In onore del “Patrono dei cacciatori”, sfilata dell’Equipaggio della “Regia Venaria”, Santa Messa e concerto alla “Cappella della Reggia”
Domenica 5 novembre
Venaria Reale (Torino)
Appartenente alla dinastia merovingia e definito l’“Apostolo delle Ardenne”, fu vescovo di Maastricht e primo vescovo di Liegi. Intorno alla figura di Sant’Uberto (Tolosa ?,656 – Fura, 727), venerato il 3 novembre quale “Patrono dei cacciatori” e “Protettore di uomini e animali dalla rabbia silvestre”, si torna, secondo tradizione, a fare festa alla Venaria Reale, domenica 5 novembre, in linea con un’antica tradizione il cui culto si perde nei secoli: il primo a solennizzarne la ricorrenza in Piemonte fu il duca Carlo Emanuele II, seguito dai suoi successori. La nascita stessa della Reggia e della città, oltreché il loro toponimo, si devono alla pratica venatoria che si svolgeva da parte della corte sabauda fin dal XVII secolo nel territorio, un tempo denominato di “Altessano Superiore” e che comportava frequenti cerimonie e rituali legati proprio a Sant’Uberto.

Ripresi dal 1996 per iniziativa dell’“Accademia di Sant’Uberto” (in accordo con la “Reggia”, la Città di Venaria e la “Curia Metropolitana”) i festeggiamenti ritornano puntuali anche quest’anno, iniziando alle 10,30 con la sfilata dell’Equipaggio – con i “suonatori di corno” – della “Regia Venaria” da piazza Annunziata nel Borgo Antico di Venaria verso la Reggia, per culminare alle 10,45 con la Santa Messa dedicata al Santo e celebrata nella “Cappella di Sant’Uberto” alla Reggia accompagnata da corni da caccia, trombe, timpani della “Reale Scuderia” ed organo. Conclusione alle 11,30, con un omaggio musicale a Sant’Uberto da parte dell’Equipaggio della “Regia Venaria” (corni da caccia), Musici della “Reale Scuderia” (ottoni e timpani) e organo. Per tutti sarà non solo un’occasione di ascolto, ma un vero e proprio momento da vedere e vivere.
La cerimonia, di livello europeo, ha le sue origini in età medioevale ed era anche denominata, in allora, “Missa canum” (“Messa dei cani”), per l’uso di benedire i cani e i loro proprietari alla fine della funzione. Cosa che avverrà anche domenica 5 novembre. L’uso di accompagnare momenti della Messa con musica, in particolare i corni da caccia, è documentato dal XVIII secolo.
L’ingresso è libero, fino ad esaurimento posti.
Da segnalare anche che l’arte musicale dei suonatori di corno da caccia identitaria del Piemonte, ed in particolare della “Reggia” e della “Palazzina di Caccia” di Stupinigi, è stata riconosciuta “Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità” dall’“Unesco” nel 2020 (candidatura multinazionale di Francia, Italia, Belgio e Lussemburgo).
Le reliquie di Sant’Uberto Martire, dono di papa Clemente IX a Carlo Emanuele II per “La Venaria Reale”, si trovavano dal 1669 nella “Cappella della Reggia”. Per espresso volere del pontefice, l’edificio religioso che le ospitava doveva essere accessibile non solo dall’interno del palazzo, ma anche da tutti i fedeli, per rendere possibile la venerazione anche a chi non appartenesse alla corte: è questa una possibile motivazione dell’apertura della “Chiesa di Corte” della Venaria verso la piazza, rendendola in tale modo non solo cappella riservata alla corte interna al palazzo. Cessata la funzione di residenza reale della Venaria, dal 1819 la reliquia è conservata a Stupinigi nella “Chiesa della Visitazione di Maria Vergine”, sulla piazza della Palazzina, per volontà di Vittorio Emanuele I.
La rievocazione della cerimonia ha inteso conservare anche ai nostri giorni questo spirito di condivisione tra “Reggia” e “Borgo Antico” di Venaria Reale.
Per ulteriori info: www.lavenaria.it – www.residenzerealisabaude.com
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Nelle foto: immagini di repertorio







vene aperte dell’America Latina) dicendo: “L’utopia sta all’orizzonte, mi avvicino di due passi, lei si allontana dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungo mai. Quindi, a che serve l’utopia? Serve a questo: a camminare”. E in fondo questo era lo spirito del Don. Mettersi in cammino e non rassegnarsi, attraversare il nostro tempo adoperandoci, nonostante tutto, per costruire un altro mondo possibile, più libero e più solidale. Lui camminava con il Vangelo in una mano e la Costituzione repubblicana nell’altra. Come il suo grande amico Fabrizio De André, trasmetteva con passione e concretezza la sua umanissima e libertaria buona novella. Erano entrambi mossi dall’amore per gli ultimi, i reietti. Negli anni del liceo Fabrizio era l’alunno del cugino di Don Gallo, Giacomino Piana, che insegnava religione mentre il Don era viceparroco nella chiesa della Madonna del Carmine, a poche decine di metri dalla famosa Via del Campo. Il 14 gennaio del 1999, tre giorni dopo la morte di De André, Don Gallo scrisse una lettera aperta all’amico di sempre che vale la pena leggere per intero: “ Caro Faber,da tanti anni canto con te, per dare voce agli ultimi, ai vinti, ai fragili, ai perdenti. Canto con te e con tanti ragazzi in Comunità. Quanti «Geordie» o «Michè», «Marinella» o «Bocca di Rosa» vivono accanto a me, nella mia città di mare che è anche la tua. Anch’io ogni giorno, come prete, «verso il vino e spezzo il pane per chi ha sete e fame». Tu, Faber, mi hai insegnato a distribuirlo, non solo tra le mura del Tempio, ma per le strade, nei vicoli più oscuri, nell’esclusione. E ho scoperto con te, camminando in via del Campo, che «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior». La tua morte ci ha migliorati, Faber, come sa fare l’intelligenza. Abbiamo riscoperto tutta la tua «antologia dell’amore», una profonda inquietudine dello spirito che coincide con l’aspirazione alla libertà. E soprattutto, il tuo ricordo, le tue canzoni, ci stimolano ad andare avanti. Caro Faber, tu non ci sei più ma restano gli emarginati, i pregiudizi, i diversi, restano l’ignoranza, l’arroganza, il potere, l’indifferenza. La Comunità di san Benedetto ha aperto una porta in città. Nel 1971, mentre ascoltavamo il tuo album, Tutti morimmo a stento, in Comunità bussavano tanti personaggi derelitti e abbandonati: impiccati, migranti, tossicomani, suicidi, adolescenti traviate, bimbi impazziti per l’esplosione atomica. Il tuo album ci lasciò una traccia indelebile. In quel tuo racconto crudo e dolente (che era ed è la nostra vita quotidiana) abbiamo intravisto una tenue parola di speranza, perché, come dicevi nella canzone, alla solitudine può seguire l’amore, come a ogni inverno segue la primavera [«Ma tu che vai, ma tu rimani / anche la neve morirà domani / l’amore ancora ci
passerà vicino / nella stagione del biancospino», da L’amore, ndr]. È vero, Faber, di loro, degli esclusi, dei loro «occhi troppo belli», la mia Comunità si sente parte. Loro sanno essere i nostri occhi belli. Caro Faber, grazie! Ti abbiamo lasciato cantando Storia di un impiegato, Canzone di Maggio. Ci sembrano troppo attuali. Ti sentiamo oggi così vicino, così stretto a noi. Grazie. E se credete ora che tutto sia come prima perché avete votato ancora la sicurezza, la disciplina, convinti di allontanare la paura di cambiare verremo ancora alle vostre porte e grideremo ancora più forte per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti. Caro Faber, parli all’uomo, amando l’uomo. Stringi la mano al cuore e svegli il dubbio che Dio esista. Grazie. Le ragazze e i ragazzi con don Andrea Gallo, prete da marciapiede”. Rileggendola ora, cinque lustri dopo, mantiene intatta l’attualità e la carica di denuncia morale. E a noi, cosa resta? Non ci resta altro da fare che continuare a camminare, ognuno per come sa e per come può, in direzione ostinata e contraria. Don Andrea Gallo ha costruito ponti nella chiarezza dei fondamenti della Costituzione italiana che ha sempre difeso con passione, e nella linearità ideale del Vangelo che ha vissuto come vita donata e ricevuta senza avere in cambio nulla. Nei miei ricordi di famiglia, grazie al nonno, si rammentava la storia di un italiano caduto sul finire degli anni trenta in difesa della Repubblica spagnola sull’Ebro. L’epigrafe sulla sua tomba, nella sua essenziale semplicità e dignità, diceva tutto di lui: “Aquì esta un hombre”. Qui c’è un uomo. Anche per Don Gallo varrebbero le stesse parole, ascoltando la sua voce che invitava a costruire un futuro, a proseguire il cammino, senza scordare che “chi sceglie un’ideologia può anche sbagliare; chi sceglie i poveracci, i senza voce, i fragili, non sbaglia mai”.