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Ricordi del Primo maggio di tanto tempo fa

COSA SUCCEDEVA IN CITTA’ / Oramai, per me il primo Maggio è un lontano ricordo. Ricordi belli, bellissimi. Sono quattro o cinque anni che non partecipo al corteo di Torino. Il ciarpame anarcoide e gruppettaro la faceva da padrone. Insopportabile. Si presentavano con caschi, manganelli ed altra mercanzia per cacciare quelli del PD a loro dire non degni di sfilare. La polizia glielo impediva. So perfettamente che la mia risposta individuale è al limite del puerile. Con questo rifiuto voglio non sporcare i bei ricordi. Come nel 1975. Libertà e gioia.

I piccoli ( in tutti sensi ) vietnamiti cacciavano i giganti Usa. 1 maggio, a Saigon stanno sfilando i Vietcong. A Torino una gigantesca bandiera vietnamita apriva il corteo dei giovani comunisti. Portata ai lati da fierissimi ragazzi e ragazze. Il copione prestabiliva una sorta di riallineamento all’ inizio di via Roma per poter entrare correndo in Piazza San Carlo. Il rituale comportava gli applausi di chi assiepava i lati di via Roma. Tantissima gente contenta e raggiante.

Sulla sinistra all’ angolo con piazza Castello, come sempre gli zii paterni che avevano raccolto il testimone dei nonni. Il corteo faceva fatica a farsi spazio. Dovemmo aiutare chi portava la bandiera diventata troppo pesante interamente coperta dai garofani. Ci si sentiva in pezzo di Storia, magari non era vero, personalmente mi piace pensarlo ancora ora. Poi l’entrata “trionfale” in piazza San Carlo. Tanta gioia. La giornata non finiva qui. Classico appuntamento davanti al Caffè Torino, due chiacchiere , il tempo di organizzare i posti nelle autovetture e poi via verso le Langhe, meta del pranzo del 1 Maggio. Altro appuntamento classico. Antipasto misto alla piemontese con quel vitello tonnato semplicemente indimenticabile. Vino mesciato da bottiglie che avranno avuto 50 anni. Vino rigorosamente rosso in bottiglie col vetro spessissimo. L’ oste garantiva sempre sulla sua genuinità: “L’ho imbottigliato io ed arriva dalle uve del cugino”. La famiglia era un certificato di garanzia. Barbera a go-go. Sempre tranne che a Clavesana. Lì la faceva da padrone il dolcetto. Spessissimo con quel retrogusto aspro e dolce al tempo stesso. E poi le acciughe al verde che sono tra i 10 piatti più buoni del mondo. Magari la pizza ha sempre il primo posto, ma si aggiudicano il secondo posto incontrastate. A Clavesana dove al ristorante La Posta si abbinava il’ottimo mangiare con una vista spettacolare sulle colline. La vecchia topia che riparava dal sole. Si arrivava alle 14 tirando tardi e continuando con la merenda sinoira. Tanto tempo fa. Tempo rimpianto dove la nostalgia dominava, come il vino del resto. Il colore del ricordo, il sapore del ricordo. Morbidamente e senza rabbia, consapevoli ed orgogliosi delle nostre idee ma non violenti nell’imporle. Violenza equivale a sopraffazione. Nel corteo e nelle mangiate tanta rilassatezza e gaiezza. Appunto, altri tempi. . Il valore della Festa del Lavoro è evidente a tutti. Durante la dittatura fascista non  c’era ed è diventata un’ icona di tutte le democrazie. Anche qui cerchiamo di far diventare questa crisi epocale una occasione e non solo una immane tragedia. Difficile e forse improbabile, ma possibile. Buon 1 Maggio a tutti.

Patrizio Tosetto

Gli effetti del lockdown sulle abitudini alimentari

Il punto di vista / Le interviste di Maria La Barbera

La Dottoressa Elisabetta Gatti, medico dietologo, ci parla di nutrizione al tempo del Covid.

Il virus ha cambiato definitivamente la nostra vita. Questa imprevista e duratura pandemia ha stravolto le abitudini quotidiane portando con sé un cambio di paradigma che per molti aspetti sarà irreversibile. L’isolamento forzato, per esempio, ha prodotto un notevole incremento delle postazioni lavorative da remoto, smart working, viste le innegabili abilità della tecnologia, come l’interconnessione e l’elevato potenziale produttivo, ma grazie anche ad una nuova ed imperante “cultura manageriale” fondata sugli obiettivi e sulla formazione piuttosto che su rigidi orari di lavoro. La Dottoressa Elisabetta Gatti, medico dietologo a Torino, ci spiega come questa modalità di lavoro flessibile, fondata sull’autonomia di gestione e sulla responsabilità personale, ha cambiato anche le abitudini alimentari delle persone, a volte affinandole ma più spesso creando delle disfunzioni . “Da una parte”, spiega infatti la Dr.ssa Gatti, “e purtroppo in percentuale minore, troviamo chi ha approfittato di questa situazione per migliorare la qualità della propria alimentazione dedicando più tempo all’acquisto di prodotti freschi e alla cucina sana e casalinga, dall’altra, sfortunatamente in quantità maggiore, il consumo dei pasti principali, in presenza, a casa ha creato o peggiorato alcune abitudini scorrette”.
Tra le “cattive” pratiche alimentari, in questo periodo pandemico, si registra per esempio l’aumento del consumo di prodotti conservati e processati (cibo industriale contenente additivi, preparati attraverso cotture con oli di scarsa qualità o grassi saturi, saccarosio, fruttosio e sodio), l’incremento della vendita di bibite gassate, l’intensificazione dello spilluzzicamento di snack confezionati sia dolci che salati. Al di là di alcune positive e riconosciute prerogative collegate al lavoro da remoto, ci sono indubbiamente diverse conseguenze negative che l’isolamento socio-professionale sta arrecando alla popolazione. La tensione, l’inquietudine, la pigrizia ma anche la trascuratezza, infatti, stanno causando problematiche di natura differente tra cui comportamenti alimentari nocivi come l’emotional eating (fame emotiva) che porta gli individui a mangiare in modo incontrollato e ipercalorico. La chiusura delle palestre e la ridotta possibilità di fare attività motoria e sport ha diminuito, inoltre, il consumo calorico giornaliero provocando aumento di peso, ritenzione idrica e problemi più seri come danni alle ossa, alla circolazione e la comparsa o l’aggravamento del diabete. Cattive abitudini alimentari, poca attività fisica e debilitazione del sistema psicologico-emotivo, che spesso sfocia in vere e proprie depressioni, possono portare le difese immunitarie ad un livello basso con diverse conseguenze sul nostro organismo. Ma vediamo come proteggerci da consuetudini e pratiche poco salutari attraverso alcuni semplici accorgimenti e una condotta alimentare regolare.

3 domande alla dottoressa Elisabetta Gatti

Dr.ssa Gatti quali sono le abitudini alimentari corrette da ristabilire per mantenere una buona condizione fisica e mantenerci in salute quando si lavora da casa?
E’ necessario partire dalla spesa, abituarsi quindi ad acquistare prodotti freschi e di qualità, se invece non si riesce sempre ad andare al mercato si può ricorrere anche ai surgelati, ma l’essenziale è che non siano precotti. In secondo luogo è importante il tempo che dedichiamo ai pasti, soprattutto alla colazione che, oltre a dover contenere i nutrienti che diano l’energia per buona parte della giornata, deve essere consumata lontano dal computer o dal cellulare e senza fretta, magari ci si può alzare un po’ prima e farla comodamente seduti. Inoltre è consigliabile seguire la regola dei 3 pasti al giorno, contenenti carboidrati, proteine e grassi nelle giuste dosi, e dei 2 spuntini evitando sicuramente quelli confezionati ma prediligendo al contrario frutta fresca, frutta secca come noci e mandorle, oppure uno yogurt. Infine è indispensabile bere molta acqua, ancora meglio se povera di sodio.

Come possiamo gestire il lavoro da remoto senza che questo diventi totalizzante e ci porti ad una vita eccessivamente sedentaria e relegata davanti ad uno schermo?E’ importante alzarsi spesso, fare delle pause e se possibile anche delle passeggiate all’aria aperta. Quando siamo in ufficio, sul posto di lavoro, ci spostiamo, interagiamo con i colleghi, alterniamo il tempo passato alla nostra postazione con brevi attività fisiche e sociali, è necessario intervallare il nostro tempo lavorativo con esercizi e scambi interpersonali anche quando lavoriamo da casa.

Quali sono gli alimenti migliori da consumare quando si è in smart working?

La Dieta Mediterranea, riconosciuta in tutto il mondo, è perfetta per alimentarci correttamente ma anche per difenderci e mantenerci in forma. In questo momento delicato e complesso sarebbe opportuno mangiare cibi ricchi di nutrimento utili per il nostro sistema immunitario come il merluzzo, l’aringa, il salmone, il latte, le uova e i funghi che contengono la vitamina D, legumi, cereali integrali, semi di zucca contenenti lo zinco, agrumi e kiwi ricchi di vitamina C e per dare il giusto apporto di magnesio, modulatore dell’umore e miorilassante naturale, anche un quadratino cioccolato fondente al giorno. E’ molto importante che, in un regime di attività lavorativa poco dinamico, si trovi la voglia e il tempo per alimentarsi nella giusta maniera, evitando il cibo processato ma anche ridimensionando le porzioni. Gli obesi in Italia sono 5 milioni, le persone in sovrappeso 18 milioni e in queste condizioni la possibilità di ammalarsi di Covid aumenta del 50%.
Come diceva Ippocrate “Fai che il cibo sia la tua medicina”.

 

Al via la terza sessione della IV edizione di Polis Policy

E’  dedicata al tema del lavoro, tra WelfareState e Welfare Community

 

Al via la terza sessione della IV edizione dell’Accademia di Alta Formazione Polis Policy, dedicata in questo anno di pandemia al tema più  che mai attuale di “Ripartire dalla persona: solo il lavoro salverà l’Italia “.

La terza sessione si terrà sabato 20 marzo prossimo e sarà incentrata sulla tematica “Il lavoro tra Welfare State e Welfare Community”. Come sempre l’appuntamento si articolerà in una parte dal titolo ‘Vision’, che costituisce il dibattito vero e proprio,in cui interverranno Tito Boeri, Professore Ordinario di Economia all’Università Bocconi di Milano, e Anna Maria Poggi, Professoressa presso l’Università degli Studi di Torino e componente del Comitato Scientifico di Polis Policy. Dopo questa prima sezione, che si svilupperà dalle 11.15 alle 12.40, la seconda parte, denominata ‘Another Vision’, si protrarrà dalle 14.30 alle 16, e sarà come sempre contraddistinta da un nuovo intervento/dibattito, questa volta tenuto dall’economista  Stefano Zamagni, Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. In conclusione la sezione intitolata “Another vision”, cui prenderà parte don Andrea Bonsignori, educatore e autore del libro “Il coraggio di essere uguali”.

Polis Policy è un’Accademia di Alta Formazione, una scuola dedicata ai cittadini che desiderino impegnarsi nella “cosa pubblica”, fondata sull’assunto che, soltanto attraverso i valori dell’approfondimento e dell’analisi, si possa supportare la persona nello sviluppo di una consapevolezza, anche critica, oggi più che mai indispensabile, come parte della collettività e della società.

Mara Martellotta 

Informazioni

segreteria@difendiamoilfuturo.it

Tel 01119373401

Nella città della pandemia dov’è finito l’uomo?

Deserto e desertificazione. Due termini che costituiscono, secondo me, un binomio purtroppo strettamente attuale in un mondo come quello in cui al giorno d’oggi, quotidianamente, ci troviamo a vivere, in particolar modo durante questo terzo lockdown, esteso a livello nazionale. I due sostantivi, che non sono sinonimi, paiono assomigliarsi.

L’uno indica, però, un paesaggio naturale dal quale l’uomo (i turisti soprattutto) risultano per lo più attratti per il fascino delle sue distese e delle sue dune, che paiono suggerire l’idea di spazi infiniti; il secondo vocabolo indica, invece, un processo di graduale trasformazione in deserto di aree semiaride, a causa di periodi prolungati di siccità e, spesso, anche di un incontrollato sfruttamento dell’humus per fini agricoli.

Questa definizione richiama la metafora della desertificazione delle città attuali, in tempi di lockdown,  dovuta al Covid e contiene, già in se stessa, tutta l’aridità spirituale e quella componente malinconica, che suggerisce anche solo la vista di piazze deserte, in cui la risultante umana non pare più esserne parte integrante. Di fronte alla visione di alcuni spaccati esterni urbani in tempo di lockdown sorge spontanea la domanda “Ma dove è finito l’uomo?”. Questa interrogazione non nasce, invece, di fronte alla visione del deserto,  poiché qui la mancanza della componente umana e arborea ne rappresenta una caratteristica peculiare. Il deserto può, infatti, metaforicamente essere abitato quale luogo dell’anima. Una città desertificata, invece, non potrà mai trasformarsi in un luogo dell’anima, perché è priva di qualsiasi componente spirituale. Abitare il deserto è possibile perché, metaforicamente, l’espressione indica l’atto del congedarsi, in modo temporaneo, dal mondo per vivere un’esperienza di raccoglimento in se stessi, alla scoperta degli aspetti essenziali della vita. In un’epoca in cui dominano linguaggi omologanti, abitare metaforicamente il deserto, già in tempi pre Covid, ma ancor più in epoca di Covid, può diventare un prezioso esercizio per prendere temporaneamente congedo dal mondo e riflettere in se stessi, ascoltare la voce del cuore e riattivare quegli occhi interiori, che risultano i soli davvero capaci di cogliere l’invisibile e la forma originaria del mondo. Soltanto allora, attraverso questo procedimento, potremo compiere un percorso che ci renderà in grado di scandagliare la parte più  profonda della nostra anima e ci condurrà a riscoprire una nuova umanità, tanto più preziosa in questi tempi di forzato distanziamento fisico. E con occhi e anima nuovi anche le piazze di una città, privata della presenza abituale dell’uomo, ci appariranno in una luce rinnovata e meno angosciante, aperte alla prospettiva di raccogliere l’umanità, in un futuro non troppo lontano.

Mara Martellotta

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I colori al tempo del Covid

Il bianco e il nero sono spesso stati definiti dagli artisti come “non colori”, in quanto il primo viene dato dalla somma di tutti i colori e il secondo, il nero, invece, dall’assenza di tutti i colori.

Potrebbe sembrare banale pensare al bianco e al nero oggi ma, in tempo di pandemia da Coronavirus, la realtà a molte persone non appare più frastagliata in tutta la cromaticità di prima, poiché ne è stata via via privata da profondi cambiamenti, che sono stati sia esterni all’individuo, sia interiori, provocati da un fatto così epocale, come quello dell’emergenza sanitaria comparsa più di un anno fa. Se la realtà a moltissime persone non appare, così, più a colori, potrebbe allora sembrare forse in bianco e nero. Questa osservazione, però, risulta contraddetta dalla bellezza del bianco e nero, da sempre scelti dalla fotografia d’autore. La TV stessa era nata, in origine, in bianco e nero, e diversi grandi fotografi contemporanei, quali Berengo Gardin, nonostante oggi esista il colore, continuano  a utilizzare il bianco e nero, attribuendo a questi “la capacità di rafforzare il senso e la comunicatività dell’immagine”. Sinceramente ritengo che oggi la realtà che stiamo quotidianamente vivendo non sia tanto percepita in una tonalità in bianco e nero, perché allora verrebbe anche a conoscere uno spazio lasciato libero all’immaginazione, ma neanche venga colta a colori; piuttosto viene, secondo me, dai più percepita nei toni del grigio. Questo è un colore  che, come tutti gli altri, racchiude molteplici significati, tra i quali anche quello della neutralità e dell’impersonalità. Possiede in se stesso un lato di luce e uno di tenebra, di ombra, e viene spesso associato alla senilità e al sentimento di tristezza che, credo, sia quello che spesso si accompagna in questo tempo di pandemia, che potrebbe anche essere ben definito di “sospensione”. Il grigio, considerato nel Medio Evo come colore opposto al nero e quindi portatore di benefici e espressione di positività, può, comunque, mutare significato a seconda del punto di vista da cui viene osservato, per esempio nel caso in cui lo si colga come un colore capace di indicare un punto di osservazione e di sosta, di valutazione del mondo circostante. Forse proprio questa potrebbe essere la prospettiva a partire dalla quale ci si potrebbe porre in una quotidianità non certo facile, anzi, a tratti, per alcune persone, tale da porre ostacoli che paiono insuperabili. Sarebbe auspicabile riuscire a fare di questa visione del mondo, attraverso una tonalità grigia, un punto di partenza per riflettere sull’attuale condizione di vita, sulle nuove realtà che si sono create nei rapporti interpersonali, in un’epoca di distanziamento fisico forzato, e sulle difficoltà di sopravvivenza di molti individui, per spegnere i condizionamenti che impediscono ancora di aprire i nostri cuori in una prospettiva di nuova solidarietà.

Mara Martellotta 

www.pannunziomagazine.it

 

Depositato il referendum per l’abolizione della caccia

E’  proposto dal Movimento “Ora Rispetto per tutti gli Animali”

In data 19/02/2021, alle ore 10, il Movimento Ora Rispetto per Tutti gli Animali comunica di aver presentato la seconda richiesta di referendum in materia di caccia presso l’Ufficio centrale dei referendum della Suprema Corte di Cassazione, locato in Piazza Cavour a Roma.
L’accettazione del deposito risulta comprovata dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, in data 20 febbraio 2021, (GU Serie Generale n.43 del 20-02-2021)

⦁ L’intento e unico obiettivo del progetto referendario è quello dell’abolizione della caccia. Un’opportunità che va colta immediatamente da parte dei cittadini che, altrimenti, dovrebbero attendere molti anni ancora per potersi esprimere a riguardo dell’abrogazione. Insomma, un’occasione molto importante che non va sprecata.
⦁ Quello appena depositato si configura come il secondo di cinque quesiti referendari, tutti attentamente studiati e vagliati dal nostro ufficio legale
⦁ La presente richiesta di referendum si limita a richiedere l’abrogazione degli articoli legati all’attività venatoria, lasciando intatta la disciplina relativa alla proprietà e la gestione della fauna selvatica in capo allo Stato e alle Regioni (legge n. 157/92)

 

Giancarlo De Salvo Presidente del Movimento:
“Ritengo il deposito di questo referendum un grande successo raggiunto. C’è molto da fare, certo, ma siamo pronti per le prossime tappe. Finalmente, grazie all’impegno di tanti italiani, avremo la possibilità di fermare la caccia. Questo referendum non rappresenta il punto di arrivo ma la partenza di una nuova coscienza imperniata sul rispetto massimo per gli animali. Il nostro non è un intento di voto politico ma una pura salvaguardia nei confronti di tutti gli animali, quindi mi auguro che chi ha cuore questa tematica, a prescindere dalle forze partitiche per cui milita, possa schierarsi al nostro fianco per portare avanti questa battaglia fatta di civiltà e coscienza ambientale”.

 

REFERENDUM per L’ABOLIZIONE della CACCIA proposto dal Movimento “Ora Rispetto per tutti gli Animali”

La decisione non è più rinviabile: il Movimento “Ora Rispetto per tutti gli Animali” propone 5 (cinque) referendum in materia animalista ed ambientale, quale esito conclusivo di un lungo lavoro, protratto per anni, di approfondimento delle problematiche che interessano la tutela di animali e natura e di elaborazione di soluzioni che devono passare inevitabilmente attraverso una chiamata referendaria. Tutti gli elettori saranno chiamati ad esprimere una preferenza su temi che interessano la vita di ognuno di noi e che richiedono un intervento deciso e non più differibile. I tempi sono ormai maturi ed il Movimento Ora Rispetto per tutti gli Animali sarà portavoce della volontà della maggioranza degli italiani.
Dopo decadi di progettazioni e analisi, da parte del Movimento Ora Rispetto per tutti gli Animali, è giunto il momento di agire. I referendum che il Movimento propone, costituiscono una tutela chiara e indifferibile per il mondo animalista rafforzando una coscienza ambientale sempre più pressante e urgente.
Il Mahatma Gandhi era solito pronunciare una frase rimasta celebre e che dovrebbe scuotere le coscienze di ognuno di noi:
“Un pianeta migliore è un sogno che inizia a realizzarsi quando ognuno di noi decide di migliorare sé stesso.”
I referendum costituiscono un’opportunità, una luminosa possibilità, per tentare di cambiare definitivamente, per invertire la rotta che, siamo certi, tutta la società civile accoglierà benevolmente.

 

8 marzo in Barriera: quando la primavera iniziava prima

Cosa succedeva in città / Per noi “ragazzotti di Barriera” la Primavera cominciava dal 1 marzo. Esattamente 20 giorni prima. Febbraio è ancora inverno. Marzo un’ altra cosa. Eravamo impazienti su tutto, anche sulle stagioni. Qualcosa che si avvicina alla libertà di andare come il vento che spazza via tutto. Del resto si sa che Marzo è ventoso. Un vento che non dà fastidio e che porta via anche la puzza di bruciato.

In largo Palermo si fondevano il dolce profumo dei biscotti Wamar con la puzza delle gomme della Ceat. Vento che rende più tersa l’aria. Spazzava via il grigio che ammorbava di notte la città. Torino dove si mischiavano case e Boite di artigiani. Tempi in cui si non si buttava via niente. Dai meccanici ai creatori con l’ immancabile ciabattino, o calzolaio dir si voglia.

Come il pugliese di via Cimarosa, case anni 50. Entravi ed era tutto lì. Dal laboratorio al bancone. Come faceva a non inghiottire i chiodi?  Mistero. Entrando ci accoglieva il rumore di martello. Risuonava, e lui non aveva telefono. Sanno dove trovarmi. Pugliese strano. Ineccepibile il suo dialetto torinese. Inebriato dal profumo del cuoio. E il ricordo si annida nelle narici. Ancestrale, quasi esserci sempre stati. In quegli anni, a Marzo, facevo la mia prima conoscenza con l’8 Marzo. Inizialmente quasi in modo clandestino. Come i fiori che mia madre mi costringeva a portare alla maestra beccandomi del secchione. O mia madre libera per un giorno. Si prendeva il 57 fino in centro. Camera del Lavoro in via  Principe Amedeo e poi pranzo nelle Langhe.

Un rito, una tradizione. Parlava, parlava, parlava con le compagne di un tempo. Lei costretta al silenzio di tutto l’ anno, pantalonaia che lavorava rigorosamente in nero, versando le volontarie. Compagni da una parte e compagne dall’altra: il 68 era ancora lontano. Avrebbe sconfinato tutto, ma proprio tutto. I comunisti uscivano dall’ isolamento non solo politico. Esistenziale e non sol . Molti cinquantenni non capirono più niente innamorandosi di giovani donne affascinate dalla loro rettitudine morale. Ma questa è un’ altra storia. Poi c’è la mia piccola storia dell’8 marzo 1975, sabato,  la manifestazione finisce in piazza Carlo Alberto. Mi siedo vicino a Patrizia responsabile della zona Vanchiglia. Da mesi volevo conoscerla. Una parola tira l’altra. Ah,  sapeste quando mi piaceva ma “tanto non riuscirò mai nel fidanzarmi con Lei”. Mi sbagliavo. Un 8 marzo tra ricordi politica e, perché no, di amori. Tutto finisce, anche l’ amore. Rimane però  il ricordo di tanti Marzo tra mia madre libera almeno un giorno in un anno. Tra giovani ed ardenti amori giovanili, tante speranze di allora. E su questo, ammettiamolo, siamo ora decisamente più deboli.

Patrizio Tosetto

Israele riapre con vaccini e tasso Rt uguale a 1

Da domenica 7 marzo Israele riapre quasi tutto, comprese le scuole di ogni ordine e grado ( ricordo che la giornata festiva per Israele è il sabato). Tutti ora parlano di Israele come di un esempio per l’uscita dalla pandemia da Covid 19, ma si sente poco di veramente approfondito sul tema.

Per studio e lavoro leggo on line ogni giorno due quotidiani israeliani ( Haaretz e Jerusalem post ) e vorrei rendermi utile facendo circolare notizie un po’ più precise ,così da far sì il dibattito in Italia sia un po’ meno superficiale.

Allora vediamo: Un elenco parziale delle riaperture in Israele include ,oltre all’istruzione per tutti i gradi presso la maggior parte delle scuole, pranzi all’aperto in bar e ristoranti e per gli avventori con un “badge verde” ( i vaccinati o guariti hanno una app che lo certifica) anche al chiuso. Riaprono anche hotel, sale per eventi e centri congressi. Saranno consentite riunioni fino a 20 persone all’interno e 50 all’aperto, comprese esibizioni dal vivo per i partecipanti con il “badge verde”. Saranno anche consentite le manifestazioni elettorali ( Israele va verso le elezioni parlamentari il 23 marzo per eleggere i 120 membri della Knesset. )  con un massimo di 300 al chiuso e 500 persone all’aperto, per i pazienti COVID-19 vaccinati e guariti.
I tassi di test positivi sul totale non sono molto più bassi che in Italia , erano scesi al 5,2% il 1 ° marzo, dal 9,9% del mese precedente. L’indice RT resta attorno a 1.
Però Il governo ha buone ragioni per agire come ha fatto , spiegano gli esperti israeliani: Israele è il paese più vaccinato al mondo, con 4,8 milioni di vaccinati su una popolazione di 9 milioni. Delle persone di età pari o superiore a 50 anni, l’87% è stato vaccinato o ha avuto COVID-19. I ricoveri per Coronavirus sono in forte e costante calo. Chiunque abbia almeno 16 anni è in grado di ricevere il vaccino da diverse settimane.
L’efficacia dei vaccini è stata ripetutamente dimostrata nelle ricerche condotte da organizzazioni sanitarie israeliane e pubblicate sulle principali riviste mediche.
Dunque ,anche se i tassi di positività non sono bassissimi , in alcuni casi addirittura in lieve crescita , e la presenza di diversi ceppi di virus ha sollevato preoccupazioni, gli esperti sanitari affermano che la campagna di vaccinazione del Paese richiede un cambio di prospettiva: Il significato dell’aumento dell’infezione, soprattutto tra i bambini e i giovani, è molto diverso da un uguale aumento tra gli adulti e la popolazione a rischio: “il numero R ha un significato diverso quando si applica a una popolazione con un rischio ridotto di infezione o che si ammala gravemente del virus”, sottolinea Haaretz. E il quotidiano aggiunge :“Israele è a questo punto un pioniere globale in termini di vaccinazione e dei suoi effetti. I nostri alti tassi di inoculazione ci stanno rendendo un banco di prova per quanto e in che misura i paesi possono fare affidamento sulle vaccinazioni come strumento per riavviare l’economia, l’istruzione e la cultura” .
Insomma, l’esempio di Israele, citato da molti commentatori e politici in tanti talk show, mette ancor più in evidenza le nostre inefficienze , a partire dal pasticcio dei vaccini, dalle lentezze burocratiche europee : leggo da alcuni giorni che l’agenza europea del farmaco Ema si riunirà il 13marzo, con calma…Mentre solo ora si sta apprestando un piano per produrre vaccini in siti italiani. Non si poteva pensarlo 4 o 5 mesi fa? Ora saremmo quasi in grado di produrli.
Carenze che hanno portato alla crisi del governo Conte, accusato anche di non essere in grado di fare un adeguato Recovery plan e dare in tempi brevi i ristori. Su questi temi si dovrà valutare il nuovo governo.

Paolo Girola

Isolamento e senso di appartenenza

“Solo adesso che la vedo invecchiare mi accorgo di amare la mia casa… E ricordo dei tempi primordiali, dei paterni nuraghes, quando l’uomo amava la sua casa fino alla morte, e vi si seppelliva per diventare una cosa stessa con le sue pietre.”

Ora che ho qualche anno in più, colgo appieno anch’io il senso delle parole che Grazia Deledda scrisse in un articolo pubblicato sulla rivista La Riviera Ligure nel 1916. Il semiconfinamento prolungato cui sono stato costretto a causa della pandemia ha concorso a rendere più solido tale sentimento di appartenenza. Come sostiene Sandra Petrignani (La scrittrice abita qui, Neri Pozza, 2002): “I viaggi nelle case sono viaggi nelle vite. O forse è il contrario. Ma non importa. Una casa è un destino comunque.”

Paolo Maria Iraldi

L’utopia infranta di Adriano Olivetti 

Di Marco Travaglini / Sessantuno anni fa, il 27 febbraio 1960, durante un viaggio in treno da Milano a Losanna moriva improvvisamente, a causa di una emorragia cerebrale, Adriano Olivetti

La sua scomparsa lasciò orfana della sua guida un’azienda presente su tutti i maggiori mercati internazionali, con oltre 35mila dipendenti, di cui oltre la metà all’estero, e un progetto culturale, sociale e politico di grandissima complessità, dove fabbrica e territorio – in particolare Ivrea e il canevese – erano “indissolubilmente integrati in un disegno comunitario armonico”.

Adriano Olivetti era nato a Ivrea l’11 aprile del 1901, secondogenito di Camillo Olivetti e Luisa Olivetti Revel. Laureato in Ingegneria Chimica industriale al Politecnico di Torino iniziò nel 1924, poco più che ventenne, a lavorare come operaio nella fabbrica di macchine per scrivere fondata dal padre Camillo nel 1908 a Ivrea. Nel 1932 venne nominato Direttore Generale dell’azienda di Ivrea, diventandone il Presidente sei anni dopo, subentrando al padre e guidando con decisione l’Olivetti verso gli obiettivi dell’eccellenza tecnologica, dell’innovazione e dell’apertura verso i mercati internazionali. Una particolare cura venne dedicata al design industriale, al punto da vedersi assegnato, nel 1955, il prestigioso Compasso d’Oro per meriti conseguiti nel campo dell’estetica industriale, e al miglioramento delle condizioni di vita dei dipendenti. Imprenditore, intellettuale e politico, le sue idee innovative per delle riforma sociali in senso comunitario sono ancor oggi attualissime e testimoniano la sua capacità visionaria. Adriano Olivetti fu capace di portare l’ azienda di famiglia a competere alla pari con i giganti del mercato mondiale della sua epoca, trasformando la città “dalle rosse torri” nella capitale dell’informatica, riconosciuta recentemente dall’Unesco nella sua lista del patrimonio mondiale come “Ivreacittà industriale del XX secolo”. Un sogno industriale, quello di Adriano Olivetti, che logicamente mirava al successo e al profitto ma proponeva anche un progetto sociale che implicava una relazione del tutto nuova e compartecipativa tra imprenditore e operai, oltre a un rapporto qualitativamente alto tra quella che era stata la “fabbrica in mattoni rossi” e la città, capoluogo del Canavese. Gran parte della storia intellettuale e sociale dell’esperienza olivettiana che trasformò Ivrea nella “Atene degli anni ‘50” è raccolta nei libri pubblicati dalle Edizioni di Comunità, la casa editrice fondata nel 1946 da Adriano Olivetti.

Tra i tanti c’è anche l’agile e interessante volumetto intitolato “Discorsi per il Natale” che raccoglie tre testi scritti da Adriano per le feste di fine anno, fotografando alcuni dei momenti più importanti della storia della fabbrica di Ivrea. Nel primo discorso, datato 24 dicembre 1949, l’imprenditore racconta i primi anni del dopoguerra per condividere il sollievo e l’orgoglio della compiuta ripresa dell’azienda dopo la difficile esperienza del fascismo e del conflitto mondiale. Nel secondo, sei anni dopo, il 24 dicembre 1955, Adriano Olivetti rievoca proprio quel discorso per ripercorrere i nuovi traguardi della fabbrica, che ha assunto ormai una dimensione internazionale ma non ha mai perso di vista le proprie radici morali, memore degli insegnamenti del fondatore Camillo. E dice, tra le altre cose: “Tutta la mia vita e la mia opera testimoniano anche – io lo spero – la fedeltà a un ammonimento severo che mio padre quando incominciai il mio lavoro ebbe a farmi: “Ricordati” –mi disse– “che la disoccupazione è la malattia mortale della società moderna;perciò ti affido una consegna:devi lottare con ogni mezzo affinché gli operai di questa fabbrica non abbiano a subire il tragico peso dell’ozio forzato, della miseria avvilente che si accompagna alla perdita del lavoro”.

Una grande lezione morale alla quale, nei fatti, accompagnò il suo agire di imprenditore illuminato. Olivetti esprime così la volontà di ringraziare i lavoratori della fabbrica per la loro partecipazione a qualcosa di più grande, a una comune dimensione di riscatto del lavoro che, per usare le stesse parole di Olivetti,“non si esaurisce semplicemente nell’indice dei profitti”. Nell’ultimo discorso della breve raccolta, pronunciato in occasione del Capodanno del 1957, alla vigilia del cinquantenario della fondazione della Olivetti ( nell’ottobre del 1908) l’augurio dell’imprenditore di Ivrea, ormai all’apice del successo, è quello di non perdere mai di vista, nell’anno e negli anni a venire, il senso di giustizia e di solidarietà umana che è alla base di ogni vero progresso e rappresenta il valore più profondo e ultimo di tutta l’esperienza olivettiana. Vi è l’orgoglio per quello che lui stesso definisce “lo spirito della fabbrica” e una potente visione di futuro. Resta, leggendo quelle pagine, il rammarico per ciò che potevano essere l’Olivetti , l’industria italiana e il modello sociale del paese se l’utopia di Adriano Olivetti non si fosse spenta dopo la sua improvvisa e tragica morte in quel sabato di fine febbraio, quando non aveva ancora compiuto sessant’anni.