Il puntaspilli- Pagina 6

L’indice della paura

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

I timori che Vladimir Putin, procedendo con l’invasione, abbia sbagliato i suoi calcoli sono sempre più diffusi ed il sentimento della paura, il più forte e più antico dell’animo umano, come scriveva lo scrittore H. Phillips Lovecroft, comincia a prendere corpo tra gli investitori.

 

Al di là del dramma umanitario, che sempre accompagna le guerre, i mercati finanziari tendono cinicamente a focalizzarsi sui riflessi che simili situazioni esercitano sull’economia e sulle sue prospettive.

Le preoccupazioni ed i rischi che potrebbero abbattere ulteriormente le quotazioni dei mercati possono essere così riassunti:

  • Le sanzioni messe in campo contro la Russia si inaspriscono e finiscono per avere effetti negativi anche per chi le impone (in particolare provocando ulteriori e duraturi aumenti dei prezzi delle materie);
  • L’avanzata russa si deve arrestare a causa della resistenza incontrata e la situazione si prolunga in modo indeterminato (rendendo reali per i russi gli spettri della disastrosa esperienza in Afghanistan);
  • Putin esagera e invade uno degli stati confinanti appartenenti alla NATO;
  • L’opposizione interna porta alla caduta di Putin e la Russia precipita nel caos.

 

Realisticamente i rischi risiedono oggi principalmente nelle prime due possibilità (pur non potendo escludere completamente le altre).

 

Le sanzioni che mirano a tagliare fuori la Russia dai pagamenti internazionali (escludendo il suo sistema bancario dal circuito SWIFT) ed il timore di ulteriori sanzioni sta già gettando nel caos i suoi mercati, azionario ed obbligazionario, e facendo precipitare il rublo ma difficilmente impedirà, nei prossimi mesi, l’operatività delle banche russe.

 

La Russia ha da alcuni anni, proprio in risposta alle sanzioni internazionali,  costituito un suo sistema di pagamenti, l’NSPK (National Payment Card System), per risolvere le potenziali difficoltà nel gestire le sue transazioni nei circuiti tradizionali.

 

Molte banche russe risultano inoltre aderenti al sistema CIPS (Cross-border Interbank Payment System), alternativo allo SWIFT, costruito dalla Cina, che ha raccolto sempre più adesioni nel corso degli ultimi anni.

 

Quello che potrebbe fare davvero male a Mosca è la chiusura agli acquisti delle sue risorse energetiche (gas e petrolio) e minerarie: finora è sembrata una possibilità remota, per il potente effetto boomerang sui Paesi importatori europei, ma non è detto che continui ad essere così se il conflitto dovesse sanguinosamente protrarsi nel tempo.

 

Questo scenario potrebbe riportare in vita le ombre di una recessione che, per quanto ciò possa apparire strano, solo una volta dal termine del secondo conflitto mondiale è stata innescata da una crisi geopolitica.

 

Stiamo parlando della guerra dello Yom Kippur che nel 1973 vide contrapposti Israele ed i Paesi arabi, Egitto e Siria in testa, ad Israele.

 

L’embargo alle esportazioni di petrolio da parte dell’OPEC, il cartello dei Paesi produttori guidato dall’Arabia Saudita, ai Paesi che avevano sostenuto Israele, che ne seguì portò il suo prezzo a quadruplicarsi, da 3 a 12 dollari, in pochi mesi.

 

Il ricordo della pesante recessione di quegli anni, con il raddoppio del tasso di disoccupazione negli Stati Uniti ed il quasi dimezzamento dell’indice Standard and Poor, è ancora vivo nei nostri genitori ed è popolato di razionamenti forzati, targhe alterne e pesanti disordini sociali.

 

Oggi le nostre economie sono molto meno dipendenti dal petrolio di 50 anni fa e le conseguenze di un simile scenario potrebbero essere meno drammatiche di allora ma ci auguriamo caldamente che non si debba trovare ad assistere alla sua controprova.

 

Venendo poi alla durata, è evidente che si tratta di una delle variabili più importanti: una guerra conclusa in pochi giorni o settimane riduce il numero di vittime e l’incertezza sul suo decorso e viene perciò vista positivamente (se così si può dire…) dagli investitori.

 

Un conflitto che assume una maggiore lunghezza ed un esito incerto può, al contrario, trasformarsi in un autentico incubo, non solo per chi lo sta combattendo ma anche per i mercati finanziari.

 

E’ noto, infatti, come la circostanza più temuta dai mercati è l’incertezza sul futuro (la peggiore paura è quella verso l’ignoto) ed ogni notizia che la accresce è salutata dai ribassi dei listini.

 

Questo è reso evidente dalla salita del cosiddetto “Indice della paura”.

 

Si tratta dell’indicatore “VIX” (“Volatility Index”) che misura la volatilità dell’indice del mercato azionario statunitense Standard and Poor.

 

La volatilità (le oscillazioni) dei prezzi tende ad aumentare quando sono in discesa e perciò viene utilizzata per misurare il livello di pessimismo (di paura) presente tra gli investitori.

 

In questi frangenti non riesco ad immaginare un consiglio migliore di quello fornito, in tempi non meno pericolosi di quelli attuali, da Martin Luther King: “Un giorno la paura bussò alla porta. Il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno”.

Giochi pericolosi

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

La situazione tra Russia e Ucraina rimane molto tesa e ha (in parte) scalzato il Covid dalle prime pagine dei giornali.

Il gioco delle parti (Russia, Ucraina, NATO) mantiene reale il rischio che il tutto possa degenerare in una guerra dalle conseguenze difficilmente prevedibili (le sanzioni potrebbero farne la parte del leone ma gli scontri, specie nelle aree sotto il controllo dei ribelli filo-russi, non sono da sottovalutare).

Rimane l’impressione che la Russia punti ad ottenere il massimo risultato con uno sforzo limitato (senza arrivare, cioè, all’esplosione di un conflitto aperto).

La strategia adottata da Putin mira al riconoscimento della sfera di influenza russa su alcuni Paesi dell’ex Unione Sovietica e l’Ucraina, con il suo “pericoloso” avvicinamento alla NATO, ne è l’esempio paradigmatico.

Su questo punto, peraltro, si è espresso recentemente il presidente francese Macron che ha dichiarato, durante l’incontro con l’omologo russo, che “non c’è sicurezza per gli europei se non c’è sicurezza per la Russia”.

D’altro canto Kiev aveva annunciato pubblicamente il proprio interesse ad aderire alla NATO già nel 2002 ed aveva poi richiesto, senza ricevere alcuna risposta, un piano d’azione per l’adesione nel 2008.

Alla Russia non basta però la forza dei fatti e richiede un riconoscimento formale (che molto, molto difficilmente arriverà) che le ex repubbliche sovietiche non faranno mai parte della NATO.

Quello che, più pragmaticamente, Mosca sta ottenendo è rendere chiara a tutti la sua intenzione a tornare a contare sullo scacchiere internazionale e di guadagnare così il ruolo di terzo incomodo al consolidato bipolarismo Sino-statunitense.

Arrivare sino all’orlo del precipizio (la guerra) sta inoltre consentendo alla terra degli zar di riscuotere un fortissimo dividendo grazie alla salita dei prezzi delle materie prime (gas naturale e petrolio in testa).

Basti pensare che il valore delle esportazioni di combustibili ed energia (il 54% del totale complessivo) è cresciuto nel 2021 di più del 50% mentre quello dei metalli (l’11% dell’export) è quasi raddoppiato.

Il rischio, e non solo per la Russia, è che il gioco sia diventato troppo rischioso, con la richiesta di riconoscere l’indipendenza del Donbass già occupato dal 2014 dai ribelli filorussi, e che la corda, a furia di tirarla, possa spezzarsi e, essendo vicini al bordo del burrone, si possa precipitare rovinosamente nel mezzo di una guerra.

Un accordo in extremis sembrerebbe il finale annunciato; esso porterebbe, infatti, benefici effetti per tutte le parti in causa (con limitati danni collaterali per la Russia che finora ha raccolto i frutti dell’aumento dei prezzi delle materie prime).

La riappacificazione porterebbe con sé quasi certamente una discesa dei prezzi delle materie prime energetiche (e non solo) e questo contribuirebbe a raffreddare i preoccupanti aumenti dell’inflazione che stanno minacciando da qualche mese la continuazione della ripresa economica.

La guerra che stanno combattendo le banche centrali è proprio quella contro l’innalzamento dei prezzi al consumo, prima dovuto ai colli di bottiglia della ripartenza dell’economia e poi esasperato dall’effetto sulle risorse energetiche e sulle bollette delle tensioni russo-ucraine.

L’inflazione, come ricordava Luigi Einaudi, è la più iniqua delle tasse in quanto colpisce in maniera maggiore i più poveri ovvero coloro che spendono in consumi (sempre più costosi…) la maggior parte del loro reddito.

In questo modo il carovita riduce il potere di acquisto dei salari e rallenta anche la crescita economica così ben avviata nel 2021.

Un bel gioco dovrebbe durare poco…ed essere giocato con intelligenza per evitare che a perdere siano tutti i partecipanti.

Sperando di non doverci ritrovare a dare troppo ragione a quanto scriveva Bertrand Russel: “Il problema dell’umanità è che gli stupidi sono sempre sicurissimi, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi”.

Per quanto mi riguarda di una sola sono sicuro: di avere tantissimi dubbi…

 

Fuori dal letargo

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

La tensione tra la Russia e la NATO è elevatissima e non sappiamo se questo porterà o meno nei prossimi giorni all’esplosione di un conflitto in Ucraina (dove, dall’annessione russa della Crimea, nel 2014, sono già morte 14.000 persone, tra le quali 3.000 civili, negli scontri tra i separatisti ucraini ad oriente, nel Donbass, e l’esercito).

La ricerca i Mosca di una linea comune con la Cina, per creare una alternativa alla NATO, è sempre più evidente e dovremo convivere a lungo con quello che si profila essere come una nuova versione, in salsa sino-russa, del bipolarismo di matrice sovietica.

Quello che però ritengo possa essere interessante esaminare qui brevemente è l’importanza che riveste il Paese, guidato dal 2012 dal presidente Putin, nel settore delle materie prime.

In ambito energetico, ad esempio, ben il 31% dei consumi di gas europei (esclusa la Turchia) arrivano da forniture russe (ne ho parlato qui https://iltorinese.it/2022/01/11/la-roulette-russa/ ).

Per essere chiari, non si tratta solo del gas e del petrolio, moltissimo se ne è discusso negli ultimi mesi, e del quale la Russia detiene rispettivamente un sesto ed un decimo della produzione globale.

La maggiore dipendenza dalle forniture di Mosca è infatti quella del palladio, con il 37% delle estrazioni mondiali.

Il palladio è il metallo più costoso (più dell’oro e del platino) ed è utilizzato principalmente (per l’85%) dall’industria automobilistica (per i convertitori catalitici degli impianti di scarico) che si trova già ora a fare fronte a prezzi in forte rialzo.

Le vetture elettriche risolverebbero il problema, ma è evidente che il parco auto dei prossimi anni sarà ancora composto principalmente dai motori termici o ibridi (entrambi hanno bisogno del metallo prezioso).

Rimanendo nell’ambito dei metalli preziosi, dal sottosuolo russo proviene anche il 10% di oro e platino (anch’esso utilizzato principalmente dal settore auto).

Ci sono poi gli altri metalli e leghe industriali (nickel, alluminio, ferro, rame, piombo, cobalto) dove l’importanza delle forniture russe è inferiore ma comunque rilevante, specie in un momento di elevata domanda (dovuta alla ripresa economica mondiale seguita alla recessione della prima parte del 2020) quale quello attuale.

L’orso (l’animale simbolo della Russia) è uscito dal letargo affamato e deciso a riconquistare quello che ritiene essere il proprio territorio (perso velocemente all’indomani la caduta del muro di Berlino).

Vengono alla mente le parole della scrittrice Margaret Atwood “Il modo migliore per essere gentili con gli orsi non deve essere molto vicino a loro.”.

 

Delitto e castigo

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Il rispettato economista Rudi Dornbusch è famoso per avere detto che i cicli di crescita economica non muoiono di vecchiaia ma sono “assassinati” dalla Federal Reserve (la banca centrale americana). 

 

Si tratterebbe dell’eccessivo castigo (ben oltre la legittima difesa) di chi vuole rimettere in riga, dopo una fase di eccessi (troppa domanda di beni e servizi), l’economia che, sfuggita di mano, genera incontrollati e pericolosi aumenti dei prezzi.

 

E’ quanto stanno incominciando a temere gli analisti ora che anche la governatrice della Banca Centrale Europea, Christine Lagarde, dopo il suo omologo statunitense Jerome Powell, ha lasciato intendere che la politica monetaria, fatta di abbondanti acquisti di titoli e di tassi di interesse a zero, ha i giorni (mesi) contati.

 

I mercati finanziari non hanno tardato a reagire e la correzione subita dalle borse è stata sinora in linea con quanto storicamente è successo ogni qualvolta i tassi di interesse si sono mossi al rialzo ma senza provocare alcuna recessione.

 

Se questo si confermerà il caso. il calo del 15% subito dai mercati azionari potrebbe avere già in buona parte incorporato il cambiamento, dopo molti anni, di atteggiamento dei governatori delle banche centrali.

 

La correzione potrebbe essere solo un anticipo di quanto ci attende se, invece, dovessimo avviarci (anche a causa di una politica monetaria, fatta di tassi ufficiali in forte salita) ad un ciclo economico recessivo: in questi casi la discesa è stata mediamente superiore al 30%.

Per ora lo scenario principale rimane quello di un riassestamento delle elevate, valutazioni raggiunte dalle borse e dalle obbligazioni (frutto dei tassi vicini o addirittura inferiori allo zero).

 

Quello che è certo è che l’inflazione è uno “spettro” che si aggira anche in Europa (e non solo negli USA) es una BCE meno generosa rende la situazione italiana particolarmente delicata.

 

E’ noto che il nostro debito pubblico rapportato al PIL (il Prodotto interno lordo, la produzione nazionale) si colloca ai vertici mondiali (secondo solo a quello del Giappone) e una buona parte dei titoli obbligazionari emessi per finanziarlo (il 30%, era solo il 5% nel 2015) è nella cassaforte della BCE che con i suoi acquisti ha contribuito a mantenerne il costo sotto controllo.

A partire da marzo però la Banca europea comprerà quantità inferiori di BTP e diminuirà così anche la capacità (e la volontà) di mantenere i tassi di interesse di mercato vicini ai minimi storici.

 

Dopo il sospiro di sollievo tirato dopo l’elezione del capo dello Stato (dovuto alla ridotta incertezza sul futuro immediato) lo spread (il rendimento aggiuntivo richiesto per investire nei nostri titoli rispetto a quelli tedeschi) è tornato a salire, seppur di poco, reagendo al nuovo corso della politica monetaria.

 

Si tratta di un segnale da non ignorare: l’inflazione per sé potrebbe anche consentire di ridurre il valore reale del nostro debito (l’aumento del costo della vita erode il potere di acquisto dei redditi ma anche quello delle somme dovute) ma solo se riusciremo a mantenerne ad un livello inferiore i tassi che saremo chiamati a pagare.

 

E’ una sfida ardua che da un lato ci trova a combattere contro un nemico infido e che non possiamo controllare, l’inflazione, che in buona parte è frutto di variabili esterne come il prezzo delle materie prime, e dall’altro deve esserci di monito per quella che sarà la condotta di questo e dei prossimi futuri governi.

 

L’inflazione si può combattere e sconfiggere, la storia lo ha dimostrato, ma quello che non ci possiamo permettere è la perdita di credibilità nei confronti degli impegni presi con il PNRR.

 

Il ghiaccio sul quale stiamo pattinando è sottile e occorrerà muoverci con grande attenzione per evitare una dolorosissima rottura.

 

La situazione potrebbe migliorare con l’inizio del prossimo trimestre, finita la stagione fredda, quando i prezzi delle risorse energetiche dovrebbero stabilizzarsi e con loro il livello dell’inflazione (e la pandemia tornare a ritirarsi).

 

Sarà proprio nella riunione di marzo che nell’Eurotower di Francoforte la BCE deciderà i prossimi passi, sulla base dei dati che saranno stati pubblicati nel frattempo.

 

La responsabilità sulle spalle dei governatori delle banche centrali è pesante e ci vorrà tutta la loro attenzione per evitare di raffreddare troppo la crescita, alzando troppo i tassi proprio quando le pressioni inflazionistiche (dopo la forte accelerazione) potrebbero essere già in una fase di riduzione.

 

Il potenziale assassino può ancora decidere di non sparare al cuore della ripresa economica.

 

Proprio come Raskolnikov nel romanzo di Dostoevskij, esiste il rischio di compiere un delitto peggiore (l’uccisione della sorella della vittima designata/della ripresa economica) di quello inizialmente architettato (l’uccisione della vicina usuraia/dell’inflazione) e di doverne poi scontare il castigo.

 

Solo con l’arrivo della bella stagione saremo in grado di comprendere meglio l’evoluzione della situazione.

 

Potremmo allora davvero concludere, per citare José Saramago, che la forza della primavera non sarebbe niente se non avesse dormito l’inverno.

 

InCollato

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

La conferma del Presidente Mattarella mette fine alle incertezze legate alla permanenza dell’attuale governo alla guida del Paese per il prossimo anno, almeno fino alla prossima tornata elettorale (le elezioni parlamentari della primavera del 2023).

Si può tornare a pensare all’economia del nostro Paese e all’implementazione di quanto occorre per potere ricevere (e poi ben utilizzare) le risorse che ci spettano nell’ambito del Next Generation Plan.

Quest’anno saranno circa 40 i miliardi di euro messi sul piatto (pari al 2,2% del Pil italiano) e pronti per essere investiti.

Si tratta di una consistente tranche di un massiccio piano (il PNRR) che comprende 68,9 miliardi di aiuti a fondo perduto e 122,6 di prestiti agevolati (da restituire nei prossimi anni).

Dopo avere ricevuto i primi 24,9 miliardi nel 2021 i prossimi fondi sono subordinati al raggiungimento di una serie di obiettivi concordati con la commissione europea.

I primi 51 obiettivi fissati nel PNRR sono stati raggiunti prima di Natale e nel prossimo mese si dovrebbero rendere disponibili, pronti per essere investiti, altri 24,1 miliardi di euro.

Quest’anno gli obiettivi da raggiungere raddoppiano a 102: 66 di questi saranno costituiti da riforme che dovranno essere approvate dal Parlamento.

E’ davvero difficile sottovalutare l’importanza di mantenere una guida solida e credibile in presenza di variabili esterne (le pressioni provenienti dalle rinate pressioni inflazionistiche e da una graduale normalizzazione, dopo anni molto generosi, delle politiche monetarie in tutto il mondo ed il mutevole riassetto degli equilibri geopolitici tra Stati Uniti, Cina e Russia) ed interne (la gestione della pandemia e della coesione del governo) assai difficili da prevedere ed amministrare.

I mercati finanziari stanno attraversando, con qualche sussulto ed una malcelata preoccupazione, la transizione da una lunga epoca di tassi di interesse bassissimi, banche centrali benevole e totale assenza di inflazione (e modesta crescita economica) ad una fase di accelerazione economica (dopo la brevissima ma violenta recessione del 2020) messa però a rischio da un fortissimo aumento dei prezzi delle materie prime (e dei prezzi al consumo di prodotti e servizi).

La stabilità è la migliore ricetta (qualunque sia il giudizio sul governo in carica) per fronteggiare una simile situazione; per poterla affrontare nel modo migliore, il Presidente Mattarella ha accettato di rimanere “incollato” al colle dal quale si apprestava a traslocare.

Con 759 voti su 983 votanti (pari al 77%) il riconfermato capo dello Stato diventa così il secondo più votato della nostra storia repubblicana (dopo Sandro Pertini eletto con 832 voti) e c’è da auspicarsi che un simile plebiscito possa essere di buon auspicio.

I prossimi sette anni potrebbero davvero traghettare il nostro Paese in una nuova era caratterizzata da una forte spinta alla sua modernizzazione (attraverso gli investimenti previsti nel PNRR per la digitalizzazione, le riforme in cantiere e le infrastrutture che ne miglioreranno la logistica).

Il rischio, se non sapremo fare tesoro di queste enormi potenzialità, è di non avere una seconda occasione per fare ricredere coloro che sono da sempre scettici sul Bel Paese e che condividono quanto scriveva Indro Montanelli: “Strano Paese il nostro: punisce i venditori di sigarette ma premia i venditori di fumo”.

Va pensiero

IL PUNTASPILLI    di Luca Martina 

 

Le ultime settimane hanno dato molto da pensare agli investitori dei mercati azionari. 

 

Dopo un brillante 2021, riflesso di una crescita economica che, dopo il forte rallentamento dell’anno precedente, non si vedeva da molto tempo, il nuovo anno, il terzo D.C., Dopo (l’inizio del) Covid, non è iniziato sotto i migliori auspici.

 

Le discese delle borse hanno “bruciato”, per ora, solo una parte della salita che avevano messo a segno ma in alcuni casi, per i settori ed i titoli che più avevano corso, si è trattato di una discesa già molto “dolorosa”.

 

Si tratta per lo più di società del settore tecnologico, che, in quanto beneficiarie per la loro attività dell’economia al tempo del Covid, erano state premiate dagli acquisti di clienti ed investitori.

 

Le azioni più rappresentative, le “FAANG” (Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google/Alphabet), sono scese in un mese del 15% circa.

 

Peggio, molto peggio, si sono comportati i titoli più amati (e “sexy”) dagli investitori, appartenenti ai settori più innovativi e con la crescita futura più interessante (ma che presentano ancora, per lo più, bilanci in fortissimo passivo).

 

Si tratta delle società selezionate ed acquistate dalla celebre analista Cathie Wood per il fondo, da 16 miliardi di dollari, Ark Innovation Fund, da lei gestito: dopo avere perso il 23% nel 2021 (un anno positivo per i mercati azionari…) ha subito un ulteriore fortissimo calo del 25% a gennaio.

 

Per non parlare, poi, di un altro protagonista assoluto degli ultimi anni,  popolarissimo tra i giovani investitori di tutto il mondo, il Bitcoin, che ormai si è più che dimezzato (a circa 31.000 dollari) rispetto ai massimi di fine ottobre.

 

La soglia del dolore si è invece limitata a perdite del 10% circa per tutti i principali mercati borsistici mondiali.

 

Quanto basta, comunque, per instillare nella mente dei risparmiatori il pensiero ossessivo di dovere evitare ulteriori sofferenze e di iniziare a liquidare le posizioni presenti nei propri portafogli.

 

Il pessimismo è, dunque, tornato a regnare e, se la storia ci deve insegnare qualcosa, si tratta del momento peggiore per obbedire supinamente ai nostri istinti.

 

Proprio su questo tema gli americani Daniel Kahneman e Vernon Smith hanno ricevuto il premio Nobel per l’economia del 2002.

 

Kahneman, uno psicologo ed economista, è ritenuto uno dei padri dell’economia comportamentale, la disciplina che studia gli effetti provocati sulle decisioni dalle reazioni psicologiche ed emotive e dai fattori sociali e culturali.

 

Già nel 1979, insieme allo psicologo israeliano Amos Tversky, Kahneman aveva elaborato la cosiddetta “teoria del prospetto” ed una delle sue conclusioni era che gli esseri umani attribuiscono un maggior effetto negativo alle perdite rispetto ai guadagni (anche quando questi sono stati superiori alle perdite successivamente subite).

 

Ma è nel suo libro di maggior successo, “Pensieri lenti e veloci”, che viene spiegato dal premio Nobel come le emozioni influenzino i comportamenti degli investitori rendendoli assai poco razionali.

La paura generata dalla discesa del valore del proprio patrimonio produce, infatti, una risposta immediata nel nostro cervello, in una regione chiamata amigdala, generando i “pensieri veloci” (istintivi, che non vengono, faticosamente, elaborati).

 

Si tratta di due piccole ghiandole che, rilasciando degli “ormoni dello stress”, attivano una parte del sistema nervoso (il sistema nervoso simpatico) coinvolto in quelle funzioni definite di «attacco o fuga» e spingono alla liquidazione (nel panico) dei propri investimenti.

 

Questo non deve naturalmente farci sottovalutare i rischi che, come risparmiatori, ci troviamo quotidianamente ad affrontare: dalla pandemia ancora da debellare, alla ripartenza dell’inflazione; dalla presenza di banchieri centrali meno compiacenti, ai tassi di interesse nuovamente in salita (con conseguenze negative sul prezzo delle obbligazioni e, potenzialmente, degli immobili).

 

Ma essere consapevoli delle nostre emozioni, elaborandole con il “pensiero lento” (frutto di faticose riflessioni e pazienti elaborazioni delle informazioni), anche quando amministriamo i nostri risparmi, può aiutarci a ridurre gli errori che siamo portati a fare quando, disperati ed in balia degli eventi, decidiamo di liquidare indiscriminatamente le nostre posizioni (o ad investire, senza badare ai pericoli, quando tutto sembra andare bene).

 

 

Per concludere: Karl Kraus, lo scrittore e umorista corrosivo ceco, scriveva che “La libertà di pensiero ce l’abbiamo. Adesso ci vorrebbe anche il pensiero…”.

 

Va’, pensiero…molto meglio se lento!

Io e il Presidente

IL PUNTASPILLI     di Luca Martina 

Sette sono gli anni, “di studio matto e disperatissimo”, che Giacomo Leopardi trascorse a imparare, senza l’aiuto di alcun maestro, il greco, l’ebraico, il francese, l’inglese, lo spagnolo e il tedesco, a studiare i classici e a scrivere alcuni dei suoi immortali componimenti.

Lo stesso periodo di tempo fu trascorso dall’alpinista austriaco Heinrich Harrer in Tibet dove, dopo una serie di vicissitudini, incontra il Dalai Lama, l’attuale Tenzin Gyatso, allora tredicenne, stringe con lui una intensa amicizia, ne diventa il tutore e gli impartisce lezioni di inglese, geografia e scienze.

Nel 1950 l’avanzata cinese obbligherà il “Maestro Oceanico (di saggezza)” (questo il significato di “Dalai Lama”) all’esilio in India e Harrer a lasciare il Paese.

 

Tra il 1756 e il 1763 fu combattuta tra le principali potenze europee la “guerra dei sette anni”.

Churchill, nella sua “Storia dei popoli di lingua inglese”, la definì “la prima vera guerra mondiale” in quanto venne combattuta anche nei territori coloniali in America, Asia ed Africa.

Fu proprio l’Inghilterra a trionfare, conquistando, tra gli altri possedimenti, il Canada, mentre segnò il declino del colonialismo francese.

Omero narra che la ninfa Calipso, innamoratasi di Ulisse lo trattenne sull’isola di Ogigia, dov’era naufragato, offrendogli invano l’immortalità, per ben sette anni.

Le lacrime di Odisseo, che desideroso di tornare ad Itaca, alla fine convinsero Athena a intercedere presso Zeus che a sua volta inviò Ermes da Calipso, che, seppur a malincuore, acconsentì infine a liberare Ulisse.

 

Ci si augura che il mandato che attende il nostro prossimo Presidente sia meno travagliato di quelli sopra descritti.

Come ci ricorda Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale: “Il primo compito di un presidente è quello di assicurare al Paese un governo e quindi una maggioranza parlamentare che lo sostenga.”

Molto dipenderà dall’interpretazione che il prossimo Capo dello Stato vorrà dare alla sua figura ricordando che, per utilizzare una metafora coniata da Giuliano Amato, le sue competenze si ampliano o si restringono “a fisarmonica”.

E’ difficile sottovalutare l’importanza che l’esercizio di questo ruolo avrà nei prossimi anni e, come ammoniva lo zio di Peter Parker (lo Spiderman dei fumetti, creato dallo scrittore Stan Lee e dal disegnatore Steve Ditko), “da un grande potere derivano grandi responsabilità”.  

Ciò del quale abbiamo bisogno oggi più che mai non è un super-eroe bensì un personaggio carismatico ed autorevole, con una visione chiara del presente e lo sguardo puntato sul futuro, capace di farsi ascoltare e rispettare anche al di fuori del nostro Paese.

A me piacerebbe che il nuovo, uomo o (e sarebbe tempo) donna, che salirà al Colle, sapesse incarnare alcune delle caratteristiche migliori dei nostri Presidenti del passato.

Enrico De Nicola, il “presidente galantuomo”, ad esempio, teneva separati i conti personali da quelli pubblici, pagandosi i francobolli, l’inchiostro e la carta per la corrispondenza privata.

Lasciò nel suo ufficio presidenziale a Palazzo Giustiniani, sede del senato, preferito al troppo fastoso Quirinale, il portasigarette d’oro ricevuto in dono da Eva Peròn e respinse al mittente il televisore, uno dei primi in circolazione, omaggio della Rai, rispondendo che l’avrebbe mandato a ritirare una volta pagato in rate mensili.

Pertini secondo Saragat “era della stoffa di cui sono fatti gli eroi” e quando lasciò il suo studio al Quirinale tornò indietro a spegnere la luce.

Proverbiale è stata poi l’attenzione al bilancio pubblico ed alla gestione attenta e scrupolosa della cosa pubblica di Luigi Einaudi.

Paradigmatico è l’episodio raccontato, qualche anno dopo, da Ennio Flaiano, invitato con altre persone a cena al Quirinale, sul Corriere della Sera che ritengo valga la pena di essere riletto:

“Ma eccoci alla frutta. Il maggiordomo recò un enorme vassoio del tipo che i manieristi olandesi e poi napoletani dipingevano due secoli fa: c’era di tutto, eccetto il melone spaccato. E tra quei frutti, delle pere molto grandi. Luigi Einaudi guardò un po’ sorpreso tanta botanica, poi sospirò: «Io» – disse «prenderei una pera, ma sono troppo grandi, c’è nessuno che ne vuole dividere una con me?».  

Tutti avemmo un attimo di sgomento e guardammo istintivamente il maggiordomo: era diventato rosso fiamma e forse stava per avere un colpo apoplettico. Durante la sua lunga carriera mai aveva sentito una proposta simile, ad una cena servita da lui, in quelle sale.  

Tuttavia lo battei di volata: «Io Presidente», dissi alzando una mano per farmi vedere, come a scuola. Il Presidente tagliò la pera, il maggiordomo ne mise la metà su un piatto, e me lo posò davanti come se contenesse la metà della testa di Giovanni il Battista. Un tumulto di disprezzo doveva agitare il suo animo non troppo grande, in quel corpo immenso. «Stai a vedere» – pensai – «che adesso me la sbuccia, come ai bambini». 

Non fece nulla, seguitò il suo giro. Ma il salto del trapezio era riuscito e la conversazione riprese più vivace di prima: mentre il maggiordomo, snob come sanno esserlo soltanto certi camerieri e i cani da guardia, spariva dietro un paravento.  

Qui finiscono i miei ricordi sul presidente Einaudi. Non ebbi più occasione di vederlo, qualche anno dopo saliva alla presidenza un altro e il resto è noto. Cominciava per l’Italia la repubblica delle pere indivise.” 

Tornando al settennato, la Genesi racconta, forse per la prima volta nella storia, l’alternarsi di un ciclo economico positivo (sette anni di vacche grasse) e recessivo (i successivi sette anni di vacche magre).

Al faraone appaiono, in un sogno angoscioso, sette vacche grasse e di bello aspetto che vengono prima affiancate e poi divorate da altre sette vacche brutte e magre.

Il sovrano dell’Egitto chiede aiuto a Giuseppe, il penultimo dei dodici figli di Giacobbe, che detenuto in carcere aveva fama di interpretare i sogni dei carcerati.

Giuseppe, novello economista, raccomanda di conservare la produzione in eccesso per gli anni di carestia attraverso uno dei primi prelievi fiscali documentati dell’antichità (un quinto dei prodotti: il 20%).

Anche noi potremmo avere di fronte diversi anni positivi (grazie, nell’ambito del piano di rilancio economico europeo “Next Generation”, al PNRR) che dovranno essere ben amministrati per potere affrontare serenamente la fase successiva che, come avviene ciclicamente in economia, sarà inevitabilmente meno propizia.

Io sogno un Paese che, anche grazie ad un grande capo dello Stato, sia capace di gestire l’abbondanza per affrontare al meglio le sfide che ci presenterà il futuro, ricco di opportunità ma anche di pericolosissime insidie (a partire dall’enorme debito pubblico).

Sperando che le pere troppo grandi si possano dividere con saggezza e non siano invece lasciate, avanzate, a marcire nei piatti sporchi…

La roulette russa

IL PUNTASPILLI di Luca Martina  

La fortissima salita dei prezzi del gas, alla quale abbiamo assistito negli ultimi 12 mesi, è stata dovuta in buona parte alla ripresa dell’economia, iniziata già a partire dalla metà del 2020.  

I colli di bottiglia dovuti ad una subitanea ripresa della domanda di beni e servizi, senza che fosse possibile soddisfarla prontamente a causa delle fabbriche ancora a regime ridotto (dopo le chiusure e le riduzioni di personale)  ed alla mancanza di scorte nei magazzini (non ricostituite durante la prima fase della crisi), hanno causato l’aumento parabolico dei prezzi di molte materie prime (diventate merce scarsa e richiestissima) e, successivamente, si sono tradotti anche in elevati incrementi dei prezzi al consumo e, dulcis in fundo, in inflazione.

Ma a questo ha anche contribuito la elevata instabilità politica di molti dei Paesi produttori e, almeno nella prima fase, le condizioni atmosferiche che hanno ridotto la produzione di energia idroelettrica.

Occorre ricordare qui come il mercato del gas naturale sia molto “regionale”: i Paesi europei si riforniscono prevalentemente dalla Russia mentre il mercato americano è in buona parte autosufficiente.

Il nostro Paese, ad esempio, nel 2019 ha importato il 46% del gas consumato dalla Russia (tramite un gasdotto che attraversa il territorio ucraino) mentre il 19% proveniva dall’ Algeria ed il rimanente da Qatar, Norvegia e Libia.

E’ così accaduto che il prezzo del gas sia rimasto sostanzialmente stabile negli Stati Uniti a differenza di quanto avvenuto in Europa ed in Asia.

  Il riacuirsi della crisi tra la Russia e l’Ucraina è stata la classica benzina (o gas…) gettata sul fuoco.

Il conflitto tra i due Paesi è iniziato quasi otto anni fa, nel febbraio del 2014, con l’occupazione russa della Repubblica di Crimea (che apparteneva per legge all’Ucraina) e il sempre maggiore avvicinamento, con la potenziale adesione alla NATO, di Kiev ai Paesi occidentali (che secondo Putin, dopo la rivoluzione del 2014, controllerebbero il Paese) ha provocato la reazione russa (con un massiccio schieramento di truppe ai confini) degli ultimi mesi.

Putin ha disposto inoltre prima la cessazione delle esportazioni di carbone all’ex repubblica sovietica e, successivamente, l’utilizzo del nuovo (appena terminato) gasdotto “Nord stream 2” che consentirà di tagliare fuori l’Ucraina (riducendone così le entrate percepite per questo “passaggio”) dal percorso del gas esportato.

Questo gasdotto sarà in grado di portare nel cuore dell’Europa il gas russo attraverso il mar Baltico ed è stato a lungo avversato sia dagli Stati Uniti che dalla Commissione europea (che deve ancora concedere i permessi necessari, anche se la Germania, con il suo nuovo governo, potrebbe presto sfilarsi) per questioni ambientali e di sicurezza.

Il presidente russo ha reagito con sempre maggiore insofferenza alle critiche, provenienti dai governi occidentali, al suo atteggiamento nei confronti di Kiev ed ha utilizzato senza grandi scrupoli le forniture energetiche per rendere più “malleabili” i paesi importatori.

Uno degli effetti collaterali di questa situazione è stata la creazione di forti tensioni, particolarmente evidenti nei Paesi dove il prezzo del gas, dapprima calmierato, è stato lasciato libero di salire, provocando un forte scontento tra la popolazione.

Ciò è quanto avvenuto in Kazakistan dove le proteste popolari si sono sommate alle richieste di maggiori libertà democratiche (il presidente in carica Tokajev è filorusso ed ha sempre risposto a queste istanze con estrema durezza).

Il Kazakistan e l’Ucraina rappresentano due dei più importanti stati-cuscinetto che hanno storicamente consentito alla Russia di approvvigionarsi di materie prime e di tenere lontani da Mosca, il cuore del Paese, i propri nemici.

Impensabile quindi che l’ex impero zarista si rassegni a rinunciare completamente al controllo (diretto o indiretto) dei territori che la “proteggono”, ad ovest dagli altri Paesi europei della sfera atlantica ed a sud dalla Cina e dalle repubbliche islamiche.

Non sembra perciò realistica, per il prossimo futuro, una totale cessazione delle tensioni e tanto meno la creazione di stati pienamente democratici nell’ambito dei Paesi appartenenti alla Comunità degli stati Indipendenti (la CIS).

Il rischio che la situazione sfugga di mano esiste ma la realpolitik dovrebbe condurre ad una stabilizzazione che consentirà una riduzione delle pressioni sul prezzo del gas ed un suo graduale ritorno a livelli più simili a quelli praticati oltreoceano dai produttori statunitensi.

Il ricorso alla forza rimane improbabile anche se è purtroppo impossibile sapere se, come in una pericolosa roulette russa, la pistola puntata alla tempia sia carica o no.

La Russia, un po’ come la Cina, rivendica sempre di più un ruolo di primo piano nello scacchiere geopolitico mondiale e questo è uno degli effetti del cambiamento di rotta, con un crescente disimpegno a livello internazionale, operato dagli Stati Uniti: iniziato dalla presidenza di Barack Obama, proseguito poi, con ancora maggiore decisione, da Donald Trump e non certo smentito, sinora, da Joe Biden.

Chi è causa del suo male…

L’anno che verrà

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

L’anno che abbiamo davanti pone ai risparmiatori l’usuale dilemma: dove investire il proprio denaro per cercare di preservarlo dal ritorno dell’inflazione?  

Come scrivevo la settimana scorsa (“La strana coppia”, https://iltorinese.it/2021/12/28/la-strana-coppia-tassi-di-interesse-e-inflazione/ ) i titoli obbligazionari emessi dai governi (i nostri BTP e CCT) non rappresentano più una scelta in grado di proteggere il valore reale dei nostri risparmi in quanto il rendimento offerto anche dai titoli con scadenza più lontana è ben al di sotto non solo del tasso di inflazione attuale ema anche di quello che potremmo vedere nei prossimi anni.

La scelta più ovvia (a patto di affrontarne consapevolmente i rischi) parrebbe allora quella di investire, tramite i mercati azionari, nelle aziende che beneficeranno, con i loro fatturati e utili, della futura crescita economica.

Questo non deve però farci dimenticare che l’allocazione del proprio patrimonio dovrebbe essere il frutto, in primo luogo, della propria propensione al rischio (una componente da valutare in anticipo, da soli ma anche con l’aiuto di un consulente che sia in grado di farlo senza essere direttamente coinvolto emotivamente).

Ci sono poi tutte le incertezze (pericoli e opportunità) legate al quadro circostante.

Possiamo allora cercare di identificare una serie di fattori che influenzeranno l’andamento dei mercati finanziari (azioni e obbligazioni) nel corso del prossimo anno.

L’inflazione è certamente l’argomento che da alcuni mesi più fa discutere: la sua crescita desta preoccupazione e continuerà a farlo sino a quando non assisteremo ad una sua discesa dai livelli attuali.

La tesi prevalente è che ciò possa iniziare ad avvenire nella seconda parte del prossimo anno e questa è una delle ragioni che ha limitato, per ora, la salita dei tassi di interesse a lungo termine (gli investitori scontano già la possibilità che tra qualche anno l’inflazione tornerà su livelli meno preoccupanti).

Questa evoluzione potrebbe rendere meno decisa (e aggressiva) la linea di azione delle banche centrali (a cominciare dalla Federal Reserve statunutense) il cui principale obiettivo è la stabilità dei prezzi (ovvero un limitato, intorno al 2%, livello di inflazione).

La generosità dei “signori della moneta” è stata una dei fattori principali che ha consentito la salita dei mercati finanziari dell’ultimo decennio e il cambiamento di rotta seppur inevitabile (e atteso) porta sempre con sé i rischi legati ad una “inversione a u” effettuata a grande velocità.

Meglio allora avere la possibilità di effettuare una simile manovra con maggiore calma e gradualità ed in condizioni di sicurezza, così da non innervosire i mercati finanziari e consentire un riallineamento senza traumi (né per i titoli obbligazionari né per quelli azionari) delle aspettative degli investitori.

Nel frattempo dovrebbero nel corso del 2022 materializzarsi gli interventi che tutti i governi del mondo hanno approntato nei mesi scorsi, consentendo così un consolidamento della ripresa economica seguita allo shock provocato dalla pandemia nei primi trimestri del 2020.

Naturalmente ad un anno che tutti ci auguriamo finalmente sereno dovrà necessariamente contribuire un miglioramento delle preoccupazioni legate alla pandemia.

La graduale riduzione della gravità delle infezioni e l’arrivo di farmaci per poterle curare potrebbero contribuire a diminuire l’incertezza che è ancora uno dei sentimenti prevalenti sul nostro futuro immediato.

In questo scenario, indubbiamente ottimista, la crescita degli utili aziendali sosterrebbe ancora l’andamento delle borse pur non preservandole, viste anche le elevate valutazioni ed il livello di ottimismo, da periodiche (seppur temporanee) correzioni.

Una maggiore prudenza su una delle variabili menzionate (inflazione, azione delle banche centrali, andamento economico e diffusione della pandemia) dovrebbe, al contrario, indurre ad investimenti a basso rischio e tendenzialmente non azionari, come le obbligazioni a breve termine (con rendimenti negativi) o la liquidità sul conto corrente.

Per noi italiani esiste inoltre un ulteriore elemento di incertezza legato alla durata del governo in carica.

Una “promozione” dell’attuale primo ministro alla presidenza della Repubblica rappresenterebbe una discontinuità che non sarebbe (almeno nel breve termine) apprezzata dagli investitori, come testimonia l’aumento dello “spread” (la differenza di rendimento, riflesso del maggior rischio associato, tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi) nelle ultime settimane.

L’anno che sta arrivando tra un anno passerà. Noi ci stiamo preparando e questa è (forse) la novità…

La strana coppia (tassi di interesse e inflazione)

IL PUNTASPILLI  di Luca Martina  

 

I risparmiatori sono sempre più sconcertati dalla mancata protezione fornita ai loro risparmi dai titoli di Stato.  

 

Non parliamo solamente del nostro mercato, di BTP e CCT, ma di tutte le obbligazioni emesse dai principali Paesi sviluppati.

 

Il tasso di interesse, il rendimento dei titoli obbligazionari, dovrebbe garantire che i capitali concessi in prestito (nient’altro che questo, infatti, si tratta quando si acquistano dei titoli di Stato) possano essere rimborsati mantenendo invariato il loro potere di acquisto.

 

La remunerazione ricevuta dagli obbligazionisti dovrebbe perciò essere tale da ricompensarli per la perdita di spesa generata dagli aumenti dei prezzi che ci si aspetta si verifichino (l’“inflazione attesa”) dal momento del prestito a quello del suo rimborso.

 

Questo non sembra proprio essere quanto sta avvenendo di questi tempi e, per citare Warren Buffet (il celebre investitore statunitense): investire è semplice ma non è facile.

 

L’inflazione, “rara avis” sino all’inizio dell’anno, è da qualche mese in rapidissima salita.

 

Negli Stati Uniti si è passati dall’1,5% di gennaio al 6,8% di novembre e nel nostro Paese è salita dallo zero al 4% circa.

 

Questa risalita è stata a più riprese (e secondo chi scrive) correttamente attribuita in buona parte ai colli di bottiglia generatisi dopo la ripartenza della crescita economica (domanda di beni e servizi), che ha superato la capacità di fornire prontamente quanto veniva richiesto (le imprese avevano ridotto le scorte di magazzino durante il primo anno di pandemia e la ripartenza del processo produttivo ha richiesto più tempo).

I fattori che hanno provocato il surriscaldamento dei prezzi dovrebbero mitigarsi a partire dalla prossima primavera e questo dovrebbe essere sufficiente a “raffreddare” la temperatura, ora al calor bianco.

 

Rimane però il fatto che i rendimenti delle emissioni governative sono aumentati da inizio anno (provocando una discesa dei prezzi dei titoli) ma solo in minima misura rispetto non solo all’attuale tasso di inflazione (“temporaneamente” molto elevato) ma anche ad un livello più “normale” del 2-2,5%.

 

Oltreoceano, infatti, il titolo governativo decennale rende oggi l’1,49% mentre il nostro BTP con uguale scadenza frutta solo l’1,1% (e il titolo a 5 anni lo 0,34%).

 

Le spiegazioni fornite a questo apparente paradosso sono di tre tipi.

 

Da un lato ci sono coloro che accusano le banche centrali di avere falsato irrimediabilmente il funzionamento dei mercati attraverso i loro massicci e reiterati interventi di acquisto di titoli (il cui rendimento risulta così molto più basso di quanto dovrebbe essere).

 

C’è poi chi ritiene gli investitori obbligazionari estremamente razionali (in contrapposizione alla presunta irrazionalità di quelli azionari) ed informati; in quest’ottica i (bassissimi) tassi di interesse rifletterebbero qualcosa di molto negativo: una recessione sarebbe nuovamente alle porte e con questa la fine dell’inflazione (la diminuzione della domanda di beni e servizi porterebbe alla discesa dei loro prezzi, dopo la salita di quest’anno).

 

In verità risulta difficile negare, almeno in parte, le ragioni di questi primi due gruppi ma cionondimeno ci sembra che la realtà sia ben più complessa.

 

I mercati del reddito fisso sono sempre più dominati da quattro diverse categorie di operatori (che superano in importanza gli investitori tradizionali):

 

  • Gli speculatori che agiscono sulla base di algoritmi, noncuranti del livello assoluto dei tassi di interesse (e che “giocano” sul differenziale tra tassi a lungo e tassi a breve, la “pendenza” della curva);
  • Gli investitori “ufficiali”, le banche centrali ed i governi, che intervengono per perseguire i loro obiettivi di politica monetaria (per sostenere o rallentare l’economia) o per stabilizzare la propria valuta nazionale;
  • I grandi fondi pensione, le compagnie assicurative e le banche che acquistano titoli obbligazionari per allocare parte delle proprie attività a basso rischio (come dettato dagli organi regolamentari);
  • Gli investitori privati che perseguono il profitto tramite i mercati azionari e che utilizzano le obbligazioni governative per abbassare il rischio complessivo dei loro portafogli.

 

La presenza di questi attori sul mercato rende meno “inspiegabile” l’attuale livello dei tassi di interesse (destinato comunque a salire se l’economia mondiale non deraglierà dal percorso di crescita dettato dagli investimenti in corso di implementazione in tutto il mondo).

 

Rimane, comunque, per noi poveri investitori la difficoltà di trovare degli investimenti che proteggano il nostro cammino dal deprezzamento generato dall’aumento dei prezzi al consumo.

 

La risposta negli ultimi anni è stata fornita dal volo compiuto dai mercati azionari i quali però presuppongono una capacità di rischiare e di pazientare (allungare l’orizzonte temporale dei propri investimenti rimane l’unico metodo verificato per ridurre la probabilità di perdere) non sempre correttamente valutata ex ante (la “voglia” di rischiare tende ad essere elevata quando i risultati sono positivi per poi annullarsi in caso di perdite).

 

Prepariamoci ad un altro anno molto interessante al quale ben si addice, a mo’ di augurio, la frase di Martin Luther King: “Se non puoi volare, corri, se non puoi correre, cammina, se non riesci a camminare, allora striscia, ma qualunque cosa tu faccia, devi andare avanti.”

 

Auguri a voi ed ai vostri patrimoni.