Rubrica settimanale a cura di Laura Goria
Mazo de la Roche “I frutti di Jalna” -Fazi Editore- euro 19,50
E’ il quinto capitolo della monumentale saga canadese che la scrittrice Mazo de la Roche scrisse tra 1927 e 1960, con al centro le vicende della tenuta della famiglia Whiteoak (di origini inglesi), nella natura selvaggia dell’Ontario, e dei suoi abitanti che si succedono negli anni.
Il racconto riprende da dove si era fermato nel precedente “Il padrone di Jalna”, ora la famiglia cresce, mentre i rapporti tra i suoi membri, tra ritorni e partenze definitive, sono sempre complicati.
Tanti capitoli che ci aggiornano sull’evoluzione di tensioni che già abbiamo conosciuto nei volumi precedenti e che qui si sviluppano ulteriormente.
Renny e Alyne all’inizio del quinto capitolo sono ai ferri corti per il tradimento di lui con Clara, che però è pronta ad andarsene visto che Renny non le offre un futuro insieme.
Alyne -che di Whiteoak ne ha sposati ben due (Eden, prima del fratello Renny)- capisce di non appartenere veramente alla famiglia e se ne va a New York presso una zia, decisa a voltare pagina e mettere una distanza definitiva tra lei e Jalna.
Renny rimane con la piccola figlia Adeline da crescere.
Il piccolo di casa, Wakefield, ora maggiorenne, nel passaggio dall’adolescenza alla maturità rompe il fidanzamento con Pauline per farsi monaco, una decisione radicale e inaspettata per la famiglia.
L’altro Whiteoak, Finch, nonostante il successo come pianista ottenuto in Europa, lascia Parigi e torna a Jalna con la moglie Sarah.
La coppia è in crisi e minaccia di travolgere gli equilibri familiari. Inoltre si presenta con una sorpresa; ha con se Patience, la bambina che Eden aveva avuto da Minnie, ma ora non può occuparsene perché è ricoverata in un sanatorio svizzero.
E vedremo se andrà a fare compagnia alla viziata e coccolata Adeline.
Dunque personaggi che abbiamo già seguito nei romanzi precedenti, ma anche interessanti new entry, come Sarah la moglie di Finch, e Miss Archer, la zia newyorkese presso la quale Alyne si è rifugiata…. con in serbo pure una sorpresa….
Dunque lo scorrere complesso della vita, tra pressanti preoccupazioni economiche e il timore costante di perdere la casa e con essa le radici della famiglia, tempeste affettive con fughe, fidanzamenti in frantumi e nuove nascite…..la vita che va avanti.
Annalena Benini “Annalena” -Einaudi- euro 17,50
E’ una figura monumentale quella di Annalena Tonelli, missionaria laica che ha dedicato la sua vita agli ultimi della terra, per 30 anni in Africa, uccisa da un commando nel 2003.
A ricostruire la sua vita, unica e incredibile, è la giornalista, autrice televisiva e scrittrice Annalena Benini, nuova direttrice del Salone del Libro di Torino. Stesso nome e un legame di parentela con la sua lontana cugina.
Le due non si sono mai incontrate, ma la Benini sembra essere entrata nella testa e nell’anima della sua omonima, che porge al lettore un ritratto a tutto tondo di una donna che ha dedicato ogni sua fibra al prossimo, fino al sacrificio estremo.
Annalena Tonelli nasce a Forlì il 2 aprile 1943, seconda di 5 figli. E’ bella, intelligente, studiosa, vince una borsa di studio in America a 19 anni. L’aspetta una vita formidabile, ma non nel senso comune.
Non aspira all’amore di un uomo, né di una famiglia e dei figli.
La sua è una visione più ampia, una vocazione assoluta che la conduce a rinunciare a tutto per mettersi al servizio di chi non ha nulla. Il suo è amore cosmico per l’umanità e i suoi figli sono tutti i disperati della terra.
Dopo la laurea in Giurisprudenza (presa per accontentare i genitori) nel 1970 punta dritta verso l’Africa, nel Nord ovest del Kenya.
Nel deserto del Wajir inizia innamorandosi degli ammalati di tubercolosi delle tribù nomadi. La sua vita è decisa. Rinuncia a qualsiasi comodità, dorme per terra come i poveri che aiuta, mangia poco nulla e dedica tutte le sue energie a curare, istruire, costruire scuole e ospedali.
E’ inarrestabile, per 30 anni salva vite umane rischiando la propria e fa un lavoro immenso, impedisce massacri, tra Kenya e Somalia, e ovunque l’Africa abbia bisogno di lei.
Una vita di felicità assoluta perché dedicata a chi non ha nulla e appagata dal condividere le loro vite di stenti. Dedizione assoluta, sprezzo dei pericoli che corre; è stata maltrattata, rapita, picchiata, diffamata e odiata.
Ma il suo era un disegno molto più grande di tutto questo: era madre, sorella, figlia, medico, maestra, al servizio di quelli che chiamava brandelli di umanità ferita, amati da nessuno, se non da lei.
La sua vita quasi mistica viene fermata da proiettili vigliacchi alla nuca, a Borama, il 5 ottobre 2003 prima di riuscire a vedere completata la nuova ala dell’ospedale per malati di tubercolosi.
Non temeva la morte e ora le sue ceneri sono sparse intorno all’eremo di Wajir, in Kenya, dove sognava di tornare e dove ora starà per sempre.
Mavie Da Ponte “Fine di un matrimonio” – Marsilio- euro 19,00
E’ il primo romanzo della spumeggiante giovane scrittrice italo francese dal profilo Instagram con 35mila followers, e due anni fa ha aperto un blog letterario in cui pubblica racconti brevi. E’ subito chiaro che la sua passione è scrivere, tra Parigi e Bari che è casa sua. Ora ha appena pubblicato un corposo romanzo in cui narra il terremoto emotivo di un divorzio.
Berta è una donna prossima alla cinquantina che ha una galleria d’arte, è sposata da 15 anni con il ginecologo Libero; non hanno figli, bensì il loro consolidato tran tran quotidiano che però sta per finire. Una sera lui arriva e senza tanti giri di parole le dice di avere un’altra donna e di volere il divorzio.
Mai fulmine fu più a ciel sereno e per Berta è come ricevere uno schiaffone che la manda al tappeto. E’ l’inizio di un viaggio nell’inferno interiore tra delusione, senso di solitudine, metabolizzazione di un tradimento, rimessa in discussione della propria vita. Tutto avviene senza scenate o recriminazioni; lei reagisce quasi in silenzio, ripensando alla sua vita, a quel matrimonio appena sfracellatosi, e soprattutto a come ricostruirsi una vita.
Mavie da Ponte ha scelto di raccontare in modo estremamente lineare come una donna di 47 anni si trovi sull’orlo di un gigantesco burrone.
Cade, si spezza e si piega, poi scatta la volontà ferrea di risalire la china.
Rispolvera -anche se a fatica e sbagliando strada facendo- le dinamiche di un nuovo amore al quale dare la possibilità di una storia nuova.
Il romanzo racconta proprio il nuovo inizio che la protagonista si costruisce a piccoli passi, con coraggio e tenacia, cercando di stare bene…. anzi, possibilmente, meglio di prima.
Costanza DiQuattro “Arrocco siciliano” -Baldini+Castoldi- euro 18,00
Ha un po’ il sapore di altri tempi l’ultimo romanzo della talentuosa scrittrice siciliana (nata a Ragusa nel 1986) che oltre ad averci regalato altri libri bellissimi (il primo “La mia casa di Montalbano” nel 2019) dal 2008 si occupa anche del Teatro Donnafugata. Teatro di famiglia che dopo un lungo restauro è tornato in attività grazie a lei.
E la passione teatrale fa capolino anche in “Arrocco siciliano” che vanta uno scorrevole ritmo perfetto per una pièce sul palco.
La vicenda è ambientata nell’incanto barocco di Ibla, paesino siciliano dove si conoscono tutti e la vita scorre con una lentezza antica.
Pochi avvenimenti eclatanti e la consolidata abitudine di ruotare intorno a due luoghi di ritrovo prediletti, in cui incontrarsi e spettegolare di piccole cose del quotidiano.
Sono il Caffè 900 e la farmacia del paese, dove più che per pillole e sciroppi si va per curare anche l’anima con i rimedi forniti dalla saggezza del farmacista, personaggio strategico e punto di riferimento della comunità.
Il romanzo inizia nel 1912 proprio con il funerale dello storico farmacista Filippo Albanese che era stato l’uomo più affidabile del paese, stimatissimo e amato, al quale i compaesani avevano confidato segreti e stati d’animo da sempre.
Il dolore per la perdita accompagna la vedova, ma quello che più cattura l’attenzione dei compaesani è l’arrivo inaspettato di un giovane napoletano mai visto prima, Antonio Fusco, che il defunto avrebbe designato come suo successore.
Partono immediati curiosità, commenti, diffidenza, ipotesi e tanto altro riguardo al forestiero. La vedova Albanese lo accoglie come il figlio che non ha mai avuto, fiduciosa della saggezza delle disposizioni lasciate dal marito.
Ben diverso è l’approccio dei notabili del paese e dei cittadini che lo mettono sotto una spietata lente di ingrandimento… e si scatenano in pettegolezzi e illazioni.
Chi sia Antonio Fusco lo scoprirete poco a poco e con continue sorprese dosate con maestria dalla scrittrice, che mette in scena un certo clima di provincia, e ci svela per gradi la storia di quell’uomo in fuga dal suo passato, i suoi errori e debolezze.
Ancora una volta Costanza DiQuattro fa centro con un romanzo che scava sotto la superficie delle convenzioni e mette a nudo anfratti dell’anima.
“Quando la guerra bussa alla tua porta, non sai mai cosa potrà accadere. Lo scoprirai solo strada facendo. Forse lo potrai raccontare, se saprai sopravvivere all’orrore”. Così inizia la nota in quarta di copertina di Chiacchiere tra cadaveri etnicamente diversi ( Infinito edizioni, 2023), l’ultimo libro di Luca Leone, giornalista e scrittore tra i più attenti e profondi conoscitori della Bosnia e dei Balcani occidentali. Un libro diverso, una silloge poetica composta da versi asciutti, duri, essenziali dove pare che l’autore abbia scelto di riversare le emozioni e i ricordi di trent’anni di viaggi e di incontri nel cuore dell’Europa di mezzo, soprattutto in terra bosniaca ed erzegovese dove tutto sembra impastato con il sangue di un popolo martoriato da un conflitto che non ha mai cessato di produrre sofferenze e dolore anche dopo che le armi hanno taciuto. In Chiacchiere tra cadaveri etnicamente diversi sono i sommersi e i salvati della decade malefica dell’ultimo scorcio del secolo breve che animano le trentaquattro poesie, riesumando e rianimando storie di persone e paesi che hanno conosciuto guerre e violenze, fame e morte sotto il tiro dei cecchini, amputazioni per gli scoppi delle granate, la pazzia e l’odio del nazionalismo portato agli eccessi e la pulizia etnica, terribili miserie umane e incredibili lampi di generosità e condivisione. Una realtà che pesa come una sorta di maledizione per un paese, la Bosnia, tanto bello quanto disgraziato. Ha ragione Andrea Cortesi quando, nella sua presentazione, afferma che questo è forse “il più intimo, personale e sofferto libro che Luca Leone abbia mai scritto”. In poemi come E’ tempo si condensa la storia recente del paese che rappresentava il cuore più jugoslavo della Jugoslavia, una storia di conflitti e di terribile pace segnata anche dal fallimento dell’Occidente e dell’Europa, dove “i fantasmi del ’93 cercano attoniti un ponte che non c’è. A Mostar l’aria è grave d’esplosioni d’intonaci e tetti saltati e sbriciolati. Volano, danzano schivando granate che piovendo dilaniano popoli alla fame. A Mostar la Neretva è rosso sangue d’un odio sconosciuto ma eccitante. E gridano esaltati i generali: crepino i cattolici, schiattino i musulmani. E scannano sedotti i militari: a morte gli ortodossi, nel fiume i musulmani. E’ tempo di distruzione. Giacciono nuvole di sporco in superficie, gelide osservano le alte ciminiere. A Zenica è di nuovo blu la Bosna ma il cielo è un coperchio che isola e sconforta. Tremano le anime di donne oltraggiate, vittime impotenti di guerre programmate. Assolti e affrancati, soldati e mercenari banchettano coi corpi di civili ignari. Gridano assetati i generali: stuprate i cristiani, violentate i musulmani. E’ tempo di distruzione, di utile disperazione, di nuovi ricchi, di chierici contenti. E’ tempo di trasformazione, di nuova occupazione, di bui nazionalismi, di mafia e di fascismi”. La poesia di Luca Leone, come scrive Silvio Ziliotto nell’introduzione, è una risposta a un malessere quasi fisico, a un dolore morale lancinante dovuto ad anni di narrazione, confronto, scontro, denunce, amarezze, tante altrui bassezze nel raccontare e capire la Bosnia Erzegovina. Per questo si può comprendere perché i versi sembrano di carta vetrata, stridenti anche quando esprimono sarcasmo e sconcerto o diventano un urlo strozzato che cerca di riscattare le vittime di quella come di tutte le guerre. Un libro diverso ma non meno importante di Srebrenica, i giorni della vergogna, Višegrad o La pace fredda, dove ancora una volta si chiede e si reclama giustizia perché un popolo torni a sperare, per risollevare cuori intimoriti, per riprendere a vivere e a progettare il futuro. Una giustizia che deve partire dal cuore di ciascuno senza coprire quel sangue con lo sporco dei nazionalismi, dell’indifferenza, della distrazione, dell’oblio. Un compito difficile ma necessario perché come scriveva Predrag Matvejević, uno dei più grandi intellettuali jugoslavi del XX secolo, “i tragici fatti dei Balcani continuano, non si esauriscono nel ricordo, come avviene per altri. Chi li ha vissuti, chi ne è stato vittima, non li dimentica facilmente. Chi per tanto tempo è stato immerso in essi non può cancellarli dalla memoria”.



Elisa è una ragazza fragile e forte, spigliata, ma anche tanto introversa. È una di quelle persone che si perdono alla vista di un bel fiore, o un profumo sentito per caso sulla metro o sull’autobus; una di quelle persone che amano fino allo sfinimento e annaspano tra le loro paure perché in fondo temono terribilmente la sofferenza. Una sofferenza che Elisa già conosce fin troppo bene.
Maria Elena Romano nasce a Reggio Calabria il 3 Settembre del 1986. Scrive fin da piccolissima e divora libri come fossero caramelle, spaziando di volta in volta tra diversi generi. Anche nei generi di scrittura non si è mai risparmiata, ha diverse stesure incomplete nel cassetto, ma, per adesso, gli unici scritti che hanno raggiunto la pubblicazione, oltre ad “Un pomeriggio per caso”, sono un racconto breve, “Belinda”, e una fiaba, “Le avventure di Ninni e del bruco Arturo”. Sono il risultato della vittoria conseguita in due competizioni differenti, entrambi concorsi pubblicati da Idrovolante Editore, rispettivamente “L’automobile” e “Fiabe della buonanotte”. 
Rubrica settimanale a cura di Laura Goria
Non si dà risposte, ma semplicemente rivive tappe, minimi avvenimenti e imprevisti che, col senno di poi, sembrano essersi concatenati fino ad invertire quel destino che sembrava pieno di prospettive. E ragiona sui tanti minuscoli segnali che non ha saputo cogliere.
Figlio di un avvocato, era destinato seguire la carriera di famiglia, ma quello che ama di più è viaggiare ed è proprio al ritorno da un tour in Australia che sulla nave il suo destino incrocia quello di Joseph Conrad, ed è la svolta. Tra i due si crea un’amicizia che durerà nel tempo; soprattutto, al cospetto del grande scrittore, Galsworthy mette a fuoco quello che vuole veramente fare nella sua vita.
L’autrice è nata in Ucraina nel 1979, ma poi si è trasferita con la famiglia negli Stati Uniti nel 1987, e in questo corposo romanzo racconta la storia familiare di una migrante americana nella Russia degli anni 30. Fondamentalmente tenta di dare una risposta al quesito: se sei immigrato a quale patria ti senti di appartenere e sei fedele?
Sono le poco più che 30enni sorelle Berta e Marta Miralles, diversissime tra loro. Una musona dopo una delusione sentimentale e attenta alla dieta, l’altra decisamente più leggera e capace di godersi la vita. Battibeccano spesso, ma in realtà sono molto affiatate.


