Il puntaspilli- Pagina 8

Il cielo sopra Torino

IL PUNTASPILLI di Luca Martina  

Nel film “Il cielo sopra Berlino” si racconta la storia di due angeli, Damiel e Cassiel, che si aggirano per la città con lo scopo di ascoltare i pensieri dei vivi.

Uno di loro si affeziona così tanto alla città ed alla sua gente che decide di diventare umano e di abbandonare la sua esistenza spirituale.

A questo mi ha fatto pensare la “Italian Tech Week” tenutasi a Torino il 23 e 24 settembre.

L’evento ha ospitato molti “angeli” che per due giorni si sono aggirati nella nostra città per osservarla e coglierne le potenzialità.

Si sono succeduti sul palco giovani imprenditori (“startuppers”) e meno giovani esperti e visionari, a testimoniare il nostro dinamismo e la capacità di innovare senza lasciarsi scoraggiare dalle tante difficoltà poste dal nostro ecosistema.

Non è certo difficile innamorarsi del nostro Paese e la stessa Torino possiede un grande fascino ma perché esso possa sfociare in vero amore occorre una maggiore consapevolezza delle nostre potenzialità ed un progetto concreto che lo possa sostenere.

La due-giorni di respiro internazionale (tra gli ospiti, in diretta dalla sede di SpaceX nel Texas, anche Elon Musk) ha fatto da virtuale introduzione alla settimana che ha condotto alle elezioni del prossimo sindaco.

Chi prenderà il testimone di Chiara Appendino dovrà sostenere il fardello di rilanciare il ruolo della prima capitale italiana, più che mai in cerca di una sua nuova identità (dopo la crisi del settore automobilistico che l’aveva sostenuta nel secolo scorso).

Ma il peso sulle spalle del nuovo primo cittadino potrebbe anche tramutarsi in un paio di possenti ali se saprà gestire il suo incarico con una chiara visione del futuro e la volontà (e capacità) di coinvolgere le, per fortuna numerose, eccellenze cittadine.

Tra queste possiamo già annoverare, dopo il successo della sua seconda edizione, proprio la Tech Week che ha acceso i riflettori sulla nostra città, mettendo bene in luce come le nuove iniziative, le “startups”, possano diventare un importantissimo volano di crescita.

Forse non è davvero un caso che i soggetti privati che aiutano, investendo il proprio denaro, le imprese nascenti siano chiamati “angel investors” (o “business angels”): proprio come gli esseri che nel film di Wim Wenders vigilano su Berlino, si innamorano delle storie (aziendali) umane più interessanti e le accompagnano nel loro percorso.

A fare il punto sulla situazione  del settore è stato l’intervento di Yoram Wijngaarde, il fondatore di @Dealroom.co, un formidabile archivio di dati globale che punta ad intercettare (investendoci) ed a seguire le aziende più promettenti.

L’imprenditore olandese ha ben sottolineato il contributo economico ed occupazionale che possono fornire le aziende innovative.

Negli Stati Uniti le startups, principalmente tecnologiche, sono già il maggiore generatore di occupazione, con il 24% del totale.

Nella Baia di San Francisco (nei dintorni della quale si trova la “Silicon Valley”) quasi il 70% dei posti di lavoro sono creati da aziende di nuova costituzione.

In Italia oggi il loro peso è pressoché inesistente ed anche il numero di potenziali “unicorni” (imprese innovative con un valore stimato superiore al miliardo di dollari), 12 in tutto, impallidisce di fronte quello britannico, 213, francese, 104, tedesco, 94, e spagnolo, 25.

La buona notizia è che l’Italia sta crescendo e si trova nella stessa posizione della Francia 7 anni fa o della Spagna 4 anni orsono.

E’ confortante, inoltre, sapere che nella tecnologia una strategia vincente può consentire di bruciare le tappe e scalare le classifiche con estrema velocità.

Si tratta, ad esempio, di quanto è successo alla Germania, con l’affermazione di Berlino come una delle capitali mondiali dell’innovazione, negli ultimi anni.

L’auspicio è che la nuova amministrazione cittadina possa consentire a Torino di (tornare a) giocare, per l’Italia, lo stesso ruolo trainante nelle tecnologie assunto dalla capitale tedesca.

Le OGR (Officine Grandi Riparazioni) che hanno ospitato la Tech Week sono un simbolo vivente, e molto vitale, di come si possa rigenerare un luogo abbandonato e mi piace reinterpretare la sigla come un imperativo, che ben si confà alla nostra città: “Ogni Giorno: Rinascere!”

Dal cielo sopra Torino gli angeli ci guardano ma dovremo essere noi a fare il massimo per convincerli a scendere… e ad aiutarci a volare.

La ricerca e la felicità

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Nei giorni scorsi il National Bureau of Statistics of China, l’omologo del nostro ISTAT, insieme al ministero della scienza e a quello delle finanze, ha pubblicato il “Communiqué on National Expenditures on Science and Technology in 2020”.

 

Si tratta di un dettagliato rapporto sull’andamento della spesa nazionale in ricerca e sviluppo.

 

La crescita, superiore al 10%, ha ancora una volta superato quella dell’economia cinese, portando gli investimenti in ricerca al 2,4% del PIL.

 

In valore assoluto i cinesi investono oggi nella ricerca il doppio dei giapponesi, più di due volte e mezzo dei tedeschi e la metà degli americani.

 

Le cifre assumono una dimensione ancora più significativa (ed esprimono più correttamente l’impegno finanziario) se aggiustate per il loro potere di acquisto (con la stessa somma si possono acquistare quantità diverse degli stessi beni, a seconda del loro prezzo, nei diversi Paesi): emerge così che le somme investite dalla Cina eguagliano ormai quelle degli USA, sono 3 volte il Giappone e 5 volte la Germania.

 

Non a caso lo stesso giorno il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese ha pubblicato il piano strategico quindicennale per trasformare la Cina in una superpotenza nella proprietà intellettuale.

 

La cosa può apparire sorprendente viste le cruente battaglie combattute per anni tra le aziende occidentali e le autorità di Pechino per ottenere il riconoscimento dei brevetti, violati o copiati dalle imprese cinesi.

 

Si tratta di un altro segnale del cambiamento di marcia della politica economica sotto la guida di Xi Jinping.

 

Dopo la stretta sulle multinazionali private e quella sul settore immobiliare (che sta portando al fallimento controllato del colosso nazionale China Evergrande) appare sempre più chiaro che il timone della corazzata cinese stia puntando con decisione sull’innovazione di Stato e sulla riduzione della speculazione e della corruzione.

Il settore immobiliare costituisce più di un quarto del PIL cinese (negli USA è intorno al 6-7%) ed è stato uno dei motori che ne hanno maggiormente sostenuto la crescita negli ultimi 30 anni ma questo ha generato una bolla fatta di prezzi elevatissimi, debiti esorbitanti ed enormi investimenti improduttivi (intere città create e rimaste desolatamente disabitate).

 

Basti pensare che per acquistare un appartamento in una grande capitale occidentale servono tra le 13 (a San Francisco) e le 22 volte il reddito medio annuo mentre a Pechino occorre destinare all’acquisto l’equivalente di 50 stipendi.

 

Anche la ulteriore stretta appena annunciata dal governo cinese, sull’utilizzo delle criptovalute per i pagamenti, può essere ricondotta alla campagna di riduzione delle operazioni speculative, di un maggiore controllo dei flussi finanziari e, di non trascurabile importanza, del contenimento delle emissioni inquinanti.

 

La Cina sta da tempo cercando di proporsi come paladina delle energie rinnovabili (è la sede dei maggiori produttori di impianti fotovoltaici) con l’obiettivo di uscire dalla lista dei Paesi più inquinanti del pianeta.

 

La produzione dei bitcoin comporta, infatti, enormi consumi di energia che in estate è fornita, a basso costo, dai molti impianti idroelettrici che, foraggiati dalle abbondanti piogge, hanno un eccesso di produzione, ma che nella stagione secca fanno ricorso a inefficienti, inquinanti e spesso abusive e pericolose, miniere di carbone ancora presenti in tutta la Cina centrale.

 

A questo proposito va sottolineato come sin dalla prima violenta presa di posizione del Comitato del Partito, lo scorso maggio, i grandi “minatori” stanno spostando i loro attrezzi (enormi computer, trasportati da altrettanto imponenti autotreni) verso Paesi più accoglienti ed il Texas sta diventando una delle destinazioni preferite.

 

Ad inizio anno i tre quarti dell’“estrazione” complessiva di bitcoin veniva fatta nel celeste impero e si stima che oggi si sia più che dimezzata.

Più in generale, il ruolo del mercato privato in Cina rimarrà importante ma circoscritto alle aree non ritenute strategiche e funzionali alla crescita del benessere nazionale.

 

Lo standard, il livello di innovazione, richiesto per competere nei mercati internazionali sta crescendo con sempre maggiore rapidità e rimanere indietro oggi vorrà dire trovarsi soli, nel deserto, senza viveri né acqua, domani.

 

L’ Italia investe in ricerca e sviluppo circa l’1,47% del Pil (di cui lo 0,93% da parte delle imprese private, dati ISTAT 2019): la Germania e gli Stati Uniti quasi il 3% e la media dei primi 40 Paesi l’ 1,75%.

 

La buona notizia per la nostra regione è che il Piemonte si trova (secondo il rapporto ISTAT pubblicato un anno fa) al vertice con il un il 2,17% del PIL speso in ricerca.

 

C’è un lungo cammino da percorrere ma prima bisognerà costruire strade sicure (come le infrastrutture digitali) che ci possano consentire di tornare a correre.

 

Le nostre nuove generazioni di imprenditori stanno mostrando, con le loro “startup”, una grande vivacità come testimoniato nella, appena terminata a Torino, seconda edizione della Italian Tech Week.

 

Questo importante evento (che merita un prossimo “Puntaspilli” ad hoc) ha riunito nella nostra città innovatori di tutto il mondo, lanciando importanti segnali sulle opportunità che ci vengono offerte dalle nuove tecnologie.

 

Risulta perciò chiaro come nella “ricerca della felicità” (economica) la parola chiave potrebbe proprio essere la prima.

 

La speranza in un futuro dove le grandi potenzialità del nostro Paese possano tornare a dare i loro frutti ha quindi tutti gli elementi per essere alimentata.

 

D’altronde, come ha ricordato l’ospite d’ onore della kermesse torinese, Elon Musk, è sempre meglio essere ottimisti e sbagliare qualche volta che essere pessimisti ed avere sempre ragione.

 

 

Per aspera ad astra

IL PUNTASPILLI di Luca Martina  

 

La missione spaziale INSPIRATION4, appena rientrata dopo 3 giorni in orbita a 575 km sulla Terra, è stata la prima ad ospitare a bordo solo dei “civili” (quattro “turisti spaziali”) e, nello stesso tempo, ad essere completamente finanziata da un’ azienda privata (SpaceX, un’altra creatura del fondatore di Tesla, Elon Musk).  

 

Il (salatissimo) prezzo dei biglietti è stato pagato interamente dal comandante della missione, il miliardario americano Jared Isaacman, fondatore della società Shift4 Payments, appassionato ed esperto pilota, attraverso una donazione di $200 milioni di dollari all’ospedale per bambini St Jude, nel Tennessee.

 

Il costo di 50 milioni di dollari a testa si confronta con i 28 milioni pagati da un anonimo acquirente (poi costretto a rimandare la sua partecipazione rinviandola a una futura missione) per volare per complessivi 10 minuti, dei quali ben 4 a disposizione per fluttuare liberamente nella capsula, sulla Blue Origin di Jeff Bezos (il fondatore di Amazon), a 100 km di altezza, il 20 luglio.

 

A venire incontro alle legittime aspirazioni astronautiche dei meno abbienti ci aveva pensato qualche giorno prima, l’11 luglio, la Virgin Galactic di Richard Branson che per soli 250.000 dollari aveva consentito di imbarcarsi per la sua missione, durata 71 minuti, a 80 km di distanza dalla terra.

 

Curiosamente proprio durante il viaggio “low cost” della Virgin si sarebbe accesa nell’abitacolo una luce rossa che poteva indicare un serio (potenzialmente fatale) problema e che, non essendo stata dichiarata all’ Agenzia statunitense per l’aviazione, ha provocato la sospensione del prossimo volo (che avrebbe ospitato una missione scientifica dell‘Aeronautica militare italiana e del Consiglio nazionale delle ricerche).

 

Quello che è certo è che la “Space economy” sta volando: secondo le stime della banca d’affari americana Morgan Stanley, nel 2020 ha generato circa 350 miliardi di dollari di fatturato ed entro il 2040 il giro d’affari dovrebbe superare i 1.000 miliardi.

 

Scienza, non fantascienza…

 

Non si tratta, naturalmente, di solo “turismo spaziale” che, anzi, ne costituirà, anche in futuro, solo una parte molto limitata.

 

I tre quarti del totale sono costituiti dalla connessione a banda larga satellitare che consente di trasmettere i dati (che continueranno la loro crescita esponenziale) e di comunicare senza necessità di cavi od altre infrastrutture a terra.

 

Il moltiplicarsi delle missioni private consentirà, dal suo canto, di rendere sempre più efficienti gli spostamenti nello spazio, per fini commerciali e scientifici, esplorandone ulteriormente le infinite potenzialità.

 

La parte del leone l’hanno fatta sino ad oggi, come si può facilmente immaginare, gli Stati Uniti, con quasi due terzi del totale degli investimenti.

 

L’Europa ricopre, comunque, un ruolo tutt’altro che marginale: un terzo dei satelliti mondiali sono infatti fabbricati nel nostro continente, impiegando 230.000 tecnici specializzati.

 

A testimonianza di ciò, ad aprile il Parlamento Europeo ha approvato un ambizioso piano che investirà nel comparto spaziale, tra il 2021-2027, quasi 15 miliardi di euro.

 

Questo programma consentirà una gestione più efficiente del traffico, riducendo le emissioni inquinanti, incrementando l’utilizzo di droni per le consegne e migliorando gli spostamenti aerei (evitando così ritardi e cancellazioni).

 

Il settore è senza alcun dubbio un pilastro cruciale per mantenere il nostro continente competitivo e capace di esercitare un ruolo di innovatore in uno scenario internazionale sempre più complesso.

 

Si tratta di una sfida da cogliere anche per il nostro territorio che ha maturato una solida tradizione nel settore aerospaziale.

 

Non sarà semplice e le difficoltà da superare (a partire dalla capacità di attrarre nuovi investimenti) sono molte ma…Per aspera ad astra…

L’altra metà del cielo

IL PUNTASPILLI

di Luca Martina

 

Un recente studio della rivista The Economist dimostra come i Paesi che discriminano le donne abbiano una più elevata probabilità di essere violenti ed instabili.

 

I 20 Paesi più fragili e turbolenti del pianeta dal punto di vista sociale, economico e politico, come classificati da Fund for Peace (un’organizzazione senza fini di lucro con sede a Washington), praticano, ad esempio, tutti la poligamia.

 

Tra questi figura la Guinea (oggetto di un colpo di Stato da parte dei militari lo scorso 5 settembre) dove il 42% delle spose tra i 15 e i 49 anni fanno parte di unioni poligame.

 

Alquanto diffuso in questi Paesi è il fenomeno delle “spose bambine”: un quinto delle donne del mondo si sono sposate prima dei 18 anni (il 5% prima dei 15) vivendo in uno stato di semi-schiavitù e buona parte di queste sono concentrate nei Paesi in via di sviluppo.

 

In molti Stati inoltre è ancora praticato l’aborto selettivo dei feti femminili e ciò conduce, tra le altre cose, ad un pericoloso squilibrio (esasperato dalla poligamia) tra giovani uomini e donne che spesso si traduce in una feroce violenza (fisica e psicologica) nei confronti di queste ultime.

 

L’Afghanistan, dove, fino al ritorno dei talebani, quasi l’80% delle ragazze erano arrivate a frequentare la scuola primaria (a nessuna era consentito farlo prima del 2001), è oggi oggetto di grande attenzione e ci fa riflettere (anche) su questi temi; occorrerà non abbassare la guardia anche quando il Paese centro asiatico scomparirà dalle copertine e dalle prime pagine dei giornali.

 

Va anche ricordato che, come emerso da un’analisi del 2006 (sempre condotta da The Economist), la principale forza dietro i progressi economici degli ultimi decenni sia stata proprio la crescita dell’occupazione femminile.

 

Sono passati quasi 130 anni da quando Zelanda, nel 1893 concesse, per prima, il voto femminile (negli Stati Uniti arrivò nel 1920 ed in Italia nel 1945) ma in alcune aree del mondo questo diritto fondamentale viene tuttora negato.

 

Dare la possibilità alle donne di ottenere un adeguato livello di istruzione e libero accesso al mondo del lavoro può trascinare fuori dalla povertà intere famiglie e comunità dei Paesi poveri, dove grava soprattutto su di loro la spesa per l’alimentazione, l’educazione e la salute dei figli.

 

Anche per il nostro Paese (che occupa secondo l’ultimo rapporto Global Gender Gap del World Economic Forum un ben poco dignitoso settantaseiesimo posto su 153 Paesi), un miglioramento del livello dell’occupazione femminile (ed una sua più equa valorizzazione) rappresenta una delle maggiori risorse a nostra disposizione per accelerare la crescita economica nei prossimi anni.

 

Ne ha fatto menzione anche il primo ministro Mario Draghi promettendo che, nell’ambito del PNRR (il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), almeno 7 miliardi di euro saranno investiti, entro il 2026, per la promozione dell’uguaglianza di genere.

 

Dietro una profonda e sacrosanta questione di civiltà ci sono dunque anche degli importanti riflessi economici che, a loro volta, possono contribuire a ridurre le diseguaglianze tra i sessi.

 

Christine Lagarde, l’attuale presidente della Banca Centrale Europea, è stata, nel 2007, la prima donna dei Paesi G8 (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada e Russia) a ricoprire un incarico ministeriale (ministra francese dell’Economia, dell’Industria e dell’Impiego) e può autorevolmente farsi portavoce di queste istanze.

 

Risulta quindi fin troppo evidente come solo la forza delle donne potrà rendere meno fragile (“antifragile”, per usare il neologismo, coniato nel suo omonimo libro, da Nassim Taleb) questo nostro pianeta.

 

Perché le donne sono l’altra metà del cielo: quella più azzurra.

 

Pane e talebani

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

Da alcune settimane le notizie provenienti dall’Asia centrale sono il pane quotidiano di tutti gli analisti, anche di quelli che si concentrano sulle sue ripercussioni economiche.

 

Dopo la presa del potere da parte dei talebani la Cina si è detta subito disponibile a intraprendere con loro relazioni “cooperative ed amichevoli” e l’agenzia di comunicazione ufficiale di Pechino ha sottolineato come ora l’ Afghanistan potrà finalmente beneficiare degli investimenti previsti dalla “Nuova via della seta”, la “Belt and Road Initiative (BRI)”.

 

Si tratta dell’ imponente progetto che viene descritto per esteso nel sito governativo cinese come “Silk Road Economic Belt and the 21st-Century Maritime Silk Road”.

 

​La “cintura (belt)” è costituita dalla rete di collegamenti via terra tra la Cina e l’Europa mentre la “strada (Road)” circumnaviga le terre emerse, dal Mare Cinese meridionale al Mediterraneo.

 

Alcuni analisti lo ritengono un tentativo di esportare la globalizzazione in stile cinese assumendo il controllo economico di regioni sempre più ampie.

E’ curioso come ad innescare questa iniziativa siano stati proprio i loro attuali maggiori critici, gli Stati Uniti, quando nel 2011 l’allora segretario di Stato Hillary Clinton propose la creazione di una Nuova Via della Seta con al centro proprio l’Afghanistan.

 

Pungolata (e irritata) da una intrusione in quella che percepiva la propria area di influenza, la leadership cinese decise proprio allora di unire i singoli progetti intrapresi in giro per il mondo in una strategia ad ampio respiro.

 

Due anni dopo, nel 2013, il presidente Xi Jinping, annunciava ufficialmente la BRI, un gigantesco progetto di rafforzamento dei collegamenti e delle comunicazioni che andava ben oltre la regione euroasiatica, estendendosi sino al continente africano (al centro da tempo degli interessi del Celeste impero, sempre alla ricerca di fonti di approvvigionamento di materie prime per le proprie industrie).

 

L’obiettivo dichiarato, dettato da una visione globale del mondo che consentirà, a progetto completato, di dotare delle infrastrutture fondamentali (strade, oleodotti, ferrovie, ponti…) i Paesi in via di sviluppo, sarebbe quello di consentire una riduzione della povertà e delle disuguaglianze.

 

Inoltre saranno ridotti i costi ed i tempi richiesti al trasporto e questo si tradurrà in una maggiore crescita economica.

 

Pur se non esplicitamente menzionati innumerevoli sono i vantaggi per la stessa Cina che sarà così in grado di beneficiare, con le proprie aziende, di grandi commesse (finanziate in buona parte dai Paesi coinvolti) per i progetti da realizzare, potrà aprire nuovi mercati per la proprie aziende (sempre alla ricerca di nuovi mercati di sbocco che ne riducano la dipendenza da quello americano) ed avrà accesso all’esplorazione di vasti bacini di risorse naturali (delle quali è il principale consumatore mondiale).

 

Proprio questo ultimo aspetto risulta un evidente corollario del passaggio del testimone a Kabul.

Negli ultimi vent’anni le ricche miniere afghane hanno prodotto per il governo locale ingenti perdite (qualche centinaia di milioni di dollari ogni anno) e la precaria sicurezza (atti di violenza e intimidazione hanno impedito la messa in produzione della maggior parte delle miniere) ha scoraggiato gli investitori internazionali (con l’eccezione della Cina).

 

Il mese scorso il co-fondatore (con il mullah Mohammed Omar, morto di tubercolosi nel 2013) del ricostituito Emirato islamico dell’Afghanistan e Presidente de facto di quest’ultimo, Abdul Ghani Baradar, ha incontrato il ministro degli esteri cinesi Wang Yi.

 

Uno dei temi del vertice sino-talebano è stato sicuramente la “normalizzazione” della situazione afghana e la messa in sicurezza delle attività minerarie (la cinese Metallurgical Corporation of China, MCC, è il principale operatore del settore nel Paese) oltreché la garanzia di non intervenire in aiuto della minoranza islamica uigura in Cina.

 

Si preannuncia per i Paesi occidentali una sempre più sgradita dipendenza nelle preziose “terre rare”, indispensabili per la produzione di prodotti ad alta tecnologia (dai superconduttori ai motori per veicoli elettrici), dalla Cina (principale produttore) e dai suoi alleati.

 

A volere riscuotere il dividendo talebano c’è poi, oltre alla “solita” Russia (storicamente molto attiva nella regione) anche il Pakistan (Paese che, pur ricevendo enormi quantità di denaro dagli Stati Uniti, si è dimostrato assai poco affidabile nel contenere il terrorismo internazionale), nelle cui “madrase” hanno studiato molti dei nuovi governanti afghani, che già nel 1996 aveva fornito il suo supporto al governo degli “studenti” e questo potrebbe tradursi in accresciute tensioni con l’odiato vicino: l’India.

 

Dal punto di vista economico le conseguenze immediate di tutto ciò sono limitate ma l’ombra degli eventi di questi giorni si allungherà sicuramente nei prossimi anni ed è opportuno valutarle sin da ora per poterne prevenire gli effetti.

 

Nei giorni e mesi che verranno il principale rischio è quello umanitario e occorrerà che tutti i Paesi si attivino affinchè non si ripetano i fenomeni che hanno portato in passato allo sterminio e alla sottomissione di tutti coloro che si opponevano al regime.

 

L’Afghanistan ha una vasta superficie, pari a quella dell’Italia e della Germania, per lo più montuosa e desertica, insieme ed una popolazione (circa 38 milioni) di poco superiore ad un quarto alla nostra sommata a quella tedesca.

La capitale Kabul ha calamitato negli ultimi anni una fetta crescente di afghani sino agli attuali 5 milioni, che sono anche quelli più “occidentalizzati” e proprio perciò a rischio più elevato di subire persecuzioni e ritorsioni.

 

Solo uno stretto controllo della situazione da parte del mondo civilizzato, in questo momento alla finestra, potrà mantenere alta l’attenzione ed evitare le conseguenze più estreme.

 

Fondamentale sarà la pressione nei confronti della Cina: essendo l’unico Paese ad avere le carte in grado di influenzare l’esito della partita dovremo scongiurare il rischio che decida di tenerle in mano, giocandole solo quando lo riterrà ed a proprio unico vantaggio.

 

Non sarà certo un compito facile perché, come amava dire il segretario di Stato americano Henry Kissinger:  “I Cinesi, avendo fatto a meno di noi per 5.000 anni, pensano di potere continuare a farne a meno.”

 

Papaveri (da oppio) e papere (geopolitiche)

 IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

L’offensiva talebana in Afghanistan ha subito una grande accelerazione negli ultimi mesi.

 

Il suo obiettivo è quello di arrivare all’inizio dell’inverno (quando l’azione militare dovrà ridursi drasticamente per ragioni climatiche) con la maggior parte del Paese sotto il proprio controllo e sembra più vicino ora che anche la capitale Kabul ha ceduto agli “studenti” (questo il significato in Pashtu, la lingua iranica parlata anche in Pakistan, della parola “talebani”).

 

Il disimpegno americano (con il ritiro totale fissato entro l’11 settembre) non avrebbe dovuto, automaticamente, riconsegnare il paese ai vecchi governanti, spodestati nella guerra intrapresa all’indomani dell’attentato terroristico che distrusse, nel 2001, le torri gemelle di New York.

 

Più di 2.300 miliardi di dollari sono stati spesi complessivamente dagli Stati Uniti nel Paese asiatico e una importante parte di questa somma è stata destinata all’assunzione e alla formazione delle truppe locali.

 

Sulla carta l’esercito e la polizia afghana conterebbero su 300.000 effettivi, ben superiori alle forze talebane, che si aggirerebbero intorno ai 60.000 combattenti alle quali si aggiungono milizie per un totale di 200.000 persone.

 

La endemica corruzione ha però generato un esercito impreparato, poco leale e motivato e di dimensioni probabilmente molto inferiori ai dati ufficiali.

 

Quando il “generale inverno”, a dicembre, imporrà il cessate il fuoco il Paese potrebbe essere ormai completamente sotto il controllo talebano e pronto ad esportare, oltre alla droga (la principale fonte non ufficiale di valuta forte), incertezza e instabilità al resto del mondo.

 

Basti pensare che nel 2007 si stimava che il 93% degli oppiacei circolanti nel mondo era stato coltivato in Afghanistan, con introiti superiori ai 4 miliardi di euro.

 

Poco importa che la coltivazione dei papaveri da oppio e la sua raffinazione sia stata in larga parte creata negli anni 70 con la poco lungimirante complicità della CIA statunitense, in ottica antisovietica: il cane rabbioso, si sa, una volta recisa la catena si avventa, mordendola, sulla mano che lo nutre.

 

L’Afghanistan, una volta riunito sotto un unico governo talebano, sarebbe in grado di riattivare le tantissime (circa 1400) miniere presenti sul suo territorio: si tratta di carbone, rame, oro, ferro, gas naturale, petrolio e altre preziose risorse.

 

Questo enorme fiume di denaro servirebbe poi, con ogni probabilità, anche ad alimentare una miriade di gruppi terroristici legati al mondo islamista radicale, con effetti destabilizzanti sulla regione (e non solo).

 

La speranza è che i negoziati, iniziati a Doha nel 2018 e mai completamente interrotti, possano produrre dei risultati positivi e che il Paese, situato proprio nel cuore dell’Asia Centrale, possa rinverdire i fasti legati alla “Via della seta”.

 

L’Afghanistan è stato il crocevia di importanti traffici commerciali sin dal 2500 avanti Cristo quando il suo lapislazzuli (la preziosa, dal suo etimo latino-arabo, “pietra azzurra”) andava ad impreziosire le arpe in avorio che accompagnavano le sepolture dei sovrani di Ur, in Iraq.

 

La massima fioritura si ebbe tra il primo secolo a.C. ed il secondo secolo della nostra era quando le sue strade erano percorse dalla seta proveniente dalla Cina, spezie, avorio e crisolito (usato per produrre abiti resistenti al fuoco) dall’ India, oggetti di argento dall’impero persiano e prodotti in oro, vetro, terracotta, statue ed anfore da Roma ed il suo impero.

 

Fu solo lo sviluppo delle tecniche navali, nel XVI e XVII secolo, che rese più semplici gli spostamenti via mare, a consegnare all’oblio la via della seta e con essa lo stesso territorio afghano.

 

Oggi la crescita economica e demografica del continente asiatico rappresenta una grande opportunità per il Paese e lo pone al centro di importanti intrecci geopolitici ai quali, al ruolo storico della Russia, si sono aggiungi negli ultimi decenni prima gli Stati Uniti e, in tempi più recenti, la vicina Cina.

 

Proprio la Cina, d’altronde, condivide con l’Afghanistan un, pur sottile, di 76 chilometri, confine ed è perciò molto attenta all’evoluzione della situazione per poterne, a tempo debito, cogliere i frutti.

 

La partita che si gioca avrà dunque impatti economici e politici molto importanti e sarà l’ennesimo banco di prova della sfida che contrappone il mondo occidentale alla Cina e alla Russia.

 

Speriamo di non doverci trovare un giorno a rimpiangere il, forse troppo prematuro, ritiro del contingente americano e nella scomoda situazione di avere a che fare con una nuova, ma potenzialmente ben più rilevante, Corea del Nord. ​

La quadratura dei cerchi

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Economia / IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

In questo periodo siamo tutti piacevolmente coinvolti nel celebrare le “nostre” vittorie sportive ai giochi olimpici di Tokyo.

Ne va dell’orgoglio nazionale ed anche, più prosaicamente, dell’ indotto economico che ha preceduto ed accompagnerà in futuro gli allori olimpici.

Sorprende sempre, purtroppo, come quando si parla di cultura in Italia (le immagini sono tratte da un articolo del Sole 24 Ore e da un rapporto di Unioncamere e Fondazione Symbola) lo sport non sia minimamente menzionato.

Eppure l’attività sportiva è senza dubbio parte integrante del nostro patrimonio culturale e contribuisce in modo importante alla formazione dell’individuo ed alla sua salute fisica e psicologica.

Dal punto di vista economico le attività sportive ed il loro indotto pesano già intorno al 4% del PIL arrotondando così al 10% quello della cultura “allargata”.

 

Il rapporto “Io sono cultura” evidenzia, inoltre, come un euro investito nel settore generi un beneficio pressochè doppio, innescando e attirando altre attività economiche, al Paese.

 

Si parla quindi, complessivamente, di circa un quinto del Pil nazionale legato, direttamente o indirettamente, alla cultura ed alla creatività.

 

Torino con la sua provincia è al terzo posto (e non troppo distante dalle capolista Milano e Roma) come peso di questo comparto sul totale dell’economia locale e la sua grande tradizione sportiva ed olimpica (rinvigorita dall’ultima nata all’ombra della mole: la federazione internazionale di arrampicata) rappresenta una ulteriore ottima potenzialità da valorizzare, dando un seguito concreto ed organico (non solo episodico) ai prossimi ATP di tennis.

Sarebbe veramente la quadratura del cerchio/cerchi olimpici se cogliessimo l’occasione per fare un salto culturale (appunto…) ed includessimo lo sport tra i settori da valorizzare del nostro Paese.

Solo allora potremo aspirare a salire, come ci compete, sul gradino più alto del podio della cultura.

Rotta di collisione

IL PUNTASPILLI / ECONOMIA


Il capitalismo in salsa cinese sta ormai cedendo il passo ad un apparentemente sorprendente ritorno al passato.

 

La coesione sociale è da sempre cruciale per potere governare un Paese immenso e popoloso come la Cina ma lo diventa ancora di più quando la crescita economica (e la diffusione del benessere) sono messi a rischio da una demografia che inizia a segnare il passo (dal 2010 la popolazione attiva ha smesso di crescere e gli ultimi dati del censimento mostrano che anche la popolazione complessiva è ormai stabile e pronta per una graduale discesa) e da profondi squilibri.

 

Per quanto il Celeste Impero sia enormemente cresciuto negli ultimi quarant’anni rimane, in termini di reddito pro-capite, al 59mo posto (ed anche peggio, al 73mo, sulla base del potere di acquisto), ai livelli dei Paesi più poveri del terzo mondo.

 

Dietro il dato medio, poi, si nascondono enormi differenze  tra la zona costiera, dove prosperano le aziende private più importanti e profittevoli, ed il resto del Paese.

 

Il presidente Xi Jinping sta lanciando chiari messaggi che la situazione non può continuare così e che i più ricchi e le loro aziende avranno d’ora in poi una vita ben più difficile di quella goduta sinora.

 

Il cambiamento non arriva all’improvviso, lo si poteva prevedere osservando l’evoluzione della piramide demografica e quella della distribuzione del reddito, ma è sempre l’ultima goccia a fare traboccare il vaso.

 

La cosa non dovrebbe sorprendere troppo anche considerato che l’obiettivo di Pechino, orgogliosamente dichiarato nell’ultimo (il quattordicesimo) piano quinquennale (2021-2025), è quello di trasformare il Paese in “una grande e moderna nazione socialista”.

 

Per raggiungere questo obiettivo occorre migliorare la condizione delle famiglie cinesi (consentendo anche di aumentarne la dimensione con la possibilità di avere sino a 3 figli) e della classe media.

 

Poca importanza sembra avere se, per ottenere quanto desiderato, si provocano pesanti danni agli investitori finanziari (“speculatori capitalisti”) ed alle aziende che operano nei settori coinvolti.

 

L’ultima vittima è stato quello dell’educazione privata ed in particolare dei corsi di sostegno che, essendo secondo il governo troppo onerosi per le famiglie, vanno erogati gratuitamente.

 

Le società del settore hanno lasciato sul terreno in pochi giorni la metà del loro valore ed il messaggio è risuonato nuovamente forte e chiaro (con discese rovinose dei prezzi) anche su tutti i titoli coinvolti negli ultimi mesi dalla stretta del governo cinese, ormai in chiara rotta di collisione con le grandi aziende quotate (gestite con logiche “occidentali”, ben lontane dal nuovo corso riassumibile come un “ritorno al passato”).

 

Al prossimo congresso del partito, che si terrà nell’ottobre del 2022, cruciale per le conferme dell’attuale leadership, sarà fondamentale presentare dei risultati concreti e la volata è già iniziata.

 

Coerentemente con quanto avviene internamente anche la politica estera è tornata a proporre un confronto duro con gli Stati Uniti e la sensazione di un fastidioso “déjà vu” degli anni della guerra fredda è forse più che una nostalgica suggestione.

 

E’ presto per trarre delle conclusioni, che sarebbero oggi affrettate, ma quel che è certo è che il dragone è tornato a sputare fuoco e bisognerà prestare molta attenzione per non correre il rischio di scottarsi.

Luca Martina

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