Il puntaspilli- Pagina 5

La coda del brontosauro 

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Nell’estate del 2007 il leggendario investitore britannico Jeremy Grantham si diceva fortemente preoccupato per quanto stava avvenendo sui mercati: le nubi nere che avrebbero condotto alla crisi finanziaria dei mutui “sub-prime” si stavano addensando e i mercati finanziari venivano da lui paragonati a dei brontosauri. 

Il gigantesco sauropode del Giurassico Superiore una volta subito un morso alla punta della sua smisurata coda sarebbe stato in grado di reagire solo con estrema lentezza, il tempo necessario per fare arrivare l’impulso, dopo avere percorso tutta l’estremità, il robusto corpo e il lunghissimo collo, al suo piccolissimo cranio.

Così quindici anni fa i mercati avevano impiegato parecchi mesi prima di iniziare ad indebolirsi, incorporando quanto già era conosciuto (o conoscibile) da parecchi mesi.

La stessa immagine viene evocata oggi. Dopo molti mesi di inflazione salita ad un livello molto più elevato di quello considerato fisiologico (il 2%) dai banchieri centrali, da qualche tempo il messaggio di allarme è penetrato con forza anche nelle menti degli investitori.

L’immagine è suggestiva, non manca certo di arguzia e non è probabilmente troppo distante dalla realtà, ma, ad onor del vero, occorre ammettere come il “morso” iniziale (una inattesa pandemia di portata globale) sembrava potesse essere curabile e non causare così un dolore/inflazione duraturo.

Quello che ha cambiato le carte in tavola è stata una forte ripresa economica frenata (ma non ancora abbastanza) dalle conseguenze di una guerra che non può essere, come tante altre in giro per il mondo negli ultimi anni, ignorata perché coinvolge pesantemente il funzionamento delle economie occidentali.

Il peso specifico rappresentato dalla Russia e, in misura inferiore, dall’Ucraina, sui mercati delle materie prime ha scatenato una corsa al loro accumulo (nel fondato timore che presto il conflitto avrebbe creato dei problemi al loro approvvigionamento) ed il loro prezzo ha trascinato rapidamente l’inflazione a livelli mai visti negli ultimi quarant’anni.

Il brontosauro ha finalmente ricevuto il segnale e ora si agita, in modo nervoso e scomposto, per il dolore.

La parola proibita, R*********, esorcizzata dagli analisti economici e politici, incomincia a comparire nei commenti ufficiali. Negli scorsi giorni il governatore della Bank of England, Andrew Bailey, ha detto senza peli sulla lingua che la ineludibile missione di sconfiggere l’inflazione potrebbe presto condurre l’economia britannica ad una Recessione (ah, la parola…!).

Le recessioni (così come le, più durature e gradite, espansioni) rappresentano una delle “normali” fasi di un ciclo economico ma la sofferenza (economica e sociale) che portano con loro le rende assai indigeste (inaccettabili) per gli investitori (ed i politici).

L’azione dei “protettori della moneta” (le banche centrali) ha come obiettivo primario quello di uccidere l’idra inflazionistica e spetterà ai governi trovare un faticoso equilibrio che consenta di evitare le conseguenze peggiori (innanzitutto un aumento della disoccupazione) della caccia grossa.

Il cervello del brontosauro, così come quello degli investitori, sta ancora cercando di metabolizzare quanto sta avvenendo.

Il gigantesco rettile non a caso è andato incontro, da moltissimi anni, alla sua estinzione.

Gli investitori, se avranno pazienza, potranno sopravvivere…anche se con dolore.

Il mese più crudele

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

Il 2022 è, secondo il calendario cinese l’anno della tigre, un segno caratterizzato da un segno da grande innovazione, cambiamento e rinnovamento ma anche impulsività e azione.

 

Per il mondo e per i mercati finanziari però i primi quattro mesi sono trascorsi sotto il segno dell’orso (che è utilizzato per rappresentare i periodi negativi mentre per quelli favorevoli è utilizzato il Toro).

 

L’orso russo si è rumorosamente destato dal proprio letargo, dal quale aveva già dato da tempo segnali di un sonno agitato da progetti bellicosi, scatenando una guerra dalle conseguenze e dalla durata imprevedibile.

 

Anche sulle piazze internazionali l’orso è imperversato: si è trattato infatti del peggior inizio d’anno da quarant’anni a questa parte per i mercati obbligazionari (deputati storicamente a rendere stabili i portafogli degli investitori) mentre per quelli azionari, prendendo come riferimento quello statunitense, bisogna ritornare ai primi quattro mesi del 1939 per assistere a un esordio d’anno più negativo.

 

La Terra ci appare da un qualche di tempo davvero desolata, proprio come la descriveva, pochi anni dopo la fine della Prima guerra mondiale, Thomas Stearns Eliot nel suo poema “Wasteland”, ferita com’è da malattie (la pandemia) e da un conflitto che pensavamo non più possibile nel nostro continente.

 

Possiamo allora ben dire che aprile è stato, per parafrasare il poeta americano, il mese più crudele avendo assistito ad una discesa del 10% dell’indice Standard and Poor e del 15% del Nasdaq.

 

Non mancano certo gli argomenti che possono aiutarci a comprendere meglio quanto avvenuto.

 

L’inflazione, risuscitata dopo molti anni dalla ripresa seguita alla prima ondata pandemica e resa più pervicace dall’aumento delle materie prime provocato dalla guerra in Ucraina, ha provocato l’aumento dei tassi di interesse (la cui funzione è quella di proteggere il potere di acquisto delle somme prestate fino al momento della loro restituzione) e questo, per la nota relazione inversa, si è tradotto in pesanti perdite per i titoli obbligazionari.

 

L’aumento dei prezzi si sta riflettendo nel rallentamento della crescita (così ben avviata nel 2021) e, conseguentemente, degli utili futuri delle società quotate in borsa ed in particolare di quelle che, grazie alle loro promettenti prospettive, godevano di valutazioni molto elevate e che sono perciò state punite con pesantissimi ribassi.

 

Ne sono un esempio il poker di titoli più amati, almeno sino a poco tempo fa, dagli investitori, i cosiddetti FANG (Facebook/Meta, Amazon, Netflix e Google/Alphabet), che hanno lasciato sul terreno negli ultimi sei mesi circa il 70% del loro valore.

 

Come se non bastasse, la pandemia non è stata ancora debellata, sebbene si manifesti ora fortunatamente con minore gravità, e la Cina, con la sua tolleranza zero, sta trascinando la propria economia in una fase di pericoloso (anche per il resto del mondo) stallo.

 

Il rischio che tutto ciò ci stia conducendo ad una severa recessione è ora quantomai reale.

 

Le banche centrali sono impegnate nella missione di spegnere le scintille (ormai tramutatesi in incendi) inflazionistiche a costo di fare annegare la ormai fragilissima crescita economica; il Fondo Monetario Internazionale prevede ancora per il 2022 uno scenario positivo per il PIL americano, +3,7%, ed europeo, intorno al +2% ma presto verrà quasi certamente rivista ulteriormente al ribasso.

 

Oggi e domani i signori del denaro della Federal Reserve si riuniranno a Washington per decidere il prossimo aumento dei tassi di interesse; l’opinione più diffusa è che sarà dello 0,5% ma l’attenzione sarà in gran parte rivolta al messaggio del governatore Jerome Powell che, come d’uso, accompagnerà la decisione per cogliere, dall’analisi attenta del testo, quali pensieri si aggirano nella sua preoccupatissima mente e le sue intenzioni sulle mosse future.

 

Le preoccupazioni sono state rafforzate anche dai dati pubblicati la scorsa settimana sul PIL statunitense: la discesa dell’1,4% ha rappresentato uno shock ma occorre considerare che la discesa (evento piuttosto raro e spesso anticamera di una recessione) è da attribuire al peggioramento degli scambi commerciali con l’estero (che ha un andamento molto erratico) e quello dell’accumulo delle scorte (salite tantissimo l’anno scorso, per il riapprovvigionamento delle aziende dopo le chiusure dovute alla pandemia).

 

Il “cuore” dell’economia americana nel primo trimestre, escludendo le esportazioni nette e le scorte, è cresciuto invece di un non disprezzabile 3%.

 

La situazione è quantomai in bilico ma potrebbe ancora tradursi in un rallentamento che, non appena lo stato di emergenza cinese sarà stato rimosso (come avvenuto nel 2020), la crisi Ucraina stabilizzata (si spera con un cessate il fuoco ed un accordo equilibrato tra le parti in causa) e le banche centrali più caute sulle future restrizioni monetarie, non degeneri in una pesante stagflazione (situazione ben più grave, dove l’inflazione si accompagna ad un forte aumento della disoccupazione ed alla recessione).

 

Qualche speranza viene proprio dal gigante asiatico dove il Presidente Xi Jinping ha annunciato al Politburo, tenutosi venerdì scorso, la volontà di sostenere l’obiettivo di una robusta crescita, pari al 5,5%, per quest’anno (al momento pare piuttosto ambizioso e per essere raggiunto sarà necessario riaprire presto tutte le città e le attività economiche attualmente in quarantena).

 

Con i se ed i con ma non si fa certo la storia ma quello che è certo è che concentrarsi eccessivamente sugli avvenimenti, giorno per giorno, può fare perdere la prospettiva (e la lucidità) complessiva.

L’orso potrebbe presto stancarsi e prendersi una pausa, soddisfatto dello scompiglio che ha portato in pochi mesi (il rallentamento della crescita potrebbe essere sufficiente ad interrompere  la spirale innescata dalla salita delle materie prime), oppure continuare ad aggirarsi famelico e nervoso ancora per qualche tempo.

 

Ci conforta ricordare che il maestoso plantigrado non resta mai troppo lontano dalla sua tana (le recessioni sono relativamente rare e di durata più breve delle fasi economiche positive) e che reagire in modo scomposto, arrivati a questo punto, non sembrerebbe la scelta migliore.

 

L’anno che sembrava iniziare sotto i migliori auspici, con la pandemia che stava riducendo la sua pericolosità ed ampi piani di rilancio economico, è stato sinora avarissimo di soddisfazioni.

 

Quanto è successo ci ricorda come le previsioni non sono per nulla difficili: la cosa complicata è, piuttosto, azzeccarle.

 

Prevedo che i prossimi mesi saranno molto, molto interessanti.

 

 

Una storia semplice

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

La storia della Russia è legata indissolubilmente a quella delle repubbliche oggi indipendenti (almeno formalmente) che la circondano.

La necessità di creare un cuscinetto difensivo dalle potenze europee (Germania in testa) ed un accesso al Mar Nero è sempre apparsa come una assoluta priorità dei suoi governanti.

Ai nostri giorni la minaccia percepita da Mosca non è forse tanto la NATO o la Comunità europea quanto il loro sistema socio-economico che, termine di confronto costante per i sui abitanti, ha prima logorato e poi definitivamente fatto crollare la Cortina di ferro.

La forza attrattiva dell’Europa occidentale, con le sue variegate libertà (di pensiero, di stampa, di voto ma anche, non di minore importanza, di consumo), ha sempre rappresentato una minaccia che Vladimir Putin ha avuto ben chiara sin da quando ha varcato la soglia del Cremlino.

Va ricordato come alla fine del secolo scorso la Russia si trovava in una situazione estremamente difficile.

Dopo il dissolvimento dell’impero sovietico (il giorno di Natale del 1991) gli anni successivi avevano visto un presidente, Boris Eltsin, del tutto inadatto a gestire un Paese dove la povertà, la criminalità e la corruzione pubblica crescevano a dismisura.

Sin dal suo insediamento a capo del governo nell’agosto del 1999 Putin si è accreditato nei confronti del suo paese come l’uomo forte indispensabile necessario alla Russia per potere risorgere dalle proprie ceneri.

Durante il suo primo mandato presidenziale il PIL russo è cresciuto del 72% in otto anni e la sua popolarità è aumentata di pari passo.

Una volta stabilizzato il fronte interno l’attenzione del “piccolo zar” si è concentrata nel consolidamento e nell’accentramento presso di sé delle principali leve del potere.

Nel frattempo, il piano di riconquista dei territori sovietici persi ha iniziato a prendere corpo. Per potere avere successo un simile progetto non poteva certo prescindere da una maggiore integrazione delle federazione russa con i giganti economici europei, con l’obiettivo di renderli alla fine dipendenti dalle proprie risorse naturali.

L’ingresso, nel 2012, nel WTO (l’organizzazione mondiale del commercio) che ha consentito alla Russia di entrare pienamente negli scambi internazionali, ne è stato un chiaro esempio.

Un aiuto insperato è arrivato, poi, dalla decisione degli Stati Uniti (ancora sotto la presidenza Obama) di ridurre la propria presenza in Europa per concentrarla sul fronte asiatico.

I legami con la Germania sono presto diventati la potente testa di ponte russa in occidente e l’occasione ghiottissima dell’annuncio della chiusura delle centrali nucleari (nel 2011, dopo il disastro dell’impianto giapponese di Fukushima) ha consentito alla Russia di offrire il proprio gas su un vassoio d’argento, con un gasdotto, il Nord Stream 1, progettato nel 1997 e inaugurato giusto in tempo per tranquillizzare i tedeschi orfani dell’atomo.

Per l’imponente opera infrastrutturale, fondamentale per distribuire le enormi quantità di gas naturale necessarie ai Paesi europei (con la Germania e l’Italia in prima fila), furono coinvolti in ruoli attivi, utilissimi per ottenere le necessarie autorizzazioni, politici di spicco del nostro continente: a capo figurava l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder e tra i consulenti gli ex primi ministri finlandese ed italiano.

Ma l’abbraccio inestricabile dell’orso russo non si è limitato al super gasdotto, poi raddoppiato con il benestare tedesco, con il Nord Stream 2. A capo della maggiore banca russa, la Sberbank, veniva chiamato un altro ex primo ministro finlandese, alle ferrovie nazionali ed alla Lukoil (la più grande compagnia petrolifera nazionale) due ex cancellieri austriaci.

Gli “amici” russi resero anche inutile, portando al suo abbandono, il disegno, ormai ad uno stato avanzato di studio, che si prefiggeva di rendere navigabile il Danubio collegando così l’Europa Centrale al Mar Nero.

Il lungo volo della “falena pallida” (uno dei soprannomi di Putin) non si è però limitato a toccare l’Europa occidentale. I legami con Cina, India, Africa e Medio Oriente sono stati negli ultimi vent’anni coltivati con estrema cura.

Non poteva infine certo mancare una organizzazione che riavvicinasse, riunendoli in una organizzazione internazionale, alcuni dei gioielli della corona sovietica ed infatti nel 2011 Putin annunciava la creazione dell’Unione economica eurasiatica (UEE).

Sono tutte queste alleanze che stanno rendendo assai poco efficaci le sanzioni poste in atto contro Mosca.

A pensarci bene, è una storia semplice ed è così che è maturata, sottotraccia ma certamente non in modo invisibile, la crisi che ha condotto alla guerra.

Non c’è nessuno di così cieco di chi non vuole vedere e la guerra sta facendo ritornare la vista a molti di coloro che hanno colpevolmente per troppi anni chiusi i propri occhi.

Se un cieco si mette a guidare un altro cieco, entrambi cadono nella fossa, recitava Gesù nel vangelo di Matteo.

Riacquisita la vista si tratterà di farne in futuro buon uso e di non lasciarci più accecare dalla nostra cupidigia.

Non dovremmo mai dimenticare che, come ricordava un grande giornalista, Tiziano Terzani, “la Terra ha abbastanza per i bisogni di tutti ma non certo per l’ingordigia di tutti”.

Armi, acciaio, malattie ed inflazione

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

Per economisti e banchieri centrali la crescita degli ultimi 13 anni (prima della crisi provocata dalla pandemia) registrava un grande assente: l’inflazione. 

 

Storicamente (quantomeno dopo i due conflitti mondiali) le fasi positive del ciclo economico si sono sempre accompagnate a una salita dei prezzi di beni e servizi.

Il meccanismo è semplice: l’ottimismo sul futuro e la bassa disoccupazione conducono ad aumentare i propri acquisti e, prima o poi, i loro prezzi iniziano a salire (più un bene è ambito più diventa caro, specie se, vista la piena occupazione, non si è in grado di produrne in quantità sufficiente e nei tempi richiesti).

 

La violenta crisi che ha colpito i Paesi emergenti nel 1997, ha provocato una potentissima ondata deflazionistica (attraverso la svalutazione delle proprie valute e forti riduzioni dei prezzi delle loro esportazioni ai Paesi occidentali) che ha lambito le sponde di tutto il mondo nei due decenni successivi.

 

Se a questo si aggiunge la crescente “globalizzazione” (spostamento della produzione nei Paesi a basso costo ed incremento dei commerci internazionali) che ha accompagnato questo fenomeno, non è difficile comprendere il perché della scomparsa dell’inflazione.

 

Neanche la massiccia creazione di nuova moneta da parte delle banche centrali di tutto il mondo negli ultimi anni aveva stanato l’animale spaventato.

 

Negli anni seguiti alla crisi finanziaria del 2007 le economie di tutto il mondo (trainate dagli Stati Uniti) sono tornate a crescere (seppure a ritmi ridotti rispetto ai decenni precedenti), anche grazie all’azione concertata degli istituti centrali.

 

Ma la liquidità messa a disposizione è rimasta in larga misura “inattiva”, investita in buona parte in titoli obbligazionari, non spingendo, così, al rialzo i prezzi dei nostri acquisti bensì il valore dei portafogli investiti.

 

Uno dei massimi desideri, più volte dichiarati dai banchieri, era quello di tornare ad una situazione di “normalità”, dove un’inflazione moderata (il tasso identificato è quello del 2%) stimola a non differire gli acquisti (se penso che i prezzi aumenteranno acquisto oggi anziché aspettare future occasioni migliori) e consente alle aziende di incrementare i propri fatturati.

 

Il quadro è cambiato radicalmente negli ultimi due anni: la crisi pandemica e la guerra in Ucraina hanno provocato colli di bottiglia (dovuti alla ripresa economica post pandemica) e aumenti violentissimi dei prezzi delle materie prime.

Il ritorno, tanto agognato, dell’inflazione si è così improvvisamente materializzato ma il sogno ha assunto rapidamente i colori di un incubo per le banche centrali e per gli investitori.

 

La salita dei tassi di interesse ha prodotto forti perdite ai portafogli obbligazionari, ponendo anche dei dubbi sulla sostenibilità dei rialzi messi a segno dai mercati azionari (ed in particolare dei settori a maggiore crescita futura quale la tecnologia).

 

I maggiori rendimenti dei titoli di Stato potrebbero renderli più attraenti (dopo molti anni di vacche/interessi magrissimi) e convincere gli investitori azionari a spostarsi verso questi (meno rischiosi) investimenti.

 

Nello stesso tempo i tassi di interesse più elevati renderanno più costoso ripagare i debiti delle società e meno interessante la crescita futura degli utili, ridimensionando le prospettive dei mercati azionari.

 

Il livello dei tassi di interesse si trovava ai minimi degli ultimi 500 anni e una sua risalita non dovrebbe certo sorprendere ma si sa che i mercati non amano i cambiamenti e le incertezze che ne conseguono.

 

Il governatore della banca centrale statunitense, Jerome Powell, sembra deciso a fronteggiare la situazione adottando il “metodo Ferber”, ignorando i pianti e gli strepiti degli investitori impauriti.

 

D’altro canto “colui che vuole condurre un’orchestra, deve voltare le spalle al pubblico”.

Una maggiore gradualità dovrebbe accompagnare la politica adottata dalla BCE, impegnata a fronteggiare, oltre all’inflazione, anche un conflitto che vede l’Europa in prima linea (per la sua vicinanza geografica e per gli impatti diretti sui prezzi delle fonti energetiche importate dalla Russia).

 

L’inizio shock (specie per i mercati obbligazionari) dell’anno ci ricorda che non esistono “pasti gratis”.

 

Il prezzo da pagare per ottenere buoni risultati è quello di accettare di affrontare le (spiacevoli) conseguenze di eventi avversi, inattesi (epidemie e guerre) o meno (le periodiche fasi di rallentamento o le recessioni), senza lasciarsi trascinare dalle emozioni nella gestione dei propri risparmi.

 

Le banche centrali corrono il rischio di uccidere, con l’inflazione, anche la crescita economica ma esiste la concreta possibilità di un “normale” rallentamento ciclico che costituisca solo una dolorosa pausa per gli investitori avveduti (poco emotivi e con un portafoglio ben diversificato).

 

Il nuovo ordine mondiale, meno globalizzato, ci obbligherà probabilmente ad adeguarci al nuovo paradigma (che sa più di ritorno al passato) dove i miglioramenti dell’economia sono seguiti da una salita di inflazione e tassi di interesse.

 

Una volta allenati alla nuova situazione, dopo qualche lacrima, dovremmo essere in grado, ancora una volta, di riaddormentarci sui nostri investimenti.

Sereni come un bambino.

Sogni, universi, metaversi ed altre amenità

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

L’universo è in continua ed inarrestabile espansione. Il fisico Adam Riess, premio Nobel per la fisica nel 2011, sostiene che la velocità di espansione dell’Universo è pari a 73,2 chilometri al secondo per megaparsec ed a questo ritmo la distanza fra due oggetti nello spazio è destinata a raddoppiare in “appena” 9,8 miliardi di anni.

Mentre il nostro universo si allarga, senza che noi comuni mortali possiamo realmente apprezzarne gli effetti nelle nostre attività quotidiane, altri universi stanno nascendo e possiamo già ora iniziare a valutare gli effetti della loro crescita.

La curiosità nei confronti di questo nuovo fenomeno è enorme ed in continua ascesa: basti pensare che l’anno scorso le ricerche effettuate su internet della parola “Metaverso” sono state di 70 volta superiori al 2020.

La creazione del termine è da attribuire a Neal Stephenson nel suo romanzo, pubblicato nel 1992, “Snow Crash”.

Nell’opera di Stephenson il metaverso era descritto come un mondo digitale nel quale gli abitanti di un’America ridotta da una grave crisi economica mondiale in una situazione anarco-capitalista, governata dalle grandi aziende private, possono rifugiarsi.

Il protagonista, Hiro, un fattorino che consegna le pizze, sarà impegnato nell’impresa di fermare un potente virus, lo “snow crash”, che danneggia irrimediabilmente i cervelli degli utilizzatori (che lo popolano tramite i loro cloni digitali, gli “avatar”) del metaverso.

Il termine ha iniziato a circolare con forza solo l’anno scorso quando Mark Zuckerberg ha deciso di rinominare la sua creatura, Facebook, in “Meta”.

Per usare le parole di Zuck: “La prossima piattaforma sarà ancora più immersiva (rispetto all’attuale esperienza di condivisione di testi e video tramite PC e cellulari), un internet incarnato dove saremo parte dell’esperienza e non semplici spettatori. Noi lo chiamiamo “metaverso” e riguarderà ogni prodotto che noi costruiremo. Nel metaverso potremo fare qualunque cosa che saremo in grado di immaginare”.

Il video visibile su https://www.youtube.com/watch?v=Uvufun6xer8&t=1277s può essere molto utile per farsi un’idea di quanto ci aspetta.

Si ha, insomma, l’impressione che di fronte ad un mondo “reale” destinato ad un rapido deterioramento potremo presto rifugiarci e prendere cittadinanza in un universo parallelo, un mondo ideale plasmabile e personalizzabile secondo i nostri desideri ed i nostri sogni.

Non possono non tornarmi alla mente, allora, le parole che Shakespeare mette in bocca a Prospero, nel quarto atto de “La tempesta”:

“Ferdinando, ti vedo assai turbato, come sgomento: non aver paura. I giochi di magia son terminati. Come t’avevo detto, quegli attori erano solo spiriti dell’aria, ed in aria si son tutti dissolti, in un’aria sottile ed impalpabile. E come questa rappresentazione – un edificio senza fondamenta – così l’immenso globo della terra, con le sue torri ammantate di nubi, le sue ricche magioni, i sacri templi e tutto quello che vi si contiene è destinato al suo dissolvimento; e al pari di quell’incorporea scena che abbiam visto dissolversi poc’anzi, non lascerà di sé nessuna traccia.

Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita.”

Il metaverso promette di farci sognare ad occhi aperti, in modo cosciente, ed allargare così i confini della nostra breve vita, poco importa se “l’immenso globo della terra (…) è destinato al suo dissolvimento”.

Fuor di metafora non possiamo (né potremo farlo neanche in un futuro dove ci reincarneremo in un “avatar”, cittadini del metamondo) ignorare quanto sta avvenendo intorno a noi ma neanche disinteressarci ad un fenomeno che potrebbe andare ben al di là di una moda passeggera, alimentata dalla segregazione alla quale siamo stati obbligati dalla pandemia negli ultimi anni.

Coloro che già stanno cavalcandone le opportunità (di divertimento, di lavoro, d’investimento e di vere e proprie attività imprenditoriali) sono ancora una sparuta minoranza, concentrata per lo più nelle nuove generazioni (quella zeta, nati tra il 1995 ed il 2010, e quella dei “millenials”, venuti al mondo tra il 1980 ed il 1994).

La visione di Stephenson si è rivelata, come spesso accade per i più grandi scrittori di fantascienza, preveggente ed oggi esistono già molti universi paralleli pronti ad accogliere i novelli pionieri.

Il più importante tra questi nuovi mondi è Decentraland, nato nella mente di due informatici argentini, Esteban Ordano e Ariel Meilich, nel 2015, che a inizio anno contava su 800.000 “abitanti” impegnati a esplorare e ad acquistare a peso d’oro terreni (5 metri quadrati sono stati venduti recentemente per 618.000 Mana, 1,8 milioni di euro), edifici e tutto quanto potevano desiderare, utilizzando il “Mana” una criptovaluta creata ad hoc.

Si tratta però ancora di ben poca cosa rispetto alla popolazione dei più importanti giochi della rete, frequentati da milioni di “gamers” alla conquista dei quali si stanno lanciando i nuovi costruttori di universi.

Oggi i 350 milioni di giocatori iscritti al gioco Fortnite (la superpotenza dei videogames online) e quelli Roblox, 200 milioni, non sono in grado di comunicare tra loro né di svolgere attività diverse da quelle previste dalle rigide regole previste dai giochi stessi ma il futuro potrebbe essere diverso se verranno create delle piattaforme (dei “ponti”) che consentiranno a questi “universi” di interagire creando così nuove opportunità di sviluppo.

E’ facile comprendere come i grandi numeri di utenti/clienti rappresentino una potentissima calamita per i cacciatori di profitti e non sorprende che nel solo 2021 i “venture capitalists” (fondi che investono nelle start up innovative nella loro fase iniziale di sviluppo) abbiano già dedicato al nuovo universo più di 10 miliardi di dollari.

Le aziende destinate a beneficiare della crescente attenzione di investitori e grandissime imprese (sempre più potenti, proprio come vaticinato da Stephenson) saranno quelle impegnate a costruire le infrastrutture (fatte di computer ed accessori elettronici sempre più potenti e funzionali per consentire di vivere e godere appieno delle meraviglie della realtà virtuale) e a creare contenuti ed esperienze.

Già oggi aggirandoci tra le strade e le piazze di Decentraland possiamo trovare un’infinita varietà di “contenuti” da utilizzare con il proprio “avatar” (l’alter ego dei meta-cittadini): mostre d’arte ed “NFT” (Non-fungible tokens, la nuova frontiera del collezionismo), giochi, viaggi, negozi di abbigliamento e accessori dei principali marchi della moda, musica, concerti ed altri eventi dal vivo (si fa per dire…).

Comprendere quanto sta avvenendo non è certamente semplice e qualche volta ci si sente impotenti di fronte alle gigantesche ondate che le nuove tecnologie ci costringono ad affrontare.

Occorrerà affrontarle tenendo a mente il monito del grande storico inglese Edward Gibbon: Venti e onde sono sempre dalla parte dei navigatori più abili.

La dura lotta per la sopravvivenza

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

I timori che la fase storica nella quale siamo immersi ci riporti per un po’ ad un mondo più piccolo (ne ho scritto qualche giorno fa https://www.linkedin.com/posts/luca-martina_la-fine-della-globalizzazione-activity-6915332559522410496-YQ5V?utm_source=linkedin_share&utm_medium=member_desktop_web), difficile da esplorare e con minori scambi commerciali, sono assolutamente fondati.

 

Vi è però anche il rischio di sopravvalutare i (tanti) rischi di questa situazione (meno globalizzazione e maggiori nazionalismi) innescatasi con la crisi finanziaria del 2007 e rafforzata poi dal cambio di marcia imposto alla Cina da Xi Jin Ping (con una fortissima attenzione al riequilibrio delle tensioni sociali interne, alla “prosperità comune”, a discapito della crescita ad ogni costo perseguita dai suoi predecessori).

 

La grave recessione che negli anni 70 aveva funestato il mondo presenta dei tratti comuni con la nostra attualità che ci rendono inquieti: elevata inflazione (con petrolio e materie prime alle stelle) e bassissima crescita economica (la temutissima “stagflazione”).

 

La storia tende a non ripetersi ma a presentare dei tratti comuni che però, per complicare le cose, spesso si riassemblano in modo diverso generando trasformazioni non sempre in linea con le attese.

 

La selezione naturale non fa sconti e, come ricordava Charles Darwin, non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento.

 

A confortarci è il fatto che i sistemi economici di 50 anni fa erano molto più dipendenti dall’industria manufatturiera, la più colpita dall’aumento del prezzo delle materie prime, mentre oggi i servizi la fanno da padrone, e dai consumi di petrolio (il cui peso sul PIL era più che doppio di quello attuale).

 

Avremmo quindi avere la possibilità (oltreché la necessità vitale) di dimostrarci, per usare un termine abusato, più resilienti e “antifragili” del passato ed il ritorno alla normalità potrebbe alla fine sorprenderci positivamente (pur senza renderci immuni dai danni e dalle difficoltà del caso).

 

Il primo ministro inglese Benjamin Disraeli amava dire che nulla è più educativo che una avversità e qualche anno dopo era un altro grande cancelliere britannico, Winston Churchill, a recitare il suo monito: “Mai lasciare che una buona crisi vada sprecata”.

 

Pur non volendo eccedere con l’ottimismo, potremmo chiudere con la dichiarazione di Mark Twain, apparsa per smentire l’errata pubblicazione del suo necrologio, sul New York Journal il 2 giugno 1897: “Le notizie sulla mia morte sono una grossolana esagerazione”.

Verde pallido

IL PUNTASPILLI  di Luca Martina

 

Tra il 1940 ed il 1970 la quota mondiale di energia prodotta da idrocarburi è passata dal 26% al 70%, in larga misura in sostituzione del carbone. 

 

I “petro-stati”, Paesi, quasi mai democratici, concentrati per lo più nell’area mediorientale, resi ricchissimi dalle loro risorse energetiche, erano nati.

 

Stati fino ad allora poverissimi accumulavano in pochi anni immense ricchezze (in larga parte a vantaggio di pochi fortunati).

 

Per avere un’idea di quanto è accaduto negli anni successivi, basti pensare che tra il 1970 ed il 1980 il PIL pro-capite in Quatar ed Arabia Saudita è cresciuto rispettivamente di 12 e 18 volte.

 

Potremmo essere ora alla vigilia di qualcosa di molto simile: la transizione energetica che ci porterà ad uscire dall’era degli idrocarburi incanalerà enormi investimenti verso i produttori delle materie prime rese necessarie dal passaggio alle energie rinnovabili.

 

Secondo uno studio pubblicato dall’autorevole settimanale “The Economist”, a beneficiarne sarà ancora una volta un limitato numero di Paesi che soppianteranno così i “petro-stati” e che potremmo chiamare le nuove “superpotenze verdi”.

 

Non si tratterà, infatti, semplicemente di una transizione energetica bensì di un cambiamento che coinvolgerà l’utilizzo di un ampio spettro di materie prime innescandone un potentissimo ciclo di crescita.

 

Ad onor del vero le materie prime non sono nuove a movimenti prolungati e bruschi (i “cicli”).

 

Nella prima parte del nostro secolo la frenetica industrializzazione, accompagnata da una urbanizzazione di dimensioni bibliche, della Cina ha trasformato il gigante asiatico nel principale consumatore di molte risorse minerarie ed ha scatenato una corsa al loro accaparramento che ha consentito a Brasile e Russia (due dei principali produttori) di accrescere il loro PIL del 75% tra il 2000 ed il 2014.

 

Il rallentamento cinese, frutto della nuova linea inaugurata con l’ascesa al potere dell’attuale presidente, Xi Jin Ping, ha bruscamente interrotto il ciclo delle materie prime e con queste a soffrire sono stati i loro produttori.

 

Questa volta il mega-ciclo (che condurrà alla decarbonizzazione) non dipenderà dalla decisione di un, seppur gigantesco, singolo Paese ma da scelte condivise a livello mondiale e richiederà parecchi decenni.

 

Un’altra differenza è costituita dai materiali che verranno utilizzati.

 

I protagonisti non saranno più il carbone, il ferro e l’acciaio che hanno contribuito a costruire fabbriche e palazzi in Cina.

 

La rivoluzione verde si nutrirà anche di una serie di metalli non ferrosi relativamente poco diffusi (e con produzioni limitate) e di nicchia e questo finirà per renderle molto preziose (pessima notizia per noi che dovremo acquistarle).

 

Quali saranno le nuove superpotenze “verdi”?

 

Alcuni Paesi democratici come l’Australia ed il Cile (che detiene il 42% delle riserve mondiali di litio ed il 25% di quelle di rame) figurano nella lista ma la maggiore quota sarà composta da regimi autoritari, dal Congo (che produce il 70% del cobalto) alla Cina (alluminio, zinco, terre rare) e, naturalmente, la Russia.

 

Tra i Paesi OPEC, produttori degli “odiati” idrocarburi, potrebbero non soffrire troppo quelli a basso costo di produzione (Iran, Iraq, Arabia Saudita e Russia) che riusciranno a compensare la discesa dei consumi con l’aumento della loro quota sulla produzione complessiva, che passerà dall’attuale 45% al 57% nel 2040.

 

A soffrire di più saranno quei territori dove l’estrazione del petrolio è più difficoltosa e costosa: in Africa (Algeria, Egitto, Sudan, Angola e Nigeria) ed in Europa (Regno Unito e Norvegia).

 

Non c’è dubbio che il verde si tramuterà in fruscianti verdoni per molti Paesi ma la storia ci insegna che questa enorme fortuna può diventare velocemente una terribile maledizione.

 

L’abbondanza di risorse naturali si è spesso trasformata, infatti, in una perniciosa dipendenza: dopo avere (male) utilizzato le enormi ricchezze molti Stati (dal Brasile alla Nigeria) hanno iniziato a vivere al di sopra dei loro mezzi e non appena il ciclo ha cambiato direzione (con una discesa dei prezzi) si sono ritrovati in preda di violente crisi economiche, finanziarie, politiche e sociali che ne hanno, qualche volta irrimediabilmente, minato la stabilità.

 

La International Energy Agency (IEA), un ente indipendente, prevede che nel mondo, per diventare a “zero-emissioni”, l’eolico ed il fotovoltaico genereranno il 70% dell’energia entro il 2050 contro l’attuale 10% circa.

 

La domanda di metalli come cobalto, rame e nickel, ingredienti indispensabili per foraggiare le tecnologie utilizzate, salirà di ben sette volte entro il 2030.

 

Potrebbe essere un boom (con una conseguente salita dei costi che dovremo sostenere) senza precedenti che dovremo gestire con saggezza per evitare che, alla fine, la rivoluzione verde sia molto, molto più pallida di quella che sognavamo.

 

Brothers in Arms

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

Il prolungarsi del conflitto in corso sta generando timori e paure di un suo possibile allargamento su scala europea o addirittura (se dovesse essere coinvolto uno dei Paesi appartenente alla Nato) mondiale.

E’ difficile sottovalutare la gravità della situazione ma ritengo che possa essere di aiuto cercare di comprendere, esaminando la spesa militare delle parti in campo, quanto questo timori siano fondati.

 

La parte di gran lunga più importante della spesa militare mondiale è sostenuta dagli Stati Uniti che nel 2020 hanno investito (dati 2020 forniti dal SIPRI, Stockolm International Peace Research Institute) 778 miliardi di dollari, pari al 39% dell’intero pianeta.

 

Al secondo posto figura la Cina, che ha destinato a questo settore investimenti pari circa ad un terzo degli americani.

 

La Russia, infine, ha speso meno di un quarto degli “amici” cinesi: quanto basta per avere ragione dell’Ucraina, uno dei Paesi più poveri d’Europa, ma non certo per potere sostenere una lunga e dispendiosa campagna di riconquista dei territori della ex Unione Sovietica, la cui dissoluzione è stata, secondo le parole pronunciate nel 2005 da Vladimir Putin, “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”.

 

Il dispendio di mezzi (materiali, finanziari ed umani) con il quale la Russia finirà probabilmente abbattere la coraggiosa resistenza ucraina non lascerà a Putin spazio per altre avventure per un po’ di tempo e non sarà certo la Cina ad intervenire in suo aiuto, prestando il fianco ad azioni che potrebbero destabilizzare l’equilibrio interno che Xi Jin Ping sta cercando di consolidare (con una ridotta attenzione all’Europa e lo sguardo rivolto agli Stati Uniti).

 

La pressoché perfetta complementarità tra la Russia (ricchissima di materie prime e povera di strutture produttive su vasta scala) e la Cina (povera di materie prime ma strutturata come un enorme stabilimento produttivo) ha la potenzialità di sfociare in un matrimonio di interesse ma non certo al costo di trascinare il gigante asiatico nella lista dei cattivi (dalla quale sta cercando faticosamente di uscire da molti anni).

 

Le dolorose vicende devono però renderci consapevoli della necessità di un sistema difensivo europeo che sia in grado di esercitare un potere dissuasivo convincente di fronte a chi avesse in animo, un giorno, di affacciarsi con intenzioni bellicose ai nostri confini.

 

Sarebbe forse il caso di provare a riannodare i fili della CED (la Comunità Europea di Difesa) che nel 1952 la Francia presentò, in collaborazione con l’Italia di Alcide De Gasperi, e che venne sottoscritta dai sei Paesi “fondatori” della EU: Italia, Francia, Germania dell’Ovest, Belgio, Olanda e Lussemburgo.

 

L’ambizioso progetto, innescato nel 1950, con il “Piano Pleven” (dal nome dell’allora primo ministro francese), dal padre fondatore dell’Unione Europea Jean Monnet, su pressioni statunitensi, per una collaborazione militare tra stati europei in contrapposizione alla crescente potenza sovietica, finì per essere bocciato proprio dal Parlamento transalpino nel 1954 e venne così definitivamente abbandonato.

 

Il recente annuncio della Germania di volere incrementare la spesa militare dall’attuale 1,4% a più del 2% (il livello richiesto dalla NATO ai Paesi aderenti) tradisce ancora una volta la mancanza di un’azione concordata con i partner europei e dovrebbe farci riflettere sulla insufficiente coesione di azioni ed obiettivi di comune interesse.

 

Gli investimenti militari tedeschi sono così destinati a crescere dagli attuali (dati 2021) 57.5 miliardi di dollari ad 83,5 nel 2024, portando la Germania ad occupare il terzo posto della classifica, dopo americani e cinesi.

 

Occorre sempre ricordare come gli investimenti nel settore della difesa hanno importanti ricadute economiche (gli investimenti producono ricchezza e occupazione) e tecnologiche (è spesso in ambito militare che vengono sviluppate importanti innovazioni, internet ne è un esempio, che trovano poi diffuse applicazioni in ambito civile) e la Grande Germania, giocando d’anticipo con la sua azione isolata, potrebbe scavare un fosso ancora più profondo con gli altri Paesi dell’Unione.

 

Passata la fase più acuta e guerreggiata della crisi attuale sarà fondamentale per il nostro Paese presentarsi nuovamente al centro del progetto europeo che ha contribuito a fondare e sostenere, con il fondamentale appoggio della Francia, un’azione concertata che renda il nostro continente più sicuro e all’avanguardia, pronto per affrontare le sfide di un futuro sempre più incerto e difficile da prevedere.

 

Solo così potremo provare a eludere il rompicapo costituito, e non certo da oggi, dalla Russia che, come scriveva Winston Churchill “è un rebus avvolto in un mistero che sta dentro un enigma”.

Guerra digitale

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Il gruppo di “hackers” (pirati informatici) internazionale Anonymous, nato nel 2003, ha dichiarato guerra alla Russia nelle ultime settimane, ed ha violato in rapida successione alcune reti televisive filogovernative,      il sito del Cremlino e della difesa e, in ultimo, quello della Roskomnadzor, l’agenzia che censura la diffusione delle informazioni (controllando, ad esempio, l’accesso a Facebook e Twitter).

 

Si tratta degli stessi autori che hanno violato il sito della discussa chiesa di Scientology, sostenuto le manifestazioni della primavera araba, dei movimenti “Occupy Wall Street” e “Black Lives Matter” (quest’ultimo piratando il sito della polizia di Minneapolis).

 

La risposta Russia non si è fatta attendere e sono stati sottoposti ad attacco e resi inutilizzabili una serie di siti ucraini.

 

Ma per il momento Mosca, alla quale è stata attribuita in passato la regia di importanti cyber-attacchi (alcuni dei gruppi più noti di hackers agiscono dalla Russia), non ha alzato troppo il livello della tensione sul fronte informatico (quello militare assorbe tutte le sue energie) ma in futuro potrebbe cambiare atteggiamento.

 

Un campanello di allarme sono stati gli attacchi che hanno avuto come obiettivo nei giorni scorsi uno dei leader della tecnologia Nvidia (il più grande produttore nazionale di semiconduttori) e la Toyota (il maggiore costruttore di auto al mondo), importanti realtà aziendali di due Paesi (Stati Uniti e Giappone) della coalizione che si oppone alla Russia.

 

Una guerra informatica, una “cyber war”, potrebbe continuare ad essere combattuta sottotraccia ma con una crescente intensità nei prossimi anni.

 

Negli Stati Uniti ben due agenzie governative, la National Security Agency (NSA) e la Central Intelligence Agency (CIA) hanno creato una specifica divisione dedicata alla attività di “hacking” informatico e queste si aggiungono allo “US Cyber Command”, uno degli 11 comandi combattenti del Ministero della Difesa.

 

In Europa la Commissione Europea ha presentato alla fine del 2020 un piano strategico sulla sicurezza informatica che dovrebbe dare corpo all’azione della ENISA (la European Union Agency for Cybersecurity, costituita nel 2005) a stimolo dei governi nazionali e delle aziende.

 

Terminati i combattimenti e le sanguinose cronache di queste ultime settimane i riflettori, a poco a poco (e per fortuna) si spegneranno ma non la necessità di mantenere la guardia alta sui nostri sistemi informatici.

La spesa mondiale per la sicurezza basata sulla tecnologia è attualmente vicina ai 200 miliardi di dollari e si prevede che raddoppierà entro il 2030.

 

Un’opportunità da sfruttare non solo per vincere la guerra sotterranea che è ora all’ordine del giorno ma anche per rendere più sicuro ed efficiente il nostro sistema sociale ed economico, sempre più digitalizzato e basato sulla conservazione e l’elaborazione di un’enorme, ed in continua espansione, mole di dati.

 

GasPutin

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

L’Europa è sempre stata considerata dagli Stati Uniti un po’ come il proprio cortile di casa, dove scendere solo quando il troppo rumore che ne proveniva non consentiva di riposare.

 

Ad oggi i tragici eventi europei stanno provocando modesti problemi agli inquilini della “casa” che però non possono certamente ignorare la minaccia posta loro dalla “risovietizzazione” della Russia di Putin.

 

Il signore del gas (il 17% di quello mondiale) e del petrolio (l’11% del totale) sta scuotendo con le sue azioni (e le reazioni/sanzioni generate) i mercati finanziari ma quello statunitense rimane quello meno impattato (pur dopo un inizio d’anno che si ascrive per Wall Street come il peggiore da molti anni a questa parte).

 

Uno dei fattori di maggiore destabilizzazione, dal punto di vista economico, è stato finora l’aumento del prezzo del gas (e del petrolio) ed è qui che l’Europa è stata pesantemente impattata, a differenza del continente americano.

Il mercato del gas è estremamente regionalizzato: non esiste un vero e proprio mercato mondiale, a causa gli elevatissimi costi sostenuti per trasportare (tramite nave) la materia prima da un continente all’altro.

 

Questo non aveva comunque impedito ai prezzi del gas di muoversi all’interno di una banda relativamente stabile e di allinearsi su livelli simili sino all’inizio del 2010 quando lo si poteva acquistare tra i 5 dollari negli Stati Uniti, i 7 in Asia e in Europa e i 10 in Giappone.

 

Da allora in poi il mondo del gas non sarebbe più stato lo stesso.

 

Lo sviluppo delle tecnologie per l’estrazione e la salita del prezzo del greggio al di sopra dei 100 dollari, all’inizio del decennio scorso, hanno reso conveniente lo sfruttamento degli enormi giacimenti di petrolio e di gas di scisto (estratto a 2-4.000 metri di profondità da uno strato di rocce argillose) sul territorio americano.

 

Per effetto della nuova produzione, gli Stati Uniti hanno così acquisito nel giro di pochi anni una virtuale indipendenza energetica (producendo internamente quanto loro necessario) ed il prezzo del gas sul mercato domestico è sceso al di sotto dei 3 dollari.

 

Nello stesso periodo i prezzi del gas si muovevano in direzione opposta, al rialzo, sia in Europa, fino a 12-13 dollari, a causa della liberalizzazione del mercato e dell’inizio dello smantellamento delle centrali nucleari tedesche, ed in Asia, sfiorando i 20 dollari, dove alla chiusura degli impianti nucleari giapponesi (similmente alla Germania, dopo l’incidente di Fukushima) si aggiungevano i problemi alle stesse in Corea e la rapida (e molto energivora) crescita economica cinese.

 

Quello che è successo negli ultimi anni non ha fatto altro che ampliare a dismisura la forbice tra il costo del gas naturale negli Stati Uniti (tornato ai 5 dollari, gli stessi livelli dell’inizio del 2010) ed il resto del mondo.

 

A soffrire maggiormente è, come i tragici eventi di questo periodo ci stanno insegnando, principalmente il nostro continente.

 

Il prezzo del gas è passato da noi dai circa 50 dollari dell’anno scorso ai 255 dollari (per le consegne di aprile) di oggi (7 marzo).

E’ probabile ancorché auspicabile, che la salita parabolica degli ultimi giorni si riveli una fiammata violentissima ma temporanea.

 

Il prezzo è estremamente volatile e prontissimo ad adeguarsi alle mutate condizioni economiche e geopolitiche: già a dicembre dopo essere raddoppiato (a 130 dollari) si era dimezzato (a 63 dollari) nella, sfortunatamente vana, speranza che i venti di guerra si stessero allontanano.

 

Il rischio che, ancora una volta, ad accendere la miccia di una recessione economica sia una crisi energetica non è certamente da escludere.

 

La situazione evoca, infatti, preoccupanti dejà vu con quanto avvenuto nel 1973 (la guerra dello Yom Kippur tra i Paesi Arabi ed Israele), nel 1979-80 (la rivoluzione iraniana e la guerra Iran – Iraq), nel 1989 (la prima guerra del Golfo, iniziata con l’invasione irachena del Kuwait) e nel 2001-2003 (l’attacco delle torri gemelle dell’11 settembre 2001 e poi l’esplosione della seconda guerra del Golfo).

 

Come ricordava il celebre economista statunitense Jeremy Rifkin “Il regno dei cieli potrà anche essere fondato sulla giustizia ma quelli terrestri sono fondati sul petrolio”.

 

La durissima lezione che stiamo ancora una volta subendo noi europei è che l’eccessiva dipendenza dalla “benevolenza” dei nostri fornitori di energia costituisce un enorme costo economico, un insostenibile svantaggio competitivo (rispetto alle aziende statunitensi) ed una seria minaccia geopolitica.

 

Speriamo che la lezione che stiamo subendo possa insegnarci qualcosa e consentirci così di prepararci meglio ad un futuro sempre più incerto.

 

Perché, purtroppo, la guerra è vecchia quanto l’uomo e la pace è solo un’invenzione moderna…ancora tutta da perfezionare.