2025. Saranno Marco Bianchini, attore, narratore e docente, e Alessandro Balestrieri, attore e musicista emergente, cui si aggiunge Amedeo Cicchese, primo violoncello del teatro Regio di Torino.

Il cartellone 2025 spazierà dal teatro alla musica fino alla stand up comedy, unendo così la tradizione artistica con forme di intrattenimento sempre più apprezzate dal pubblico. Ancora una volta, come da tradizione, il Teatro della Caduta darà spazio e voce a giovani artisti che porteranno in scena spettacoli popolari che, anche nel dramma, riescono a provocare un a risata e alcune riflessioni sulla contemporaneità.

L’8 febbraio alle ore 19 andrà in scena la spettacolo ‘De Amoribus’ con Paola Omodeo Zorini, un’indagine sulle origini mitologiche e passionali dell’amore.

Il 4 aprile alle ore 19 sarà la volta di Alessandro Balestrieri, con ‘Shakespeare killer the radio stars’, un one man show che porterà in scena uno Shakespeare rock star, un cantore di storie senza tempo.

II 17 maggio, alle 19, in occasione della Giornata Mondiale contro l’Omofobia, la Transfobia e la Bifobia, in collaborazione con il circolo Arci Maurice, Marco Bianchini vestirà i panni di Oscar Wilde e, ripercorrendo i momenti salienti della relazione tra il celebre scrittore e il giovane lord Alfred Douglas, farà immergere gli spettatori nel De profundis con lo spettacolo ‘Into the Wild’.

Il 29 maggio, alle ore 21, Nicola Lorusso e Giulio Macrì presenteranno il racconto di due anime disperse nel silenzio, alla disperata ricerca della propria identità, selezionato dal premio Direction under 30 2024. Nel cartellone figura anche un titolo internazionale con la presenza della compagnia belga Mon Coeur de Bois, che porterà il 12 aprile alle ore 19 sul palco del Teatro della caduta, uno spettacolo di marionette per un pubblico adulto, intitolato ‘Isotta’, vincitore del Premio nazionale di poesia ”Ascoltando il silenzio del mare” di Portoferraio, del Premio Experimenta 2019 come miglior spettacolo.

Per ulteriori informazioni www.teatrodellacaduta.org

 

Mara Martellotta

Ring of Love-a glamour rock dance show, in scena alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani

“L’amore non ha riguardi nelle sue scelte…l’amore piomba su quelli che sono indifesi”: la canzone Soul Love di David Bowie apre lo spettacolo Ring of Love, in scena venerdì 7 febbraio alle ore 20.45 alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino. Il titolo gioca sul doppio significato di ring, come l’anello di un fidanzamento ma anche come luogo degli scontri d’amore che hanno esiti diversi e quasi sempre imprevedibili. Un ring per 8 round di incontri e scontri. Senza esclusione di colpi l’amore sconvolge le carte e le regole sfidando le anime ad un confronto a volte feroce, a volte lirico e a volte indicibile. Una danza di corpo e viscere per rappresentare un delirio misterioso che riempie e sconvolge la vita.

 Lo spettacolo è una potente riflessione sull’intimità e le relazioni umane ed esplora le infinite sfumature dell’amore attraverso danza e musica per rispondere alla domanda: Cos’è davvero l’amore? Il coreografo Raphael Bianco porta in scena quello che definisce un glamour rock dance show, uno spettacolo multimediale con musica e canto dal vivo nel quale rivivono i grandi nomi della musica rock con i loro  capolavori dedicati all’amore in tutte le sue forme: dal glamour di David Bowie e Bryan Ferry al punk di Talking Heads e The Stooges sino all’elettronico di Depeche Mode e Radiohead.

La Compagnia EgriBiancoDanza diretta da Susanna Egri e Raphael Bianco nasce a Torino nel 1999. La Compagnia eredita l’esperienza più che trentennale della precedente Compagnia “I Balletti di Susanna Egri“. Si distingue, per un repertorio di opere dense di valori sociali e spirituali firmate da Raphael Bianco e coreografi del panorama artistico italiano e internazionale. La Compagnia EgriBiancoDanza incarna alcuni dei caratteri distintivi della Fondazione Egri per la Danza: curiosità, radici e innovazione, ricerca e condivisione. Valori che sono richiesti a tutti gli artisti della Compagnia. EgriBiancoDanza che si compone di danzatori stabili provenienti da esperienze professionali di alto livello e possiede un solido repertorio: dalle performance teatrali, alle installazioni e lavori site specific.

 

Mara Martellotta

 

 

La Corale più antica d’Italia, l’Accademia Stefano Tempia di Torino, celebra i suoi 150 anni

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Il programma concertistico del 2025

 

L’Accademia Stefano Tempia, la Corale più antica d’Italia, celebra i suoi 150 anni. Nata nel 1875 risulta la più antica associazione musicale piemontese, nonché la prima accademia corale nata in Italia. Il programma della stagione vuole essere un tributo al passato, ma anche un viaggio nel presente e nel futuro della musica.

Dagli omaggi a Stefano Tempia, con l’esecuzione di opere custodite dal Fondo Tempia del Conservatorio, eseguite per la prima volta in epoca moderna, alle performance che combinano musica e danza con la tecnologia del live coding, celebrando il connubio tra voci cameristiche e strumenti antichi con l’impiego di strumenti poco conosciuti, o ancora esplorando l’incontro tra jazz e liturgia, tra musica e cinema, con il concerto dedicato alle colonne sonore di Peter Greenway.

Tra gli interpreti figurano tanti giovani talenti affiancati da nomi di fama internazionale quali Francesco Manara, primo violino dell’Orchestra Filarmonica della Scala con il direttore d’Orchestra Ungherese Gyorgy G. Ráth, Armando Barilli, prima viola del teatro Regio di Torino con il mezzosoprano Lucia Cirillo e il pianista Andrea Rebaudengo, Davide Cava, giovane e talentuoso pianista, considerato uno dei più promettenti della sua generazione, il Quintetto Architorti, guidato da Marco Robino, il trombettista jazz Fulvio Chiara, il coro francese Region Sud, diretto dal maestro Michel Piquemal e l’orchestra Melod Filarmonica. In prima linea anche il Coro dell’Accademia Stefano Tempia che, da 150 anni, con la partecipazione a numerosi eventi, non ha mai smesso di diffondere l’intuizione di Stefano Tempia attraverso il tempo, spaziando dalle composizioni dell’antichità fino alle opere contemporanee.

La Stefano Tempia – spiega il presidente dell’Accademia Corale, Isabella Oderda, prima donna a ricoprire questo ruolo nella storia della Tempia- si distingue per la sua missione di educare alla conoscenza del canto corale e alla passione per la musica colta in tutte le sue forme. Per vocazione questa istituzione si spinge a esplorare territori meno frequentati, proponendo opere e brani poco eseguiti o poco noti, spaziando da grandi autori della tradizione a composizioni contemporanee e arrangiamenti che dialogano con linguaggi musicali trasversali e innovativi.

Accanto all’organizzazione e alla programmazione di una stagione musicale che si svolge in prestigiose sedi a Torino, ma anche altrove sul territorio piemontese come al castello di Pralormo, l’associazione partecipa a festival e iniziative musicali in tutta la regione. Tra i progetti in atto “Narrazioni parallele”, che assembla musica classica e musica elettronica, rappresentate da Davide Boosta, Dileo, Filarmonica TRT e Accademia Corale Stefano Tempia, portando la musica in luoghi non convenzionali e coinvolgendo giovani compositori e compositrici under 35”.

Il concerto di apertura sarà domenica 16 febbraio al Conservatorio di Torino. Si intitola “Eterno Ludwig Van” e segna l’inizio della stagione concertistica dell’Accademia, con un omaggio corale alla forza universale del grande maestro di Bonn. Protagonisti Francesco Manara e Georgy Ráth, direttore d’orchestra di fama internazionale, più volte ospite delle stagioni RAI, accompagnati dall’Orchestra Melos Filarmonica. In programma due capolavori assoluti di Ludwig Van Beethoven, il Concerto per violino op.61, uno dei pilastri del repertorio violinistico, celebre per il suo lirismo e la sua complessità tecnica e la Sinfonia n. 5, una delle opere più iconiche della musica classica.

Seguirà poi, tra gli altri appuntamenti, lunedì 10 marzo, all’Oratorio San Filippo, “Intime risonanze” che conduce tra le pieghe più profonde dell’animo umano con un programma incentrato sulla musica romantica in veste coloristica, di Johannes Brahms, Robert Schumann, Richard Strauss, Charles Martin Loeffler, con Armando Barilli, prima viola dell’Orchestra del teatro Regio di Torino, Lucia Cirillo, mezzosoprano di fama internazionale e il pianista Andrea Rebaudengo, noto per la sua versatilità e sensibilità interpretative.

L’omaggio a Stefano Tempia verrà tributato lunedì 31 marzo al teatro Vittoria di Torino. Violinista, compositore e direttore d’orchestra, Stefano Tempia rappresentò una figura centrale per la cultura musicale torinese di fine Ottocento, dedicando gran parte della sua carriera alla valorizzazione del patrimonio classico e allo sviluppo della tradizione musicale corale. Il programma musicale proporrà una selezione di opere capaci di evidenziare il talento di Lucia Caputo e del pianista Matteo Borsarelli, apprezzato per la sua tecnica espressiva raffinata e profonda.

Mara Martellotta

Pagine di Omero che guardano al mondo di oggi

Sugli schermi “Itaca – Il ritorno” di Ubaldo Pasolini

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Un film che è la prova provata di quanto faccia bene di tanto in tanto la rilettura dei classici e di come quella classicità, guardata con occhi moderni e con quella quotidianità di stragi e sangue che vediamo e leggiamo, sia in grado di insegnarci ancora molto. Chi vedrà “Itaca – Il ritorno”, che Uberto Pasolini ha scritto e diretto con indubbia padronanza di dialoghi e d’immagini e di spirito – e scritto con l’aiuto di Edward Bond, scomparso lo scorso anno, già sceneggiatore di “Blow up” e teatrale autore di quei “War Plays” che acutamente Luca Ronconi mise in scena a Torino nel 2006, in tempo di Olimpiadi – dovrà inevitabilmente guardare alle pagine di Omero ma tenere ben sorvegliato quanto in filigrana passi dalle parole del protagonista e di chi gli sta intorno, dalla crudeltà e dal sangue che abbondante, nelle acque come mescolato e intriso nella terra della “petrosa” isola, dalla infelicità che può coabitare con quello stesso ritorno a casa, la sepoltura di ogni valore morale, la tristezza che può generare il ricordo della guerra, l’incapacità di riportare i propri uomini alle famiglie, il riandare con il ricordo ad una moglie e un figlio abbandonati. Chi vedrà “Itaca” dovrà anche cancellare gli esempi di Kirk Douglas e del televisivo Bekim Fehmiu per guardare all’Odisseo di Fiennes ombroso e piagato e battuto e stanco, non più campione d’astuzia capace di trascinare un cavallo di legno dentro le mura di Troia, modernamente riflessivo e piegato sul panorama di distruzione e di solitudine che si è lasciato alle spalle.

A Pasolini – mentre noi aspettiamo che Christopher Nolan ci dia nel prossimo futuro il suo Odisseo che già immaginiamo in tutt’altra grandezza – non interessano i tanti episodi che hanno cavalcato il “nostos” del protagonista, Polifemo e i Feaci, i Lestrigoni e Nausicaa, Circe e le sirene e il regno dell’Ade, in un terribile infrangersi di onde lascia approdare il suo uomo, in tutta le sua nudità (ne deriva nella storia il giusto peso del corpo e dei corpi), accolto dall’umanità e dalla saggezza del porcaro Eumeo (Claudio Santamaria), riconosciuto dal solo suo cane, il desiderio e la necessità d’avvicinarsi a quella corte dove i Proci da tempo si sono insediati in tutta la loro arroganza, dove un figlio (Charlie Plummer, che dovrebbe sprizzare ben altro vigore) non è all’altezza di fronteggiare la situazione preferendo allontanarsene, dove la moglie Penelope temporeggia alle richieste di matrimonio e tesse di giorno una tela, che forse sarà un sudario, per disfarla la notte, ultima a riconoscere il proprio sposo dopo che è stata sufficiente una sola cicatrice a mettere sulla buona strada la vecchia nutrice (Angela Molina). Ancora in quella casa, che dovrebbe essere soltanto ospitalità con un grande fuoco acceso, c’è la realtà della guerra che entra quindi ineluttabile, la sua necessità, la sfida di Odisseo e le dodici asce e il tiro con l’arco che dà inizio alla carneficina. Soltanto corpi inanimati e ancora sangue nell’attimo che precede un finale fatto di rassegnazione, di desiderio di dimenticare e di una vecchiaia che accomuna, con Penelope atteggiata alla Sonia di “Zio Vanja”, cecovianamente, sempre posticipando i tempi. L’intuizione dantesca lasciava già settecento anni fa guardare al rimpianto e alla svolta e al gran finale, al termine di un’esistenza ormai pienamente appagata, alla resurrezione che poneva l’Uomo ad inseguire “virtute e canoscenza”, caparbiamente.

Dialoghi mai banali, una tessitura encomiabile di sguardi e di conseguenze e d’azione, una forza visiva che non può non colpire lo spettatore, una scrittura che alterna il pieno panorama della natura e gli spazi angusti della casa, la libertà di sovrapporsi con grande rispetto alla pagina scritta, la secchezza del racconto, i messaggi che ne derivano, tutto concorre a fare di “Itaca” un’opera veramente compiuta, pienamente apprezzabile. Sincera, soprattutto. Merito altresì dell’interpretazione di Juliette Binoche, non solo più in fervida attesa, immagine di pazienza, ma attraversata giustamente da lampi di rabbia, e soprattutto di Ralph Fiennes (con un eccellente trucco e parrucco) che ha perso ogni traccia di epico e vive il suo Odisseo in maniera dolente e in ogni attimo conscio appieno della disperazione del suo ritorno. Con uno sguardo che attraversa ogni tempo e ogni spazio e ce lo pone davanti, ancora davanti a noi uomini di oggi, abitanti ciechi e incorreggibili di questo “atomo opaco del Male”.