ARTE- Pagina 31

“Love Difference”. In nome della “Pace”

Dopo i “Grandi” del G7, la Puglia rilancia, con il nostro “grande” Michelangelo Pistoletto

Fino al 20 ottobre

Fasano (Brindisi)

Sempre lì, nella pugliese Fasano. A pochi giorni dalla conclusione del 50° vertice del G7 (tenutosi dal 13 al 15 giugno nel resort di Borgo Egnazia),  la cittadina, che nel XIV secolo fu feudo dei Cavalieri di Malta, al confine fra il Salento e la Terra di Bari, continua ad ospitare, fino a domenica 20 ottobre, la significativa (per il messaggio politico e sociale di cui è portatrice) installazione luminosa “Love Difference” realizzata nel 2005 da Michelangelo Pistoletto (Biella, 1933) ed appositamente esposta, lungo la litoranea fra Torre Canne e Savelletri, in occasione del recente “Forum Intergovernativo” fra i “Grandi” della Terra. Promosso dalla “Fondazione San Domenico Onlus”, con il patrocinio di “Ministero della Cultura”, “Regione Puglia” e “Città di Fasano”, l’evento fa da apripista al progetto di recupero dell’ ex marmeria “IMARFA” (adibita in passato alla lavorazione di marmi e graniti), nell’ottica della sua trasformazione, dopo i lavori di restauro affidati a Mimmo Palladino, in “Centro per la cultura e l’Arte Contemporanea”. “Questo progetto di recupero persegue le intenzioni di Sergio Melpignano – dichiara la presidente della ‘Fondazione’, Marisa Malpignano – che anni fa, con lungimiranza, aveva visto lo straordinario potenziale di quest’area”. Il piano di riutilizzazione urbanistica della struttura, attualmente inaccessibile, prevede la riqualificazione dell’intera area e un importante intervento di risanamento degli edifici esistenti, che verranno riconvertiti in un centro con 1250 mq di spazi espositivi e una vasta area all’aperto, che sarà adibita anche a eventi dal vivo, come concerti e spettacoli teatrali.

 

Ad anticipare le grandi prospettive messe in gioco dalla “Fondazione San Domenico”, di concerto con altri Enti operativi sul territorio, si è ben pensato a “Love Difference”, una monumentale e variopinta installazione luminosa composta da 20 scritte al neon, in cui la frase “amare le differenze” è tradotta nelle lingue più diffuse al mondo. L’opera, concepita per la prima volta dal biellese Maestro dell’“Arte Povera” nel 2005, come parte di “Luci d’Artista” a Torino, nasce nell’ambito del più ampio e articolato progetto, datato 2002, “Love Difference – Movimento Artistico per una Politica InterMediterranea”, nato per promuovere il rispetto e la comprensione reciproca tra le diverse culture attraverso l’universalità dell’arte. A più di vent’anni dalla sua ideazione, il messaggio di Pistoletto è oggi più attuale che mai. E più che mai attuali le sue parole di allora nel “Journal 7” della sua “Cittadellarte”:“Da una parte la differenza tra etnie, religioni e culture è, oggi, causa di terribili conflitti; dall’altra vi è una drammatica situazione prodotta dalla supremazia dei poteri che producono l’uniformità e il livellamento delle differenze […] Uniformità e differenza sono i due termini antagonisti che rappresentano la massima tensione conflittuale nell’attuale realtà planetaria. Una politica che porti ad ‘amare le differenze’ è vitale per lo sviluppo di nuove prospettive nell’intera compagine sociale”. Parole sacrosante. E quanto attuali in un mondo che rischia oggi la disgregazione!

Installata come una delle grandi insegne luminose che si incontrano di frequente ai margini delle strade, “Love Difference” (altra cosa, altri intenti, altri valori!) si affaccia per la prima volta su quel “Mare Nostrum” che è crocevia di culture ed elemento che congiunge terre e popoli diversi, in un momento storico che, nello stesso luogo, ha appena visto riunirsi i “Grandi” che governano il mondo. “Questa particolare cornice spaziale e temporale – sottolineano i responsabili – amplifica il messaggio di pace e comunione tra i popoli di cui l’opera è portavoce, ricordandoci che il dialogo, la tolleranza e l’accettazione dell’altro sono i principi fondamentali su cui fondare la nostra odierna società”.

Non solo. A rafforzare il senso dei contenuti di “Love Difference”, Michelangelo Pistoletto ha concepito anche una delle sue celebri “opere specchianti”, donata a ciascuno dei membri del G7. Ispirandosi alla celebre “Creazione di Adamo” della “Cappella Sistina”, “conTatto” (questo il titolo) riproduce una mano che riflettendosi ne crea un’altra virtuale, “a ricordarci la necessità di trovare un equilibrio tra il mondo naturale e quello artificiale”, restituendo all’arte, che Pistoletto definisce “demopratica”, anche il suo significato religioso, politico e scientifico. L’arte non come elemento che sovverte “ma che genera, armonizza e interconnette ogni forma di governo esistente”.

Per info“Fondazione San Domenico Onlus”, Contrada Cerasina, Savelletri di Fasano (Brindisi); tel. 080/4827769 o www.fondazionesandomenico.it

Gianni Milani

Nelle foto di Cosimo Rubino: Michelangelo Pistoletto “Love Difference”, neon, Courtesy l’artista e “Galleria Continua”, 2005-2024

“La notte, di luci e di note” a “Casa Lajolo” di Piossasco

Una rassegna di concerti per inaugurare il nuovo giardino illuminato

28 giugno/26 luglio/13 settembre

Piossasco (Torino)

Sempre di venerdì. E in notturna. Sul piatto, un’interessante rassegna di concerti che spazieranno dalla musica strumentale brasiliana a quella tradizionale di culture lontane. Il primo appuntamento è per il prossimo venerdì 28 giugno, quando si accenderanno per la prima volta le luci disposte per ulteriormente valorizzare, anche sotto le stelle, il giardino di “Casa Lajolo”, dimora storica settecentesca di Piossasco (Torino). Si tratta di “un sistema di illuminotecnica – dicono gli organizzatori – realizzato grazie al bando ‘PNRR – Parchi e Giardini Storici’, finanziato dai ‘Fondi Next Generation EU’ e teso a valorizzare i punti più suggestivi di questo bellissimo giardino, organizzato a ‘stanze’ che offrono scenari sempre nuovi e inaspettati”. Progetto di tutto rispetto che meritava un’inaugurazione coi fiocchi. Di qui l’idea della “Fondazione Casa Lajolo” di organizzare “La notte, di luci e di note”, rassegna di tre serate di musica in programma venerdì 28 giugno, venerdì 26 luglio e venerdì 13 settembre: nel biglietto (20 euro), dopo un calice di vino di benvenuto della “Cantina L’Autin” di Pinerolo, la possibilità di visitare e passeggiare nel giardino illuminato e, poi, di assistere al concerto. Ogni appuntamento farà vivere un angolo diverso del giardino della dimora storica. Il primo sarà ospitato nel suggestivo “boschetto di tassi”, che crea già di per sé un palcoscenico naturale. Gli altri due invece, creazioni site-specific per “Casa Lajolo”, sono itineranti.

Come detto, si comincia venerdì 28 giugno (alle 21,30) con “World music”, musica strumentale brasiliana dai “colori jazz”, insieme a due artisti internazionali, Roberto Taufic e Gilson Silveira, duo di chitarra, percussioni e voce.

Il secondo appuntamento sarà venerdì 26 luglio (alle 21,30) con i violinisti Gabriele Cervia e Maria Alejandra Peña Ramìrez, per una serata di musica classica.

Ultima data venerdì 13 settembre (alle 20,30) con “Suoni dal mondo, tra terra e cielo”, insieme a Elena Russo, suonatrice di “Kora”, arpa tradizionale africana, e Fiore De Mattia, maestro di “Shakuhachi”, flauto giapponese.

La nuova illuminazione permetterà non solo di prestare maggiore attenzione alla musica ma di vivere, al massimo, il giardino anche in notturna.

Le luci richiameranno infatti l’attenzione su alberi secolari, come il cedro e il pino, giocheranno con muretti e aiuole, inviteranno a muoversi tra il piazzale in ghiaia – con la collezione di agrumi in vasi, il giardino all’italiana delineato da cordonature e sculture in bosso – affiancato da un boschetto all’inglese delimitato da sette “Taxus baccata” (albero dell’ordine delle conifere, molto usato come pianta ornamentale o pianta isolata), e poi più in giù, inviteranno a guardare verso ulivi e alberi da frutto, fino all’orto-giardino e al frutteto. Davvero un bel vedere. E una bella iniziativa. “Che sarà – promettono gli organizzatori – solo la prima di una lunga serie a venire”.

Per info: “Casa Lajolo”, via San Vito 23, Piossasco (Torino); tel. 333/3270586 o www.casalajolo.it

g.m.

Nelle foto: “Casa Lajolo” di notte, Gilson Silveira, Elena Russo e Fiore De Mattia

“Mainolfi / Sculture. Bestiario”. Alieni, improbabili e misteriosi

Gli animali “fantastici” di Luigi Mainolfi, s’aggirano pacificamente negli spazi della “Reggia di Venaria”

Fino al 10 novembre

Venaria Reale (Torino)

Eccoli. Vagolano. Solitari o in coppia. Sembianze zoomorfe. Alcuni brucano senza ingordigia l’erba dal terreno, altri si guardano attorno a cercare presenze amiche – pur se molto dissimili da loro – senz’alcuna paura (quasi padrone e padroni di casa) gironzolano con teste lunghe e affusolate, con o senza coda, penzolanti orecchie per alcuni e corpi dalle “strane” caratteristiche e proporzioni per quasi tutti. Vagolano lemme lemme dalla “Torre dell’Orologio” al Loggiato della “Sala di Diana”, fino al settecentesco “Gran Parterre del Parco Alto”, alla “Corte d’Onore” e alla juvarriana “Cappella di Sant’Uberto”. Non emettono verso alcuno. Almeno pare. Di loro però si conoscono i nomi. Strani (e come se no?) anche loro. Dai “Silontes” al “Solitan” al “Nominon” allo “Scosso” fino all’“Apessa” sorvegliata con curiosità da un piccione (vero, in carne e ossa, becco e piume) indeciso sul da farsi. Avvicinarsi per fare amicizia o  (meglio) prendere il volo!? Ma dove siamo? Sembra chiedersi anche il povero piccione. Niente paura. Non siamo capitati per caso (coi tempi che corrono!) su strani, lontani e sconosciuti pianeti.

Siamo, semplicemente, alla “Reggia di Venaria”e questi “strani personaggi” sono solo alcuni dei 20 protagonisti in bronzo, realizzati fra il 1978 ed il 2020, appartenenti al fantastico “Bestiario” di Luigi Mainolfi (avellinese di nascita ma torinese di lunga adozione, fin dagli anni Settanta, caratterizzati da ricerche performative basate sul rapporto fra corpo, gesto e scultura) ospite d’onore per tutta l’estate e, fino a domenica 10 novembre, della “Reggia di Venaria”. Selezionate dal direttore generale del “Consorzio delle Residenze Reali Sabaude” Guido Curto e dalla Conservatrice della “Reggia” Clara Goria, le sculture sono tutte “a tema zoomorfo”. Da qui il titolo, “Bestiario”, che rimanda ai “Bestiari” dei codici miniati medievali illustrati con raffigurazioni di animali reali e immaginari, e anche al celebre “Manuale di zoologia fantastica”, saggio del 1957 scritto, con la collaborazione di Margarita Guerrero, dallo scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges, inventore eccezionale e non privo di singolare humor di un numero incredibile di creature partorite girovagando per “universi fantastici”, assolutamente ignoti ai più, dall’“Anfesibema” a “L’elefante che preannunziò la nascita di Buddha”, fino alla “Scimmia dell’Inchiostro” o allo “Zaratan”. Tema che ben presto ammalia anche Mainolfi, già autore del “Bestiario del Sole” (serigrafia su carta, 2008), popolato di colorate creature metamorfiche, sospese tra mito e fiaba, e nel 2018 del “Bestiario del firmamento”, realizzato per la Collezione dei “Sipari d’artista”, progetto della fiorentina “Associazione Amici della Contemporaneità” che, nel tempo, ha visto coinvolti nomi prestigiosi del “contemporaneo”, da Carla Accardi ad Aldo Mondino, fino a Mimmo Paladino a Getulio Alviani a Nicola De Maria e a Pino Pinelli.

Non una “novità” dunque il “Bestiario” mainolfiano che “si insinua – dicono i curatori – nelle architetture barocche, invade le verdi geometrie dei giardini ed entra in contatto con la viva presenza di cerbiatti e altra fauna selvatica del vicino Parco ‘La Mandria’, riserva naturale di biodiversità”. Nessun divieto. Nessun luogo proibito per questi “esseri fantastici” che, per l’artista, sono “immaginario potente” del mondo mediterraneo e del Sud del mondo, dalla natia Valle Caudiana al Venezuela (dove Mainolfi trascorse l’infanzia) fino ai viaggi nel sud-est asiatico e in Oceania. Forme perenni acquisite e rielaborate dalla memoria. Con non rare tentazioni di mutevolezza. Come le “Isole”, approdate da lontani “Arcipelaghi” fino alla “Cappella di Sant’Uberto”, due sculture a forma di grandi conchiglie in bronzo sospese su acuminati “peduncoli”, quasi fossero moderne acquasantiere. “Sculture – sottolinea lo stesso Mainolfi – che tentano di diventare natura nonostante le tentazioni avverse”.

Strane giravolte della fantasia. Esseri alieni, “per me – ancora Mainolfi – un autoritratto … nostalgie del mio corpo, ricordi di ciò che forse ero o vorrei essere, memoria di un’altra precedente vita”. Tutt’è possibile. Mainolfi dixit.

Gianni Milani

“Mainolfi/Sculture. Bestiario”

Reggia di Venaria, piazza della Repubblica 4, Venaria Reale (Torino); tel. 011/4992300 o www.lavenaria.it

Fino al 10 novembre

Orari: mart. – ven. 9,30/17; sab.-dom. e festivi 9,30/18,30

Nelle foto di Micol Sacchi (Fonte: “Consorzio delle Residenze Sabaude”): Luigi Mainolfi: “Silonte”, oro, 2006; “Apesse”, bronzo, 2009; “Nominon”, oro e bronzo, 2016: “Centauro”, bronzo, 2006

Alla galleria Umberto Benappi la mostra dedicata a Tano Festa e Mario Schifano

 

 

È stata inaugurata domenica 23 giugno alle 18 la stagione estiva dello spazio in montagna della galleria Umberto Benappi, nella celebre località di Sansicario, con la mostra “Tano Festa-Mario Schifano”, in collaborazione con la galleria Il Ponte di Firenze.

Con il supporto creativo di Riccardo Pietrantonio, la “galleria di montagna”, che nasce per ospitare progetti realizzati in collaborazione con gallerie italiane e internazionali e per proporre cultura in territori dislocati, vede come primo ospite della rassegna estiva la galleria Il Ponte, fondata nel 1965 a San Giovanni Valdarno da Vincenzo Alibrandi, che nel corso della sua attività ha lavorato con artisti selezionati che abbracciano tutto il  secolo XX, mantenendo sempre uno sguardo sulla contemporaneità.

La mostra è  dedicata a due maestri della pop art italiana, Tano Festa e Mario Schifano, tra gli esponenti di spicco della Scuola di piazza del Popolo a Roma, insieme a Franco Angeli, Mimmo Rotella, Cesare Tacchi e Giosetta Fioroni. A partire dai primi anni Sessanta, questo gruppo di artisti accoglie con entusiasmo le istanze della pop art americana, declinandole in termini più  colti e concettuali e servendosi di immagini quotidiane estrapolate dal contesto urbano, dal patrimonio storico-artistico italiano, ma anche dal cinema e dalle pubblicità.

Tano Festa è considerato l’artista italiano più  vicino alla pop art. Divenuto amico di una serie di artisti romani riunitisi nel gruppo della scuola di Piazza del Popolo, tra cui Mario Schifano e Jannis Kounellis, raggiunse una fama che lo portò a partecipare a importanti mostre e a collaborare con importanti gallerie romane.

La produzione di Festa appare piuttosto variegata, anche se compare una tendenza a produrre una serie di opere sullo stesso tema, tra cui le più note sono le serie dedicate all’Adamo della michelangiolesca Cappella Sistina,  i ritratti di amici e familiari e i Coriandoli, su sfondi colorati e vivaci. Grande ammiratore della pop art, è  stato definito esponente della cosiddetta “pop art italiana”; egli era ben consapevole della differenza di contesto tra gli Stati Uniti e l’Italia, il cui esito poteva essere, piuttosto, un’arte italiana “popolare”, capace di prendere spunto dai grandi capolavori del passato per renderli attuali.

Mario Schifano, originario della Libia nel 1934, nei primi anni Quaranta si trasferì  a Roma e prima di essere assunto come assistente restauratore al Museo Etrusco di Villa Giulia, frequentòun corso di pittura insieme al padre e nel 1958 inaugurò la sua prima personale alla Galleria Appa Antica, per poi prendere parte alla Scuola di Piazza del Popolo. Per l’occasione, in una collettiva romana degli anni Sessanta, propose dei monocromatici su carta da imballaggio incollata su tela, con cui dà prova di una pennellata eccezionale inserita in uno o due campi cromatici, alternatidall’inserimento di sgocciolature e parole non particolarmente definite. È  evidente l’influenza della pop art americana e delle coeve esperienze di Jasper Jones. I colori sono di derivazione industriale e questo rende la sua pittura più vicina alle insegne stradali.

La prossima mostra, a luglio, sarà dedicata al collezionista Gian Enzo Sperone.

 

Mara Martellotta

Cavalli, cavalieri e… “Pomone”

Quelle “Arcane Fantasie” di Marino Marini in mostra al “Forte di Bard”

Fino al 3 novembre

Bard (Aosta)

Non un “artista fuori dalla storia”, come spesso la semplicistica “mitologia” creatasi intorno alla sua figura (di “artista-vasaio”“etrusco rinato” o “primitivo toscano che si scopre moderno suo malgrado”) ha teso a regalarci nel tempo, ma, al contrario, artista raffinato e di grande solida personalità in costante, consapevole e voluto raffronto con la scultura europea del Novecento, assimilata e fatta propria senza mai perder di vista la scultura antica – quella etrusca ed egizia, in particolare – che per lui fu oggetto di appassionata ispirazione e stimolo creativo. Riesce bene nel riportarci alle giuste e corrette dimensioni di chi fu fra i più importanti artisti italiani del XX secolo, la mostra ospitata, fino a domenica 3 novembre, al “Forte di Bard” (“Sala delle Cannoniere”) e dedicata a Marino Marini (Pistoia, 1901 – Viareggio, 1980). Saggiamente titolata “Arcane Fantasie” e promossa dal “Forte”, sotto la curatela di Sergio Risaliti – direttore del fiorentino “Museo del Novecento” – in collaborazione con “24 Ore Cultura” e “Museo Marini” di Firenze (cui si deve la gran parte dei prestiti) la rassegna si articola in ben 23 sculture e 39 opere su tela e carta.

In esse ritroviamo tutto il suo mondo di cavalli e cavalieri, quel mondo arcaico e solido (ispirato all’artista, pare, dal “Cavaliere di pietra” del Duomo di Bamberga, in Germania, e dalla scultura fiorentina del Quattrocento così come dalla “plastica” etrusca, non meno che dai grandi esempi della “Scuola del Verrocchio”), trasformato in un immobile abbraccio di forme indivisibili fra cavaliere e cavallo, in cui “c’è tutta la storia – diceva lo stesso artista – dell’umanità e della natura”. E accanto a cavalli e a cavalieri, i suoi guerrieri e le sue antiche divinità, il circo con giocolieri danzatrici. E le sue mirabili, inconfondibili, prosperose ed accoglienti “Pomone”, scolpite in bronzo a tutto tondo, prive di braccia – concepite in un effetto “distorsivo e deformante” in cui si palesa l’influenza dell’amico scultore inglese Henry Moore – e rappresentanti l’antica dea della “fertilità” per gli Etruschi, divenuta nell’antica Roma protettrice dei frutti e per questo solitamente raffigurata con una mela in mano.

 

Il pezzo di maggior prestigio allocato in mostra è sicuramente “Gentiluomo a cavallo”, scultura in bronzo datata 1937 ed arrivata a Bard su prestito della “Camera dei Deputati”, dov’è solitamente esposta proprio all’ingresso principale di Montecitorio, di fronte al Cortile d’Onore. Dopo aver seguito i corsi di pittura di Galileo Chini, all’“Accademia di Belle Arti” di Firenze, Marini si avvicina alla scultura nel 1922 (riprenderà a dipingere solo negli anni ’50), sotto la guida di Domenico Trentacoste, sempre presso l’“Accademia” fiorentina. Nel 1926 apre un suo studio in via degli Artisti a Firenze, dove inizia a portare avanti, sviluppandolo a seconda del mutare dei tempi e degli eventi socio-politici internazionali, un suo personalissimo stile legato a cifre narrative rivolte ad una ben precisa sensibilità moderna mai disgiunta dal gusto fedele alla tradizione. Fra i tanti incontri importanti, quello con Arturo Martini,  che, nel ’29, lo chiamerà a succedergli all’insegnamento all’“I.S.I.A. – Istituto Superiore per le Industrie Artistiche”, alla Villa Reale di Monza. La sua prima personale, a Milano, è del 1932. Nel 1935 vince il primo Premio per la Scultura alla “Quadriennale di Roma”. Sono questi gli anni in cui Marini circoscrive la sua ricerca artistica a due tematiche essenziali: il “cavaliere” e la “Pomona”. “Protagonista a suo modo – sottolinea Risaliti – delle ‘avanguardie’, Marino Marini seppe intuire che la scoperta del primordiale, del primitivo era la via necessaria per superare la crisi dei valori formali e spirituali della sua epoca”. Una sorta di benefica “sacralità” dell’arte arcaica, profondamente turbata, anni dopo, dalla tragicità degli eventi bellici.

Il secondo dopoguerra, infatti, inficerà l’immobile, silenziosa stabilità delle sue figure, per scarnificarle e deformarle in una forte tensione espressionista che andrà a coinvolgere anche la sua pittura, attraverso dettati cromatici più vigorosi e forme chiamate ad evocare, più che a descrivere. Del resto “come nell’amore – diceva Marini – nell’arte non si può spiegare tutto, certe parti rimangono nell’ombra luminosa del mistero”“Quel mistero – scriveva concorde il grande amico Moore – che dovrebbe avanzare pretese nei confronti dello spettatore”. Pretese spesse ignorate. Avidi, come siamo, di scrutare (magari di sfuggita) solo con gli occhi, piuttosto che con la più tenace e sensibile guida del cuore.

Gianni Milani

“Marino Marini. Arcane Fantasie”

Forte di Bard, via Vittorio Emanuele II, Bard (Aosta); tel. 0125/833811 o www.fortedibard.it

Fino al 3 novembre

Orari: mart. – ven. 10/18; sab. – dom. e festivi 10/19. Lunedì chiuso

Nelle foto: Marino Marini: immagini allestimento e “Gentiluomo a cavallo”, bronzo, 1937

“Opera viva. Il Manifesto” in piazza Bottesini l’opera di Marina Arienzale “Mosca”

 

 

Martedì 25 giugno alle 18.30 si terrà il secondo appuntamento con “Opera viva. Il Manifesto”. In piazza Bottesiini a Torino. Si tratta di “Mosca” di Marina Arienzale, per la decima edizione di Camouflage.

Un insetto si poggia inerte su una grande distesa arancione. È Mosca di Marina Aziendale, progetto di arte urbana sul preesistente di Alessandro Bulgini che, dal 2015, ospita più di cinquanta artisti italiani e stranieri, interpreti dello spazio pubblico per le affissioni di 6×3 in Barriera di Milano. Questa installazione sarà presente fino al 9 luglio 2024.

Una mosca con i suoi grandi occhi si ferma sul fondale arancione creando un rebus silenzioso, un camouflage da interpretare.

Le apparizioni della mosca nella storia sono numerosissime. Dalle arti visive a partire da Giotto fino a a Damien Hirst, come un topos letterario, ritrovandosi in numerosi scritti di Luciano di Samosata, Omero, Pirandello fino a Kafka e Golding e anche nel cinema dove ricorre come contraltare del perfezionismo, dell’edonismo e dell’individualità della società odierna, ad esempio nell’omonima opera del regista David Croneberg “The fly”, appunto “zla mosca”.

Mosca rappresenta un sostantivo ma anche un nome proprio, Mosca è un simbolo che attraversa i secoli, un monito cristiano, un virtuosismo pittorico, uno scherzo illusionista, elemento di nature morte e vanità, comunica fastidio e ostinazione e stimola il nostro lato più oscuro. La mosca è associata a Belzebù, demone biblico il cui nome in ebraico significa “Signore delle mosche”.

Che cosa rappresenta Mosca?

“Un bagno di arancione – spiega Marina Arienzale- Mosca con i suoi grandi occhi si è accasciata, diventando parte di un rebus che invita a comportamenti che ci potrebbero portare ad essere lì con lei, senza riferimenti a questo colore caldo. Pare che, per la cromoterapia, l’arancione sia il colore che aiuta a digerire”.

Giunto alla sua decima edizione , “Opera viva Barriera di Milano”, il Manifesto è un pretesto per esprimere altro. Il tema scelto per l’edizione 2024 è il Camouflage o cammuffamento, che si riferisce a qualunque metodo utilizzato per rendersi meno visibili alle forze nemiche. Il momento storico che stiamo vivendo evidenzia come la maggior parte dei componenti del sistema culturale sia intimorita dall’esprimersi sulle questioni internazionali.

Il manifesto diventa, quindi, spazio per il non detto, per esporre una necessità, un credo personale perfettamente mascherato. Gli artisti e le artiste selezionati/e sono stati invitati/e a realizzare un’opera antitetica a ciò che in realtà si vorrebbe esprimere e denunciare. Un’opera mimetica e impermeabile, un perfetto camouflage.

L’edizione 2024 incentiva la possibilità di dissentire senza esporsi.

Quest’anno Opera Viva Barriera di Milano, il Manifesto è un’operazione corale che mira a esprimere il disagio tramite la manifestazione pubblica del suo contrario. Sette artisti e i loro manifesti compongono un’unica opera di denuncia e di dissenso.

Gli artisti e le artiste selezionati/e che metteranno in pratica il loro camouflage in piazza Bottesini a Barriera di Milano, dopo il primo manifesto esposto il 4 giugno scorso di Francesca De Angelis, sono Marina Arienzale, fiorentina, laureata in pittura all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, Charlotte Landini, Monica Podda e Stefano Budicin, Cocis Ferrari, Giuseppe Fittipaldi e Davide Dormino.

Secondo appuntamento

25 giugno 2024

Mosca

Marina Arienzale

 

Mara Martellotta

 

L’arte di Gabriele Doglietto nata da una profonda passione giovanile

Informazione promozionale 

Gabriele Doglietto, sin dalla sua infanzia, ha sempre nutrito una profonda passione per l’arte e la cucina. Nato a Torino il 18 maggio del ’94, sono cresciuto in un piccolo paese del Canavese e le mie prime esperienze artistiche si sono manifestate attraverso schizzi  e disegni su qualsiasi superficie disponibile.

“L’arte mi ha da sempre attratto per la sua capacità di esprimere emozioni e storie – afferma Gabriele Doglietto – mentre la cucina mi ha permesso di esplorare la creatività attraverso i sapori, che culminano nella mia attuale carriera di cuoco.

Castelli di sabbia, 2023

Tuttavia è stato soltanto durante la pandemia del 2020 che ho pensato e deciso di dedicarmi seriamente alla pittura.

Sono un artista contemporaneo autodidatta e il mio percorso nella pittura astratta è iniziato  con la semplice curiosità e il desiderio di esprimermi visivamente. Senza una formazione accademica, ho esplorato diverse tecniche come acrilici e smalti, ammirando e facendomi ispirare dai lavori di grandi maestri come Pollock, Yayoi Kusama, ma anche Maurizio Cattelan e Anish Kapoor.

La mia prima tela intitolata “Mezzanotte” rappresenta un momento cruciale in cui ho capito che la pittura era il mio vero mezzo di espressione.

Mezzanotte, 2020

L’apprendimento autonomo mi ha permesso di sviluppare uno stile personale, libero dalle convenzioni accademiche, sperimentando e trovando ispirazione in tutto ciò che mi circonda. Nel corso degli anni il mio stile si è evoluto significativamente: oltre all’uso tradizionale dei pennelli, ho iniziato a sperimentare, con la sovrapposizione delle tele, un senso di profondità e tridimensionalità. Questo nuovo approccio ha arricchito le mie opere con una dimensione visiva unica. Ho inoltre integrato applicazioni materiali che conferiscono maggior carattere e tattilità ai miei quadri, trasformando i dipinti in una esperienza visiva e sensoriale.

“1989”, 2021

Oggi la mia pittura rappresenta un percorso di esplorazione e crescita. Ogni nuova opera è per me un’opportunità per comprendere e rappresentare meglio il mondo che mi circonda e il mio universo interiore.

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Sito: www.gabrieledoglietto.it

Instagram: @gabrieledoglietto_art

Mail: gd6582@gmail.com

 

Mara Martellotta

 

“Dialoghi d’arte”, collettiva promossa dal Museo MIIT in collaborazione con Eureka Eventi

Proseguono gli scambi artistico culturali tra il Museo MIIT e altre istituzioni museali e artistiche, tanto che fino al 30 giugno prossimo il MIIT ospiterà una selezione di artisti a cura di Eureka Eventi di Massimo Picchiami e una selezione di artisti del Museo MIIT a cura del direttore Guido Folco. A queste selezioni, in mostra collettiva, si affiancheranno le personali curate dal museo e dedicate alla montenegrina, ma newyorchese d’adozione Fadiljia Kajosevic, alla marocchina Laila Benhalima, agli italiani Giuseppe Oliva e Anna Rota Milani, oltre all’italo canadese, ma valdostano di origini, Adriano Savoye.

La montenegrina Kajosevic interpreta la pittura come sonno e speranza, attingendo dalla tradizione poetica, artistica e letteraria, e concentrando la sua ispirazione nella ricca iconografia della luna e del sole, degli opposti che si completano, dell’universo e dell’Essere, inteso come maschera e specchio di sensazioni, sentimenti e emozioni.

Laila Benhalima, originaria del Marocco, si rifà al genere antico della favola e della narrazione, così importante e radicata in oriente e nei paesi di cultura araba. Le sue Mille e una Notte si assemblano in tessere come un mosaico attraverso cui la narrazione procede per figure, colori, immagini e narrazioni. La realtà si trasforma in fantasia, le storie e i personaggi vagamente chagalliani, fluttuano nell’aria e nello spirito di una artista visionaria e fantastica. Il Maestro Savoje unisce colore, forma, geometrie con una capacità di creare visioni oniriche, oppure vitali rappresentazioni dal vero, osservato e interpretato con uno sguardo fortemente cromatico e vibrante. Dai paesaggi artici a quelli andini, dalla natura delle nostre Alpi ai messaggi tra il pop e il sociale, Savoje scandice il suo tempo, che diventa inevitabilmente anche il nostro, toccando tematiche profonde e attuali come l’ecologia e l’ambiente.

Un’altra artista in mostra, Anna Rosa Milani, sposa perfettamente l’idea pavesiana della contrapposizione tra città e campagna interpretando quest’ultima come mondo ancestrale e magico privo, però, dei risvolti drammatici dello scrittore.

L’infinito di Giuseppe Oliva si realizza nella sua visione originale e dinamica del mare e della luce, del riflesso e della trasparenza ottenuta con abbinamenti cromatici e di pennellate sovrapposte. L’arte, in Giuseppe Oliva, diventa strumento di confronto con l’altro, con l’osservatore che si lascia ammaliare e condurre nel suo mondo di spirito e natura. Ad affiancare queste personali anche la collettiva di Eureka Eventi, nella cui selezione fanno parte artisti del Movimento Pentastrattista italiano fondato nel 2015. Tra questi Paola ErmIni, Monica Steliana Certita e Daniela Walser.

Ad impreziosire l’evento è stata organizzata la presentazione del libro di poesie “Meditatio tempestatis- Poesie dagli abissi” di Gabriella Vai con letture interpretate dall’autrice.

19-30 giugno 2024

Museo MIIT corso Cairoli 4 Torino

Orari visite da martedì a sabato 15.30/19.30

 

Mara Martellotta

Il Duca d’Aosta: sei ore per trasportarlo

Alla scoperta dei monumenti di Torino / La statua in bronzo fu  trasportata, nel giugno del 1900, dalle fonderie Sperati (corso Regio Parco) al Parco del Valentino e per compiere quel tragitto di circa tre chilometri furono necessarie più di sei ore a causa appunto delle ingenti dimensioni del monumento

Il monumento è situato all’interno del Parco del Valentino, in asse con corso Raffaello e nel centro del piazzale nel quale confluiscono i viali Boiardo, Ceppi e Medaglie D’Oro. La statua che raffigura, sul cavallo ritto sulle zampe posteriori, il poco più che ventenne Amedeo di Savoia Duca d’Aosta durante la battaglia di Custoza, è posta su un dado di granito che poggia a sua volta su un basamento contornato da una fascia di coronamento in bronzo,rappresentante (in altorilievo) 17 figure tra cui numerosi personaggi celebri della dinastia sabauda. Ai gruppi di cavalieri si alternano vedute paesaggistiche come la Sacra di San Michele, il Monviso e Torino con il colle di Superga sullo sfondo.Sul fronte del basamento, poggiata sulla chioma di un albero al quale è appeso lo stemma reale di Spagna, un’aquila ad ali spiegate regge tra gli artigli lo scudo dei Savoia.Nato il 30 maggio 1845 da Vittorio Emanuele (il futuro re Vittorio Emanuele II) e da Maria Adelaide Arciduchessa d’Austria, Amedeo Ferdinando Maria Duca d’Aosta e principe ereditario di Sardegna, crebbe seguendo una rigida educazione militare.Nel 1866 gli venne affidato il comando della brigata Lombardia e partecipò alla battaglia di Custoza nella quale, nonostante fosse stato ferito da un proiettile di carabina, continuò a battersi distinguendosi così per il suo coraggio ed il suo valore.In seguito alla rivoluzione del 1868 e alla cacciata dei Borboni, in Spagna venne proclamata la monarchia costituzionale e nonostante la situazione risultasse molto difficile, Amedeo di Savoia accettò l’incarico così, il 16 novembre 1870, venne eletto Re di Spagna con il nome di Amedeo I di Spagna.Ma la situazione politica risultò ancora più instabile di come lui se la fosse prospettata e davanti a rivolte e congiure (nel 1872 sfuggì miracolosamente ad un attentato), nel 1873 abdicò rinunciando per sempre al trono.Tornato in Italia, venne nominato Tenente Generale e Ispettore Generale della Cavalleria; si spense il 18 gennaio 1890 a causa di una incurabile broncopolmonite.

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Signorilmente affabile con tutti, sempre pronto a prodigarsi per il bene della sua amata città, fu (anche durante il periodo della sua sovranità in Spagna) un personaggio molto popolare e ben voluto tanto che, neanche una settimana dopo la sua morte, la città di Torino costituì un comitato promotore per l’erezione di un monumento a lui dedicato, sotto la presidenza del conte Ernesto di Sambuy. Venne aperta una sottoscrizione internazionale alla quale, la stessa città di Torino, partecipò con la somma di L. 25.000 e in seguito, il 6 marzo 1891, venne bandito un concorso tra gliartisti italiani per stabilire chi sarebbe stato l’autore dell’imponente opera. Tra i ventinove bozzetti presentati ne furono scelti sei che vennero esposti nei locali della Società Promotrice di Belle Arti, in via della Zecca 25 ed in seguito, tra i sei artisti vincitori, venne bandito un nuovo e definitivo concorso che vide come vincitore (nel dicembre del 1892) Davide Calandra. La decisione, secondo le parole della Giuria, fu motivata “dal poetico fervore immaginoso della concezione, dall’eleganza decorativa dell’insieme, dalla plastica efficacia del gruppo equestre e dalla vivace risoluzione del difficile motivo della base“. Inizialmente l’ubicazione del monumento avrebbe dovuto essere, secondo la proposta del Comitato Esecutivo approvata dalla Città di Torino nella seduta del Consiglio Comunale dell’11 giugno 1894, il centro dell’incrocio dei corsi Duca di Genova e Vinzaglio, ma a causa delle dimensioni maestose del basamento si decise che fosse necessario uno spazio più ampio per ospitare l’opera. Dopo avere effettuato delle prove con un simulacro di grandezza naturale in tela e legname (costato alla Città la somma di L. 2480), si decise di collocarla nel Parco del Valentino sul prolungamento dell’asse di Corso Raffaello, presso l’ingresso principale dell’Esposizione Generale Italiana tenutasi del 1898: il 9 novembre 1899 il ConsiglioComunale approvò la scelta della Giunta di tale ubicazione.

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La statua in bronzo fu dunque trasportata, nel giugno del 1900, dalle fonderie Sperati (corso Regio Parco) al Parco del Valentino e per compiere quel tragitto di circa tre chilometri furono necessarie più di sei ore a causa appunto delle ingenti dimensioni del monumento. Il monumento venne inaugurato il 7 maggio 1902, in occasione della Prima Esposizione Internazionale di Arte Decorativa e Moderna di Torino, durante la quale lo scultore fu anche premiato per aver inserito nell’opera elementi di “Art Noveau”. Nel corso dell’inaugurazione il conte Ernesto di Sambuy, a nome del Comitato, consegnò l’opera al Sindaco di Torino. Originariamente il monumento venne circondato da una cancellata in ferro dell’altezza di circa 130 centimetri, disegnata dallo stesso Calandra, che venne rimossa probabilmente a causa delle requisizioni belliche durante la Prima Guerra Mondiale. Nel 2004 il monumento è stato restaurato dalla Città di Torino. Per fare un piccolo accenno al Parco del Valentino, di cui certamente parleremo in modo più approfondito prossimamente, bisogna ricordare che ilmonumento ad Amedeo di Savoia è situato nell’area nella quale, fra Ottocento e Novecento, si tennero a Torino alcune tra le più importanti rassegne espositive internazionali. Nel 1949, proprio a fianco del monumento, sorse il complesso di Torino Esposizioni, un complesso fieristico progettato da Pier Luigi Nervi che, durante le Olimpiadi Invernali di Torino 2006, ha ospitato un impianto per l’hockey su ghiaccio dove sono state giocate circa la metà delle partite dei tornei maschili e femminili. Al termine delle Olimpiadi, la struttura è tornata all’originario uso abituale ripredisponendo un padiglione come palaghiaccio per i mesi invernali. Cari lettori anche questa ennesima passeggiata tra le “bellezze torinesi” termina qui. Mi auguro che il monumento equestre ad Amedeo di Savoia vi abbia incantato ed incuriosito proprio come ha fatto con me; nel frattempo io vi do appuntamento alla prossima settimana alla scoperta o meglio “riscoperta” della nostra città.

(Foto: www.museo.torino.it)

Simona Pili Stella

Tabusso inedito raccontato da chi lo ha conosciuto

Il ricordo dell’artista attraverso le parole di Emanuele Farina Sansone

 

Il ricordo che vorrei trasmettervi non è tanto quello del Tabusso accademico o quello del Tabusso ritratto attraverso le numerose tappe della sua carriera di Maestro, che vanno dalla partecipazione alla Biennale Internazionale di Venezia o ai suoi sodalizi con le più prestigiose Gallerie del Nord Italia, prima tra tutte la Gianferrari di Milano o le torinesi Carlina, la Bussola, Biasutti e Davico; ma è la testimonianza in parte diretta ed in parte tramandatami dai miei genitori: Francesco era di casa e quando non lo era lui fisicamente, lo erano le sue opere ben rappresentate: la ragazza di Camparnaldo, il merlo, Sant’antonio abate, un dipinto dedicato a Georges Latour ed uno a Caravaggio con tutti gli aneddoti a questi dipinti legati.

Di li a sei mesi sarebbe stato il compleanno di mio padre e mia madre pensò di chiedere a Francesco, tramite il gallerista Silvano Gherlone,  un dipinto che rappresentasse Sant’Antonio abate il protettore degli animali. Tabusso esaudì il desiderio ed in un fitto bosco di betulle rappresentò Sant’Antonio con a fianco un grosso grasso maiale, ma, come la storia ci insegna, i committenti sono molto capricciosi ed a opera terminata gli venne richiesto, come fece Piero Soderini con Michelangelo per il naso del David, di rimuovere il maiale che a mia madre sembrava irriverentemente allusivo nei confronti di mio padre. Con un po’ di pennellate, quasi per incanto, il maiale si trasformò in un tronco di castagno segato alla base.
Come di consueto grandezza ed umiltà vanno di pari passo.


Per il dipinto rappresentante la ragazza di Camparnando, fu lo stesso Tabusso ad insistere con mio padre perché lo scegliesse per inserirlo nella sua collezione, quando lo dipinse si sentiva molto ispirato e lo stesso dipinto fu selezionato per rappresentare Tabusso nell’enciclopedia dell’arte. Tabusso dedicò la tela al sottoscritto con alcune parole di affetto sul retro.

Tra le opere pubbliche più prestigiose Tabusso realizzò a Milano una pala di 12 mt. X 8 mt. rappresentante San Francesco al Fopponino (Chiesa realizzata da Giò Ponti).
Quello che tutti sanno è che la pala è divisa in due parti e rappresenta San Francesco e Santa Chiara immersi in una natura che solo il Creatore può aver concepito. Otto trittici completano il percorso di San Francesco in preghiera, ma quello che non tutti sanno è quello che Francesco raccontò a mio padre andando a Milano per mostrargli la sua opera che, per dipingere una pala così alta, creò una imbragatura che gli consentisse di essere sospeso sopra la tela appoggiata al pavimento e che la macchinosità della vestizione lo obbligava a dipingere per diverse ore consecutive.

Mio padre spesso mi accompagnava nello studio di Tabusso in Corso Galileo Ferraris. L’odore dei colori era intensissimo e molto piacevole, ovunque c’erano tele appena iniziate e che mai avrebbe terminato, lavori terminati sui quali aveva iniziato a dipingere soggetti totalmente diversi, bozzetti, disegni, una modella si aggirava per lo studio ed era facile riconoscere gli occhi di molti dipinti di Tabusso negli occhi della modella stessa: occhi grandi ben delineati da una matita e riempiti con l’ombretto tanto da farli sembrare sgranati, quasi stupiti nell’osservare il mondo.

Allievo di Casorati, rappresentava un cesto di funghi in modo così evocativo da consentire alle papille olfattive dell’osservatore di restare coinvolte, dalle foglie, dal terreno umido e dai muschi sulla corteccia degli alberi. Ugualmente evocativi era il suo tomino di Rubiana, i salumi a pasta mista bovina e suina, la toma di lanzo, le mocette, le paste di meliga, il salame della rosa…..
La misticità dei suoi santi riportava ai loro sai intessuti a grossa grana che nulla concedevano di più che alla funzione di proteggerli dal freddo.
Le sue ragazze contadine lasciavano intendere che la loro bellezza o freschezza sarebbe appassita di lì a poco dal duro lavoro dei campi
Questo è un francobollo della grandezza di Francesco Tabusso che ha l’unico scopo di consegnarvi un’immagine assolutamente inedita.

 

Emanuele Farina Sansone

Foto Saroldi