Di quell’età problematica che è l’adolescenza la 36ma edizione del TFF ha cercato con vari esempi di confrontarsi, di analizzare, di esplorarla attorno ai moduli della solitudine, dell’incomprensione che invade troppi nuclei familiari, della ribellione
Adolescenza è quella del protagonista di All these small moments, che vede attorno a sé una sbiadita figura paterna e una coppia genitoriale che sta prendendo strade diverse; La disparition des lucioles, opera terza del canadese Sébastien Pilote, ci porta la giovanissima Léo che odia la madre che si è fatta un nuovo compagno, che non lega con gli amici, che patisce il clima anonimo della provincia canadese, che manifesta tutta la sua nostalgia per un padre lontano, che cerca un’amicizia che sa di protezione in un musicista con qualche anno più di lei; struggente il rapporto che lega in Marche ou crève della francese Margaux Bonhomme la giovane Elisa piena di vita e alla ricerca delle prime esperienze – che si riveleranno poco felici – a sua sorella Manon, colpita da una grave disabilità, con un padre che si occupa faticosamente di loro ed una madre che ha abbandonato la casa, dopo l’ennesimo rifiuto di ricoverare la figlia in una struttura che con ogni mezzo si prenda cura di quella figlia. E poi il cinema filippino, il nostro Mastandrea e il ragazzino che nel suo Ride deve affrontare il lutto per la morte del padre, ancora l’adolescente di Paul Dano che in Wildlife (forse tra gli esempi migliori) deve pure lui confrontarsi con lo sgretolamento dell’unione dei genitori e far fronte alle diverse ripercussioni, dentro la propria vita, dentro le emozioni, dentro il futuro che lo aspetta.
Un panorama che non ci lascia sperare troppo bene. Incursioni nell’insicurezza, nell’infelicità, nel vivere quotidiano senza sbocchi. Poi qualcuno con grande intelligenza e piacevolissima ironia decide di scrollarsi tutti quei pesi di dosso, di guardare ad un’epoca con un occhio diverso, che faccia appello a quanto di più candidamente “divertente” ci possa essere in quegli anni cruciali. Lo ha fatto, divertendo il pubblico del TFF, con Bad Poems l’ungherese Gàbor Reisz (già vincitore con For Some Inexplicable Reasons del Premio speciale della Giuria e del Premio del Pubblico nel 2014). Il tutto è avviato durante un soggiorno a Parigi, Tamàs viene travolto dalla decisione di Anna di lasciarlo, improvvisamente, senza una spiegazione. Eccolo allora affidarsi ai ricordi, recuperandoli e travolgendoli in un clima surreale che ci fa accettare ogni cosa, la volontà di comprendere perché tutto questo sia successo attraverso uno sberleffo liberatorio. In quel recupero non è solo, saltano fuori come grilli gli altri Tamàs, quello dei 7, degli 11 e dei 17 anni, il padre e la madre, la zia in cui rifugiarsi nei momenti peggiori, gli approcci con la poesia, l’arte come isola di rifugio, la pallanuoto come affermazione, tutto quanto collegato da un rosso filo di lana che lo riporta sempre ad Anna, a quei campi di lavanda in cui sono stati felici. Nella testa di Tamàs la vita vera si mescola alla vita inventata, sarà vero quel rifugiarsi con una fidanzatina della prima ora nel bagno della scuola magari per essere scoperti dallo sguardo vigile dell’arcigna prof di matematica e informatica?, sarà vero quel primo sesso consumato dentro un enorme copertone? Anche adesso che è diventato un regista pubblicitario e costruisce spot per la carne di pollo, è sicuro che tutto abbia ormai dei contorni chiari o hanno ragione gli altri Tamàs a rinfacciargli una professione poco onorevole? Anna è ormai un mondo lontano, vive con un altro ragazzo, seguendo ancora una volta quel filo rosso perché non farle recapitare dallo stralunato papà uno scatolone pieno di quella lavanda che “a loro” piaceva tanto. Ma i poliziotti in aeroporto si insospettiscono e di quel pacco non resterà nulla, ultimo sberleffo di una vita che ha bisogno di sorrisi. Reisz progredisce la propria storia, autobiografica oltre il dovuto, luogo di confessione decisamente aperto, con una vena poetica invidiabile e con un divertimento in cui somma libertà espressiva e leggerezza, dando anche un’innegabile boccata d’ossigeno allo spettatore. Ne terrà conto la giuria?
Divertimento, ma questa volta non era nelle intenzioni dell’autore, per lo svedese Unthinkable a firma Crazy Pictures, per la sezione “After Hours”, in cui proprio quel cinema che fu la patria di Bergman e Sjöman e Widerberg si mette a fare il verso alla Hollywood di Emmerich (Indipendence Day) o alle diavolerie di Cruise o Bruce Willis, in un crescendo di amenità che, crogiolandosi sul versante catastrofico, coinvolge le prime timide affettuosità di due ragazzi, le timidezze e le ribellioni di lui, un padre nevrotico e al momento buono roccioso eroe, un attacco dal cielo non meglio identificato, tralicci e palle di fuoco che piovono come i chicchi di una tempesta, i buoni e i cattivi, un parlamento che salta in aria e una ministra che prende in mano le redini dei soccorsi, un crash di auto su un ponte da fare invidia a certe pellicole d’oltreoceano, gli ultimi sopravvissuti a respirare l’aria della salvezza mentre i fidanzatini di un tempo sono ancora lì, a suonare il piano nella chiesa che brucicchia, quella manco a dirlo dove pigiavano le prime note qualche anno prima. L’ultimo fotogramma è per Putin, che orgoglioso propaganda la solidità del proprio paese. A noi invece veniva in mente la partita a scacchi tra il Cavaliere e la Morte.
Elio Rabbione
Nelle immagini, nell’ordine, scene da “La disparition des lucioles”, “Marche ou crève”, “Bad Poems” e “Unthinkable”