CULTURA Archivi - Pagina 66 di 167 - Il Torinese

CULTURA- Pagina 66

“Beppe Fenoglio 22”, ecco il traguardo

Al “Teatro Sociale” di Alba una davvero “speciale serata” a conclusione del “Centenario Fenogliano”

Mercoledì 1° marzo

Alba (Cuneo)

Dodici intensi mesi ricchi di un’incredibile varietà di appuntamenti: “Beppe Fenoglio 22”, omaggio al centenario della nascita dello scrittore e partigiano albese (Alba, 1922 – Torino, 1963), promosso dal “Centro Studi Beppe Fenoglio” di Alba in sinergia con il “Comitato Promotore del Centenario Fenogliano” (composto da accademici e ricercatori da sempre vicini e attenti all’opera fenogliana), vede ormai il traguardo.

A chiudere idealmente il cerchio delle celebrazioni, come già in apertura, sarà una speciale serata teatrale – mercoledì 1° marzoalle 20.45 al “Teatro Sociale Giorgio Busca” di Alba (piazza Vittorio Veneto, 3) – che ripercorrerà le tappe più emozionanti dell’anno trascorso tracciando un bilancio e anticipando il nuovo secolo fenogliano con l’aiuto di scrittori, musicisti e protagonisti del mondo della cultura. In sintesi, fra letteratura teatro musica storia e manifestazioni artistiche, sono stati ben 250 gli eventi dedicati, nel corso dell’anno da poco trascorso e nei primi mesi di questo, allo scrittore de “Il partigiano Johnny”. Tra gli incontri anche 60 appuntamenti didattici con Istituti Scolastici piemontesi e italiani, 6 appuntamenti con gli “Istituti di Cultura italiana all’estero” e 7 convegni di cui l’ultimo “Una parte per il tutto” organizzato dall’“Accademia delle Scienze” e dall’“Università degli Studi” di Torino in collaborazione con la “Fondazione Ferrero” e il “Centro Studi Beppe Fenoglio”, si è concluso proprio pochi giorni fa. Oltre 50 Associazioni e Istituzioni hanno collaborato con il “Centro Studi” in ognuna delle quattro stagioni che hanno caratterizzato il Centenario e sono state 10 le mostre che hanno raccontato l’opera e la vita dello scrittore, fra le quali “Una maniera di metter fuori le parole” in “Palazzo Banca d’Alba” e “Canto le armi e l’uomo. 100 anni di Beppe Fenoglio” in “Fondazione Ferrero”. La figura di scrittore è stata inoltre omaggiata nel corso dell’anno da numerosi esponenti del mondo della cultura e delle Istituzioni, come Roberto Vecchioni, Beppe Rosso, Aldo Cazzullo e Alessandro Baricco, nonché, primo fra tutti, il “Presidente della Repubblica” Sergio Mattarella, invitato, il 7 ottobre dell’anno passato, ad Alba proprio per ricordare insieme alla figura di Michele Coppino (deputato e ministro del Regno d’Italia, che nel 1877 promulgò la legge che rese obbligatoria e gratuita l’istruzione nel triennio inferiore delle scuole elementari), quella di Beppe Fenoglio, nella duplice ricorrenza dei natali, 200 anni per Coppino (Alba, 1822 – 1901) e 100 per Fenoglio. “Il prossimo 1° marzo – dichiara la figlia di Beppe, Margherita Fenogliosarà per me un giorno da ricordare perché segna la conclusione di un anno entusiasmante, travolgente oltre che commovente. È meraviglioso rendersi conto che una vita spezzata così presto sia stata in grado di lasciare un segno che va oltre il tempo e sa guardare al futuro”. La serata conclusiva del “Centenario” sarà presentata dall’attrice Lella Costa, vedrà l’intervento di illustri nomi della Letteratura e della Cultura italiana, legati dal grande amore per Fenoglio, come lo scrittore Sandro Veronesi ed i giornalisti Enrico Mentana e Massimo Giannini.

In apertura andrà in scena un estratto dello spettacolo teatrale “Raccontami com’era vestita”, omaggio alla figura femminile nei romanzi di Fenoglio, ideato e interpretatoda “TUTTE”, un collettivo di dieci donne provenienti da sei diverse associazioni con sede ad Alba che hanno ideato e diretto la pièce, mentre spetterà a Walter Porro, musicista e compositore, introdurre gli interventi con le note della sua fisarmonica. L’ingresso è gratuito fino ad esaurimento posti con richiesta di prenotazione sul sitowww.beppefenoglio22.it

“Siamo all’ultima pagina di un libro che sappiamo non finire davvero: questi dodici mesi ci hanno regalato nuovi incontri e sfide  – dichiarano il presidente Riccardo Corino e la direttrice del “Centro Studi Beppe Fenoglio” Bianca Roagna – stimoli che ci permetteranno di approfondire sempre di più lo studio sullo scrittore e la divulgazione della sua opera. Un ringraziamento speciale va ai lettori, ai fenogliani, che ci hanno messo il cuore organizzando tantissimi eventi in collaborazione con noi, creando un calendario ricco ed entusiasmante”.

g. m.

Per info: “Centro Studi Beppe Fenoglio”, piazza Pietro Rossetti 2, Alba (Cn); tel. 0173/364623 o www.beppefenoglio22.it

Nelle foto:

–       Beppe Fenoglio

–       Lella Costa

–       Margherita Fenoglio

Camera, 170 immagini della fotografa Eve Arnold fino al 4 giugno

Sono in mostra presso Camera 170 immagini, alcune mai esposte prima, della fotografa Eve Arnold, la prima donna, insieme a Inge Morath, ad aver fatto parte della prestigiosa Magnum Photos.

Eve Arnold ha saputo delineare i ritratti delle grandi star del cinema e dello spettacolo, da Marlene Dietrich a Marilyn Monroe, da Joan Crowford a Orson Welles, ai reportage di inchiesta su temi ancora centrali nel dibattito pubblico odierno, dal razzismo negli Stati Uniti all’emancipazione femminile e all’interazione fra due diverse culture del mondo. Eve Arnold ha saputo raccontare persone e il mondo con un approccio appassionato personale, l’unico strumento da lei considerato indispensabile per un fotografo.

Determinazione, curiosità e la volontà di sfuggire a qualsiasi stereotipo hanno permesso a Eve Arnold di produrre un eclettico corpus di opere, a partire dai ritratti delle grandi Star del cinema al reportage d’inchiesta, in cui ha affrontato temi e questioni centrali nel dibattito di ieri e di oggi.

La carriera di Arnold rappresenta un inno all’emancipazione femminile e i suoi soggetti sono per lo più le donne, le lavoratrici, le madri, le dive, modelle e studentesse immortalate senza mai scivolare in stereotipi o facili categorizzazioni.

L’intento è quello di restituire la ricchezza dell’opera di questa autrice, sottolineata attraverso documenti di archivio, provini di stampa, libri e riviste in grado di arricchire la leggenda della fotografia.

L’esposizione è accompagnata dal catalogo Eve Arnold, edito dalla casa editrice Dario Cimorelli editore.

Risulta aperta tutti i giorni, dalle 11 alle 19 e il giovedì dalle 11 alle 21.

L’esposizione, curata da Monica Poggi, è realizzata in collaborazione con Magnum Photos.

Mara Martellotta

 

Il violoncello di Smailović e le foto di Siccardi

La foto scelta per i manifesti della mostra fotografica di Paolo Siccardi “La lunga notte di Sarajevo” ( che rimarrà aperta al pubblico al Mastio della Cittadella di Torino, tra corso Galileo Ferraris e via Cernaia, fino al 19 marzo ) è dedicata a Vedran Smailović ,unico sopravvissuto del quartetto d’archi di Sarajevo, immortalato dal fotoreporter torinese mentre suona il violoncello nella stazione ferroviaria di Sarajevo.

Il musicista durante l’assedio strinse i denti come tanti suoi concittadini sotto le bombe e il tiro degli snjper, patendo quotidiane sofferenze. Il 27 maggio del 1992 gli assedianti uccisero a colpi di mortaio ventidue persone, ferendone altre centocinquanta in via Vaso Miskin, a poca distanza dal Markale, il mercato austro-ungarico nel cuore della città, in quella che venne ricordata come la strage del pane. Quel giorno un gruppo di persone, approfittando di un breve periodo di tregua, erano in fila davanti a un forno quando vennero colpite dalle granate dell’artiglieria serbo bosniaca. Smailović reagì suonando per ventidue giorni tra quelle macerie il suo strumento indossando lo smoking con solennità. Nel luogo della strage per ventidue volte, una per ognuna delle vittime, risuonarono le note dolenti dell’Adagio di Albinoni. L’artista sarajevese scelse di testimoniare così la rabbia e il dolore dell’intera città. E continuò a farlo anche in altre occasioni “perché la gente mi diceva che se avessi smesso di suonare Sarajevo sarebbe caduta”. Suonò gratuitamente alle esequie di persone che nemmeno conosceva, incurante dei rischi perché i funerali in città erano presi di mira dai cecchini serbi. Quel brano, scelto istintivamente, pareva scritto apposta per quelle occasioni. L’Adagio in sol minore (Mi 26), noto come Adagio di Albinoni, è infatti una composizione scritta nel 1945 e pubblicata nel 1958 da Remo Giazotto, musicologo e compositore italiano. Grande esperto di Albinoni si deve a lui la ricostruzione dell’Adagio che si basava sui frammenti di spartiti del grande violinista veneziano, ritrovati tra le macerie della biblioteca di Stato di Dresda, la Sächsische Landesbibliothek, l’unica dov’erano custodite partiture autografe di Albinoni, distrutta nel bombardamento che rase al suolo la città il 13 e 14 febbraio del 1945 ad opera degli aerei inglesi della RAF e dei B17 americani, le famose fortezze volanti. I frammenti facevano parte di un movimento lento di sonata in sol minore per archi e organo, particolarmente evocativo. Un brano che provocava forti emozioni seguendo, da Dresda a Sarajevo, il robusto filo di un tragico parallelismo di memorie ferite dall’odio nazionalista e dalle guerre. Dalle macerie della Vijećnica, la biblioteca nazionale di Sarajevo, ai binari dimenticati e ai vagoni semidistrutti della stazione ferroviaria a Marijin Dvor  dove lo fotografò Paolo Siccardi, il solitario interprete di Albinoni  suonò in vari punti della città assediata, tenendo lo strumento tra le gambe dopo aver poggiato a terra  il puntale, facendo scorrere l’archetto sulle corde del violoncello. Spesso l’emozione di Vedran Smailović, interprete del dolore di tutta Sarajevo, si scioglieva in lacrime. Trent’anni dopo l’immagine del suo volto e dei suoi gesti rimanda alla memoria di quanto siano assurde tutte le guerre.

Marco Travaglini

Parco e Castello di Masino riaprono al pubblico

Dopo la chiusura invernale, da sabato 25 febbraio 2023 riapre  al pubblico il Castello e Parco di Masino, Bene del FAI – Fondo per l’Ambiente Italiano ETS a Caravino (TO), millenaria e sontuosa dimora di una delle più illustri casate piemontesi, i Valperga, situata su un’altura antistante la suggestiva barriera morenica della Serra di Ivrea, in posizione dominante la vasta piana del Canavese.

Visitare il Castello di Masino non significa soltanto scoprire il suo glorioso passato grazie al percorso tra i saloni affrescati e arredati con cura (come il Salone dei Savoiada poco restaurato), le camere per gli ambasciatori, gli appartamenti privati, i salotti, la preziosa biblioteca con più di 25mila volumi antichi, fino alle terrazze panoramiche e al Belvedere. Venire al Castello di Masino offre anche l’opportunità di trascorrere una bella giornata all’aria aperta, passeggiando nel monumentale parco romantico con uno dei più grandi labirinti di siepi d’Italia, costituito da oltre duemila piante di carpini, un maestoso viale alberato, ampie radure e angoli scenografici che in primavera si riempiono di spettacolari fioriture. Un esempio: indicativamente da metà aprile ai primi di maggio, circa 6000 esemplari di Spirea Vanhouttei, piantati dal FAI nel 2007 su progetto dell’architetto paesaggista Paolo Pejrone, fioriscono creando una “nuvola bianca” che fa da contorno ai grandi prati del giardino all’inglese e fiancheggia il viale che dal parterre superiore scende al grande prato di Eufrasia (nella foto sopra, uno scorcio delle spiree fiorite con il tempietto neogotico sullo sfondo, foto di Dario Fusaro). Attraverso la scelta progettuale di utilizzare tale pianta, un arbusto rustico e molto resistente sia al freddo sia alla siccità, il FAI si fa esempio e promotore “in prima persona” di una pratica di giardinaggio sostenibile: l’oculata selezione della pianta giusta nel posto giusto, infatti, risulta essere ecosostenibile perché si abbattono o eliminano i trattamenti fitosanitari con prodotti di sintesi e le irrigazioni, salvaguardando la salute umana e ambientale.

Nell’ottica di divulgare le buone pratiche da adottare in giardino per contribuire a fronteggiare i gravi effetti della crisi ecologica e climatica, da venerdì 28 aprile a lunedì 1° maggio, proprio nel periodo della candida fioritura delle spiree, il FAI propone la Tre giorni per il giardino, tra le mostre mercato di florovivaismo più rinomate e attese in Italia e la manifestazione più importante della primavera a Masino. Oltre a incontrare i più qualificati vivaisti italiani e stranieri, che esporranno le migliori collezioni, i visitatori e gli appassionati di verde potranno partecipare a interessanti incontri a cura di professionisti ed esperti, dal meteorologo Luca Mercalli al giardiniere di Versailles Giovanni Delù, sul tema della biodiversità e della sua tutela, che condivideranno le proprie ricerche e le proprie preziose esperienze sul campo (in allegato il comunicato stampa con il programma completo della “Tre giorni per il giardino” e dettagli su orari e biglietti e alcune foto).

* * * * *

Il Castello e Parco di Masino riaprire da sabato 25 febbraio 2023 ed è aperto al pubblico dal mercoledì alla domenica dalle ore 10 alle 18

 

Ingresso castello e parco: intero € 15; ridotto (6-18 anni) € 8; studenti fino ai 25 anni € 8; bambini fino ai 5 anni ingresso gratuito; famiglia (2 adulti e 2 o più bambini) € 38; iscritti FAI e altre convenzioni ingresso gratuito; Carta Musei € 10; persone con disabilità e accompagnatore ingresso gratuito; residenti Comune di Caravino ingresso gratuito

 

Ingresso solo parco: intero € 10; ridotto (6-18 anni) € 3; famiglia € 26; studenti fino ai 25 anni € 3; iscritti FAI e residente Comune di Caravino ingresso gratuito; Carta Musei 7 €

 

www.castellodimasino.itwww.fondoambiente.it

Algeria 60 anni dopo

Giovedì  23 febbraio 2023 – Ore 16:30 

 

ALGERIA 60 anni dopo 

 

Sala Conferenze, Polo del ‘900

corso Valdocco 4/A – Torino

Saluti di
Cecilia Pennacini (vice presidente di Ancr)
Vincenzo Vita (presidente Aamod)

 

Proiezione di
Les mains libres (Le mani libere) di Ennio Lorenzini

(Algeria 1964, 56’), un film ritrovato e restaurato.

Presentazione del volume
Con le mani libere. Il cinema italiano e la liberazione dell’Algeria

(Effigi Editore)

Interverranno:

Paola Scarnati e Luca Peretti curatori del volume

Diego Guzzi – storico, Unione Culturale Franco Antonicelli

Karim Metref – educatore, scrittore e giornalista indipendente

 

Testimonianza di Emilio Jona

con racconti e canti raccolti durante il viaggio in Algeria del 1951

 

Ingresso libero a tutti

L’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, cineteca che conserva rari e importanti film della Resistenza italiana e della Storia contemporanea, è lieta di ospitare un’iniziativa che coinvolge direttamente l’AAMOD. Sul tema “Algeria 60 anni dopo” si svolgerà infatti a Torino, presso la Sala Conferenze del Polo del ‘900, un evento che includerà il nuovo volume degli ANNALI AAMOD Con le mani libere. Il cinema italiano e la liberazione dell’Algeria e la proiezione del film documentario Les mains libres(Le mani libere) di Ennio Lorenzini, recentemente riscoperto proprio negli archivi AAMOD e restaurato dalla Cineteca di Bologna. Al dibattito sull’argomento, in programma giovedì 23 febbraio a partire dalle ore 16:30, parteciperanno Cecilia Pennacini (vice presidente di Ancr), Vincenzo Vita (presidente Aamod), i curatori del libro Paola Scarnati e Luca Peretti, lo storico Diego Guzzi (Unione Culturale Franco Antonicelli) e Karim Metref (educatore, scrittore e giornalista indipendente). Emilio Jona darà testimonianza del sul viaggio in Algeria compiuto nel 1961 con i Cantacronache (Sergio Liberovici, Michele Straniero) e con Paolo Gobetti, accompagnata da una piccola selezione dei canti raccolti durante il viaggio.

 

Il volume, pubblicato da Effigi editore, indaga sul rapporto tra il cinema italiano e la liberazione dell’Algeria, di cui ricorre il sessantesimo anniversario dell’indipendenza e si concentra in particolare sul film di  Lorenzini. Nella prima parte del libro si racconta infatti la storia del cinema algerino delle origini e del suo rapporto con l’Italia, con un focus particolare sullo specifico contesto politico e culturale di intreccio tra i due Paesi: la lotta per l’indipendenza algerina, la solidarietà internazionalista degli anni Sessanta e le relazioni italo-algerine dell’epoca. In una seconda parte è invece analizzata da diverse prospettive la pellicola “Les mains libres” (titolo originale “Tronc de figuier”) realizzata nel 1965 e prodotta dalla Casbah Fillm, analogamente coinvolta in quel periodo ne “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo. Infine, un ritratto dello stesso Lorenzini attraverso la vita e le opere per far conoscere un regista oggi purtroppo dimenticato.

 

“In questo prezioso volume – dichiara Vincenzo Vita nella prefazione  – si testimonia la potenza creativa e non meramente conservatrice degli archivi che, come affermava Zavattini, ci appaiono sempre più come esseri viventi, specialmente nella capacità, oggi attuale come non mai, del loro riuso creativo. Allo stesso tempo, sono meritevoli i numerosi spunti storici che offre per capire non solo il processo di liberazione di un paese della costa accanto, ma per documentare il significato profondo del sommovimento che toccò l’Africa in quel periodo, continente che via via rompeva le catene della cupa e violenta oppressione coloniale evocando l’universalità delle lotte di resistenza e liberazione”.

 

Gli Annali fanno parte del progetto editoriale ultradecennale che l’AAMOD ha realizzato nel tempo attraverso varie collaborazioni con enti, istituzioni e ricercatori. La pubblicazione, a carattere scientifico, raccoglie i contributi di riflessione scaturiti da seminari, convegni, iniziative di formazione e si pone come obiettivo quello di divulgare le ricerche specialistiche condotte dalla Fondazione sui temi di principale interesse, quali il cinema documentario, il rapporto tra media e storia, l’uso degli audiovisivi nella comunicazione politica, etc. Un indice dei volumi realizzati finora dall’AAMOD è presente sul sito ufficiale all’indirizzo aamod.it/category/pubblicazioni/

 

Per maggiori informazioni sull’incontro: info@ancr.to.it

Lezioni feline di pedagogia alla Libreria Borgopo’

Sabato 25 febbraio

la

LIBRERIA BORGOPO’

presenta

IL DIARIO DI DAISY.

Lezioni feline di pedagogia

 

Il libro ispirato alla

International Daisy Primary School

 

La prima scuola elementare d’Italia

ad adottare il metodo educativo finlandese*

Via Luigi Ornato 10

Ore 18.30

 

Esistono gatti speciali che posseggono la rara e preziosa capacità di “leggere” gli umani e di percepirne la profondità, quasi come se riuscissero a comprenderli empaticamente.

 

Come Daisy, «gatta tricolore dal musetto appuntito e dagli occhi furbetti» che suggerisce alla propria padrona quali libri leggere facendoli cadere dagli scaffali e, soprattutto, impartisce acute lezioni di pedagogia agli altri gatti di casa, come una maestra che ha a cuore la natura unica e ineguagliabile di ciascuno di essi.

 

E sono proprio Daisy e gli altri micetti, che con lei condividono divani, mensole e cucce, i protagonisti del nuovo libro di Nicoletta CoppoIl diario di Daisy. Lezioni feline di pedagogia, pubblicato dalla Daisy S.r.l., arricchito dalle illustrazioni di Monica Ferri e disponibile in tutte le librerie fisiche e digitali a partire dal 28 novembre 2022.

 

Il volume sarà presentato sabato 25 febbraio presso la Libreria Borgopo’ di via Luigi Ornato 10 a partire dalle ore 18.30, alla presenza dell’autrice e dell’illustratrice. A moderare l’incontro, Erica Comoglio, la quale dialogherà con Nicoletta Coppo e condurrà il pubblico alla scoperta dei dettagli della raccolta, tra i suggestivi disegni dell’artista Monica Ferri e la particolare “didattica” messa a punto dalla gattina Daisy. A impreziosire l’incontro, anche la lettura ad alta voce di alcuni brani tratti dal testo, al fine di rendere tangibili gli argomenti affrontati nel corso della conversazione e trarre da essi lo spunto per parlare del metodo educativo finlandese, di cui le storie sono degli emblemi narrativi.

 

Il libro raccoglie, infatti, dodici “racconti felini”, dedicati ciascuno a un gatto di casa Coppo: da Spadino a Gina Carapelli, da Cleo a Cesarino, fino al Conte Lackoskj e a Ciro Maradò, tutti i personaggi delle narrazioni riportate dalla scrittrice sono osservati nel loro carattere peculiare e unico, nei confronti del quale Daisy funge da “guida” e supporto non giudicante.

 

Lo stesso approccio del metodo educativo finlandese da cui Il diario di Daisy prende, appunto, ispirazione, e che contraddistinguerà, per la prima volta in Italia, l’International Daisy Primary School*: la scuola elementare che aprirà le sue porte a settembre 2023, negli spazi della scuola Sant’Anna di piazza Mazzini a Chieri.

 

Promossa dall’Istituto Pascal – di cui l’autrice del libro, Nicoletta Coppo, è Dirigente scolastica –, la scuola elementare Daisy si renderà fautrice dei modelli di insegnamento del Nord Europa, favorendo, così, la condivisione, l’inclusività, l’aiuto reciproco, il rispetto e l’empatia tra insegnanti e discenti.

 

L’obiettivo è, appunto, quello di crescere bambini curiosi, dinamici e liberi, capaci di sviluppare un pensiero critico autonomo e di collaborare gli uni con gli altri. Proprio come i protagonisti delle dodici storie nate dalla penna di Coppo, che ha qui convogliato i cardini educativi del metodo finlandese facendoli vivere, sperimentare e mettere in pratica dalla gatta emblema del metodo stesso: Daisy, felino «onnisciente e onnipresente» che, tra un passo di Rodari e una citazione di Rousseau, è in grado di riconoscere e incanalare le caratteristiche proprie degli altri gatti in ciò che è in grado di renderli davvero liberi e in equilibrio con se stessi.

 

«I racconti raccolti nel Diario di Daisy sono storie reali – precisa Nicoletta Coppo – e, in quanto tali, sono ispirate ai miei gatti di casa. Sono una gattara convinta, e sono da sempre affascinata dalla vita dei felini, cui ho dedicato romanzi, racconti e storie di tutti i giorni. Nello specifico, le narrazioni riunite nel volume sono nate un paio di estati fa in Sicilia, per sfuggire alla calura stagionale: in quel contesto, ho compreso quanto la natura sia la nostra prima maestra di vita e, al contempo, quanto il mondo animale abbia da insegnarci. Proprio come l’universo infantile, con cui quello felino è qui messo in correlazione, per la sagacia degli insegnamenti impartiti da Daisy e l’estrema libertà con cui quest’ultima lascia esprimere a ciascun gatto di casa il carattere autentico e spontaneo che lo caratterizza».

 

Il diario di Daisy è disponibile su tutte le piattaforme online e in tutte le librerie fisiche ed è rivolto a grandi e piccini, i quali potranno, così, riconoscere tratti di se stessi e imparare i valori della condivisione, dell’autonomia e della libertà attraverso le storie buffe, tenere e divertenti dei gatti di “casa Daisy”.

 

*In fase di accreditamento da parte del Ministero dell’Educazione finlandese, ma con l’approvazione del Console Onorario di Finlandia a Torino Giovanni Dionisio.

Informazioni

 

L’incontro letterario inizierà alle ore 18.30 e sarà a ingresso gratuito. Per informazioni e prenotazioni, contattare il numero 011 4147510 o scrivere alla mail alberta@libreriaborgopo.com.

Quaglieni rieletto alla guida del “Centro Pannunzio”

OLTRE 50 ANNI DI PRESTIGIOSA ATTIVITÀ CULTURALE 
Lo storico Pier Franco Quaglieni è stato rieletto alla guida del Centro Pannunzio di cui è presidente fondatore
.
Una riconferma che testimonia un lavoro intellettuale  e organizzativo di  oltre mezzo secolo nel solco della cultura liberale e laica. Sicuramente  un record  nell’ambito della cultura italiana e piemontese, paragonabile solo con Franco Antonicelli e Alda Croce.
Il prof. Quaglieni, autore di libri importanti e conferenziere apprezzato in tutta Italia e all’estero, e’ uno degli esponenti più autorevoli della cultura liberale italiana di oggi. E’ cavaliere di Gran Croce ed è stato decorato della medaglia d’oro di benemerito della cultura. Riferendosi alla sede storica del Centro che è a Torino in via Maria Vittoria 35 H,  scherzosamente il prof.  Quaglieni ha dichiarato : “Con questa rielezione mi hanno  condannato al 35 H, che comunque è  sempre molto  meglio del 41 bis,  ma è anche assai  faticoso. Io sto lavorando da tempo ad una mia successione e mi affianchero’ nell’immediato di un comitato  collegiale di direzione. Più che soddisfatto di ciò che ho fatto, sono stanco di un impegno sempre più avvolgente. Tra gli eletti nel nuovo direttivo del Centro ci sarà sicuramente il mio o la mia  successore/a. Il mio desiderio è quello di andare a coltivare il mio giardino in Liguria  come il Candide di  Voltaire.”

Torino e i suoi musei. Il museo delle Antichità

/

Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.

1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lomboso- antropologia criminale
10 Museo della Juventus

 

4 Museo delle Antichità

Scrivere questa serie di articoli ha in effetti i suoi lati positivi, perché “mi costringe” a venire spesso in centro, cosa che mi fa sempre molto piacere.
Mi trovo di nuovo a cercare la biglietteria di Palazzo Reale, supero prima la cancellata di Palagi, poi arrivo all’altezza del ragazzo musicista che molto spesso si piazza all’ombra di Palazzo Chiablese e suona magistralmente il suo “digiridù”.
Questa volta però il biglietto che compro è per visitare il piccolo e sotterraneo Museo delle Antichità, a cui si accede passando per i Giardini Reali, dalla stessa entrata che porta alla Galleria Sabauda, anche se in ultimo è necessario seguire le indicazioni che portano verso il piano di sotto.
Il Museo è un’istituzione antica, che può vantare nobili origini ed è giunto all’attuale sistemazione attraverso una lunga e spesso travagliata vicenda.
La raccolta mantiene la denominazione storica di Museo di Antichità per sottolineare la continuità di questa istituzione che risale al XVIII secolo, ma comprende raccolte formatesi già in precedenza per volere di Emanuele Filiberto di Savoia (1528-1580) e dei suoi successori.
L’esposizione si articola in tre sezioni: quella del Territorio Piemontese e quella delle Collezioni Storiche, c’è una terza sezione dedicata a Torino, antica Augusta Taurinorum, al piano seminterrato della Manica Nuova del Palazzo Reale, in collegamento diretto con l’area archeologica del Teatro romano e del gruppo episcopale paleocristiano, costituito in origine dalle chiese del Salvatore, di San Giovanni e di Santa Maria (chiese abbattute per volere di Domenico della Rovere, committente del nuovo Duomo dedicato a San Giovanni).

In epoca rinascimentale si evidenzia, da parte dei Savoia, il desiderio di eguagliare la dignità e lo splendore delle altre corti italiane ed europee. Tra le sculture antiche pervenute sono state identificate opere già appartenute alle collezioni dei Gonzaga, di Gerolamo Garimberti e di Bindo Altroviti.Dal Settecento in avanti il settore delle antichità greco-romane si accresce continuamente, a seguito dell’acquisto di cospicue raccolte private e per i ritrovamenti effettuati nei territori del Piemonte e della Sardegna.Per molti anni la storia della collezione del Museo di Antichità viaggia in parallelo con quella del Museo Egizio, fino al 1940, anno in cui la collezione di antichità e quella egizia vengono definitivamente separate. La collezione di antichità rimane al pianterreno del palazzo dell’Accademia delle Scienze fino al 1963, quando viene individuata la sede definitiva nelle Serre dei Giardini di Palazzo Reale, il cui recupero viene curato dall’architetto Caterina Fiorio. Una volta discesa mi ritrovo in una zona dalle volte a botte in cui prevale l’uso del mattone, interessante è il gioco delle luminarie, taglienti raggi di luce cadono netti sui reperti, facendoli risaltare dall’ombra quasi richiamando alla mente la tecnica pittorica caravaggesca. Sono rimasta molto colpita dalla collezione, oggetti e reperti che molto spesso passano in sordina e che anche io non avevo ancora avuto l’occasione di conoscere o di approfondire. Subito richiamano la mia attenzione due lastre marmoree lavorate a rilievo e raffiguranti delle menadi danzanti. Le donne seguono il dio Dioniso nella frenesia dell’”entusiasmo” bacchico, e sono copie fedeli dei modelli creati alla fine del V secolo a.C. dallo scultore greco Callimaco: recano i tipici attributi del corteo del dio della vite, torce, tirsi (bastoni con infiorescenze) e strumenti musicali. Vi sono nella composizione anche altre figure, come la menade che regge un cesto colmo di frutti e quella che urla scarmigliata brandendo due torce e con le braccia avvolte da serpenti, che non sono tipiche del “thiasos” dionisiaco ma rimandano all’iconografia di una portatrice di offerte o di un’Hora (stagione) oppure di una Erinni (personificazione della vendetta soprattutto nei confronti di chi colpisce la famiglia), temi comunque che si adattano a un ambito funerario. I due grandi rilievi con figure di menadi danzanti sono noti da tempo nelle collezioni sabaude, forse già verso la metà del Seicento, come dimostrano numerosi disegni e tavole incise del periodo.

Nel piccolo Museo mi muovo piano, per una volta non mi trovo ad avere paura di non riuscire a vedere tutto e mi godo ogni singolo oggetto, dai rilievi, agli esempi di “autoctona”, ai ritrovamenti musivi della Domus romana di via Bonelli 11, al grande mosaico policromo fino ai bei gioielli della cosiddetta “Dama del Lingotto”. Il cuore della collezione è tutto contenuto in teche vicine e fortemente illuminate, si tratta del “Tesoro di Marengo”. Il tesoro è costituito da un sontuoso complesso di argenti, decorati a sbalzo e in alcuni casi dorati, che originariamente dovevano costituire lamine di rivestimento di mobili e arredi di legno, oltre all’eccezionale busto-ritratto dell’imperatore Lucio Vero (161-169 d.C.), forse anticamente montato al centro di uno scudo ornamentale (clipeo), oppure esposto su un supporto in legno o innalzato sui vessilli militari dell’esercito. Gli altri elementi sono costituiti da una tabella con iscrizione votiva alla dea Fortuna Melior, un disco con i simboli dello zodiaco, cornici, fregi decorativi con motivi figurati, geometrici, floreali e un rarissimo esemplare decorato con una catasta di armi.  Notevole è anche la  fascia di rivestimento (di un altare o della base di una statua) decorata con tredici figure di divinità in altorilievo, tutte ispirate a celebri modelli statuari del mondo greco.
Credo sia un mio inconscio tentativo di rielaborazione del trauma del Liceo Classico, ma mi scopro a giocare a riconoscere i vari personaggi mitici e ricordarne le vicende.
L’insieme si distingue da altre argenterie antiche note, sia per l’assenza di vasellame da mensa, sia per la rarità del ritratto imperiale di grandi dimensioni in metallo prezioso, oltre che per la peculiarità di alcune tipologie di oggetti, come i due elementi decorativi di una spalliera laterale di letto (kline).

Quasi tutti gli elementi che compongono il Tesoro si possono datare tra la seconda metà del II secolo e i primi decenni del III secolo d.C. La scoperta avvenne casualmente nel 1928, durante i lavori agricoli condotti presso la Cascina Pederbona di Marengo (Alessandria): gli argenti furono rinvenuti in una grossa cassa di legno ancora visibile in tracce, lacerati, schiacciati e deformati per essere più facilmente trasportati, forse a seguito di un saccheggio avvenuto in antico.
La mancanza di precisi confronti, l’assenza di dati circa la giacitura originaria e la dispersione di parte dei reperti dopo la scoperta rendono problematica l’interpretazione del ritrovamento: forse gli argenti furono saccheggiati in un sacello privato o forse in un santuario pubblico dedicato all’Imperatore oppure a un culto solare tra il III e l’inizio del V secolo d.C. Occultato in un luogo isolato e ritenuto sicuro, con l’intendimento di recuperare i beni per la loro rifusione, non fu poi più recuperato. Apprezzo davvero le dimensioni ridotte dell’esposizione, perché prima di “tornare a riveder le stelle” posso soffermarmi sui reperti che più mi hanno incuriosito, in questo caso il gusto femminile prevale e mi ritrovo a guardare nuovamente i preziosi gioielli longobardi che sfavillano all’interno della teca. Costituiscono l’eccezionale corredo funebre della “Dama del Lingotto” una coppia di orecchini in oro del tipo “a cestello”, con lunghi pendenti mobili e gocce di ametista, una collana a catena con maglie d’oro, una raffinata spilla (“fibula”) circolare a cloisonné con granati del tipo almandino e paste vitree colorate.
In effetti sì, devo ammettere che quelle preziosità antiche incontrano proprio i miei gusti: non c’è che dire, la vanità è donna.

Alessia Cagnotto

Torino e i suoi musei. Museo Lombroso – antropologia criminale

/

Torino e i suoi musei / Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.

1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lombroso – antropologia criminale
10 Museo della Juventus

 

9 Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso

Che Torino sia “città misteriosa” è ormai appurato. La meta che vi propongo oggi può rientrare sotto questo aspetto “tenebroso”, infatti è del Museo Cesare Lombroso che vi voglio parlare.
Il Museo di Antropologia Criminale espone gli studi che Cesare Lombroso (Verona 1835-Torino 1909) eseguì tra l’Ottocento e il Novecento: fanno parte della raccolta preparati anatomici, disegni, schizzi, fotografie, corpi di reato, e le particolari produzioni artigianali degli internati dei manicomi e delle carceri.
Non deve essere stato semplice per la famiglia di Cesare accettare che il celebre studioso organizzasse la sua prima esposizione di “scheletri e armi del delitto” proprio nella sua stessa casa. Chissà se fu proprio la signora Lombroso a spostare, l’anno successivo, nel 1877, un pezzo alla volta, gli attrezzi del mestiere del marito in Via Po 18, dove si trovava lo studio.
Superati i probabili battibecchi familiari, Cesare espose nel 1884 due vetrine ricolme di crani, maschere, fotografie criminali e altri oggetti a dir poco inquietanti, all’ Esposizione Generale di Antropologia Italiana.

Il tempo passa e il materiale si accumula, ecco nuovamente il problema di dove contenere questa raccolta in continua crescita. Nel 1896, quella che poi diverrà la collezione del Museo, viene esposta in via Michelangelo 26, sotto la supervisione dell’amico e assistente Mario Carrara, il quale provvede a riordinare la miriade di oggetti in sei sale differenti, arricchendola a sua volta con reperti inerenti agli sviluppi della polizia scientifica e della medicina legale.
Gli appassionati studi di Lombroso e di Carrara devono sopportare un periodo di dimenticanza, fino alla riscoperta avvenuta intorno agli anni Settanta del Novecento, in occasione della fortunata mostra “La scienza e la colpa”.

Solo nel 2001 la collezione riesce a trovare una sistemazione definitiva presso il Palazzo degli Istituti Anatomici, inserendosi nel progetto “Museo dell’Uomo”, che prevedeva una sede comune per i musei di Anatomia Umana, Antropologia Criminale, Antropologia ed Etnografia (ora in via Accademia Albertina); nella stessa residenza venne poi affiancato il simpatico Museo della Frutta.
Ogni tanto trovo la scusa per andarci, al Museo Lombroso, non è eccessivamente grande e non richiede chissà quanto tempo, certo tutto dipende dagli intenti personali e dalla relatività dei termini “tanto tempo”. Incominciamo dunque la visita.
Nella prima sala sono accompagnata dal sonoro di un dialogo immaginario tra due individui che discutono sugli studi di Lombroso; le voci cadono su alcuni mobili e macchinari che sono scenograficamente disposti per riprodurre lo studio del criminologo. Ciò che i due protagonisti dicono è importante per capire il contesto sociale in cui Cesare opera e per comprendere le valide riflessioni che vengono affrontate sul progresso e sui suoi limiti.

Nella seconda sala mi ritrovo in un luogo a metà tra scienza e fantascienza, una moltitudine di strumenti tecnici per rilevazioni morfologiche e funzionali dimostrano la tesi lombrosiana, per cui follia, delinquenza e genialità sono fenomeni quantificabili e oggetto di studio con metodo scientifico.
Impattante è la terza sala: l’ambiente ricorda i musei di antica concezione, teche e pavimento scricchiolante, decisamente i miei preferiti. Qui facciamo conoscenza con Cesare Lombroso in persona, solo un po’ più magro di com’era in realtà: per volontà testamentaria il suo scheletro è esposto nel Museo, sorridente come i teschi dei tesori dei pirati, guarda i visitatori, come se non volesse smettere di continuare ad osservare e a studiare, sempre alla ricerca di nuove prove a favore della sua tesi.

Superato – credo, non ci è dato saperlo- l’esame di Cesare, possiamo dedicarci a guardare la numerosa rassegna di reperti umani, maschere mortuarie, corpi di reato, manufatti carcerari e manicomiali, nonché ritratti di criminali che ornano le pareti. Non c’è che dire, un po’ si accappona la pelle davanti a quei volti cerati, costretti ad essere esangui per sempre. In questa sala ci sono gli oggetti che più mi affascinano, si tratta dei mobili realizzati da Eugenio Lenzi, uno dei tanti sfortunati reclusi nel manicomio di Lucca. Sono mobili senza definizione, abilmente intarsiati e scolpiti, con una dovizia di particolari che solo un matto avrebbe potuto concepire. Tutte le volte che li osservo non posso che domandarmi: se fossero esposti alla GAM o al Castello di Rivoli, sarebbero giudicati allo stesso modo o diventerebbero magicamente opere di inestimabile valore artistico?
Mi prendo il mio tempo prima di proseguire, quegli oggetti hanno il potere d’incantarmi e tutte le volte scopro dettagli nuovi che mi fanno rimanere a bocca aperta. Qualcuno mi osserva, mi sento giudicata e proseguo verso la quarta sala. Mi trovo di fronte a dei teschi tagliati e a qualche scheletro, le didascalie mi ricordano che questa stanza spiega la teoria atavica di Lombroso, il quale sosteneva che il criminale regredisse ad una sorta di condizione primitiva dello stadio evolutivo; un video ricorda, a chi se lo fosse dimenticato, che la malformazione cranica della fossetta del teschio Villella è solo una variabilità individuale, non un fondamento scientifico.

La quinta sala è dedicata agli abiti realizzati da Giuseppe Versino, internato a Collegno, e altri oggetti creati da persone affette da disturbi mentali. Il binomio “genio-follia” è presente da sempre nella storia dell’uomo e nella storia dell’arte, si pensi all’ iconica e stereotipata figura di Vincent Van Gogh (1853-1890), artista inequiparabile, internato nel manicomio di Saint Remy, dopo essersi amputato l’orecchio e dove realizzò 150 opere in soli 53 giorni. Del resto proprio questo luogo mi fa venire in mente che la “lista dei pazzi” è decisamente ampia: Fancisco Goya (1746-1828) era affetto da encefalopatia, (causata da intossicazione da piombo presente nei colori), la malattia lo portò alla sordità e a disturbi di personalità; lo stesso Michelangelo (1475-1564) secondo alcune fonti era piuttosto schizofrenico, come dimostrerebbero le ricerche di Gruesser collegabili allo studio dei volti realizzati dal Buonarroti.

Particolarmente attinente è la vicenda del pittore Richard Dadd (1817-1886), che uccise il padre con un coltello a serramanico perché lo aveva scambiato per un principe delle tenebre, nemico della divinità che Richard adorava, Osiris, a cui aveva anche dedicato un piccolo santuario in una camera in affitto a Londra. Non c’è bisogno di spiegazioni per personaggi allucinati come Ensor, ( 1860-1949) e Munch,( 1863-1944). Forse tra tutti l’ “oscar della follia” va a Jackson Pollock, artista maledetto per eccellenza, consumato da alcool e droghe, riformato dall’esercito per problemi psichici, morto a soli 44 anni in un tragico incidente stradale, la stessa signora Guggenheim di lui aveva detto: “quest’uomo ha dei seri problemi, la pittura è senza dubbio uno di questi”. L’elenco è ancora lungo ed è costituito da grandi nomi quali Francis Bacon, (1909-1992), l’autodistruttivo e tormentato Jean Michel Basquiat (1960-1988) e la triste Camille Claudel (1864-1943), artista brillante, allieva e amante di Rodin. Camille soffrì di depressione con manie di persecuzione e venne internata per volere della madre, in tal modo è come se fosse morta due volte in solitudine: sola, perché rinchiusa in manicomio e sola, perché nemmeno un familiare partecipò al suo funerale.

Continuando nel percorso espositivo, alla sala 6 si trovano le uniche tracce di vite anonime e maledette: graffiti e incisioni sugli orci per l’acqua dei detenuti del carcere di Torino. La sala 7 presenta il modellino del carcere di Filadelfia e la ricostruzione di una cella ottocentesca, qui si affronta la problematica della detenzione, divenuta nel corso dell’Ottocento architrave dei sistemi penali.
Sono quasi alla fine della visita e nuovamente incontro Lombroso, ma se prima era solo un silenzioso scheletro scrutatore, ora è una voce incorporea che mi parla come dall’Aldilà: è un discorso immaginario che ripercorre l’esperienza di studio, i pensieri, i dubbi che attanagliarono il grande pensatore, umanizzandolo e quasi tramutandolo in un normale “figuro” della bella époque torinese.

Uscendo, attraverso un lungo corridoio che mi riassume i punti principali della mostra: qui ho l’opportunità di rabbrividire ancora una volta alla vista della forca, proprio quella un tempo situata al “rondò” la piazza che ancora oggi in città così si chiama. Giustamente, a mio parere, perché il passato va studiato e compreso, ricordato e contestualizzato: se cancelliamo gli errori che abbiamo commesso, come possiamo correggerli e non ripeterli?

Alessia Cagnotto